1. Una lingua per il poeta
Ho tra le mani Scribendi licentia,
summa della produzione dialettale di Cesare Ruffato.
Apro il volume, ancora profumato di tipografia, e trovo
queste parole a conclusione di una sobria premessa:
«ritengo questa mia libera messa in scrittura un affettuoso
etico riconoscimento verso la lingua materna e un tentativo
sfiorato da nostalgia di corrispondere agli intimi
richiami, particolarmente sottili e inattingibili,
della sua voce».
Ruffato è poeta colto e sofisticato, un
aristocratico cultore del trobar clos votato
alla mescolanza di stili, di registri, di lessici e
di temi. A metà del cammino della sua vita decide di
passare al dialetto, cioè a una lingua che, almeno
a prima vista, sembrerebbe condannata a una povertà
di forme e di contenuti antitetica al suo progetto
poetico. Come linguista e come parlante nativo di un
dialetto, che ha imparato l'italiano come lingua seconda,
mi chiedo del tutto naturalmente quali ragioni abbiano
spinto Ruffato a compiere questo passo - e parlo ovviamente
delle ragioni rese pubbliche e condivisibili dal testo
stesso, non di inaccessibili ragioni umane e personali.
Come linguista e come parlante nativo di
un dialetto, percepisco subito che la scelta di Ruffato
è una scelta estrema e radicale, per quanto apparentemente
ovvia: è la scelta di trattare il proprio dialetto
materno semplicemente come una lingua, per ritentare
in quella lingua la scommessa espressiva già tentata
con l'italiano. In dialetto come in italiano, Ruffato
tende la sintassi, contamina e sollecita il lessico,
spinge le risorse costruttive, espressive e figurali
dello strumento ai limiti del dicibile. Con una differenza,
e non da poco: la ricchezza di stili, di registri,
di parole e di temi che una lingua matura e collaudata
come l'italiano offre tra le pieghe dei suoi svariati
usi e dei suoi lessici plurimi, deve essere quasi integralmente
costruita nel dialetto.
Prima di descrivere alcuni caratteri salienti
della lingua di Ruffato dialettale, vorrei cercare
di chiarire in che senso la scelta di Ruffato non è
banale - perché non è banale trattare il dialetto non
come la lingua di una cultura e di una comunità dialettale,
ma come una lingua e basta. Per sottolineare questo
punto, credo non sia fuori luogo sbalzare il ritratto
di Ruffato poeta del dialetto sullo sfondo della sua
antitesi, e cioè della figura del poeta di un mondo
dialettale.
2. Poeta in dialetto e poeta del mondo dialettale
Nelle comunità dialettali più tipiche -
che non sono la Roma di Belli, o la Milano di Maggi,
Porta o Tessa - non c'erano poeti, anche se circolavano
testi orali indubbiamente poetici. Il poeta del mondo
dialettale, che si identifica nella comunità dialettalee
nella sua cultura, nasce con la crisi del dialetto
come lingua viva della comunità. E quindi il poeta
non di una realtà ma di un'idea, quando non di unidea
che si prende per realtà.
Il poeta del mondo dialettale ha un sincero
attaccamento al dialetto perché è attaccato al mondo
che il dialetto esprime. Sente che la fine di entrambi
è prossima e vorrebbe ritardarla, o evitarla. In perfetta
coerenza e buona fede, è convinto che scrivere poesie
vernacolari per lingua e orizzonti su un giornale locale
o in un opuscolo della Pro Loco dia un contributo alla
sopravvivenza del dialetto come lingua viva della comunità.
Credo che sia ingeneroso infierire contro
questa figura di poeta, perché tutti quelli che hanno
imparato a nominare le cose e le persone care con i
suoni familiari del dialetto sanno che cos'è la nostalgia
per una comunità al tempo stesso di territorio, di
lingua e di comunicazione, una comunità a portata di
voce che potrebbe raccogliersi tutta su una piazza
o in una chiesa.
Inoltre, nel momento in cui le comunità
dialettali sono sparite o stanno per sparire, mentre
la sopravvivenza del dialetto come lingua parlata è
sempre più affidata a un bilinguismo consapevole e
raffinato, è giusto e nobile cercare di salvare un
patrimonio culturale dalla dispersione - il dialetto
allo stesso titolo di un monumento o di un paesaggio
umano.
Eppure, al di là dellempatia umana, non
si possono non vedere i limiti ai quali una poesia
dagli orizzonti vernacolari condanna la lingua di cui
si serve e che vorrebbe promuovere. I suoi contenuti
si identificano con i contenuti affettivi e culturali
codificati nel dialetto. Un purismo ossessivo e difensivo
vede come una minaccia mortale l'innovazione e la contaminazione
di cui vive ogni lingua viva. I destinatari del messaggio
sono gli stessi membri della comunità, che ricevono
tautologicamente in versi e rime i contenuti stessi
del loro vivere quotidiano nella migliore delle ipotesi,
e nella peggiore una ri-creazione allucinatoria e inautentica
di un mondo che il poeta di fatto non condivide. Linteresse
per la lingua come segno di identificazione della comunità
prevale sull'interesse per la lingua come giacimento
di risorse in gran parte inutilizzate per l'espressione,
la simbolizzazione e la comunicazione. Se si tratta
di conservare un patrimonio culturale, d'altra parte,
gli autentici monumenti al dialetto sono i dizionari,
le grammatiche e i repertori, che sono in grado di
documentare con esattezza una lingua e una cultura
per come realmente sono state.
Il poeta che mette tra parentesi il legame
tra la lingua, un territorio, una cultura e una routine
comunicativa, viceversa, affranca il dialetto dal suo
destino di ancella povera di un mondo povero, liberando
al tempo stesso il potenziale di creazione e espressione
che il dialettoracchiude in sé come ogni lingua. Un
dialetto è, glottologicamente parlando, una lingua,
ma è lingua di esperienze povere e di orizzonti limitati.
Delle lingue riconosciute come tali dai filologi, gli
manca la molteplicità delle tastiere, e laccumulo
lessicale che ne deriva. Il poeta sensibile, però,
è capace di guardare nella lingua, e di capire che
l'ostacolo non è interno, ma esterno. Egli non confonde
i limiti contingenti, storici, etnografici e geografici
del dialetto con un limite delle strutture, che viceversa
sono pronte a compiere il lavoro di qualsiasi lingua.
Egli si prende dunque cura della lingua come di un
embrione prezioso e fragile, lo nutre di cultura e
di esperienza fino a farlo maturare. Basta questo perché
a ogni poeta dialettale si apra, nella scala di grandezza
che gli è propria, la strada che fu di Dante: creare
insieme un contenuto e la sua espressione, spingere
sempre più in là al tempo stesso il limite di ciò che
si può dire e il repertorio delle risorse per dirlo.
Per arrivare a questo punto, però, occorre
rompere il guscio della cultura vernacolare e liberare
la lingua come lingua. La viva voce diventa scrittura.
Il corpo delle parole perde il contatto con i suoni
del mondo vissuto, che il parlante nativo custodisce
nel ricordo come il suono delle campane o lo scroscio
della pioggia sul tetto di casa, ma diventa solida
pietra, capace di dilatare la sintassi e di differire
il messaggio nello spazio e nel tempo. Da strumento
al servizio dello scambio diretto e effimero di povere
cose, il lessico è pronto a mutarsi in strumento di
espressione differita di tutto ciò che può essere detto,
dentro e fuori di noi, in cielo e in terra. I suoi
messaggi non si spengono dentro i confini di una piccola
comunità, ma si aprono a un destinatario potenzialmente
universale. La poesia in dialetto condivide insomma
il destino di ogni poesia.
3. La lingua di Ruffato dialettale
Con questo non voglio dire che la scelta
di poetare in dialetto abbia una ragione univoca e
semplice. Ma ritengo che il progetto di promuovere
la lingua sia la ragione più qualificante, e quella
dis egno sicuramente positivo. Altre ragioni ci sono,
ma sono piuttosto di segno negativo.
La scelta del dialetto è certamente una
fuga dalla «lengua rompibale», «fora dal spotico /
incancrenio de la lengua buro / cratica de lege» verso
«na ecolingua / grembo e marsupio che abita alita /
riscata el sogno». Articolando i suoi messaggi in dialetto
il poeta si lascia alle spalle la
Fadiga boia destegolare
la parola materna nel talian
ufficiale impirare bocaboli
de festa patentai de lusso
che via crucis ubiquovadis supra
nubem col detato bàtare le dopie
crivelare l'esse impura de la pura
la caca articoli e pronomi punti
virgole predicati. Un disastro
el senso sorvolante consecutio
temporum congiuntivi vadi fuori
paleti polissiòti de gramatica
e sintassi.
Nel momento dei lutti e dei rimpianti inoltre, il dialetto si presenta naturalmente come «una teca dell'io che lo difende dallo svenamento culturale del simbolo, da eccessi di straniamento e stranierismo», come
na lengua materna che viaja
da le vissere alla metafora
un tesoro de luce fogo acqua aria
e sostanse che ne dà vita.
Ma alla fine non si può non vedere la volontà imperiosa di compiere in dialetto l'edificio poetico iniziato in lingua - di costruire un monumento poetico al potenziale espressivo e costruttivo del dialetto.
3.1. Il lessico
Del dialetto materno Ruffato conserva un
nucleo condiviso - formato dalla fonetica, dalla grammatica
e dal lessico di base - nei confronti del quale il
poeta è rispettoso fino allo scrupolo. Linnovazione,
che pure è appariscente, colpisce la parte più mobile
della struttura, il lessico, con una doppia strategia,
di immissione dall'esterno - il prestito - e di creazione
dall'interno: la neoformazione. Ma anche qui occorre
fare una precisazione. Il prestito, quantitativamente
massiccio, tocca lo strato più estrinseco del lessico,
e cioè la nomenclatura, la pura e semplice istituzione
di etichette per le cose e i concetti estranei al mondo
dialettale, mentre gli strati funzionalmente più centrali
e attivi, e in particolare i verbi, sono formati sfruttando
il patrimonio e il potenziale di formazione interni
alla lingua.
I prestiti sono tendenzialmente adattati
allambiente fonetico e morfologico del dialetto.
Nel caso dei prestiti italiani, di gran
lunga i più numerosi, il mimetismo è facilitato dalla
fonetica veneta, la più simile alla fiorentina, al
punto che certi versi sono suggestivamente ambivalenti,
come questo «vera sorpresa del tempo e memoria».
La fonte prevalente dei prestiti è fornita
dai lessici settoriali, già intensamente scavati nella
produzione in lingua, ma più straniati e stranianti
nel contesto dialettale. Ruffato preleva senza remore
«termini galeoti / biocenosi biotipo omeostasi entropia»
(201) dalla medicina, dalla tecnologia, dalle scienze
naturali e umane e dalla filosofia. Alcune volte, il
travestimento è volutamente carnevalesco e sottilmente
polifonico: lessemi come pissicologico, psicomedesine,
robità, ad esempio, portano in scena una voce
irriducibilmente restia a cantare all'unisono con lufficialità
scientifica. In ogni caso, il risultato della massiccia
immissione è un pittoresco miscuglio di stili e registri
già sperimentato in italiano, con in più un aumento
vistoso dell'ampiezza delloscillazione - tra ingegneria
genetica e spalpòna, ad esempio, o tra
ontofania e simiabile - dovuto al prevalere,
nel dialetto, di una medietà attestata sul parlato-parlatoa
fronte del parlato-scritto o addirittura dello scritto-scritto
che definiscono la fisionomia attesa dellitaliano
poetico:
L'ingegneria genetica impermalìa
squasi s'indamonia a cambiare i conotati
drento e fora de l'individuo, spalpòna
el scrito de la filosofia bio
logica
El fin sempre più fin de rason sbrufa
altro specio de na robità che tira
anca Dio traverso scarpie de segni
co bola de Bocacio la teologia
niuna altra roba xe che 'na poesia
de Dio simiabile solo dal poeta
El tema difesa dell'ambiente
ed emergenza rifiuti m'intavana
Le espressioni straniere conservano intatta la loro cruda estraneità, contribuendo alla diversificazione del testo:
Sabo de hooligans candeloti
irruenti, piere e bote
tepa bastarda vissià
giusta per la riva de Caronte
Ci sono inserti in lingua straniera che
si estendono oltre il limite della parola, in provenzale
- molt mi platz - in latino - Domus Dei sunt
et porta coeli - e addirittura in serbocroato:
braco srbi hrvati / muslimani, prekinite rat.
Al di sotto della soglia della parola, radici straniere
entrano in singolari pastiche: polisaund,
disneybabele, urforsa, spetri killerini.
Le neoformazioni sfruttano con estro e
inventiva la produttività dei meccanismi morfologici
di composizione e di derivazione, che notoriamente
le lingua utilizzano con grande parsimonia: in italiano,
ad esempio, potrebbero esistere, ma non sono attestate,
parole come elettrotrapano e brevezza. Ruffato
si sbizzarrisce nella composizione - pensiamo a esiti
strabilianti come cineoci (cineprese) o cinevita
- ma soprattutto nella derivazione - da robità
a scursofilia («la passione per abbreviare
siglese»). La creatività lessicale celebra persino
un suo orgiastico mito d'origine perso nell'infanzia:
Gran boresso xe capità che snana
randome nel fosso go butà
da genieto na carga gringola
de parole storpiae neologiste
[...[ me ga montà
la testa da poeta in erba
espressionista
Il capitolo più corposo della derivazione
percorre ancora una volta una strada già collaudata
nella produzione in italiano: si tratta del procedimento,
di memoria dantesca, che crea verbi
da nomi, da aggettivi o da pronomi per suffissazione
- ne postissa («ci rende posticci») - o più
spesso per prefissazione e suffissazione (verbi parasintetici):
inlemmarne, imamarme(«immedesimarmi nella
mamma»), s'intragedia, s'intàita (da tight);
s'indamonia. La creazione di verbi denominali non
è gratuita, ma ha una sua giustificazione funzionale
nella volontà di prosciugare l'espressione, contrastando
una costituzionale lentezza delliperanalitico fraseggio
italiano: La morte latente / s'inorgana in oci scavai
serciai. La stessa motivazione giustifica l'uso
transitivo di verbi intransitivi:
La voce camina su e zo parole
nunsie de poesia vestigiale
3.2. La sintassi
Il fraseggio di Ruffato è esaperato, tormentato, sconquassato. I punti fermi, unico segno di interpunzione ammesso, scandiscono il flusso in moduli che non sembrano nemmeno frasi, dove le parole cozzano e si scavalcano come pezzi di ghiaccio trascinati dalla corrente del disgelo, sempre sull'orlo del nonsenso. Ma uno sguardo più attento scopre strutture ricorrenti, e in particolare una che combina felicemente il rigore della sintassi essenziale con le dissolvenze di struttura tipiche della poesia. Si tratta di un grappolo espressivo formato da un nucleo di frase seguito - con o senza punto fermo - da una cascata di nomi assoluti, giustapposti come in un elenco:
La barba s'imperla de note acquose
e tendresse de rime interne.
Ième duro su la soja parécia
bazar, accademie, ris-ci de ingòsso.
Nuvole in redingote scure e a ciara
de ovo al galà ghe ne combina
una par colore, bruschi de bombaso
stringhe de sùcaro filante
bomboli de nieve, s-ciuma s-ciàchete
su lungomare scoliere sagome
spiriti de persone care, fantasie
de piante e bestie rare
voce narcisa sferussà de lana
che bocola tresse tirabasi
Fiumeseli e fosseti lagrema
strucai come mosti, caliere
de colori per lane, borse
nei oci de veci sgarbelosi
Come nei testi in lingua, lo scheletro sintattico essenziale della frase - lo stampo del significato - si presenta in genere intatto, al punto che possiamo farne l'analisi logica, e individuare soggetti, predicati e complementi. Tocca invece alla cascata di nomi disarticolare la forma interna del significato in un labirinto di attrazioni e repulsioni del tutto prive di un supporto strutturale, dove nulla è irreversibilmente collegato a nulla e tutto può entrare in risonanza con tutto, dato che i nomi giustapposti non hanno alcuna relazione evidente né con la struttura della frase né tra di loro.
3.3. L'investimento figurale
La lingua poetica è il «nuo vestio de l'anima»,
che «s'indrenta / de più ne le robe vere a priori»
con le sue «parole prime parentali / ne l'oro de la
vita ciama / l'inconscio lalante corente». Basta citare
questi pochi frammenti, e non si può non vedere come
nella poesia di Ruffato un denso investimento figurale
dissodi tutti i livelli della lingua, dal suono alle
architetture del significato: l'ossimoro insegue la
metafora, all'allitterazione fa eco l'omoteleuto, formando
un chiasmo di figure.
Le figure non sono increspature reversibili
sulla superficie del senso, ma strumenti per mandare
messaggi nuovi spingendo al massimo la valorizzazione
delle forme e delle materie condivise, foniche, disposizionali
e concettuali. Quando c'è autentica creazione il testo,
nella sua disarmante contingenza, si presenta come
regolato da un'interna necessità, e le figure rappresentano
la punta avanzata di questo capovolgimento di valore,
per cui il più umile dei suoni, che è così semplicemente
perché è così, senza un perché, diventa un ingrediente
insostituibile di quel particolare «baso s-ciocà de
sóni e senso».
Le metafore trovano i loro veicoli nelle
povere cose che popolano la civiltà del dialetto, ma
il gusto per la lingua povera e per le cose severe
del quotidiano non avvilisce l'altezza del messaggio.
La convenzionalissima fonte della verità diventa, trasposta
in un mondo di cascina, «la pompa / de la verità»,
e anche i sogni si devono accontentare del veicolo
modestissimo con cui si porta la terra sugli argini
e i mattoni al cantiere:
La vita lagrema sconsolà
no cavemoghe la carioleta dei sogni
La mente è un «campo neurochimico tuto da arare», e non «tutto da scandagliare», come suona la traduzione italiana. Le tappe salienti della vita parlano il linguaggio della quotidianità:
Nassita e morte parole insupae
de pianto che taca e destaca
la spina del ciaro e del scuro
el resto tuto 'na papa in balansa
Senza rinuciare alle insegne del suo prestigio poetico, la luna scende tra gli animali da cortile
La luna in camporela sbaja
co sapiensa de oro bianco
mai la se sòsega nel spin de vento
del primo aludir de l'estasi
vera sorpresa del tempo e memoria
La voce che, come scrive Humboldt, «sgorga
dal petto come lalito dellesistenza stessa», in poesia
è materia prima privilegiata più che in altre forme
di testo. Eppure non si sente, si può solo indovinare
assopita sotto la superficie scritta. E allora tocca
all'«ocio de la vose» il compito di vedere «l'ombria
del son» - la «mora del son / de l'essere».
Ruffato rifugge dall'onomatopea e dal simbolismo
fonico, probabilmente perché è poeta troppo disincantato
per coltivare il mito di una voce mimetica. Non disdegna
invece l'esibizione dell'omonimia, disarmante testimone
dell'arbitrarietà dei suoni: «El fin sempre più fin»;
«le raise ime de nóte che la nòte / lùcubra». I suoni
non pretendono di dare voce immediata alle cose, come
ad esempio in Pascoli, e la poesia è la più mediata
e costruita delle arti. Ruffato è fine poeta del suono,
ma di un suono ridotto a musica nella sua irriducibile
alterità, che ricama la superficie del testo senza
interferire con la trama del senso. Una volta riconosciuto
questo limite, si assaporano nel testo le assonanze,
delicatissime, quasi impercettibili - «Lama de senso
intonà dal vento» - e le allitterazioni - «Seca pur
straca sensa stonare» - e tutti i giochi cari ai poeti
con il fragile corpo sonoro del senso - le parolete
predilete petegole e le parolete margarite violete
che inseguono
el senso del segreto, el segreto
del senso, el senso del senso
la voce del specio del silensio.
4. Una poetica del destinatario
Il poeta non usa la parola per esprimere
ma per costruire senso - non per riproporre contenuti
noti in una lingua trasparente ma per scavare l'essenza
delle cose di dentro e di fuori in una lingua difficile,
segnata dalla loro estraneità.
Il senso che si esprime è un senso che
c'era già, e allora la parola poetica degenera facilmente
in chiacchiera, parla perfettamente un gergo e non
dice nulla. Il senso che si costruisce, invece, è un
senso che non c'era ancora, ma allora quel senso sarà
solo in quelle parole e non in altre, e ci sarà solo
se qualcuno farà proprie quelle parole e se ne prenderà
cura. Il poeta cerca di strappare al silenzio qualcosa
che non è mai stato detto, che forse è indicibile,
e lo affida a qualcuno che forse non lo capirà. Alla
radicalità della creazione fa da pendant lindecidibilità
del destinatario.
In un celebre aforisma, Wittgenstein invita,
non si sa bene se con decisione o con rassegnazione,
a erigere di fronte allindicibile una barriera di
silenzio: «Wovon man nicht sprechen kann, darüber muß
man schweigen - Su ciò, di cui non si può parlare,
si deve tacere». La scelta del
silenzio è una scelta ascetica, di responsabilità verso
il linguaggio e dunque verso l'interlocutore. Il linguaggio
è il solo strumento condiviso in grado di prendersi
cura delle poche verità accessibili al pensiero umano
- le verità su ciò che c'è intorno a noi. Le verità
che contano, ciò che è dentro di noi e sopra di noi,
sono inaccessibili al pensiero coerente e distinto.
Cercare pubblicamente queste verità, fuori dalla silenziosa
e solitaria «teca dellio», significa al tempo stesso
mettere a repentaglio il linguaggio di tutti e rischiare
l'incomunicabilità.
I soli contenuti che il linguaggio riesce
a esprimere senza incrinars nello sforzo sono contenuti
discreti e coerenti. Nel momento in cui si confronta
con l'indicibile, l'espressione si espone allinsidia
del nonsenso, della contraddizione, dellincoerenza,
e quindi al rischio dell'incomprensione.
Ma la scelta di proteggere a oltranza l'integrità
del dispositivo linguistico, la trasparenza e la comunicabilità
immediata dei testi, condanna al silenzio proprio gli
oggetti che più premono per affiorare all'espressione:
le emozioni, confinate nel grido inarticolato e nel
gesto, i messaggi dellinconscio, che aggirano le censure
simboliche con sintomi inquietanti, ma anche la deliberazione
morale e le domande sul senso della vita, alle quali
la condivisione nella parola offre, se non soluzione,
conforto. Ritroviamo qui il conflitto mai risolto tra
le ragioni di Parmenide e le ragioni di Eraclito -
tra il silenzio che protegge la parola coerente, e
l'impulso, che minaccia lespressione, a dare una voce
allindicibile.
Tra i due poli opposti si apre un campo
di tensione che investe la responsabilità di ogni parlante.
Il linguaggio non può rinunciare a essere discreto,
pena il silenzio, o l'urlo inarticolato. Ma se in nome
di un ideale astratto di ordine la parola si ritrae
dalla sfida dell'indicibile, il linguaggio non è più
forma che dà forma, ma forma passiva, vuota tautologia,
fico sterile. Questo campo di tensione è il terreno
elettivo del poeta. Se il mito filosofico di un'espressione
adamantina della verità esalta il linguaggio come ordine
che esprime ordine, tocca in primo luogo alla poesia
costruire espressioni che sfidano il disordine e il
silenzio, al prezzo di sacrificare al tempo stesso
la loro cristallina impermeabilità e l'autosufficienza.
La tensione costruttiva incide nel corpo
dell'espressione le ferite del conflitto, la contraddizone,
l'incoerenza, il paradosso. L'espressione perde così
la sua impermeabilità: «Il poeta e il mistico si avventurano
a sfidare l'ambiguità verbale, a travalicare le norme
del linguaggio, ad attingere alle oasi inesplorate
del non-senso, del subsenso e del microsenso, del non
detto, saturo di significato, esibendo la fascinazione
del silenzio» scrive Ruffato in
prosa, e si fa eco in versi:
Poesia come sapienza del silenzio
indubbio brindisi fra le nuvole.
Mentre si fa oscura e contraddittoria, l'espressione che insegue lindicibile, sospesa tra silenzio e silenzio, tra un contenuto che forse non può essere detto e un messaggio che forse non sarà raccolto, perde la sua autosufficienza. Non racchiude un senso compiuto e irrevocabile, immediatamente e pubblicamente condivisibile, ma si offre alla ricezione e alla condivisione come un frutto offre un seme. Come il seme, l'espressione germoglierà e darà un frutto se qualcuno se ne prenderà cura. Altrimenti, morirà per sempre:
Dove parole e figure no riva
el mistero sbassa seje e sipario
la peripatetica nera mena
el gnente par sé tuto
l'estremo cao icse de ognun
. Per riprendere Nencioni: «Parlato-parlato,
parlato-scritto, parlato-recitato», Strumenti Critici
29, 1976. Rist. in G. Nencioni, Di scritto e di
parlato, Zanichelli, Bologna, 1983.
. M. Lenti, «Cesare Ruffato: la parola e
il labirinto», Studi novecenteschi XXIV, 1997,
p. 9, cita Folena, «Lessico e stile della poesia di
C. Ruffato», Studi novecenteschi XIX, 1992:
«sono verbi di marca dantesca».
. L. Wittgenstein, Tractatus logico-Philosophicus,
Routledge & Kegan Paul, Londra 1922. Tr. it. con testo
a fronte, a cura di A. G. Conte: Tractatus logico-Philosophicus,
Einaudi, Torino1996, Prop. 7.
. C. Ruffato, «Il cantico del silenzio»,
in AA. VV., Il silenzio, Edizioni del laboratorio,
Modena 1996, p. 119.