Il dialetto, usato come lingua poetica, si incanala
in una struttura ritmica e metrica, diventa forma espressiva,
rientrando, con le stesse possibilità della lingua
nazionale, in una letteratura arbitraria per definizione
("Il segno linguistico è arbitrario" si legge nel capitolo
introduttivo al Corso di linguistica di De Saussure).
E' una letteratura, quella del Novecento, che per esprimere
meglio condizioni esistenziali sempre più complesse,
una realtà a più forme e sensi, si avvale di strutture
linguistiche eterogenee, ingloba linguaggi diversi,
con lessici fino allora confinati fuori dalle opere
letterarie, con intrusioni anche violente delle lingue
straniere, con diversi codici linguistici.
I poeti dialettali si trovano ad operare in questo nuovo,
diverso e più esteso, concetto di letteratura, in un
plurilinguismo e mistilinguismo che, abbandonato un
canone unitario, rivendica l'uso dei linguaggi aperti,
una struttura indeterminata in cui ogni sperimentazione
è consentita.
Quando il poeta compone in dialetto sa di avere a disposizione
un elemento linguistico che, assunto come forma letteraria,
è sottoposto ad una serie di mutazioni che continuano
a renderlo diverso da quello che era ed è nel parlato.
Nascono così linguaggi personalizzati che non hanno
riscontro con i dialetti degli abitanti del luogo;
basti pensare al triestino "petrarcheggiante" di Giotti,
al "veneziano" inventato da Noventa, al personale
gradese nè arcaico nè moderno di Marin, al tursitano
memoriale di Pierro.
Usare il dialetto come lingua di scrittura viene quindi
ad
essere una scelta di cultura e di stile, un'operazione
che riguarda soltanto il letterato colto e di casa
nell'area del dialetto assunto.
Certe forme linguistiche sono state create dalla cultura
dotta e poi si sono svilite nel cadere in un contesto
più basso, popolare, in una tessitura dove si sono
conservate creando una memoria genetica. Con un'operazione
dotta il poeta dialettale ripesca tali forme di conservazione,
echi di un vissuto originale, le rielabora e le inserisce
in un nuovo e più ampio contesto.
Il dialetto si fa dunque lingua inventata, parte di
quell'organismo dinamico a infinite dimensioni, che
è il concetto linguistico del Novecento, ormai affossata
ogni certezza logica su cui si basava lo storicismo,
con la concezione manzoniana di una lingua unitaria.
Il polimorfismo che caratterizza la letteratura novecentesca,
e che ha nel Pascoli la sua prima e massima espressione,
era già nel Seicento antistoricista e irrazionalista.
C'è un parallelo fra la mentalità barocca e il relativismo
moderno che nell'evoluzione della lingua, nella sua
espansione e trasformazione continua, vede messe in
crisi le vecchie, rigide e compatte strutture linguistiche.
Non a caso la nascita della poesia dialettale è situabile
nella seconda metà del Cinquecento e agli inizi del
Seicento.
Con i suoi tesori espressivi il dialetto ha sempre
toccato più corde liriche rispetto alla fissità del
lessico letterario tradizionale; è stato capace di
difendere identità storiche ed individuali, tradizioni
culturali, coralità, ha contestato emarginazioni.
Il dialetto si è fatto strumento all'interno della lingua
che si è così accresciuta e vitalizzata. Le forme dialettali
non creano un universo separato bensì sono dirette
filiazioni, parti inscindibili,della letteratura nazionale,
e non esisterebbero senza di essa. Insieme, sono forme
allotropiche che convivono pacificamente, senza fratture,
con influenze e scambi aperti.
In una lingua poetica originalissima, dove il dialetto
è ampliato, plasmato, reinventato, fuso o inserito
in un tessuto linguistico nazionale, il poeta che si
serve del dialetto sa di utilizzare degli archetipi.
Non certamente legati a realtà storiche, sono archetipi
di un passato rivissuto e deformato dal ricordo, nonché
filtrato da modelli culturali. Formano una realtà esclusivamente
letteraria che non ha alcun riscontro con dati oggettivi.
Quando Zanzotto si lamenta per la sua terra di origine
che va scomparendo, non si riferisce a Pieve come era
ma rimpiange ciò che di quella realtà aveva percepito
e che ora sente rivivere nel flusso della memoria e
della coscienza.
A questo punto ciò che conta è il valore delle opere
nelle loro lingue "personali" al di là dell'assurdo
e insignificante confronto lingua-dialetto, sono i
risultati poetici, indipendentemente da una minore
o maggiore coartazione del dialetto, dalle sperimentazioni
più o meno ardite. E' ovvio che sperimentare, sia in
lingua che in dialetto, non vuol dire disgregare comunque
l'ordine linguistico e la sintassi, ma avere un riscontro
con i contenuti.
Particolarmente significative sono le complesse operazioni
stilistiche nei vari dialetti veneti, dalla poesia
"epica" di Noventa che, motivata da un pensiero antirazionalistico
e asistematico, trasgredisce l'ortodossia grammaticale
e lessicale in aspra polemica con tutta la letteratura
italiana contemporanea, alle parole "matte" di Calzavara,
agli scarnificati versi di Zanzotto riflessi della
condizione esistenziale, al mistilinguismo, alle grafie
e ai fonemi pre-ipersignificanti di Ruffato.
Se per questi poeti, come per altri che nel Novecento
prima di loro hanno usato il dialetto veneto, da Berto
Barbarani a Gino Piva, a Ferdinando Palmieri, l'elemento
comune è il dialetto veneto, dopo la manipolazione
che tramuta il dialetto in lingua letteraria si ha
una totale diversificazione delle forme poetiche. Poeti
che parlano lo stesso dialetto compongono in lingue
diverse, dimostrando come il rapporto con la lingua
non sia così coattivo, ma aperto a scelte lessicali
che diano maggiori libertà espressive.
Senza continuità con la tradizione ottocentesca che
impiegava il dialetto come linguaggio illustrativo
per rappresentare ambienti, ceti sociali, usi e costumi
regionali, i poeti del Novecento spezzano ogni legame
con il secolo precedente e fanno un uso astratto del
dialetto, in una dimensione mimetica.
Mentre nei primi anni del Novecento Berto Barbarani
si dibatteva ancora nelle tematiche di tipo ottocentesco
sia pure mostrando un progressivo raffinamento dello
stile dovuto alle letture sempre più meditate di Pascoli
e D'Annunzio e alla consapevolezza dei valori espressivi
del dialetto, è con leprime liriche di Biagio Marin,
Fiuri de tapo(1912), e di Virgilio Giotti, Piccolo
canzoniere in dialetto triestino (1914), che si sgretola
completamente la compattezza delle rigide norme linguistiche
dell'Ottocento.
Una tale rottura con la tradizione del passato è stata
provocata in Marin e Giotti dal cogliere appieno le
innovazioni del Pascoli e dall'avere inoltre frequentato
ambienti culturali in cui emergeva il nuovo e diverso
contesto culturale, quelli viennesi per Marin, quelli
della "Voce" per Giotti.
Entrambi, non riconoscendosi nella lingua italiana,
né in quel dialetto così consunto dall'uso quotidiano,
cercano una propria lingua letteraria rimanendo dentro
il dialetto e conservandone una maggiore purezza.
Il linguaggio reinventato da Marin recupera lacerti
del dialetto paleo-veneto, medievale, che poi cala
nelle villotte popolari e intreccia con altri elementi
linguistici. Il poeta predilige il "favelar graisan",
il lessico arcaico come si è conservato a fatica nei
secoli ed è parlato dalla piccola comunità di pescatori
e artigiani, ma non lo riproduce, bensì ne fa un linguaggio
personale. E' il linguaggio con cui Marin può meglio
esprimere le percezioni che ha avuto e che ha di quel
mondo fuori dalla Storia, legato quindi ormai soltanto
alla visione soggettiva del poeta, ad una realtà esclusivamente
letteraria.
Così Giotti rielabora il proprio dialetto fino ad inventarne
uno personale, che considera "lingua della poesia",
da tenersi ben separato dal linguaggio parlato, un
triestino "petrarcheggiante" da piegare ad ogni sperimentazione
( 1 ), con cui tentare altre possibilità dietro le
luminose percezioni, le presenze suscitate dai colori.
Nel concetto novecentesco di lingua i rapporti e i reciproci
scambi fra lingua nazionale e dialettale sono complessi
e vari. Si può tendere a conservare la purezza dei
vecchi lessici dialettali, e quasi non uscire dal dialetto,
come per Marin e Giotti, o si può equiparare lingua
e dialetto così che il limite è appena percepibile,
come per Noventa.
Rielaborando veneto e italiano in un linguaggio inventato,
Noventa ottiene una maggiore libertà espressiva in
opposizione alla lingua ufficiale, artificiosa e retorica
come la cultura che esprime, sia essa l'idealismo di
Croce e Gentile, o il simbolismo e l'ermetismo di Ungaretti,
Saba e Montale.
Il "veneziano" personale di Noventa è ricco di metafore
e allegorie, epigrammatico e sentenzioso, con alternanze
di forme e metri, dalla melica settecentesca ai ritmi
risorgimentali. Con un tale dilatamento linguistico
Noventa esprime un pensiero sempre più antirazionalistico
e asistematico che riprende sia i problematici temi
del romanticismo tedesco che la grande tradizione del
passato. Resta costante la prospettiva diavviare, oltre
ogni convenzione, una riforma morale e sociale.
Particolarmente eterogeneo, complesso e raffinato è
il linguaggio poetico di Cergoly, che è aperto a lessici
diversi, tra cui lo sloveno e il tedesco.
Così la sua poesia, originale, ingigantita dalla presenza
di motivi della cultura mitteleuropea, rievoca il mito
di una visione sopranazionale, liberale e riformista,
di contro alla decadenza della borghesia triestina.
Con il suo plurilinguismo senza confini, il cosmopolita
Cergoly puòreinventare l'alternanza di luci e ombre
diun mondo frantumato, in cui continua a vedere riflessa,
attraverso deformanti ricordi e suggestioni letterarie,
la propria dimensione interiore e poetica.
Un altro esempio di intervento sul dialetto veneto
è quello della poesia di Ferdinando Palmieri che proclama
esplicitamente di voler rendere il dialetto polesano
"più agro o più sciolto, più arguto o più visibile",
in un continuo "ravvivare, o forgiare, tra l'estroso
e il pedantesco" (2).
Le manipolazioni del dialetto, come scelta letteraria
che consente maggiori spazi espressi, possono essere
anche violente. Sono esperienze poetiche in cui il
dialetto è dilatato, impastato con altri lessici, comunque
tolto da ghetti linguistici per essere proiettato in
un contesto aperto, ad infinite possibilità.
Va in questa direzione il vorticoso pluri- o super-linguismo
di Zanzotto, un linguaggio personale che segue il lusso
della coscienza e della memoria, dei ricordi come
sono rivissuti dalla coscienza e schermati dalla letteratura.
Così non soltanto le possibilità espressive ma anche
quelle contenutistiche sono inaspettate e infinite.
In un cantilenante girotondo dialettale possono apparire
le ombre di una Spoon River, dove accanto al Jijeto
paesano riposano Chaplin e Pasolini.
Il dialetto va a far parte dei segni linguistici, nel
gioco acrobatico, rocambolesco,della poesia di Ruffato,
del suo prelinguismo, come lingua sempre segreta e
incerta, del mistilinguismo,rivestito di una certa
classicità per quei termini tratti dalla grande tradizione
romanza, in prevalenza latini e provenzali, tributo
d'amore ad una lingua madre. Il dialetto che vi si
inserisce è composito, a più valenze, creativamente
autonomo, capace di concedersi licenze e sfizi stonati
per la lingua, così irradiato che ha bisogno di un
lettore colto e strategico.
In un tale gioco, che è anche un conflitto senza quartiere
con la parola-cosa e la parola-poesia, il poeta si
illude di poter catturare piccoli spostamenti di visione,
frammenti di una realtà che sa essere quella da noi
creata, costruita dal nostro sguardo, diversa da quella
degli altri, e perciò difficile, se non impossibile,
da far aderire ad un linguaggio che la possa esprimere
compiutamente.
Lo spaesamento che Ruffato prova nei labirinti creati
da lui stesso con grafie e fonemi fantasmatici, con
allitterazioni e neologismi, con assonanze e dissonanze,
, con metafore che spiazzano il significato, equivale
al disagio e alla difficoltà di riflettere sui temi
etico-sociali e mitici, di decifrare i sensi nascosti
ed enigmatici dell'esistenza.
La mancanza di regole precise nell'uso del dialetto
come lingua della poesia, l'impossibilità di un rapporto
lineare fra lingua e dialetto, con passaggi coerenti
e unitari si possono ben evidenziare nell'operazione
linguistica di Calzavara.
Il poeta, insoddisfatto delle possibilità espressive
della lingua italiana, si crea una lingua poetica ideale
con i frammenti di quei lessici che, come il dialetto,
nel momento in cui si vanno trasformando e corrompendo,
vede in grado di stabilire infiniti rapporti e interferenze.
Il poeta interviene con nuove assimilazioni e risonanze
sui lessici ormai senza significato di una lingua in
continua trasformazione. Reinventa sia le parole in
disuso del mondo contadino dell'infanzia, ormai prive
di senso ma dai notevoli effetti sonori, che quelle
della lingua italiana nella società industriale. Ottiene
così un ampio rapporto di segni linguistici che rompono
con la tradizione e provocano uno straniamento dalla
realtà.
Il dialetto, diventato "infralogia" (3), le parole "matte",
disarticolate e libere, sono specchi dello sgretolamento
dello spazio e del tempo, ci dicono i timori e gli
interrogativi esistenziali di Calzavara.
I poeti veneti che oggi compongono in dialetto,nel
pur diverso uso che ha portato il dialetto poetico
ad una maggiore o minore, ma sempre notevole differenziazione
dal parlato, sono tutti ben consapevoli dell'importanza
che ha il dialetto nell'inventare e nello sperimentare
un linguaggio infinito, nell'esprimere le ambiguità
dell'esistenza e i polimorfismi novecenteschi, attraverso
un'operazione antistorica e barocca, in sintonia con
i motivi e le visioni della letteratura europea.
L'estrema naturalezza con cui i poeti citati passano
dalle liriche in lingua a quelle in dialetto, o viceversa,
e usano lessici dialettali su tessuti linguistici in
italiano, dimostra come sia importante la diglossia
e quanto sia futile la distinzione fra poesia in lingua
e poesia in dialetto.
Il dialetto, come lingua della poesia, non è destinato
a morire bensì a continuare la sua funzione all'interno
del linguaggio infinito con cui la letteratura del
Novecento, italiana e veneta, in sintonia appunto con
quella europea, testimonia la condizione umana sempre
più frantumata, problematica e dolorosa.
Francesco Piga
NOTE
1) Le innovazioni protonovecentesche di Giotti sono benevidenziate da Pasolini nel saggio La lingua della poesia del1956, ora come introduzione a Opere di V. Giotti, Trieste,LINT, 1986, pp. 27-41.
2) Nell'Avvertenza dello stesso Palmieri all'edizione dellePoesie, Roma, Dell'Arco, 1966.
3) Cfr. di Calzavara, Perchè scrivo poesia in dialetto, in AA.VV., Dialetto e Letteratura in Italia e nell'area veneta, Atti del Convegno di Noventa Piave, 17-18 dic. 1983, Arti Grafiche Conegliano Susegana, Treviso, 1985, riveduto e corretto nel 1986, pp. 95-97.