Tutta la «poesia in volgare padovano» di Cesare Ruffato*

Se si prescinde dal breve allegato dialettale che nel 1988 concludeva Padova diletta, solo dal 1990 con Parola pìrola Cesare Ruffato ha decisamente lasciato la lingua per il «volgare padovano»; com'egli stesso ricorda in un componimento di Diaboleria, «Nel sesto decenio / el [= il dialetto] me xe spanìo da vero sincero / smissià coi libri de le docense / foto zale, scartofie de pension» (p. 172) e i prodotti di tale nuova fase sono ora raccolti in volume sotto il titolo complessivo Scribendi licentia (Venezia, Marsilio, 1998, pp. 427): silloge comoda e opportuna, data la ormai difficile reperibilità di alcune delle edizioni originali.

In questo corposo volume sono messe insieme, e dotate di traduzione a piè di pagina, le seguenti raccolte: la già ricordata Parola pìrola comparsa nel 1990 con una introduzione di Luciana Borsetto, importante allora ed ancor oggi guida utilissima per chi voglia intraprendere un'indagine, cominciando ovviamente da quella prima capitale prova del nuovo corso; El sabo del 1991, dove la dedica alla figlia Francesca, morta nel luglio 1989, esplicitava nel lutto, nella ferita non rimarginabile, uno dei temi pervasivi della poesia di Ruffato, come notava Ivano Paccagnella nelle sue pagine introduttive, per altro impegnate prevalentemente sul piano della ricognizione linguistica; un'attenzione questa che è tipica anche della postfazione di Antonio Daniele a I bocete (1992) e della nota premessa da Manlio Cortelazzo a Diaboleria (1993); quanto al resto di Scribendi licentia, quasi duecento pagine sono occupate da Sagome sonambule, Vose striga e Giergo mortis, tre raccolte che sono da considerare nuove, anche se di singoli testi era stata anticipata occasionalmente la pubblicazione. Di fronte a questa silloge esauriente del Ruffato per così dire dialettale, pare giusto auspicare che analoga iniziativa riguardi i testi in italiano, al fine di permettere un confronto completo e articolato che porti a indicare con sicurezza linee di continuità e fratture in una produzione dove, da Il vanitoso pianeta (1965) a Cuorema (1969) a Parola bambola (1983), spiccano i modi diversi di una sempre più impegnativa ricerca linguistica.

Scribendi licentia è titolo in latino per quella che, secondo il sottotitolo in italiano, dovrebbe essere «poesia in volgare padovano»: definizione quest'ultima dove, evitando di pertinentizzare l'opposizione lingua-dialetto, Ruffato sembra voler ribadire la particolarissima fisionomia della sua utenza dialettale. Infatti lo sperimentalismo dell'ultima produzione anteriore al 1990 si era concluso assumendo - si badi - come «lingua di base dei testi» non più l'italiano, ma il padovano, «parte reinventato sulla scorta di lacerti memoriali del mondo infantile e rivisitato dal sogno», spiegava l'autore stesso nell'avvertenza a Parola pìrola, e quindi «arricchito da apporti lessicali di molteplice provenienza nello spazio e nel tempo in marcata ricerca di perspicuità della voce e della parola». Ecco dunque da sùbito la comparsa di indicazioni assai pertinenti affidate a parole-chiave quali «lacerti memoriali del mondo infantile» di cui spicca la doppia valenza, trattandosi dell'infanzia del poeta e della figlia; inoltre si noti «apporti lessicali di molteplice provenienza», con calzante riferimento a uno dei tratti più immediatamente percepibili del linguaggio poetico di Cesare Ruffato

Ruffato dà dunque del suo padovano una definizione molto precisa e in apparenza riduttiva: parlando non più che di «lingua di base dei testi», assume programmaticamente una posizione eccentrica, sia rispetto alla tradizione locale, sia rispetto alla maggior parte della poesia dialettale contemporanea. Quanto alla tradizione locale: nelle auree paginette del 1954 dedicate a Dialetto e poesia in Italia, Contini aveva indicato Padova come culla della letteratura dialettale riflessa, sottolineando che «nella città irrigidita dal doppio umanesimo petrarchesco, latino e volgare, più d'un secolo di ribellioni linguistiche e di crisi espressionistica precede Ruzzante». Segue una plurisecolare tradizione 'pavana', con una linea di continuità tematica ed espressiva che giunge, almeno, a La politica dei villani, commedia del farmacista di San Pietro in Gu Domenico Pittarini, scritta e sùbito stampata nel 1870 con l'intento di mostrare quanto restassero indifferenti al recente cambiamento politico quei contadini sui quali continuava a esercitarsi l'oppressione dei signori e dei preti. Tradizione volta a perpetuare con accusato manierismo il contrasto tra periferia conservatrice e centro innovatore, cioè tra volgare rustico della campagna 'pavana' e volgare cittadino, il 'padovano' presto addomesticato dall'influsso vuoi dello Studio, vuoi, soprattutto, del veneziano e della moda linguistica toscaneggiante.

Altro dato pertinente per disegnare lo sfondo su cui si colloca l'esperienza linguistica di Ruffato è il mutato rapporto, nel secondo dopoguerra, tra italiano e dialetto quali strumenti di rappresentazione della realtà. Come è noto, Cesare De Lollis aveva mostrato, in saggi giustamente famosi, che nel linguaggio poetico italiano dell'Ottocento «gli ingredienti di concretezza» andavano malamente a «cozzare col fondo aulico della forma»; non a caso dunque molti scrittori in epoche diverse hanno scelto come strumento espressivo il dialetto, proprio rendendosi conto dell'inadeguatezza della lingua letteraria nei confronti del concreto e del quotidiano. Una motivazione di tal genere non cessa d'avere qualche buona ragione, ma chi ancora la portasse non potrebbe ignorare che l'alternativa è oggi ben diversa rispetto a quella offerta fino a ieri dall'italiano d'una minoranza letterariamente educata. Alla rapida crescita del numero degli utenti si è accompagnata negli ultimi decenni del Novecento la massiccia e disordinata espansione lessicale, corrispettivo non sempre effimero di una alfabetizzazione tecnologica di massa che prescinde da variabili tradizionali come cultura, età, condizione sociale. La lingua è diventata quindi strumento più duttile e potente dei dialetti; anche dei dialetti urbani, una volta allargatosi il campo del quotidiano a realtà nuove, ivi incluse, da ultimo, le cosiddette realtà virtuali. Incombe dunque, sulla poesia dialettale, il rischio di recludersi nel campo del puro soggettivismo lirico, si fa concreta la prospettiva di limitarsi a produrre una sterile arcadia. La chiara coscienza di tale situazione storica, e quindi l'opportunità d'un antidoto, è tipica di Ruffato, nella cui produzione la componente lirica, preponderante su ogni altra, si accompagna al tentativo caparbio di dotare il dialetto di Padova d'un vocabolario così ampio da renderlo concorrenziale, addirittura potenzialmente alternativo, rispetto all'italiano; il risultato tuttavia non tende alla prosa, come ci si potrebbe aspettare, perché anche il lessico meno 'poetico', anche quello più degradato e consunto viene rivitalizzato sottoponendolo a uno strenuo esercizio combinatorio; ne risulta una poesia di solito impervia, nella quale la rarefazione dei nessi sintattici condensa la massa lessicale, producendo aggregati la cui frequente oscurità è attraversata da straordinarie illuminazioni.

Sono dunque sintomatici di quell'atteggiamento verso il dialetto certi versi raccolti nel Sabo: «Un giorno incolà su ’na lente / che distingue squasi omnia / capita el dialeto no come motivo / de carghe nucleari o trapeli / dirompenti ma come i spasemi / e i cucociae de la vose» (p. 78). Parafrasando quanto ebbe a dire ad altro proposito Calvino, si potrebbe sostenere a proposito di Ruffato che mai si è visto formalista così accanito come quel contenutista che egli è, mai lirico così effusivo come quello sperimentale che passa per essere. Di qui la particolare fisionomia di questo poeta che lavora di fino sul tessuto sonoro del lessico tradizionale e nello stesso tempo non esita a scompaginarne le fila con l'intrusione di poco addomesticabili tecnicismi: il tutto per realizzare un programma nelle grandi linee ben individuato da Zanzotto già nel 1974: «stare nel vissuto, in un vissuto che nasca dal rapporto con quel settore della realtà che più evidentemente si trova in ebollizione» (in un saggio che fa ora parte della silloge Aure e disincanti nel Novecento letterario, Milano, Mondadori, 1994, pp. 93-96, a p. 94).

La sfida di Ruffato consiste nell'assumere il suo dialetto così com'è, prossimo all'italiano già per alcuni tratti originari che lo rendono il più conservativo nel Veneto, per esempio dal punto di vista del vocalismo finale. La ricerca di una mitica autenticità, magari con ricorso alla periferia extraurbana, se non addirittura ad arcaismi della letteratura pavana, non è praticata da Ruffato, il quale anzi imbocca la strada opposta della massima apertura e insieme della gestione soggettiva. Il risultato, come si è detto, è affascinante, ma anche a tutta prima sconcertante, tanto da indurre Folena a sostenere, non a torto, che «uno studio sulla lingua o meglio sui diversi linguaggi di Ruffato credo sarebbe un'impresa disperata, proprio per la natura ambigua, cioè ambivalente, reale e ficta, del suo linguaggio». Per altro, la differenza che corre tra l'adesione al dialetto e la sua assunzione come «lingua di base» ben si coglie quando è possibile esaminare varie fasi d'elaborazione d'un componimento, nella fattispecie mettendo a confronto con quanto raccolto in Scribendi licentia i già ricordati versi padovani del 1961 (’Sta pianura che xe tuto el nostro mondo) e del 1988 (Smissiade strambòte e Spasemanti) andati a formare la Minusgrafia dialettale di Padova diletta (1988). Una attenta collazione mostra che quei versi sono stati ora ristampati avendoli sottoposti a revisione sistematica, come ci si poteva attendere da chi, con acuto senso della precarietà, non esita a dichiarare altrove «voria riscrivare tuto» (p. 172); si offre dunque l'occasione d'un confronto fra le due estreme stesure cogliendo direzioni del cambiamento e quindi il farsi di alcune caratteristiche essenziali del maturo linguaggio poetico di Ruffato. Già il titolo passa significativamente da ’Sta pianura che xe tuto el nostro mondo a ’Sta pianura nostro mondo (p. 173), eliminando la relativa in favore d'una sequenza di sintagmi nominali giustapposti; analogo intervento condensa «Un vento che pissega sgionfa i nissoli / destirai, che i par tante vele, pensieri pena cressùi» nell'ellittico e felicissimo «Vento sgionfa i nissoli / pensieri a vela» (p. 177). Questa riduzione dei costrutti analitici in favore di forme compendiarie di elevata densità sintattico-semantica, riguarda dunque i paragoni, e quindi non sorprende constatare che un'energica potatura colpisce quelli introdotti da «come»: infatti «anca / se le man xe crepae, dure / co' fa le soche, frede come i cogoli / suai de brosema» viene ridotto a «co le man dure crepae / cògoli suai de bròsema» (p. 174); ancora, poco più avanti, «E intanto chieta se spande / la mina del core sui ossi inveciai, / tormentai come le strope / fra i gran respiri de tute le robe» diventa «La mina del cuore se spande / chieta sui ossi inveciai / ramai strope fra i gran sospiri / de tute le robe» (p. 175). Basta poi proseguire sùbito oltre questo ultimo verso per incontrare la trasformazione di «mentre se supia sui fogolàri, / intontii de pigrissia» in «intanto / se supia sui fogolari intontii / pigroni» (p. 175), cioè un passaggio da ipotassi a paratassi, che tuttavia rappresenta, fra tutte, una delle misure meno drastiche messe in atto da Ruffato per dare impronta personalissima al suo linguaggio poetico dialettale. Ma c'è dell'altro che, pur senza pretesa di completezza, merita d'essere segnalato ed è l'insediarsi di verbi denominali audacemente sintetici come succede quando «M'infiapo a l'odore del fogo / che se stua» (p. 175) surroga l'analitico «e mi me sento svanìo a l'odore / del fogo col xe par stuarse», ed anche, all'interno d'una più complessa riscrittura, quando «La pianura formigola tremola» (p. 177) prende il posto di «Te par de vedare / la pianura che se stira tremolando, / squasi un formigaro», oppure quando «la polvere / su la corte e par le strade fa / el bovolo» diventa «la polvare / bòvola in corte par le strade» (p. 177); si nota anche, al livello più superficiale della rappresentazione grafica, l'eliminazione delle virgolette che venivano usate per isolare opposti estremismi lessicali, e cioè per esempio da un lato "neon", dall'altro termini dialettali fortemente connotati quali "batarela" e "vecia". Si osservi infine che del padovano medio, punto di partenza ben presto superato, fa parte anche l'originaria opzione maggioritaria per costrutti con coesistenza di soggetto nominale pieno e soggetto pronominale clitico come (il corsivo è mio) in «L'inverno su la nostra pianura / el xe proprio ’na preson» oppure «e i grandi, intorno, / i tien su le spale el tempo pasà», «le sime dei piopi ne l'aria spolvarà / le par ancora più alte, le se dondola», «qualche "bandiera" scarta nei vodi de aria, / la fa la mata!», costrutto poi abbandonato, certo per la sua ridondanza, a favore di quello, pure possibile nel dialetto, senza pronome clitico: «L'inverno su ’sta pianura / xe dassèn ’na preson» (p. 175), «i grandi porta in spala / el tempo passà» (p. 176), «le sime tirae / dei piopi pare bigòli più alti» (p. 177) e «qualche bandiera fa la mata / nei vodi de aria!» (p. 177).

In maniera ancor più profonda Ruffato ha rimaneggiato sia Smissiade strambòte, sia Spasemanti, tanto che per darne conto occorrerebbe un vero e proprio lungo saggio monografico. Basterà in questa sede notare l'enunciazione, già in Spasemanti del 1988, di uno degli assunti cardinali della poetica dialettale di Ruffato: «xe giusto / che anca el vernacolo gabia da oltrepasare i panesèi / streti e comuni de l'idioma», conservatosi quasi identico in Scribendi licentia («convien che anca / el vernacolo oltrepassa i paneseli / streti e comuni de l'idioma» p. 183). Si predica qui un 'oltrepassare' che non si discompagna dall'indicazione di prerogative naturali del dialetto, «mulin interno / de l'anema vose bianca / spineta dei sogni masena mucia / el fior de farina / dei pensieri originali» (p. 121): è lo stesso riconoscimento che implicitamente ricorre anche là dove, parlando di dialetto «sincero» (p. 172), Ruffato adopera un aggettivo dietro la cui positiva polisemia sta anche l'uso ben caratterizzato, quasi tecnico, negli studi linguistici che privilegiavano il lessico di tradizione ininterrotta.

Queste ed altre analoghe citazioni si potrebbero estrarre un po' da tutta l'opera di Ruffato per illustrare il suo modo di porsi nei confronti della «lingua di base dei testi»; fondamentale da siffatto punto di vista è la raccolta Diaboleria (1993) la quale, iniziando appunto col componimento programmatico El dialeto, indica in una 'limpida passione' una delle molle più frequentemente attive in chi vi si rivolge («Se prova sensa convenevoli / e co umiltà ’na capatina pèpola / sul dialeto no par delucidare / ma co la fraca de lampra passion / dei cavalieri pal tesoro del Graal» a p. 159), e però mette sùbito in guardia dai rischi della sterile e paralizzante erudizione filologica («ma xe / squasi mejo starghene fora par no / imbatariarse de sofismi filo- / logici batoloni che t'ingiassa» a p. 159); proseguendo, affiora un dubbio di fondo che il secondo componimento della raccolta presenta in termini quanto mai espliciti: l'incerta ipotesi iniziale è quella d'una diversa lunghezza d'onda del dialetto («’Sto dialeto da sora pare forse / ’na machineta da foto infrarossi» a p. 161) cui seguono tredici versi formati col tipico accumulo di sintagmi nominali semanticamente omogenei posti in un crescendo che arriva a chiudersi con «un tesoro de luce fogo acqua aria / e sostanse che ne dà vita» e punto fermo, cui segue come brusca lapidaria alternativa: «O tochi / de carbon ne la calsa de la striga» (p. 161). Quanto all'accumulo di sintagmi nominali, basti qui notare che la frequenza e la varietà del fenomeno meriterebbe un'analisi accurata, muovendo per esempio da quella sua minima manifestazione che consiste nella giustapposizione di due sostantivi in vario rapporto sintattico, spesso con uno di loro in funzione di modificatore: «Aria pineta, coline zale» a p. 103, «La tera maron penoti de cane» a p. 103, «I pare alba pana» a p. 123, «i fa oci alabastri esclamativi» a p. 123 ecc.; salendo nella scala della complessità, si incontra la tendenza a costruire a sinistra l'accumulo, come è evidente nel quarto segmento (incipit: «I bambini ideogrammi vari» a p. 106) di I bocete, dove solo al dodicesimo verso compare il verbo «vien vanti»; analogamente il diciottesimo segmento si apre con un autonomo blocco nominale concluso da punto fermo («Vigneti del belo, smorfie / muscoleti, basi a copa, scarpìe / de osseti, coro cronico che impissa / sentimenti, arcobaleno / piegà nel cuore de la morte» cui segue, accompagnato dalla ripresa pronominale, il verbo: «Vanti de lenguarse i noa / in torente gratis de stramboti» (p. 121). Altrove l'accumulo viene mimetizzato dislocandone strategicamente i componenti che diventano guide incipitarie di sottoinsiemi, e per ciò stesso corredati di qualche specificazione, come succede nel caso della quadripartizione anaforica («Scarabei giocondi» vv. 1-7, «Lùsole ne la nebia» vv. 8-10, «Batufoli de carne» vv. 11-14, «Giare estetiche» vv. 15-19) che fornisce l'ossatura d'uno dei più squisiti segmenti dei Bocete (p. 113).

A dare la misura dell'ampiezza del discorso di Ruffato sul dialetto, si ricordi anche il confronto tra padovano e italiano affidato alla memoria dell'esperienza scolastica e così concluso: «Desmentegarse fra le righe / còeghe mus-ciose del dialeto / che concede license e libertà / negae a la lengua rompibale» (p. 167). Analogamente «el me liga al concreto / cavandome i selegati sensa sigarme / par sgorbi de acenti e ortografia / nel volerlo maridare co la lengua / matricolada. El m'intiva sempre / versendome l'eden e l'Eva fruà / de la langue» (p. 172); né manca una lucida disamina della situazione del padovano attuale: «el dialeto padovan / inciocà noa endemico in versi / boche e pène che se tien nativi / e bassi, el conserva robe de péso / 'na religion da ereditare, / ma nacquà sgagnà spanìo sdolcinà / el ga perso l'anema minerale / el fola parole stravecie / rare biòte o grasse e grise / bagatele drento de sé de casada » (p. 168).

Oggetto di questi ed altri pronunciamenti, il padovano, quale «lingua di base», è, come già accennato, particolarmente ricettivo nei confronti dell'italiano, richiedendosi spesso soltanto minimi adattamenti: lo si vede, tanto per fare due tra mille esempi possibili, in «le done i tropi e le dissonanse» (p. 6) o in «scotàndolo co la febre del sapere» (p. 7). Altri inserti, anche se intatti, sono di per sé ben mimetizzati dal punto di vista fono-morfologico, come, sempre a titolo d'esempio, «pensiero debole» nei versi della seconda sequenza di Parola pìrola: «Desso più che mai lu xe stupidoto / condio in fresca salata o coto / pensiero debole, el se inafia / de profumi e saoni che pissega» (p. 4); e in rari nantes del genere ci si imbatte spesso, talvolta senza accorgersene, tanto bene galleggiano, come può succedere alle «tinte psichedeliche» in «svien co la neve stramesa / tinte psichedeliche» (p. 18) e poco più avanti nella stessa sequenza per «un desio de ociade», dove oltretutto a prima lettura si può restare incerti tra la voce letteraria per 'desiderio' e l'omofono dialettale per 'desolazione'. Ovvio dunque constatare che di marcatezza dialettale si può discorrere quasi soltanto dal punto di vista lessicale, il che non è dettaglio insignificante nel caso di un poeta per il quale converrebbe riproporre la categoria dello stilismo nominale, con punte di accusato furore nomenclatorio, senza tuttavia, a mio modo di vedere, inclinazioni espressionistiche, come bastano a mostrare questi due esempi di pacifica convivenza: «L'ecesso de tuto dà fora i penoti» (p. 8), «sgrisoloni messageri che me / fa pensare a un papiro scoperto / coi conotati mistici secreti de Eva / che miracola e bala el lessico» (p. 8).

Vere e proprie, evidenti intrusioni sono dunque sostanzialmente soltanto quelle effettuate attingendo a lingue straniere, dal latino («la follia sbólsega latinus grossus / rochei de storpiaure» a p. 6, «laetitia impirà come vita eterna» a p. 13, « spiferi dies illa dies irae rancura / la misericordia eterna» a p. 14), al provenzale antico così frequente nella serie che va sotto il titolo di La monega eurialina («Ne la corte un provenzale nostro / esperanto smissia descort fin'amor» p. 21) dove assume i connotati di liguaggio segreto («Umilmente insieme rimemo ’na cobla / tensonada, un planh pianin / a l'alba negativa de ogni giornada» a p. 22, «cossì gesticolando parolone peregrine / diversamente un pocheto vivemo» a p. 23) e onirico («le noti de gelo m'insunio / quando - sì papà me meto prometo - / e ancora l'eco daldelà speto» a p. 21); fatto salvo beninteso il frequente adattamento, presente ad esempio in anglicismi quali «scoopa» (p. 120), «m'insnoopio» (p. 124), fino ai «businessi» (p. 409) dell'ultima raccolta. Queste forme addomesticate rientrano per altro nella più generale inclinazione a forzare i confini istituzionali del lessico preesistente coniando verbi denominali, a partire da evidenti riprese dantesche («Riguardoso da ’na parte nel dirte m'intuo / no smeto, ela disendose s'india, / cossì gesticolando parolone peregrine / diversamente un pocheto vivemo» a p. 23, e ancora nell'ultima raccolta «in dono d'afeto che m'intua e t'inmia» a p. 414); inclinazione che arriva a «me inadamo» (p. 4), «un parlare universale proprio / par umanare el dirse» (p. 107), «invento d'imamarme» (p. 165), «per invosarse in cresta» (p. 38), «’Sto trobar ombreto leu clus / no basta a inlemmarne spire / de idee » (p. 39), «Vanti de lenguarse i noa / in torente gratis de stramboti / sberlefi nobili, parole imusonae» (p. 121), per concludersi, con un percorso di cui sarebbe interessante indagare i modi e le ragioni, nei finali «m'infilosofa» (p. 419) e «s'intragedia» (p. 421).

Anche questa componente onomaturgica è parte di quel lungo viaggio intorno alla parola che caratterizza soprattutto la parte della poesia di Ruffato già edita prima di Scribendi licentia. Parola esplorata in tutta la sua ricchezza di accezioni, nel complesso e vitale intreccio di oralità e scrittura, suono e senso, natura e storia, società e individuo: da portatrice di un puro e semplice «alone sluseghin», a possibile metafora dell'esistenza («domando in fondo co temansa / se l'esistensa xe essensa d'esodo / parola robà da la boca de la morte» a p. 104). Dell'attenzione di Ruffato alle autonome potenzialità del significante, fanno testimonianza le frequenti rime-eco all'interno del verso e, tipicamente, con minimo intervallo sillabico e varia morfologia dei rimanti («La xe tuta colpa mia e no voria / ch'el t'inciodasse ti Adamo, cossì / a la spiageta del peoceto Eva» a p. 3, «per la poetica del luto e tuto / se tien» a p. 6, «ancora no te lo ghe capio rio» a p. 12, «che vani dindola paeri su speci neri» a p. 15, «Nel ciaro laguna de luna stregona» a p. 18, «dal posto più riposto e lassi / i lassa el tempo che i cata» a p. 21, «le noti de gelo m'insunio / quando - sì papà me meto prometo - / e ancora l'eco daldelà speto» a p. 21, «specio vecio de brame e sugestion» a p. 22); le rime entrano anche in un complesso rapporto tra posizione finale e interna al verso, come succede in «Se pole essere scampoli selti / da la dona ardente de maternità» (p. 9) la cui rima tronca è richiamata da «savarià» finale (v. 8), «coricà» interna (v. 17) e, con la stessa alternanza, ai vv. 19-20 per approdare al ritmo disteso dell'endecasillabo tronco finale (v. 21): «L'amplesso xe ’na ultima spiagia / ’na veranda de conversassion bagnà / ’na confession scoltà da la dona / ’na rara frégola de lamprità» (p. 9). Si aggiunga, al centro del componimento (vv. 7-9 e 16), il supporto, trattandosi sempre di a tonica, della rima interna-esterna -are presente in «particolare» : «inventare» : «mare» : «salvare» (e con quel mare 'mare' che, essendo omofono di mare 'madre', porta con sé un riflesso della «maternità» del v. 2); altrettanto insistente è, nello stesso componimento il ricorso all'allitterazione: «scampoli selti» v. 1, «sintesi savarià» v. 8, «sepolture / scoverte» vv. 12-13. Tipica di Ruffato è in genere l'insistenza su iniziali s o s + consonante, come risulta da questo parco campionario in cui è preminente il componimento con incipit «Fiola spanìa de un bacanoto de la bassa» (p. 17) nei cui sedici versi si incontra «strafantà» v. 2, «screpolà» v. 5, «stacai» v. 6, «sbèssola sgranocià» v. 7, «sbrodegoni» v. 9, «sfogna» v. 10, «schifose» v. 12, «spolpà» v. 12, «scufiota» v. 13, «stinchi sgionfi» v. 15 e in più, all'interno di parola, «descusia» v. 2, «incastrai» v. 6, «clisteri» v. 10, «bestiole» v. 12, «costesina» v. 12, «oroscopo» v. 13, nonché l'endecasillabo finale «tuto marasma in costiera del sole» v. 16; da altri testi basterà citare «s-ciosi / le spire del serpente e i rugi / ... / strega spauria e strena camaleonta» (p. 3), «e mi da spassaura straca so stufo» (p. 12), «Serti termini sordi spiritai» (p. 72); infine si noti che tra il segmento di p. 18 e quello di p. 19, proprio tale componente sonora, unita alla rima tronca pecà : ba, produce un effetto di cobla capfinida grazie ai versi finali del primo segmento («Nel ciaro laguna de luna stregona / la spètala margherite, sciami magici / sola la se spètena da far pecà») e all'incipit del secondo («Srodola nel so latin ni but ni ba»).

Metterebbe conto di esaminare attentamente la varia funzionalità contestuale di questo intermittente e suggestivo predomino del significante, ma basti un esempio notevolissimo del modo in cui il fonosimbolismo sia delegato a far percepire, nel silenzio del linguaggio articolato, il rumore della ghiaia nel cimitero: «Al simitero pesto sparuo / el nostro angusto tempo perso / el giarin sfrìtega funereo» (p. 104); poco più avanti, a conferma dell'assenza della parola umana, «Le piante / grasse in mansarda ancora parla / .... el ritrato / che ride finalmente in pase» e all'interrogativo esistenziale («domando in fondo co temansa / se l'esistensa xe essensa d'esodo / parola robà da la boca de la morte») si accompagna la constatazione della propria inadeguatezza linguistica («la me misera parlata / che no ghe riva a spalancarse»).

Il componimento appena esaminato, nel passaggio dalla prima edizione (I bocete) alla presente silloge, ha subito, come moltissimi altri, alcuni ritocchi; con riferimento ai versi sopra citati, spicca il mutamento di quello iniziale passato da «Paron sparuo del simitero pesto» a «Al simitero pesto sparuo», mentre i cinque successivi fino al punto sono rimasti intatti. Ruffato ha quindi eliminato un bellissimo verso cui il ritmo ascendente giambico-anapestico sposato al colore scuro di ricorrenti sonorità iniziali (soprattutto «paron», «sparuo», «pesto», ma anche «sparuo» e «simitero») conferiva una suggestiva e quanto mai pertinente cadenza da marcia funebre; lo ha sostituito in modo dignitoso, ma scialbo al confronto. Si pone dunque l'eterno problema di come giudicare il lavoro di lima d'uno scrittore, domandandosi se ogni nuovo intervento variantistico comporti di per sé un miglioramento; e resta inteso che la risposta, anche nel caso ora esaminato, andrebbe cercata tenendo ben conto di eventuali sincronie compositive, tali da fornire la ragione di modifiche singolarmente mal interpretabili.

Come è noto, il documento fondamentale del lungo, vario e complicato discorso di Ruffato intorno alla parola è Parola pìrola, titolo in cui già con l'accostamento a pìrola 'piroetta' si predica la sostanziale instabilità della parola, ossia la sua polivalenza, come sembrano confermare i titoli delle sottosezioni. Soprattutto i componimenti iniziali sono ricchi di richiami autobiografici e si direbbe che il dolore per la morte della figlia comporti non solo una dichiarazione di inadeguatezza soggettiva («Penin schincà de inciostri mentali» p. 22 e così pure anche in séguito: «Peluco ne la tela pensieri / a piombo su grame parole / che stracòlo sensa dissiparghe el genio » a p. 107), ma soprattutto una cospicua dose di aggressività nei confronti dello strumento linguistico disponibile, di cui è dichiarata la sostanziale inadeguatezza in vari contesti: «me sgagno a piegare / spacare silabe intrigose» (p. 6), «In meso ai segni che sberlefa / i verbi parasintetici e scursa / el discorso» (p. 7), «le parole devien aria de famegia / e le se frise nel certamen / del segno-come-cosa» (p. 7), «i bravi termini ne la brodagia / instabile tenta un free-parolese / informale de senso e referensa» (p. 8), «el ris-cio / ... / de incorporarse in esodo erbario / o in ’na lengua estuaria a toni / alti quasi vocalese» (p. 11). Sintomatico è infine l'uso di lipegoso in «’na sesta de parole / lipegose ne la frotola coniugale » (p. 6), aggettivo su cui getta luce retrospettiva «La vose pura lìpega ne la bianca mitologia» (p. 186), facendo dunque intendere, probabilmente, che le parole sono 'scivolose' in un doppio senso: perché non si lasciano prendere e perché non prendono, non catturano ciò che si vuol dire.

In uno degli esempi sopra citati si parla anche di «silabe intrigose»: come si è visto, dell'«intrigo», insito in singole manifestazioni linguistiche, si prospetta una radice profonda che arriva a toccare la struttura immanente a ogni comunicazione verbale, e infatti con ostinazione/ossessione in Parola polena «parola» viene per così dire dissezionata, assumendola volta a volta quale designans un insieme di parole o quale designatum (la parola parola); sintomatico il fatto che, nella sezione finale Parola fiaba, la materialità della parola e insieme l'ostacolo e lo scacco della comunicazione siano riproposti metaforicamente con la lunga citazione della novella delle parole ghiacciate dal secondo libro del Cortegiano. E già il titolo complessivo della sezione suggerisce, con l'accostamento a «polena», l'ulteriore biplanarità di immagine acustica e immagine visiva, ciascuna dotata di proprie autonome valenze ben identificate. Emergono dunque complicità fonico-semantiche («p inissiale de padre pié pan ponte» ecc. a p. 27) consustanziali alla parola-suono perché «dal so corpo / arlechin vien sempre su la vose / ch'el silensio invida a le letere» a p. 27), mentre sull'altro piano «Anca illa polena come l'universo / xe tuta forà de trivelae miste / le più larghe in p o a / da impienare de senso, sentimenti / colori unguenti sóni / conotati fisici e morali dei significanti / co responsabilità fantasiosa radegosa» (p. 31). Allontanata da sé in una sorta di ipostatizzazione, la «parola» consente un dialogo privo di aggressività («Me rabalto e prostro, ghe mostro / acqua fresca, serco de calmarla » a p. 32) e anche la denuncia della sua cattiva riuscita, del suo fallimento avviene sotto tono con ricorso a un bonario modo di dire popolare («no sempre la se dà in cicara / e la casca sul piatelo» p. 26), oppure prendendone atto serenamente senza rinunciare alla speranza «’Sto trobar ombreto leu clus / no basta a inlemmarne spire / de idee che s'incarna e ferma / la vose che se la tole / alora scoltame, mando su le nuvole / l'urlo de le rose e letere de lana / sperando de dresfare el me gelo / ne la to mana blu» (p. 39).

Merita un breve indugio il terz'ultimo verso appena citato: la poesia di Ruffato è guidata con ferrea determinazione dalle ragioni d'un progetto linguistico-letterario, cui viene subordinato ogni impulso alla libera effusione, frenando dunque il dispiegarsi di immagini e sentimenti veicolati in modo tradizionale dal punto di vista metrico, linguistico e ritmico. Spiccano dunque, quali piccole pause ristoratrici in un arduo percorso, quei momenti di calo della tensione fabrile e di relativo abbandono all'ispirazione immediata, come mi pare succeda in quel bellissimo «l'urlo de le rose e letere de lana» e in altri versi analogamente strutturati: «morsega pomi e visside gussade» (p. 3), «imatia dal vento e coricà su l'onda» (p. 9). Tanto basti a mostrare che, come ben confermeranno le ultime raccolte, ad esiti di alto livello si arriva in Scribendi licentia anche quando viene assunto un atteggiamento più permissivo nei confronti di tratti istituzionali del linguaggio poetico, come per l'appunto una certa ricorsività di schemi (perché di norma, ha scritto assai bene Luciana Borsetto, «il suo ritmo è tendenzialmente quello atonale che sfugge alla semplice conservazione o variazione dell'identico»). Le conferme non mancano anche in segmenti testuali più ampi come, limitandosi a Diaboleria, «voja de arzari, de tera liegra / poco batua e corare lampri / al gran cuore de la fradelità» (p. 177) e l'intero componimento «L'anema dei casoni più no siga» (p. 188) consistente in sedici versi di squisita fattura (per lo più endecasillabi con qualche decasillabo), tendenzialmente a rime alterne concluse dalla rima baciata della coppia finale, isolata anche sintatticamente da un punto fermo; prima, due quartine (vv. 1-4 e 11-14) incorniciano un sestetto centrale (vv. 5-10) e ciascuna di queste tre parti inizia con costrutti sintatticamente simmetrici («L'anema dei casoni più no siga» v. 1; «L'onda opale chirie sole caligo / no scomete» vv. 5-6; «I fiori de tomba no scalda el gelo» v. 11).

Con Smanie del 1995 sembra esaurita la fase più irrequieta, e a tratti convulsa, della ricerca formale di Ruffato; il ritmo del discorso si fa più disteso, o piuttosto meno sincopato, e alcuni dei procedimenti tipici messi a punto nelle raccolte precedenti vengono per così dire stemperati; ciò è vero ad esempio per le coppie nominali («solfa sénare» a p. 229, «Sole forno» a p. 242, «Istà mulo» a p. 242), per le sequenze allitteranti («Sgrandessona spòtica sangueta» a p. 230, «in piè impara figure fresche / da contare ai cei che ciama» a p. 233), per i verbi denominali («me / sìngana a l'ultimo cao e m'indìa» a p. 251); tanto diradati sono questi procedimenti da rendere eccezionale un verso come «péso peri e biro sgorbi fratali» (p. 249) dove sono viceversa concentrati allitterazione («péso peri»), verbo denominale («biro»), coppia di nomi («sgorbi fratali», cioè, forse, sgorbi a forma di frattali), nonché lessico tecnico («fratali» appunto): un campionario insomma delle manipolazioni e delle contaminazioni tipiche di Ruffato. Si rarefà la polemica sull'inadeguatezza del linguaggio, polemica della quale pochi residui si possono ancora indicare in «El lenguagio xe sempre busiaro, mejo / profitare de imagini sintetiche» (p. 222) o nella icastica allusione a un consunto rapporto parole-cose consegnata a «la solfa sénare / de robe tacà a parole» (p. 229) e di «Parole braghiere a zonta ne sfrata / da noialtri» (p. 246). A tutto ciò corrisponde palesemente una fase introversa del dolore e per ciò stesso un approssimarsi al silenzio («sento i so ferali sbarai sul me / silensio da pesse straco» a p. 240, «la me varda, me meto calmo / nel so silensio che sa» p. 241) come inevitabile conseguenza della disgregazione dell'io («S-ciante de mi ghe so, ognuna / che te fa stare in un desso / quahic et oranunc in eterno cambià» a p. 259); eppure, paradossalmente (o proprio, come si legge a p. 224, perché «altra poesia tase scolta el silensio»?), la sordina messa sul grido lacerante porta a una parvenza di sintassi, l'abisso della disperazione si lascia esplorare, tanto da consentire isole di discorso lucido e senza illusioni. Lo spunto può essere dato da frammenti d'una realtà esterna ed estranea («In teoria se crepa de bocaboli / benestanti, fra i stati più sioròti / se xe in testa par auto nove pro / capite» a p. 224; oppure «tosate / puina de s-cione, tosati in coéte / làvari firmai, fumegari in bosco / bande scrite in borsa» a p. 227) cui si contrappone la lapidaria desolazione di versi che tendono ad assumere con singolare frequenza la forma della massima: «Viaji e zogo incocalisse el tempo» (p. 227), «I fiori più bei / xe sempre distanti» (p. 239).

Da questa desolazione solo in parte rassegnata dipende certo l'atteggiamento disincantato, se non addirittura sereno, che par di cogliere in versi di squisita fattura come questi vagamente mallarméani: «La soasa d'argento a rimirarla / nel ciaro perde foje, tuto s'impaca / a un granelo paciocon de sabia / ribobolo de lapis de l'universo» (p. 253); oppure come questi altri che rinnovano in tono volutamente minore la vetusta metafora del libro della vita: «fra i foji del libro / che la vita no lassa de sgorbiare / co l'inciostro bianco e la morte / ricalca co la china» (p. 257). Non a caso dunque fa parte di Smanie anche Onge, uno dei testi più ricchi di trasparenti riferimenti autobiografici affidati a un linguaggio insolitamente comunicativo e sigillati da un'altrettanto inconsueta doppia rima baciata finale («’ste onge / impegnae par la paga co passion / desso sensa speransa in pension / sensa rason stuae lenti / co tante ombre latenti» a p. 238).

Per la massima parte inediti sono anche i testi compresi nelle ultime tre raccolte incluse in Scribendi licentia, e cioè Sagome sonambole (1993-1997), Vose striga (1990-1997) e Giergo mortis (1997). Significativamente il primo componimento (Delirio sigàla) di Sagome sonambole inizia nominando la «voce» («La voce camina su e zo parole» a p. 267), cioè proponendo sùbito uno dei temi diventati dominanti nella ricerca di Ruffato, che, varcate le colonne d'Ercole della «parola», affronta l'esplorazione, appunto, della «voce» nel suo autonomo incoercibile flusso: «Urton transverbale de spirto concepio / la prova a calarse tacarse / ma la sgorga parola idioma co le so voje. / El lenguagio spotico / la governa imbraga sòfega / ma va a finire ch'el so dire / se basa sul bocabolo e su la recia / de un son de l'ombra de st'altro / perché a dire se xe sempre in do / ne la sengia lenguosa del dì» (p. 267). E infatti nelle ultime due sequenze di Delirio sigàla il tema del dialogo appare significativamente contrassegnato da segnali lessicali forti, come il già ricordato verbo slusegar («slùsega dialogo cosmico tuto recie» a p. 273) in uno spasmodico tentativo di corrispondere («Indirme per rivare più in là» a p. 273) con l'assente («La so vose / de vento me conta le strussie / a portare via sénare e destin inrujà» a p. 273), prima che tutto si annulli in quel muro di silenzio che la parola cerca (sempre invano?) di scalfire («In barlume de orisonte conservo / vèro el so viso / nei faldoni de la mente / campo de spagna e gran / assensa e nome sconto ramai / sfantai ne la parola che scarpèla / el silensio» p. 274), perché, come Ruffato ha scritto in un suggestivo saggio del 1997 (Il cantico del silenzio) «la poesia si rapporta intensamente col silenzio, dal quale scaturisce o nel quale si immerge; è basilare sentirne la presenza o come pausa o come scarto di senso». Un consuntivo dell'impari lotta è Birignao del vodo, uno degli ultimi e più densi segmenti di Sagome sonambole, del quale merita citazione almeno il suggestivo cominciamento: «Nel vodo brancola polvare de spirito / e ’na mancansa scanacòre / su l'oro tra corpo e anema / che se striga de gnoransa mistica / par invosarse. Le parole / se lagna de le robe» (p. 298). Qui e nei brani precedentemente riportati siamo di fronte senza dubbio ad alcuni dei momenti di più alta tensione lirica e di più maturo equilibrio espressivo; da quest'ultimo punto di vista certe impronte digitali di Ruffato sono tuttavia riconoscibili (le rime-eco di «destira ombrìe, suori de scarpìe» a p. 273, «ramai / sfantai» a p. 274, un neologismo verbale come «Indirme» a p. 273, ecc.), ma la loro presenza da un lato è più rarefatta, dall'altro ha perso aggressività provocatoria e dissonante; così sarà sostanzialmente anche in séguito fino a quel Giergo mortis dove la curva discendente ha un'impennata esemplificabile con «Nel muco noturno che nuo me nina» (p. 397), «parole insupae / de pianto che taca e destaca» (p. 420), «m'infilosofa» (p. 419), «s'intragedia» (p. 421).

Un'altra novità offerta dalle ultime tre raccolte è che al perenne tentativo di districarsi, di trovare il bandolo «nel tinfanio che semo» (p. 273), sempre più insistente si accompagna il tema del mistero della vita e della morte («In ’sta manfrina de speci / el viso de le parole e el spetro / del no dito se fa sfinge esauria» a p. 271; «mai se slòfia / anca feso el lastico de la morte» a p. 299, e ancora «el fià de la morte, el fantasma / che no se brinca e mai se scrive» a p. 290). Nel contempo si affacciano già all'inizio di Sagome sonambole immagini di un'umanità stravolta e di una società massificata («’na spoja società ideale spuria» p. 278) ed estranea («El mondo torno me rùsena» p. 283) con un crescendo che assume, soprattutto nella sezione Otobre de zali, toni apocalittici («infansia intelà in computer tivù» a p. 288, «mare nostru morto de catrame» a p. 289) con un accanimento che man mano si placa arrivando alle due raccolte finali, dove alla voce (Vose striga) e alla morte (Giergo mortis) viene fin dal titolo assegnata quella centralità che di fatto si erano già da tempo conquistata.

Vose striga sembra assumere sùbito all'inizio (nella sezione Ciao vose) il carattere di una trattazione sistematica, a partire da una sorta di fisiologia della voce («El gargato, / siringe nei osei, xe ben sestà / vestio olià fa squasi rabia, el ron ron / de le corde scorlae mùgola in boca / e naso cane de organo, rùgola / vose tipo galeta del dito / e canto» a p. 315); abbiamo dunque un notevole esempio di poesia didascalico-scientifica dove il dialetto si appropria, com'è nei programmi di Ruffato, di argomenti tradizionalmente estranei, ma in modi pianamente comunicativi dei quali danno un'idea questi altri versi: «La oficina vocale adata forma / e misure coi ani, prossemica / sesso e volontà del sogeto / parché, se ripete, l'idea d'un son vose / scominsia ne la scorsa servelare» (p. 317), dove si noterà, tra l'altro, quell'inciso «se ripete» sintomatico di un'attitudine che non pare esagerato chiamare pedagogica. Funzionale a tale attitudine sembra dunque anche la frequenza dei paragoni esplicativi introdotti spesso da quei «come» di cui si era segnalata l'espunzione in fase rielaborativa di certi vecchi testi: «La vose rauca e ransa xe come / l'orbo che vole drentare nel specio / o sermon a chimera in deserto / o quelo che perde el saon lavando / capa ai mussi, o canere surdo asello» (p. 319). Il tono è nuovo e ben diverso da quello di Parola pìrola, che pure era da più punti di vista un trattato; ma il predominio d'una sorta di oggettività scientifica non cancella atteggiamenti di tutt'altro segno, anzi dà loro spesso, per contrasto, risalto particolare, come succede quando riemerge il mito, così caro a Ruffato, d'una parola libera da condizionamenti e dunque l'aspirazione a «saere la parola scampà / al lenguagio, specio spotico / de solitudo de la boca che la dise» (p. 338). Così pure, per la loro intensità emotiva, si vedano nella sezione Vose sìngana (che si potrebbe definire una 'geografia' della voce) certi versi impegnati a esprimere l'ineffabile mistero del cosmo e la correlativa nullità degli uomini: «Vardo la verità farse ponto cao / silensio e luce discorare su la palù / sul stisso ultimo che se xe. / Vose me porta in anda co moto / sermone de ati forti, i echi / de la comparsa de l'universo» (p. 359). Di questa vertiginosa escursione restano tracce nella eponima Vose striga, e non poteva essere diversamente, trattandosi, per certi aspetti, di una summa tematica dove tuttavia nulla c'è di ripetitivo ed anzi spicca l'uso metaforico d'un lessico quanto mai concreto, come l'«agra gratarola» del «siglese» (p. 375) o come, in questo stesso componimento, i due versi finali «’Sta vose bronsa dona frégole / diamante de memoria».

Dopo la «parola » e dopo la «voce», perché l'ultima tappa dell'itinerario di Ruffato è intitolata al «gergo»? Azzardo un'ipotesi: perché gergo è il linguaggio di chi vuole intendere senza essere inteso, della morte dunque come insondabile mistero. Alla rinuncia al dialogo, imposta allora dal non comunicativo Giergo mortis, si supplisce con una esplorazione sistematica, con una lucida contemplazione della morte, fin dove è consentito spingere lo sguardo, senza escluderne nemmeno i riflessi sociali («In pompa magna co catafalco / turibolo botillier de musi storti / parole contrìe un macaron die sire» a p. 407), fino alla disincantata meditazione («Le robe va viste co parsimonia / via dai broji de businessi. In chiete / ne l'eternità beato sarà el scolto / del sbisigolìo de ’na vita sgorgà / da morte e l'anema ne savarà / co la cognission e l'amore de Dio» a p. 409), oscillando tra dubbio insolubile («Forse la morte no ghe sta come tuta / e sola rason de ancila vitae» a p. 410), angosciosa aspettativa («La xe come l'ojo parsora / ’na bola sguelta de possibilità / che no se salta e scava el busonero / in sto mondo granèo de l'universo» a p. 412), serena visione del destino ultraterreno («L'anema un fià / sulamita xe sempre genuina / durevole co more el corpo / e la se libra sapiente sora / ’ste contrade cartavetrae a suniare / col spirito cosmico» a p. 417). Ecco dunque che questo volume, apertosi nel nome di Adamo ed Eva, si configura, sovrapponendo filogenesi e ontogenesi, come un viaggio compiuto dalle origini dell'uomo a, recita l'ultimo suo verso, «l'estremo cao icse de ognun».

Alfredo Stussi

*Anticipato in «Belfagor», LIV (1999), pp. 0000