Diario Ladin


E' fuor di dubbio che la poesia in ladino di Adeodato Piazza Nicolai corrisponda alle richieste di nuova espressività poetica così come teorizzate da P.P.Pasolini nella premessa alla antologia Poesia dialettale del Novecento nel 1952. Come è fuori d'ogni dubbio che l'impegno linguistico di Nicolai, in vista e a ragione dell'impiego anche del proprio dialetto e della cultura e della antropologia che vi sono connesse , appaia complicato dal concorso di altre lingue ( l'italiano e l'inglese, con propria specifica cultura - che in Diario ladin sono, come dire, esposte a fronte del dialetto con pretesa di autonoma dignità testuale ) praticate dal nostro autore durante la più che quarantennale permanenza negli USA. Mi pare possa valere qui la osservazione a suo tempo rivolta all'opera di altro emigrato intellettuale italiano, Giose Rimanelli, e cioè che Nicolai paghi al linguaggio - quando il codice eletto è il vernacolo - il prezzo doloroso della distanza, del decentramento, della "migranza" psicologica, più che geografico-reale, dalla terra d'origine: … e io, vagabondo, - dice il poeta in "Trittico materno"- mi trovo sulla strada // che porta sempre al luogo / nascosto in mezzo al bosco / dove ritrovo un seme / e un ramo con dei licheni … che è testo in cui forte si avverte il richiamo costante delle "radici". Ne parla, peraltro, con appassionata competenza Giulia Niccolai nella prefazione al volume, sottolineando la "commozione" che le poesie provocano alla lettura e che rivelano "l'aspirazione umana a poter sentire dentro di sé la continuità della propria vita, ripercorrendola col pensiero in modo fluido e levigato …".
Credo occorra riflettere sul "ripercorrere" del passo della Niccolai. La lingua che Adeodato Piazza impiega, il ladino, è certamente passata al vaglio memoriale, dalla distanza d'oltreoceano, è cioè stata "ripercorsa", profondamente interiorizzata e reinventata nella interiorità; è diventata insomma - come è accaduto in altri poeti dialettali di vaglia (Loi e Pierro, per esempio) - un idioletto, e cioè lingua personalissima, di cultura, che ha dismesso, anche se non del tutto, le vesti di strumento della comunicazione ( dismissione accelerata dalla costante ineluttabile emorragia dei parlanti ), per entrare in una struttura, la poetica, che pretende oggi, con le capacità d'impiego e la profonda conoscenza del mezzo linguistico, la stessa ottica culturale e operativa della poesia espressa in lingua comune.
Donde l'abbandono del bozzetto, del quadro rurale, la vigile cura di evitare le trappole realistiche del folklore diffuse nella poesia dialettale dall'Ottocento e fino alla prima metà del Novecento e che ancora mietono vittime fra gli ostinati cultori del campanile paesano. Diario ladin - ed è il primo dato che consente di sostenere la corrispondenza della poesia di Nicolai al corso della cd. neodialettalità - ha operato del tutto il distanziamento dalle tentazioni realistiche di cui ho appena parlato.
Credo sia opportuno, a questo punto, soffermarsi brevemente sui caratteri del dialetto usato da Adeodato, per farne discendere alcune altre riflessioni sulla poesia.
Come è noto, ladino, continuatore popolare di "latinus", designa un gruppo di parlate alpine e subalpine, una entità linguistica oggi ridotta al alcune valli dolomitiche ( Gardena e Badia-Marebbe, imperniate sul massiccio del Sella e collegate alla Fassa trentina e al Livinallongo veneto). Tale entità, valorizzata linguisticamente e culturalmente dalla prima metà dell'800 nel clima post-romantico delle nazionalità emergenti, costituisce a tutt'oggi un motivo di complessità nella mappa regionale, mantenendo la sua importanza di ultimo relitto di una continuità neolatina relativamente autonoma e comunque periferica e marginale. L'inserto, mentre ci consente di saperne qualcosa di più intorno alla lingua di Nicolai, conduce anche ad una ulteriore riflessione intorno alla conformità della sua poesia ai dettami della neodialettalità. Il codice che il poeta utilizza è marginale, è una lingua "minore" senza tradizione letteraria di rilievo. E' uno degli aspetti, questo, che differenzia la contemporanea poesia dialettale da quella del passato svolta essenzialmente per "grandi" lingue sull'asse Milano-Roma-Napoli.
Altro elemento che ritengo si possa addurre a conferma della adesione di Adeodato ai precetti della nuova poesia è la lirica centralità dell'io, un io che si accampa come polo attrattivo delle dilacerazioni, delle perdite, delle attese esistenziali ( amore incluso, si leggano le bellissime "Mia Carmen come un dolmen" e "Come il sole disfà la luna" del Trittico materno ), dei soprassalti impreveduti della memoria, delle imprevedute accensioni del ricordo. E a tale ultimo proposito, vale la pena trascrivere la poesia "Anche oggi" per intero:

Anche oggi così lontano
sento i zuffoli
il sapor della polenta
il fieno sulle spalle.
Anche oggi così lontano
sogno le rocce che toccano
le stelle, vedo la madre
pregare sotto voce…
Anche oggi piano piano
i vecchi vanno all'osteria.
Guardo il bocia che lusinga
le ragazze forestiere …
Anche oggi così lontano
- che nessuno qua è cadorino -
trovo vuoto il mio gerlino
quando scrivo il mio ladino.

Ma il ricordo, si badi bene, ha perduto connotazioni di nostalgia e si propone qui piuttosto come linfa per una interpretazione vivificante del presente che include certo l'assillo della perdita di quanto si possedeva e che perciò manca per una pacificante invocazione dell'oggi, ma che è anche dato concreto al quale rapportare e sul quale fondare le aspettative future.

Di là da tutto questo, a me pare che la particolarità dell'opera di Nicolai risieda essenzialmente in uno straordinario evento: in quella che potrei definire la riappropriazione della specialità comunicativa da parte della parola e del verso che tornano, così, ad essere rivestiti della originaria umiltà. Nell'ultimo trentennio di produzione poetica, a causa di spinte e orientamenti operativi che risalgono ad esperienze letterarie di inizio e medio secolo ( alludo al simbolismo, al surrealismo, all'ermetismo e giù via via fino alle non lontane prove neosperimentali ), la parola ha perduto il residuo di referenzialità che le competeva ed è divenuta superba. Sulla superbia della parola si gioca ancora oggi la partita finale della poesia in lingua. Nicolai e alcuni altri dialettali hanno invece compreso che, se il poeta può scegliere, fra le possibili opzioni di campo, quella di "testimone" del mondo e delle sue modificazioni-contraddizioni, dei suoi dolori, delle sue incertezze, e se la parola è mezzo-strumento per esprimerli e renderne partecipi gli altri, è necessario, per ogni tentata creatività, far uso di una parola non in bozzolo, non superba che tenda a "rattenere" il senso, magari alludendovi - piuttosto che svelarlo - in nome di un invocato e troppo spesso praticato eccesso di ambiguità.
Il proposito di riassegnazione della specialità comunicativa alla parola in Diario ladin è perseguito in un verso scevro da assilli, da ansiose articolazioni o fulminazioni espressive ( è il modo fluido e levigato cui accenna la Niccolai nella prefazione ). Il verso ha un andamento dettato da sintonia con l'altro da sé piuttosto che manifestarsi terreno di situazioni negative com'è di tanta poesia contemporanea in bilico fra certezza del nulla e forme di neutralizzazione dell'io che attua le sue rimozioni per inibire o filtrare immagini o pensieri presunti all'origine del proprio disagio. In Diario ladin, invece, il disagio è esposto, da scontare e intero vi appare l'io al quale il poeta rivendica lo stato di sofferenza e che si pone al centro di ineludibili perdite ( con la coscienza vigile della ineludibilità) e di aspettative possibili. Un profondo disagio che ha radici nel "distacco" dalla terra d'origine, come si diceva, e che cerca dolorosa e sofferta compensazione:
…………
E' partito di nuovo per strade
mai prima viste
- oscure e strane -
per calmare l'altra fame
mai voluta e mai sentita.
Ritornò per portarsi a casa
Qualche tizzo rimasto in tasca:
pezzi di sole e di luna
che la sua strada accendeva.
( "La sua strada")


La "lucida", autentica disperazione di Nicolai si ferma, comunque, di qua dalle "porte del nulla", distinguendosi da tanto diffuso nichilismo nostrano e perciò distanziandosi definitivamente dalla esperienza ermetica, montaliana in primis, rilevata un decennio fa da Enrico Bonino. Così come del tutto assenti sono l'intonazione e gli effetti simbolisti di cui parla lo stesso critico.

Passo dopo passo, dal discorso di Adeodato Piazza emerge un tondo di creatura, certo con i bordi sdruciti dal dolore patito, in balia delle ventate dell'esistere ( e qui potrebbe soccorrere la biografia dell'autore autore; intanto si colga, con un po' di pazienza, il ricorrere frequente in Diario ladin del lemma vento ); ma anche di creatura pervasa da un profondo senso di religiosità. Una religiosità laica, indubbiamente, una sorta di pietas proprio nel significato che alla parola attribuivano i latini, che è modo di approccio alle cose, all'altro da sé, in una parola al mondo ed è fonte e alimento di prospettive di vita possibili, di attese senza afflizione, paradigmaticamente affidate nel testo di Adeodato al sole.

Leggendo Diario ladin, m'è sembrato potessero valere per Nicolai le parole di Giacomo Noventa "Serché più in là", con le quali il poeta veneto stigmatizzava il comportamento di chi riduce il proprio poièin ad intento estetico anziché favorire la parola del , dell'uomo intero. Così come m'è sembrata aderente alla operatività del nostro la parafrasi di Marina Cvetaeva: "Poesia significa far conoscere qualcosa o qualcuno che nell'uomo vuole disperatamente essere".

La osservazione conclusiva su Diario ladin può riguardare un aspetto, come dire, sociologico della produzione poetica. Il contributo di Nicolai allo straordinario rigoglio creativo dialettale di questi anni si materializza in un volume edito praticamente in forma privata, anche se la copertina segnala come artefice tipografica la "Union Ladina del Cadore de medo". E' un po' il modo onorevolissimo di sopravvivenza di molta poesia contemporanea, specialmente se espressa in dialetti marginali: Ma è anche una patente di autenticità e di orgogliosa autosufficienza: Ce lo insegna Francis Ponge: "Oggi la poesia autentica non ha nulla in comune con quanto si trova nelle collane poetiche … La si trova piuttosto nei quaderni ostinati di alcuni maniaci della nuova stretta del reale".

Achille Serrao







Postfazione a "Scúerzele"

Si iscrive nello scorcio degli anni Settanta la "riscoperta" della lingua materna, il dialetto garganico di Mattinata, da parte di Francesco Granatiero. Meglio, è di quegli anni ( se si vuole aderire alla visione quasi mistica - piuttosto diffusa - dell'impegno poetico in dialetto ) la "chiamata" all'uso dello strumento "vergine", custodito nella memoria e appena ricuperato ad una nuova realtà operativa, per i personali calchi espressivi. Nasce così il tentativo, siamo nel 1976, di All'acchjitte, un primo cauto - e insoddisfacente per lo stesso autore - approccio allo stumentario dialettale, derivato e trascritto fedelmente ( o quasi) dalla "parlata".
Agli inizi degli anni Ottanta, le aspettative dall'uso della lingua delle origini non appaiono al poeta realizzate, donde la necessità di un approfondimento "appassionato e ossessivo" che qualche anno più tardi si tradurrà negli studi :Grammatica del dialetto di Mattinata (1987) e Dizionario del dialetto di Mattinata (1993). "Vi è racchiuso il dialetto così come si parla o meglio si parlava nella prima metà del Novecento", dichiara Granatiero (1). I due studi si rivelano fondamentali per la contemporanea e futura scelta del codice da adottare. Potrà dire il poeta, valutati gli esiti degli accertamenti linguistici condotti sul campo e trasfusi nei due lavori:" La mia preferenza non va, naturalmente, al dialetto parlato, non tanto perché "impuro", quanto perché altrettanto "utile" e vuoto che la lingua, bensì a quello dei miei genitori, dei miei nonni filtrato dalla memoria e pieno di termini arcaici ( non di puro folklore!), ma pregnanti, discreti, necessari"(2). Dichiarazione che, con la pregnanza e la necessità, ingredienti indispensabili d'ogni parole che entri nell'officina della poesia, esalta il carattere della discrezione che nel dis (dal greco dys) contiene - ne sia o meno cosciente il poeta - l'allontanamento. E qui, l'allontanamento dalla normativa della comunicazione corrente.
Sia come sia ( e a parte l'immaginoso gioco filologico ), "la scelta di un dialetto più arcaico, più uguale a se stesso, non più parlato, dà l'illusione di sfuggire alla precarietà del presente"(3).
Si tratta, dunque, di una operazione di speleologia linguistica, fenomenologicamente ricondotta all'antropologia, ma linguisticamente tentata, in qualche modo, di legittimazione culta per il dichiarato "rifiuto" della parlata, consunta, esposta, al pari della lingua comune, alle incursioni di agenti corruttori ( impoverimento lessicale, alterazioni fonologiche, semplificazioni analogiche).
Per questa via il dialetto perviene ad una "densità estrema di artificio" (Tesio); qui si rivela l'impegno (il piglio) filologico del poeta ad individuare e cogliere, come emerse da una "dolorosa" lontananza di dolorose memorie consapevolmente ricuperate in forza di studio, le parole-nidiandolo ("nidiandolo" è l'uovo finto, il ciottolo levigato impiegato per stimolare le galline a fare uova vere ), parole gravide di terra, "i segni e le cicatrici di antiche offese, correlative di sofferenze non ancora del tutto scontate"; ma anche parole-radici di poesia "risorte" dal passato e impulso alla creatività del presente. Il repertorio è amplissimo. Ne dà conto Pietro Gibellini nel lungo saggio premesso alla raccolta Ènece (1994), al quale rinvio.
A me preme sottolineare altra funzione che tali parole sembrerebbero chiamate a svolgere: la forte capacità at/traente in grado di "ordinare", per sostegno o contrappunto, scarti o adesioni, gli elementi lessicali e narrativi, e memoriali, di giudizio, tutta la materia variabile del discorso, rima e enjambements inclusi, che risultano strutturalmente coinvolti. Sicché quelle parole- simbolo, con la emblematicità di storia personale ed antropologia, di lessico-idioletto per conio autoctono, finiscono per assolvere il compito ulteriore di assi portanti (assiemanti), di ossatura dell'intero libro.
Con questo bagaglio strumentale, inclusa, come s'è detto, la presenza rinserrante ma congeniale e proficua delle rime, Granatiero compone e pubblica dopo All'acchjitte: U iréne (1983); La préte de Bbacucche (1986); Rume (1992); Énece (1994); L'endice la grava. Antologia 1975-1997 (1997); e ora questo Scúerzele, che conferma le premesse e gli svolgimenti stilistici e tematici còlti, nei vari passaggi interpretativi, dai critici che hanno rivolto attenzione al lavoro del poeta garganico. Le osservazioni, ad esempio, sul poemetto, finissime, di Giovanni Tesio nella introduzione a La préte de Bbacucche. Che si possono riprodurre pari pari, ora, per i poemetti "La sàrcene (la fascina)" e per "Scúerzele (spoglia)" che dà titolo al nuovo libro; il primo, un "racconto" in sette movimenti di una "ragazzata" finita in paura ( cumbagne a lli ppaure/ d'i stòreje pèrne pèrne - come le paure/ delle favole perla a perla ), il secondo, di tale densità da compendiare l'intera poetica di Granatiero. "Scúerzele" è in XVII quadri, dissemina nel corso della storia narrata parole-emblemi incontrati nel lavoro pregresso: attànete (il padre), irótte (la grotta), la préte (la pietra), l'énece (l'endice), li ppanaríedde (i panieri), la pannòune (la caverna) etc, ma soprattutto il "nidiandolo", l'uovo di pietra cui si è accennato, con la sua forte emblematizzazione della stessa poesia. In entrambi i poemetti si attua, con il riporto - per dirla con Gibellini - a un magico hic et nunc della realtà e dei fantasmi di un'infanzia indelebile, una sorta di discesa all'antico-arcaico per verificare lo stato ( e la possibilità di attingervi ancora) del patrimonio "mitico" sentimentale e linguistico posseduto.
Con la riflessione sull'atto di parola ( che è dato-cardine, da sempre, della operazione di Granatiero), i racconti-poemi, e poemi epici a loro modo, magari di epica "rovesciata", sono scanditi in sequenze mirabili anche scenograficamente efficaci, da andante "grave" in atmosfere da notturno, fino alla invocazione liberatoria finale di "La sàrcene": Jàneme, nò, ne nghiange( anima, no, non piangere…) o la scoperta, in "Scúerzele", della "spoglia" del mondo ripescato e riproposto - e vagheggiato ancora. I due versi finali sono particolarmente significativi: introducono, e per la prima volta, nella fermezza-fede di Granatiero in quel deposito memoriale di parole, una sorta di sfiducia dolorosa che sembra investire perfino il compito, quale che sia, del poièin.

Poi di Tesio potranno assumersi le notazioni intorno alla terzina lirico-narrativa che Granatiero adotta da sempre ( con un accenno almeno al metro settenario assunto, con ritmi variabili dal giambico all'anapesto, al trocaico-dattilico) e potrà dirsi: "La terzina diventa una scelta metrica perfettamente omologa al mondo che la detta". E potranno condividersi, sempre con Tesio, i rilievi intorno all'enjambement, che sottolinea una consecuzione piuttosto che una discontinuità.
Quanto alla rima ( ma qui il discorso investe tutto Scúerzele e trova il massimo della devozione applicativa nel testo "Cotaparte" che presenta alternate o variamente baciate le sole uscite "arte" "atte" ), con la funzione dominante tipica di collegare l'aspetto melodico a quello semantico e di accentuare la semantizzazione delle parole, in molti casi tende ad evidenziare un valore autonomo del significante rispetto al significato; il significante insomma, viene proposto se non contro gli enunciati, almeno indipendentemente da essi e sembra attingere e rivelare elementi inconsci. Di qui passa il momento fonosimbolico della poesia di Francesco Granatiero, un aspetto evidenziato da alcuni suoi lettori, che in Scúerzele trova ulteriore campo applicativo. Al proposito Franco Brevini parla (4) di "ricca tessitura fonosimbolica", sottolienando l'impegno del poeta a tener desto costantemente il livello di autoriflessività dei significanti. Ma non fino al punto, ritengo di poter aggiungere, da affidare il discorso al puro gioco dei suoni ( è assente, tanto per dire, l'onomatopea ).
La soglia di trasmissione comunque di significati è in Granatiero sempre vigile e in nessun testo il sacrificio degli enunciati appare totale. La riflessione metalinguistica sembra corrispondere alla esigenza operativa pre-poetica ( trasfusa nei due studi Dizionario e Grammatica ) di cui s'è parlato, piuttosto che alla volontà di attrezzare un costrutto del tutto privo di significazione con il malcelato intendimento di farne emergere soltanto elementi inconsci.
La poesia che segue e che trascrivo per intero, fa chiarezza, credo, sull'aspetto in discussione:



Furnesije

A i crestejène, a u munne,
sprùcete stràneje stràuse,
ca na parléte rume,
ggiargianèise. Sderrupe

ngúerpe na furnesije
de singhe e ssúene cupe
Bbóne o mala fegghianne,
angóre me chenzume

de paròule stramòrte.
Na vòuce annatavanne,
affunne, me strpòrte,
na vòuce o nu cummanne.

FRENESIA. Agli uomini, al mondo / scontroso estraneo strano, / ché una parlata rumino, / incomprensibile. Dirupa // un corpo una frenesia / di segni e suoni cupi. / Buono o cattivo parto, / ancora mi consumo // di parole stramorte. / Una voce altrove, / profonda mi trasporta / una voce o un comando.


Degli innumerevoli motivi di interesse che Scúerzele sollecita, uno, probabilmente quello di maggior rilievo, merita un approfondimento per quanto possibile, dopo le osservazioni di Pietro Gibellini: mi riferisco alla "memoria", che il critico traduce in durata del passato-presente, cifra persistente e ossessiva della poesia di Granatiero. Non mero ricupero del passato, non abbandono nostalgico ad esso, ma, in un movimento di probabile derivazione pasoliniana, linfa per una interpretazione vivificante del presente. Talvolta addirittura sembra prevalervi un carattere insolito: di essere meno un atteggiamento psichico che una sensazione fisica o fisicamente avvertibile.
Memoria, dunque, non nella tipica caratura nostalgica diffusissima presso i dialettali contemporanei, ma mezzo interpretativo che include certo l'assillo della verifica di efficacia ( la "durata" ) e dell'impiego ancora proponibile di parole stramorte nel presente - e con le parole, del mondo dalle quali è espresso -, ma anche dato concreto, per il poeta non più eludibile, al quale rapportare e sul quale fondare le aspettative future della poesia.

(1),(2),(3) : in Achille Serrao, Presunto inverno-Poesia dialettale ( e dintorni ) negli anni Novanta, Caramanica Ed., Minturno, 1999;

(4) in Le parole perdute, Einaudi, Torino, 1990.


Achille Serrao






Prefazione

1. Nell'introduzione a Puozzë Arrabbià' (1999), libro dell'esordio in dialetto di Assunta Finiguerra, Daniele Giancane avverte: "… si tratta di poesia neodialettale", di un poièin, cioè, non più ancorato alle esperienze realistiche del bozzetto paesano, al folklore, che ancora miete vittime presso i cultori del campanile, ma " poesia tout court che ritrova le ragioni dell'io, dello scandaglio profondo dell'essere, del rapporto dialettico con il mondo circostante". E versificazione, occorre aggiungere, in un dialetto periferico ( quello di San Fele, una cittadina montana in provincia di Potenza ) usato come uno degli innumerevoli codici dell'universo plurilinguistico contemporaneo, promosso al rango di lingua di cultura, cioè d'arte.
Insomma, nel segnalare una testualità egregia, entrata a buon diritto nel novero delle più autorevoli prove in "altra lingua", Giancane ci fa avvertiti di una nuova presenza poetica attiva, di una nuova voce proveniente da una zona a margine del nostro Paese, fuori dell'asse di produzione Milano-Roma-Napoli, lungo il quale la poesia in dialetto si era espressa ai massimi livelli fino ai primi del Novecento.
La lingua della Finiguerra è codice della comunicazione di un paese che conta poco più di quattromila anime ed è ricompreso in un'area che condivide in buona parte le caratteristiche degli altri dialetti meridionali, con apertura ad esiti di tipo campano e pugliese. Per inciso, fra i caratteri sonori di questa espressività, sono frequenti - e di tutta evidenza alla lettura - la occlusiva apico-dentale sonora e rafforzata a sfondo cacuminale (dd) e la vocale indistinta ë.
Tale dialetto è privo di tradizione letteraria, se si eccettuano le esperienze, nella stessa area, di Vito Riviello e di Raffaele Nigro, poco significative, a dire il vero, perché di scarsa entità per sé e a fronte della più impegnativa e assorbente poesia in lingua del primo, e della premura narrativa del secondo.
La circostanza, se da un lato favorisce il compito della Finiguerra nel creare il precedente letterario, dall'altro comporta l'assunzione di notevoli responsabilità, soprattutto per quanto riguarda l'instabilità della grafia e i tentativi di sistemazione segnica dell'idioma.


2. La "fragilità" creaturale che Puozzë Arrabbià' evidenzia, e così "i drammatici interrogativi dell'esistenza" e " le pulsioni di una coscienza turbata e vanamente protesa alla ricerca di un ubi consistam " e, ancora: "l'onnipresente pensiero della morte" (Alfonso Ilario Luciano, prefazione al volume), sono anche i tratti dominanti di questo Rësciddë , esasperati ora, se mai fosse possibile, ed emblematicamente fin dal titolo dell'operetta. Rësciddë è l'uccellino nostrano dal becco appuntito, di dimensioni minute, detto scricciolo per il suono che produce: una sorta di secco crepitìo.
Fragilità, dunque, di un soggetto sensibile esposto ai colpi della sorte e poesia che origina dal dolore ( ne è spia costante il lemma croce, su tutti, e poi cuore, sede afflitta e afflittiva dei sentimenti ),da un lato; tutto un lussureggiare crepitante di metafore,dall'altro, forse a sconto o a compenso di un vulnus ( ricordare il dickinsoniano " è la ferita che eleva il canto"), sicuramente di una gracilità psicologica che giunge da molto lontano, si direbbe dalla nascita più volte invocata come responsabile radicale di una pena senza remissione:

Nun só ijë... só nnatë malamendë
pringëpë e rré n'aggia avutë appriéssë
…………………………………………….
rë ttarpë solë më pònnë tëné a lucë

( Non sono io … sono nata malamente
principi e re non ho avuto al seguito
…………………………………….
soltanto le talpe mi possono fare luce)

e che si ripropone ora come una sorta di condanna maudit alla instabilità e all'impotenza. Opportunamente di nuovo Giancane: la Finiguerra " cerca la metafora originale, l'imprevedibile immagine, il verso che capovolge la tranquilla sintassi quotidiana", con formulazioni, si può rilevare, condensate
in un rapido giro strofico, peraltro "rinserrato" dalla rima frequente e affidato alla misura endecasillabica, di rado a metri minori. E con formulazioni, mi sembra di poter aggiungere, che tendono ad eliminare i morfemi, ossia gli elementi che fissano il rapporto logico e grammaticale fra le parole della frase, e a valorizzare invece i semantemi, cioè i termini che propriamente esprimono il significato. I semantemi sembrano godere di una evidenza esclusiva, quasi simbologica, caricandosi di significazioni al limite del possibile e assumendo una forte capacità traente del senso intero del discorso. Agevola l'orientamento segnalato, l'indubbio "spessore" semantico, intraducibile a volte a pie' di pagina, di termini-chiave che appartengono, per conio, solo alla lingua sanfelese e che sono evidenza verbale di una antico, arcaico humus e della cultura popolare dell'area.
Imprevedibilità di metafore e "rivoluzione" formale sono spie di una condizione psichica non pacificata, tesa piuttosto, come osserva Luciano, alla ricerca costante di un ubi consistam:
Cumë nu pembonjë a vita mijë
acquë accogljë da tuttë i latë
( Come un pomponio la mia vita
raccoglie acqua da ogni dove )

In questo stato tensivo ha ruolo privilegiato il rapporto d'amore, neppure esso però in grado di assicurare almeno una labile certezza dell'esistere. Tale rapporto si rivela, fuor dei rari luoghi di abbandono e di dedizione, spesso terreno di incomunicabilità, quando non di aperta denuncia e di "grido" perfino ( si legga, al proposito, la lirica che si avvia con il verso Së l'anëmë avéssë datë o diavëlë - Se l'anima avessi dato al diavolo).
La denuncia e l'invettiva compendiano un atteggiamento consono ad un'anima piagata. La Finiguerra vi ricorre spesso, talvolta con toni di splendida blasfemia, come nei testi rivolti a Dio e in cui il dramma "interiore" s'apre ad una coralità sofferente in cui riconoscersi con profonda pietà: Ijë të cunduannë Ddijë / a cambà' cumë l'uommënë dë Terrë - Io ti condanno Dio / a vivere come gli uomini della Terra; Ijë nun të dichë grazzjë patraternë / pë nun m'assuggëttà a lucia tojë - Io non ti dico grazie padreterno / per non assoggettarmi alla tua luce ). Qui probabilmente il poeta raggiunge gli esiti più alti dell'intera silloge.
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3. Gli spunti interpretativi assemblati inducono a concludere per una sorta di ideologia del negativo verso cui sembra inclinare questo Rësciddë. E, in verità, se è proponibile la congettura, lo è tenendo nel debito conto il peccato originale, se si può dire, di questi testi e considerare, con una lettura partecipata, il percorso poetico alla stregua di un percorso psicanalitico teso, come si conviene, a far emergere il fondo, il subconscio stratificato del poeta. Allora, con il riconoscimento della dolorosa, virile e fiera, in ogni caso affascinante operazione, potrà cogliersi la fragilità di un essere che offre i suoi sensi riposti con candore, onestà e autenticità difficilmente riscontrabili nell'officina poetica contemporanea, e che fa della poesia non un sostituto della vita, ma la vita stessa.

Achille Serrao






Prefazione


Cronache avare per Ferruccio Ramadori e il suo Gente bastarda al suo apparire (1975), se si accettuano le notazioni brevi di Renzo Zuccherini, Antonio Carlo Ponti e Cesare Vivaldi ( rilevava costui, in una noterella poi ripresa nell'opera garzantiana Poeti dialettali dal Rinascimento a oggi, l'efficacia di certi risultati e la fissità allucinata e grottesca della poesia ramadoriana ).
Eppure, quel volume smilzo, grondante rabbia e dolore, che puntava il dito contro il mondo per il senso di impotenza e di rassegnazione in cui è forse ancora crocifissa la gente montanara della Valnerina alla quale Ramadori appartiene per nascita, consentiva di registrare un primo dato significativo dell'operazione: la forte sintonia fra i temi prescelti e la rudezza del dettato. Non una lingua squisita (secondo le richieste pasoliniane ) il dialetto invocato a testimone della emarginazione e del dolore, della appartenenza ad una realtà vissuta come perdita costante e irreversibile, ma una lingua disadorna, veicolare, del tutto remota dalla astrattezza della koiné letteraria.
Il successivo volume Attenti al treno del 1984, confermava l'adesione rilevata fra temi e codice prescelto. In questa fase creativa il tratto autobiografico si proponeva come zoccolo esperienziale cui attingere sistematicamente per attestare fino in fondo, in una sorta di ideologia del negativo appena corretta dall'uso esteso dell'ironia e dello sberleffo, tutte le poste della sconfitta non solo esistenziale.

Con questo Le coordinate ( che peraltro ricupera in sezioni tutto il lavoro pregresso, per evidenziare una continuità operativa esemplare nel lento venticinquennale cammino verso una personalissima riconoscibile necessità espressiva ), il discorso - prima orientato a rendere il senso del provvisorio, della immedicabile sconfitta o, se si vuole, la consapevolezza del bilico, della rabbiosa impotenza di una intera comunità di fronte agli eventi - propone alcuni essenziali scarti innovativi: il primo, l'inedita centralità lirica dell'io, fin qui sacrificato, appunto, alle richieste del coro in una terra individuabile anche nei tratti paesaggistici e naturali, nei personaggi delegati per lo più ad emblematizzare l'intero contesto antropologico, le sue debolezze, i tic, le aspettative. L'io ora si pone, esso medesimo, come polo attrattivo delle dilacerazioni, delle perdite, delle attese, dei soprassalti impreveduti della memoria, delle accensioni del ricordo.
In secondo luogo, e come diretta conseguenza della innovante presenza del soggetto poetante, in Le coordinate il testo si avvantaggia di una nuova pensosità, di una maggiore disponibilità ad accettare gli eventi negativi, a coglierne i rimedi, come avviene per la pigna de cocciu
che quanno se ruppia
cê se 'ndurcinava un filu de ferru
'nturnu e
tornava meglio de prima.


Ma l'accettazione, sembra sostenere il poeta, è possibile solo con il sussidio della ricchezza sapienziale del passato, che di certo asseconderebbe un modo più elementare, genuino d'esistere: così l'orologio perderebbe i rintocchi, smetterebbe di segnare l'ora se prestasse orecchio al gallo, se sentisse lu gallu cantane. Il ricordo nella poesia di Ramadori svolge, dunque, una funzione fondamentale, ma, si badi bene, non ha connotazioni di nostalgia; si propone piuttosto come linfa per una interpretazione vivificante del presente. Talvolta sembra addirittura prevalervi un carattere insolito: quello di essere meno un atteggiamento psichico che una sensazione fisica o fisicamente avvertibile. Ricordo, quindi, non nella tipica caratura nostalgica alla quale ci ha abituati tanta poesia novecentesca, ma mezzo di interpretazione che include, certo, l'assillo per la possibile perdita di quanto si possedeva e che perciò manca per una pacificante invocazione del presente, ma anche dato concreto al quale rapportare e sul quale fondare le aspettative future.

Il proposito di riassegnare un ruolo fondante al rammemorare è perseguito con un verso scevro da affanni, da ansiose articolazioni o fulminazioni espressive: Di frequente monolessematico, il verso aspira prevalentemente alla narratività ( ne sono spia costante i tempi verbali storici ) assumendo spesso l'andamento della fiaba, del racconto (innumerevoli gli esempi ), del breve densissimo ritratto di vita ( si legga, per tutti, Nonnu ramadoro ), talvolta nella forma della ballata di intonazione popolare o della filastrocca, perfino dello scioglilingua:

Ah!
Ariquà arilà
arisò! Arijo
Ariquajone
ariquasune

E' lontana da questa poesia ogni tentazione-trappola realistica-folklorica, di bozzetto, che ancora miete vittime presso di noi fra gli ostinati cultori del campanile paesano. Al contrario, questo Le coordinate di Ramadori è ben rispondente alle richieste di nuova espressività poetica che passano sotto il nome di neodialettalità. A cominciare dall'uso del dialetto, quello dell'alta valle della Nera, che qui risulta profondamente interiorizzato e reinventato nella interiorità dell'autore
( come avviene ad altri dialettali di vaglia, Loi e Pierro per esempio ) e disponibile ad apporti linguistici italianizzanti e idiomatici dal ricco patrimonio della Valnerina. In alcuni passaggi del racconto e per fornire, forse, ulteriori elementi di comprensione del testo, Ramadori inserisce perfino veri e propri lacerti narrativi in lingua italiana.
Insomma, in relazione alla perspicuità degli esiti da raggiungere, il poeta ritiene essenziale arricchire di quegli apporti il codice di frequenza comunicativa quotidiana, per renderlo malleabile, quanto più funzionale possibile a necessità stilistiche e di struttura della poesia. E inevitabilmente, ineluttabilmente direi, per questa via favorisce anche il distanziamento della operazione personale dalle tentazioni folkloriche di cui si parlava, alle quali solitamente si accompagna un uso puristico, filologico del dialetto.

Questa breve introduzione non esaurisce di certo i molteplici motivi di interesse che il libro sollecita.
Sarebbe stato doveroso un cenno, per esempio, alla parallela e non meno importante operatività pittorica di Ramadori, con un approfondimento sulla ipotizzabile connessione fra pittura e poesia (in Le coordinate se ne possono cogliere tracce: si vedano, fra gli altri, i testi Antina alla mia mostra o Carpii li papaveri e le spighe de… ); e, forse, sarebbe stato necessario più del fugace riferimento, che s'è fatto, all'ironia e al sarcasmo caratterizzanti la poesia ramadoriana e probabilmente invocati per stemperare la rudezza del dettato, distanziare da sé, talvolta, l'afflizione profonda provocata dal dolore.
Lo spazio concesso non ha consentito tutto questo. Permette però di concludere con l'invito al lettore di disporsi con devozione, con la devozione che l'autentica poesia richiede, all'ascolto di una voce esemplare nell'officina poetica del nuovo secolo, attivissima ma non sempre persuasiva.

Achille Serrao




Prefazione


1.Una lettura interpretativa del Novecento poetico italiano, allo stato

dell'arte non può più prescindere dalle esperienze testuali comprese sotto la generica etichetta di "poesia dialettale". L'esigenza di una lettura globale veniva evidenziata nel 1978 da P.V.Mengaldo nell'articolatissimo studio premesso al suo Poeti dialettali del Novecento (Mondadori), con la proposta ad un più vasto pubblico di individualità "dialettali", mai prima in così gran numero raccolte in un antologico insieme ai poeti in lingua sotto la comune intitolazione di "Poeti italiani".

Al saggio mengaldiano ( che peraltro segnalava la progressiva "specializzazione" del dialetto come lingua poetica, via via sottratto alla condizione naturale di strumento d'uso generalizzato e quotidiano di "lingua della realtà"), hanno fatto seguito, nel ventennio appena concluso, numerosissimi studi, testimonianza del rinnovato interesse verso un fenomeno in continua espansione - e proprio, paradossalmente, in un periodo di integrazione delle culture e dei linguaggi. In una delle ricognizioni, Le parole perdute (Einaudi, 1990) di Franco Brevini, l'analisi socio-culturale e linguistica si spingeva fino alla produzione poetica dialettale degli anni novanta consentendo di fare il punto su un patrimonio letterario nella sua fase evolutiva.

Le generazioni che hanno contribuito e ancora oggi attivamente contribuiscono ad accrescere quel patrimonio, configurano la poesia neodialettale, così definita dal critico per distinguerla dalla dialettale elaborata fino agli anni Sessanta; a partire dagli anni Sessanta, la scelta del dialetto viene operata dagli autori, spesso dopo una lunga sperimentazione in lingua, o per una "profonda ansia di corporeità linguistica di fronte all'astrattezza, all'artificio alla derealizzazione di quella specie di protesi comunicativa che secondo taluni è divenuto l'italiano veicolare", o per un generico bisogno di comunicare affidato alla verginità di una parola, spesso di aree linguistiche marginali non metropolitane, ancora non usurata.



2. Vincenzo Luciani offre, con questo Frutte cirve e ammature,un libro totalmente "dentro" le problematiche neodialettali, una ulteriore testimonianza testuale del fenomeno fugacemente delineato, cioè del dispiegato ricorso ai dialetti come deposito linguistico-espressivo al servizio della poesia. L'attuale proposta lucianea in dialetto ha un antecedente in italiano condensato in un libro smilzo del 1985, Il paese e Torino, affettuosamente prefato da Diego Novelli.

Il volumetto, benchè in lingua, contiene a mio parere - in una sorta di disegno programmatico ( involontario forse, ma quanto naturale e radicato) - le premesse alla dispositio tutta dialettale che si rivela oggi. Si ponga mente a: i titoli dei singoli testi, le tematiche assunte, l'oscillazione continua paese ( Luciani è di Ischitella nel Gargano) - città ( una Torino "adottata" e sofferta per emigrazione), tutto un andare e venire che tenta di risanare la "ferita" aperta dall'allontanamento, il ricordo e la nostalgia; e si coglierà più di un attestato della oramai antica vocazione del poeta alla dialettalità nonostante il codice impiegato. Vocazione confermata, peraltro, dalla insospettata ( o forse sospettabile, a questo punto) "traducibilità" della lingua di Il paese e Torino in versioni dialettali quindici anni dopo in questi Frutte cirve e ammature. E' accaduto per testi come "Se di te mi ricordo", "Per l'anime dei morti" e "Parole per un anno", travasati nella recente fatica sotto i titoli "Se de te m'arrecorde!", "Fiche e puredda sicche" e "Parole pe n'anne". E mi pare di tutta evidenza che non si tratta di un puro e semplice esercizio di traslazione in altra lingua.



3. Il paese e Torino nasce dalla esperienza della emigrazione, Frutte cirve e ammature la prolunga e ne trae conseguenze.

Il poeta ( o lo scrittore, più in generale) trànsfuga dalla propria terra, diviene spesso depositario e interprete di ragioni del vivere ineludibili, costrittive, rinserrato come si scopre nella morsa del "qui e altrove" , dalla quale raramente riesce a tentare sortite. Non c'è scrittore emigrato o "fuggitivo" che non abbia fatto i conti con il distacco dalle origini ( e dalla lingua delle origini, forse il più traumatico ), cui connette quasi sempre il significato profondo della intera vicenda personale, umana e culturale. La piccola patria abbandonata finisce allora per divenire ricordo, per suggerire e sostenere prove di ricupero anche antropologico, oltreché linguistico, delle radici.

Luciani non si sottrasse alla regola nel 1985, quando si trasferì in Piemonte per ragioni di lavoro, non vi si sottrae oggi che vive lontano dalla sua Ischitella (nu cane bbianghe sope i tuppe che ddorme - un cane bianco disteso sopra i colli addormentato). Per dar "voce" alla propria psicologia annodata, invoca innanzitutto il "rimedio" della parola:



Jucanne p'i parole

je retorne guaglione.

Nu sciate avaste a scumugghjà

sotte a cènere u foche

d'u tempe de na vote...

( Giocando con le parole/ io ritorno bambino. / Un fiato basta a scoprire / sotto la cenere il fuoco / del tempo di una volta …);



e poi, ancora:



Nun gnè avastate scutelà i scarpe

vestute a ffeste ce ne jie lundane;

forte int'u nase pòngeche dda terre.

Se de te m'arrecorde!

(Non è bastato scuotere le scarpe / vestito a festa andarsene lontano ; / forte nelle narici punge quella terra. / Se di te mi ricordo! ).



Ma il nostalgico rammemorare a fronte della vita che si sta vivendo, riproposto in quasi tutte le poesie della raccolta ( un assillo monotematico), non consente, come in altri poeti che vi hanno fatto ricorso, una serena non problematica invocazione dell'oggi. Il "luogo", fisico ed emblematico insieme, del confronto memoria-presente, il luogo occasione dei "ritorni" periodici e degli incontri che sollecitano quel confronto, è la Festa del patrono dove si dicono "parole per un anno", in attesa della prossima annuale festività religiosa. Quelle parole non sortiscono alcun effetto neanche sentimentale, sospese come restano nell'aria, lassanne ammutulute tutta a vie (lasciando ammutita tutta la via). Insomma il passato non puntella più l'esistenza e il poeta è lì a registrare i segni del decorso inarrestabile e immedicabile del tempo: non è possibile raccontare di nuovo la favola antica, dichiara. Sicché la tensione al riscatto "radicale", che vuol dire rientro nel fisico e psicologico possesso dei sapori, odori, colori, affetti e di quant'altro sia indizio di una antropologia "tradita" ( o supposta tale) con l'allontanamento, si trasforma nella constatazione amarissima della impossibilità di cogliere i "frutte cirve" del passato. La presa di coscienza ( i "frutte ammature" del titolo ) produce una sorta di bilico, come si diceva, fra il qui e l'altrove ( Oi Ceccì, che ddestine, / a Torine spasemà Matenate / e a Matenate suspirà Torine … - Francesco, che destino / a Torino spasimare per Mattinata / a Mattinata desiderare Torino .. ), che è quanto dire la ricerca di un ubi consistam pacificante.



4. Bastino, nel breve spazio concesso ad una introduzione, i prelievi operati dal lato dei temi. La chiave psicologica (non critica ) che rimette al grado di intensità pulsionale e sentimentale del ricordo ( e alla sua débâcle ) il senso e gli scopi dell'opera, è una delle possibili vie da seguire per una lettura interpretativa del testo. Altri potrà cogliere elementi esegetici integrativi del percorso prospettato.



5. Frutte cirve e ammature non è una raccolta di poesie. Configura piuttosto, sia pure nel rilievo e nella valenza autonoma delle singole poesie, un racconto-poemetto ( si notino i tempi verbali storici ricorrenti e prevalenti ) di una vicenda autobiografica, vibrato - in apparenza - su una sola corda sentimentale ( il ricordo ) e, in realtà, foltissimo di sollecitazioni consonanti. L'iter narrativo è attivato dalla notevole capacità del poeta di delineare i "personaggi", vivi e morti, interpreti e protagonisti della storia. Non manca ( non poteva mancare ) la madre, che è "figura" depositaria della lingua adottata, cioè il dialetto trasmesso con il fiato e il latte dal quale il poeta non si è mai svezzato: si legga la splendida "Nu vele de sonne", una preghiera sommessa che vale, per sé, l'intera ideologia del libro e si osservi, di seguito, quanto le presenze si affaccino sul proscenio del "teatro" lucianeo nel rispetto sì di una realtà vissuta, ma "trasfigurati" nella invenzione poetica fino a risultare quasi tipizzazioni e stilizzazioni di virtù e di vizi. Quando si sarà colto tanto, tutto il libro apparirà pervaso dalla esigenza di rendere il conto (conto lirico, certo ) di uno spaccato socio-antropologico in via di estinzione, e si potrà rimeditare sulla funzione stessa del ricordo che è apparsa dominante, e anzi assorbente in qualche modo, l'intero significato dell'opera. Potrà allora attribuirsi ad esso un ulteriore compito: quello del "ripescaggio" nel passato di materiali indispensabili al racconto, incluse le tipicità figurative di cui s'è parlato.







6. Ma la lettura dei testi individua soprattutto nell'apparato formale, sia con riguardo al lessico che allo strumentario metrico-stilistico utilizzato ( metro, naturalmente, e giro strofico enjambements inclusi, assonanze in prevalenza, di rado rime ), il punto di forza del lavoro lucianeo, evidenziando ciò di cui il poeta aveva già dato prove nel libro in lingua dell'85: un lessico "diretto", funzionale sia a necessità fonico-ritmiche che "contenutistiche": la parola di Luciani mostra scarsa disponibilità ad assumere sensi altri per sovrapposta semantizzazione o per metaforico slittamento semantico; mostra, al contrario, una attitudine a conservare il senso originario, vivificato per se stesso e quasi gelosamente nella "discrezione" del racconto.

In altri termini, il testo reperisce la forza del suo consistere proprio nella lingua impiegata ( il dialetto di Ischitella ) e soprattutto nel modo di impiego, in uno svolgimento "naturale", diretto, come si diceva, sia sotto l'aspetto nominalistico che sintattico-grammaticale.

La metrica adottata risponde ad un progetto mensurale unitario in cui l'endecasillabo, nella sua variegata tipologia, ha compito precipuo, con rarisime concessioni al verso breve.

Ne scaturisce un discorso segnato da una raffinatissima levità del tocco, frutto evidente di una elaborazione versicolare puntigliosa e sofferta che sortisce un miracoloso equilibrio fra piano della lingua e narrazione.



Frutte cirve e ammature è opera prima in dialetto del nostro autore, si raccomanda per una indiscussa maturità, da me evidenziata solo in alcuni degli aspetti maggiori, testimonia della nascita di una nuova fonte di poesia cui, da qui da ora, occorrerà rivolgere adeguata attenzione in attesa di un sicuro svolgimento e di affermazione certa, perché - e concludo con una riflessione di un grande indimenticato poeta in dialetto, Mauro Marè - " Se la morte come limite accresce il senso di vivere, la poesia come assoluto illimite infinitamente lo dilata. Unica antitesi alla morte, la poesia include tutte le possibili partenze ed esclude ogni arrivo. Essa ti àncora ad un incessante ancòra".