Cesare Ruffato:
un paradigma per la poesia dialettale

1. Una lingua per il poeta

Ho tra le mani Scribendi licentia, summa della produzione dialettale di Cesare Ruffato. Apro il volume, ancora profumato di tipografia, e trovo queste parole a conclusione di una sobria premessa: «ritengo questa mia libera messa in scrittura un affettuoso etico riconoscimento verso la lingua materna e un tentativo sfiorato da nostalgia di corrispondere agli intimi richiami, particolarmente sottili e inattingibili, della sua voce».
Ruffato è poeta colto e sofisticato, un aristocratico cultore del trobar clos votato alla mescolanza di stili, di registri, di lessici e di temi. A metà del cammino della sua vita decide di passare al dialetto, cioè a una lingua che, almeno a prima vista, sembrerebbe condannata a una povertà di forme e di contenuti antitetica al suo progetto poetico. Come linguista e come parlante nativo di un dialetto, che ha imparato l'italiano come lingua seconda, mi chiedo del tutto naturalmente quali ragioni abbiano spinto Ruffato a compiere questo passo - e parlo ovviamente delle ragioni rese pubbliche e condivisibili dal testo stesso, non di inaccessibili ragioni umane e personali.
Come linguista e come parlante nativo di un dialetto, percepisco subito che la scelta di Ruffato è una scelta estrema e radicale, per quanto apparentemente ovvia: è la scelta di trattare il proprio dialetto materno semplicemente come una lingua, per ritentare in quella lingua la scommessa espressiva già tentata con l'italiano. In dialetto come in italiano, Ruffato tende la sintassi, contamina e sollecita il lessico, spinge le risorse costruttive, espressive e figurali dello strumento ai limiti del dicibile. Con una differenza, e non da poco: la ricchezza di stili, di registri, di parole e di temi che una lingua matura e collaudata come l'italiano offre tra le pieghe dei suoi svariati usi e dei suoi lessici plurimi, deve essere quasi integralmente costruita nel dialetto.
Prima di descrivere alcuni caratteri salienti della lingua di Ruffato dialettale, vorrei cercare di chiarire in che senso la scelta di Ruffato non è banale - perché non è banale trattare il dialetto non come la lingua di una cultura e di una comunità dialettale, ma come una lingua e basta. Per sottolineare questo punto, credo non sia fuori luogo sbalzare il ritratto di Ruffato poeta del dialetto sullo sfondo della sua antitesi, e cioè della figura del poeta di un mondo dialettale.

2. Poeta in dialetto e poeta del mondo dialettale

Nelle comunità dialettali più tipiche - che non sono la Roma di Belli, o la Milano di Maggi, Porta o Tessa - non c'erano poeti, anche se circolavano testi orali indubbiamente poetici. Il poeta del mondo dialettale, che si identifica nella comunità dialettalee nella sua cultura, nasce con la crisi del dialetto come lingua viva della comunità. E’ quindi il poeta non di una realtà ma di un'idea, quando non di un’idea che si prende per realtà.
Il poeta del mondo dialettale ha un sincero attaccamento al dialetto perché è attaccato al mondo che il dialetto esprime. Sente che la fine di entrambi è prossima e vorrebbe ritardarla, o evitarla. In perfetta coerenza e buona fede, è convinto che scrivere poesie vernacolari per lingua e orizzonti su un giornale locale o in un opuscolo della Pro Loco dia un contributo alla sopravvivenza del dialetto come lingua viva della comunità.
Credo che sia ingeneroso infierire contro questa figura di poeta, perché tutti quelli che hanno imparato a nominare le cose e le persone care con i suoni familiari del dialetto sanno che cos'è la nostalgia per una comunità al tempo stesso di territorio, di lingua e di comunicazione, una comunità a portata di voce che potrebbe raccogliersi tutta su una piazza o in una chiesa.
Inoltre, nel momento in cui le comunità dialettali sono sparite o stanno per sparire, mentre la sopravvivenza del dialetto come lingua parlata è sempre più affidata a un bilinguismo consapevole e raffinato, è giusto e nobile cercare di salvare un patrimonio culturale dalla dispersione - il dialetto allo stesso titolo di un monumento o di un paesaggio umano.
Eppure, al di là dell’empatia umana, non si possono non vedere i limiti ai quali una poesia dagli orizzonti vernacolari condanna la lingua di cui si serve e che vorrebbe promuovere. I suoi contenuti si identificano con i contenuti affettivi e culturali codificati nel dialetto. Un purismo ossessivo e difensivo vede come una minaccia mortale l'innovazione e la contaminazione di cui vive ogni lingua viva. I destinatari del messaggio sono gli stessi membri della comunità, che ricevono tautologicamente in versi e rime i contenuti stessi del loro vivere quotidiano nella migliore delle ipotesi, e nella peggiore una ri-creazione allucinatoria e inautentica di un mondo che il poeta di fatto non condivide. L’interesse per la lingua come segno di identificazione della comunità prevale sull'interesse per la lingua come giacimento di risorse in gran parte inutilizzate per l'espressione, la simbolizzazione e la comunicazione. Se si tratta di conservare un patrimonio culturale, d'altra parte, gli autentici monumenti al dialetto sono i dizionari, le grammatiche e i repertori, che sono in grado di documentare con esattezza una lingua e una cultura per come realmente sono state.
Il poeta che mette tra parentesi il legame tra la lingua, un territorio, una cultura e una routine comunicativa, viceversa, affranca il dialetto dal suo destino di ancella povera di un mondo povero, liberando al tempo stesso il potenziale di creazione e espressione che il dialettoracchiude in sé come ogni lingua. Un dialetto è, glottologicamente parlando, una lingua, ma è lingua di esperienze povere e di orizzonti limitati. Delle lingue riconosciute come tali dai filologi, gli manca la molteplicità delle tastiere, e l’accumulo lessicale che ne deriva. Il poeta sensibile, però, è capace di guardare nella lingua, e di capire che l'ostacolo non è interno, ma esterno. Egli non confonde i limiti contingenti, storici, etnografici e geografici del dialetto con un limite delle strutture, che viceversa sono pronte a compiere il lavoro di qualsiasi lingua. Egli si prende dunque cura della lingua come di un embrione prezioso e fragile, lo nutre di cultura e di esperienza fino a farlo maturare. Basta questo perché a ogni poeta dialettale si apra, nella scala di grandezza che gli è propria, la strada che fu di Dante: creare insieme un contenuto e la sua espressione, spingere sempre più in là al tempo stesso il limite di ciò che si può dire e il repertorio delle risorse per dirlo.
Per arrivare a questo punto, però, occorre rompere il guscio della cultura vernacolare e liberare la lingua come lingua. La viva voce diventa scrittura. Il corpo delle parole perde il contatto con i suoni del mondo vissuto, che il parlante nativo custodisce nel ricordo come il suono delle campane o lo scroscio della pioggia sul tetto di casa, ma diventa solida pietra, capace di dilatare la sintassi e di differire il messaggio nello spazio e nel tempo. Da strumento al servizio dello scambio diretto e effimero di povere cose, il lessico è pronto a mutarsi in strumento di espressione differita di tutto ciò che può essere detto, dentro e fuori di noi, in cielo e in terra. I suoi messaggi non si spengono dentro i confini di una piccola comunità, ma si aprono a un destinatario potenzialmente universale. La poesia in dialetto condivide insomma il destino di ogni poesia.

3. La lingua di Ruffato dialettale

Con questo non voglio dire che la scelta di poetare in dialetto abbia una ragione univoca e semplice. Ma ritengo che il progetto di promuovere la lingua sia la ragione più qualificante, e quella dis egno sicuramente positivo. Altre ragioni ci sono, ma sono piuttosto di segno negativo.
La scelta del dialetto è certamente una fuga dalla «lengua rompibale», «fora dal spotico / incancrenio de la lengua buro / cratica de lege» verso «na ecolingua / grembo e marsupio che abita alita / riscata el sogno». Articolando i suoi messaggi in dialetto il poeta si lascia alle spalle la

Fadiga boia destegolare
la parola materna nel talian
ufficiale impirare bocaboli
de festa patentai de lusso
che via crucis ubiquovadis supra
nubem col detato bàtare le dopie
crivelare l'esse impura de la pura
la caca articoli e pronomi punti
virgole predicati. Un disastro
el senso sorvolante consecutio
temporum congiuntivi vadi fuori
paleti polissiòti de gramatica
e sintassi.

Nel momento dei lutti e dei rimpianti inoltre, il dialetto si presenta naturalmente come «una teca dell'io che lo difende dallo svenamento culturale del simbolo, da eccessi di straniamento e stranierismo», come

’na lengua materna che viaja
da le vissere alla metafora
un tesoro de luce fogo acqua aria
e sostanse che ne dà vita.

Ma alla fine non si può non vedere la volontà imperiosa di compiere in dialetto l'edificio poetico iniziato in lingua - di costruire un monumento poetico al potenziale espressivo e costruttivo del dialetto.

3.1. Il lessico

Del dialetto materno Ruffato conserva un nucleo condiviso - formato dalla fonetica, dalla grammatica e dal lessico di base - nei confronti del quale il poeta è rispettoso fino allo scrupolo. L’innovazione, che pure è appariscente, colpisce la parte più mobile della struttura, il lessico, con una doppia strategia, di immissione dall'esterno - il prestito - e di creazione dall'interno: la neoformazione. Ma anche qui occorre fare una precisazione. Il prestito, quantitativamente massiccio, tocca lo strato più estrinseco del lessico, e cioè la nomenclatura, la pura e semplice istituzione di etichette per le cose e i concetti estranei al mondo dialettale, mentre gli strati funzionalmente più centrali e attivi, e in particolare i verbi, sono formati sfruttando il patrimonio e il potenziale di formazione interni alla lingua.
I prestiti sono tendenzialmente adattati all’ambiente fonetico e morfologico del dialetto.
Nel caso dei prestiti italiani, di gran lunga i più numerosi, il mimetismo è facilitato dalla fonetica veneta, la più simile alla fiorentina, al punto che certi versi sono suggestivamente ambivalenti, come questo «vera sorpresa del tempo e memoria».
La fonte prevalente dei prestiti è fornita dai lessici settoriali, già intensamente scavati nella produzione in lingua, ma più straniati e stranianti nel contesto dialettale. Ruffato preleva senza remore «termini galeoti / biocenosi biotipo omeostasi entropia» (201) dalla medicina, dalla tecnologia, dalle scienze naturali e umane e dalla filosofia. Alcune volte, il travestimento è volutamente carnevalesco e sottilmente polifonico: lessemi come pissicologico, psicomedesine, robità, ad esempio, portano in scena una voce irriducibilmente restia a cantare all'unisono con l’ufficialità scientifica. In ogni caso, il risultato della massiccia immissione è un pittoresco miscuglio di stili e registri già sperimentato in italiano, con in più un aumento vistoso dell'ampiezza dell’oscillazione - tra ingegneria genetica e spalpòna, ad esempio, o tra ontofania e simiabile - dovuto al prevalere, nel dialetto, di una medietà attestata sul parlato-parlatoa fronte del parlato-scritto o addirittura dello scritto-scritto che definiscono la fisionomia attesa dell’italiano poetico:

L'ingegneria genetica impermalìa
squasi s'indamonia a cambiare i conotati
drento e fora de l'individuo, spalpòna
el scrito de la filosofia bio
logica

El fin sempre più fin de rason sbrufa
altro specio de na robità che tira
anca Dio traverso scarpie de segni
co bola de Bocacio “la teologia
niuna altra roba xe che 'na poesia
de Dio” simiabile solo dal poeta

El tema difesa dell'ambiente
ed emergenza rifiuti m'intavana

Le espressioni straniere conservano intatta la loro cruda estraneità, contribuendo alla diversificazione del testo:

Sabo de hooligans candeloti
irruenti, piere e bote
tepa bastarda vissià
giusta per la riva de Caronte

Ci sono inserti in lingua straniera che si estendono oltre il limite della parola, in provenzale - molt mi platz - in latino - Domus Dei sunt et porta coeli - e addirittura in serbocroato: braco srbi hrvati / muslimani, prekinite rat. Al di sotto della soglia della parola, radici straniere entrano in singolari pastiche: polisaund, disneybabele, urforsa, spetri killerini.
Le neoformazioni sfruttano con estro e inventiva la produttività dei meccanismi morfologici di composizione e di derivazione, che notoriamente le lingua utilizzano con grande parsimonia: in italiano, ad esempio, potrebbero esistere, ma non sono attestate, parole come elettrotrapano e brevezza. Ruffato si sbizzarrisce nella composizione - pensiamo a esiti strabilianti come cineoci (cineprese) o cinevita - ma soprattutto nella derivazione - da robità a scursofilia («la passione per abbreviare siglese»). La creatività lessicale celebra persino un suo orgiastico mito d'origine perso nell'infanzia:

Gran boresso xe capità che snana
randome nel fosso go butà
da genieto ’na carga gringola
de parole storpiae neologiste
[...[ me ga montà
la testa da poeta in erba
espressionista
Il capitolo più corposo della derivazione percorre ancora una volta una strada già collaudata nella produzione in italiano: si tratta del procedimento, di memoria dantesca, che crea verbi da nomi, da aggettivi o da pronomi per suffissazione - ne postissa («ci rende posticci») - o più spesso per prefissazione e suffissazione (verbi parasintetici): inlemmarne, imamarme(«immedesimarmi nella mamma»), s'intragedia, s'intàita (da tight); s'indamonia. La creazione di verbi denominali non è gratuita, ma ha una sua giustificazione funzionale nella volontà di prosciugare l'espressione, contrastando una costituzionale lentezza dell’iperanalitico fraseggio italiano: La morte latente / s'inorgana in oci scavai serciai. La stessa motivazione giustifica l'uso transitivo di verbi intransitivi:

La voce camina su e zo parole
nunsie de poesia vestigiale

3.2. La sintassi

Il fraseggio di Ruffato è esaperato, tormentato, sconquassato. I punti fermi, unico segno di interpunzione ammesso, scandiscono il flusso in moduli che non sembrano nemmeno frasi, dove le parole cozzano e si scavalcano come pezzi di ghiaccio trascinati dalla corrente del disgelo, sempre sull'orlo del nonsenso. Ma uno sguardo più attento scopre strutture ricorrenti, e in particolare una che combina felicemente il rigore della sintassi essenziale con le dissolvenze di struttura tipiche della poesia. Si tratta di un grappolo espressivo formato da un nucleo di frase seguito - con o senza punto fermo - da una cascata di nomi assoluti, giustapposti come in un elenco:

La barba s'imperla de note acquose
e tendresse de rime interne.
Ième duro su la soja parécia
bazar, accademie, ris-ci de ingòsso.

Nuvole in redingote scure e a ciara
de ovo al galà ghe ne combina
una par colore, bruschi de bombaso
stringhe de sùcaro filante
bomboli de nieve, s-ciuma s-ciàchete
su lungomare scoliere sagome
spiriti de persone care, fantasie
de piante e bestie rare
voce narcisa sferussà de lana
che bocola tresse tirabasi

Fiumeseli e fosseti lagrema
strucai come mosti, caliere
de colori per lane, borse
nei oci de veci sgarbelosi

Come nei testi in lingua, lo scheletro sintattico essenziale della frase - lo stampo del significato - si presenta in genere intatto, al punto che possiamo farne l'analisi logica, e individuare soggetti, predicati e complementi. Tocca invece alla cascata di nomi disarticolare la forma interna del significato in un labirinto di attrazioni e repulsioni del tutto prive di un supporto strutturale, dove nulla è irreversibilmente collegato a nulla e tutto può entrare in risonanza con tutto, dato che i nomi giustapposti non hanno alcuna relazione evidente né con la struttura della frase né tra di loro.

3.3. L'investimento figurale

La lingua poetica è il «nuo vestio de l'anima», che «s'indrenta / de più ne le robe vere a priori» con le sue «parole prime parentali / ne l'oro de la vita ciama / l'inconscio lalante corente». Basta citare questi pochi frammenti, e non si può non vedere come nella poesia di Ruffato un denso investimento figurale dissodi tutti i livelli della lingua, dal suono alle architetture del significato: l'ossimoro insegue la metafora, all'allitterazione fa eco l'omoteleuto, formando un chiasmo di figure.
Le figure non sono increspature reversibili sulla superficie del senso, ma strumenti per mandare messaggi nuovi spingendo al massimo la valorizzazione delle forme e delle materie condivise, foniche, disposizionali e concettuali. Quando c'è autentica creazione il testo, nella sua disarmante contingenza, si presenta come regolato da un'interna necessità, e le figure rappresentano la punta avanzata di questo capovolgimento di valore, per cui il più umile dei suoni, che è così semplicemente perché è così, senza un perché, diventa un ingrediente insostituibile di quel particolare «baso s-ciocà de sóni e senso».
Le metafore trovano i loro veicoli nelle povere cose che popolano la civiltà del dialetto, ma il gusto per la lingua povera e per le cose severe del quotidiano non avvilisce l'altezza del messaggio. La convenzionalissima fonte della verità diventa, trasposta in un mondo di cascina, «la pompa / de la verità», e anche i sogni si devono accontentare del veicolo modestissimo con cui si porta la terra sugli argini e i mattoni al cantiere:

La vita lagrema sconsolà
no cavemoghe la carioleta dei sogni

La mente è un «campo neurochimico tuto da arare», e non «tutto da scandagliare», come suona la traduzione italiana. Le tappe salienti della vita parlano il linguaggio della quotidianità:

Nassita e morte parole insupae
de pianto che taca e destaca
la spina del ciaro e del scuro
el resto tuto 'na papa in balansa

Senza rinuciare alle insegne del suo prestigio poetico, la luna scende tra gli animali da cortile

La luna in camporela sbaja
co sapiensa de oro bianco
mai la se sòsega nel spin de vento
del primo aludir de l'estasi
vera sorpresa del tempo e memoria

La voce che, come scrive Humboldt, «sgorga dal petto come l’alito dell’esistenza stessa», in poesia è materia prima privilegiata più che in altre forme di testo. Eppure non si sente, si può solo indovinare assopita sotto la superficie scritta. E allora tocca all'«ocio de la vose» il compito di vedere «l'ombria del son» - la «mora del son / de l'essere».
Ruffato rifugge dall'onomatopea e dal simbolismo fonico, probabilmente perché è poeta troppo disincantato per coltivare il mito di una voce mimetica. Non disdegna invece l'esibizione dell'omonimia, disarmante testimone dell'arbitrarietà dei suoni: «El fin sempre più fin»; «le raise ime de nóte che la nòte / lùcubra». I suoni non pretendono di dare voce immediata alle cose, come ad esempio in Pascoli, e la poesia è la più mediata e costruita delle arti. Ruffato è fine poeta del suono, ma di un suono ridotto a musica nella sua irriducibile alterità, che ricama la superficie del testo senza interferire con la trama del senso. Una volta riconosciuto questo limite, si assaporano nel testo le assonanze, delicatissime, quasi impercettibili - «Lama de senso intonà dal vento» - e le allitterazioni - «Seca pur straca sensa stonare» - e tutti i giochi cari ai poeti con il fragile corpo sonoro del senso - le parolete predilete petegole e le parolete margarite violete che inseguono

el senso del segreto, el segreto
del senso, el senso del senso
la voce del specio del silensio.

4. Una poetica del destinatario

Il poeta non usa la parola per esprimere ma per costruire senso - non per riproporre contenuti noti in una lingua trasparente ma per scavare l'essenza delle cose di dentro e di fuori in una lingua difficile, segnata dalla loro estraneità.
Il senso che si esprime è un senso che c'era già, e allora la parola poetica degenera facilmente in chiacchiera, parla perfettamente un gergo e non dice nulla. Il senso che si costruisce, invece, è un senso che non c'era ancora, ma allora quel senso sarà solo in quelle parole e non in altre, e ci sarà solo se qualcuno farà proprie quelle parole e se ne prenderà cura. Il poeta cerca di strappare al silenzio qualcosa che non è mai stato detto, che forse è indicibile, e lo affida a qualcuno che forse non lo capirà. Alla radicalità della creazione fa da pendant l’indecidibilità del destinatario.
In un celebre aforisma, Wittgenstein invita, non si sa bene se con decisione o con rassegnazione, a erigere di fronte all’indicibile una barriera di silenzio: «Wovon man nicht sprechen kann, darüber muß man schweigen - Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere». La scelta del silenzio è una scelta ascetica, di responsabilità verso il linguaggio e dunque verso l'interlocutore. Il linguaggio è il solo strumento condiviso in grado di prendersi cura delle poche verità accessibili al pensiero umano - le verità su ciò che c'è intorno a noi. Le verità che contano, ciò che è dentro di noi e sopra di noi, sono inaccessibili al pensiero coerente e distinto. Cercare pubblicamente queste verità, fuori dalla silenziosa e solitaria «teca dell’io», significa al tempo stesso mettere a repentaglio il linguaggio di tutti e rischiare l'incomunicabilità.
I soli contenuti che il linguaggio riesce a esprimere senza incrinars nello sforzo sono contenuti discreti e coerenti. Nel momento in cui si confronta con l'indicibile, l'espressione si espone all’insidia del nonsenso, della contraddizione, dell’incoerenza, e quindi al rischio dell'incomprensione.
Ma la scelta di proteggere a oltranza l'integrità del dispositivo linguistico, la trasparenza e la comunicabilità immediata dei testi, condanna al silenzio proprio gli oggetti che più premono per affiorare all'espressione: le emozioni, confinate nel grido inarticolato e nel gesto, i messaggi dell’inconscio, che aggirano le censure simboliche con sintomi inquietanti, ma anche la deliberazione morale e le domande sul senso della vita, alle quali la condivisione nella parola offre, se non soluzione, conforto. Ritroviamo qui il conflitto mai risolto tra le ragioni di Parmenide e le ragioni di Eraclito - tra il silenzio che protegge la parola coerente, e l'impulso, che minaccia l’espressione, a dare una voce all’indicibile.
Tra i due poli opposti si apre un campo di tensione che investe la responsabilità di ogni parlante. Il linguaggio non può rinunciare a essere discreto, pena il silenzio, o l'urlo inarticolato. Ma se in nome di un ideale astratto di ordine la parola si ritrae dalla sfida dell'indicibile, il linguaggio non è più forma che dà forma, ma forma passiva, vuota tautologia, fico sterile. Questo campo di tensione è il terreno elettivo del poeta. Se il mito filosofico di un'espressione adamantina della verità esalta il linguaggio come ordine che esprime ordine, tocca in primo luogo alla poesia costruire espressioni che sfidano il disordine e il silenzio, al prezzo di sacrificare al tempo stesso la loro cristallina impermeabilità e l'autosufficienza.
La tensione costruttiva incide nel corpo dell'espressione le ferite del conflitto, la contraddizone, l'incoerenza, il paradosso. L'espressione perde così la sua impermeabilità: «Il poeta e il mistico si avventurano a sfidare l'ambiguità verbale, a travalicare le norme del linguaggio, ad attingere alle oasi inesplorate del non-senso, del subsenso e del microsenso, del non detto, saturo di significato, esibendo la fascinazione del silenzio» scrive Ruffato in prosa, e si fa eco in versi:

Poesia come sapienza del silenzio
indubbio brindisi fra le nuvole.

Mentre si fa oscura e contraddittoria, l'espressione che insegue l’indicibile, sospesa tra silenzio e silenzio, tra un contenuto che forse non può essere detto e un messaggio che forse non sarà raccolto, perde la sua autosufficienza. Non racchiude un senso compiuto e irrevocabile, immediatamente e pubblicamente condivisibile, ma si offre alla ricezione e alla condivisione come un frutto offre un seme. Come il seme, l'espressione germoglierà e darà un frutto se qualcuno se ne prenderà cura. Altrimenti, morirà per sempre:

Dove parole e figure no riva
el mistero sbassa seje e sipario
la peripatetica nera mena
el gnente par sé tuto
l'estremo cao icse de ognun

Michele PRANDI

Università di Pavia

. Per riprendere Nencioni: «Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato», Strumenti Critici 29, 1976. Rist. in G. Nencioni, Di scritto e di parlato, Zanichelli, Bologna, 1983.
. M. Lenti, «Cesare Ruffato: la parola e il labirinto», Studi novecenteschi XXIV, 1997, p. 9, cita Folena, «Lessico e stile della poesia di C. Ruffato», Studi novecenteschi XIX, 1992: «sono verbi di marca dantesca».
. L. Wittgenstein, Tractatus logico-Philosophicus, Routledge & Kegan Paul, Londra 1922. Tr. it. con testo a fronte, a cura di A. G. Conte: Tractatus logico-Philosophicus, Einaudi, Torino1996, Prop. 7.
. C. Ruffato, «Il cantico del silenzio», in AA. VV., Il silenzio, Edizioni del laboratorio, Modena 1996, p. 119.