Nino De Vita, Cutusìu, Arti Grafiche Corrao, Trapani 1998

In Cutusìu (stampato dalle Arti Grafiche Corrao di Trapani) Nino De Vita riunisce poesie scritte dal 1980, molte già apparse in riviste e in plaquettes.
Cutusìo è la contrada nativa, l'arida terra che sembra circoscrivere memorie e linguaggio, mentre in effetti assume subito valenze universali, si fa luogo di una coscienza carica di interrogativi, non storici, ma esistenziali, luogo di una espressività tesa a cogliere l'essenziale che è in tutte le cose e le persone.
Tali valenze, proprie della poesia di Nino De Vita, vanno ricondotte soprattutto al concetto di grecità già segnalato da alcuni critici e su cui torna a riflettere Pietro Gibellini nella bella prefazione.
Greca, e appunto universale, è la coralità presente anche nelle pagine che sembrano scaturire da ricordi privati. Greco è il dolore che incombe sui poveri protagonisti di storie compromesse dal crudeltà del destino, dagli atavici pregiudizi.
Il male di vivere non viene conosciuto fra le pieghe del tempo, qui è la sostanza stessa dell'esistenza. Già la nascita è una lotta disperata con la morte ("8 giugno 1950").
In questo "romanzo in versi", come lo definisce l'autore, le storie della patùta, afflitta, Cutusìo, sono tutte di disperazione e di morte, sono tragedie come quella di Mastr'Alfio consumato nel ricordo della moglie alcolizzata, come quella di Giovanvita che piange su una tomba senza nome il marito scomparso in mare, o come quella di Benedettina che muore per le complicazioni di un parto nascosto ai genitori.
Anche i giochi dei ragazzi sono contraddistinti dai m omenti d'ira di ansie, di crudeltà: e di atroce realismo che surge a simbolo il calabrone infilzato dai ragazzi per imitare una girandola, con le ali che girano a mulinello.
Il senso corale del dolore, che pervade tutte le liriche di De Vita, è greco perchè l'uomo, consapevole del proprio destino, se ne fa carico, lo vive con estrema dignità.
Con gesti austeri i protagonisti di queste storie senza azioni mobilitano anche i momenti in cui la presenza della morte non è ancora effettiva e, nella desolata natura di Cutusìo, prevalgono paure, stramberie, disperazioni, ingiustizie e pazzie. Al riguardo sono significatile le storie di Nonna Leonardina, di Angelo e di Baldassare.
Con Cutusìu è ora giunto il momento per la critica di fare un bilancio complessivo dell'opera di De Vita.
Dei suoi libri precedenti, sia di Fosse Chiti con i versi in lingua, sia delle quattro sillogi in dialetto, è stato scritto fra gli altri da Raboni e Loi, da Conte, Copioli e Onofri.
Con quest'ultimo volume di duecento pagine, che riprende tutte le poesie in dialetto, arricchito da parti nuove e strutturato in modo organico, si entra totalmente nel mondo piccolo, e universale, di Nino De Vita.
E' assurdo che un volume così importante per la poesia italiana debba essere edito in poche copie per gli amici e rimanere fuori commercio invece di avere un editore importante pronto a pubblicarlo.

Francesco Piga






Loredana Bogliun, Mazere - Gromace - Muri a secco, Castel Maggiore, Book Editore, pp. 99.

Fortemente caratterizzata nel panorama della lirica dialettale del Novecento è la poesia di Loredana Bogliun, scritta nella varietà dignanese dell'Istria.
Singolare è questa terra di frontiera che determina il carattere degli abitanti, forte ma anche indifeso, e quindi tenero, perchè chiuso nella consapevolezza della precarietà di ciò che vive.
Il dialetto, ormai morente, ma ancora voce di Dignano e musica dell'anima, custodisce memorie e ricordi. E' perciò irrinunciabile per Loredana Bogliun.
Le sue poesie, dalla grande potenzialità evocativa, subiscono difficili traslazioni in italiano e in croato prima di giungere a risultati sorprendenti come quelli del libro più recente Mazere - Gromace - Muri a secco, pubblicato in bella veste tipografica da Book Editore.
Le mazere, i muriccioli di campagna, con una pietra all'inizio e una alla fine, dure e malconce, sono il simbolo del paese e della sua gente. Così è la poesia della Bogliun, piena di consapevolezze e razionale ma anche sognante e fantasiosa.
Loredana Bogliun sa che con le vecchie parole dialettali parla soltanto per sè, chiusa nell'asprezza e nella miseria della vita contadina, del paese fatto di ammassi di pietre povere; ha dovuto ormai imparare "ch'a avarda al sul e la louna gnente no se ingrouma" ("L'anda de le feste bone"); non si illude sull'inesorabilità del tempo, attraversato dall'affaccendarsi privo di senso della gente.
Al tempo stesso raccoglie le fantasie che scaturiscono da questa terra di pietre, gli incanti che stravolgono e tramutano la realtà oggettiva.
Le "vecie parole" liricizzate si fanno metafore, illuminazioni barocche, e rischiarano momenti dell'infanzia, di un passato contadino segnato da miserie e da vestiti rattoppati ma anche da leggende, da fiabe e giochi, in un rapporto magico con la natura.
Con la forza evocativa e inventiva della poesia l'io frantumato nella realtà quotidiana può di nuovo incontrare la madre più giovane tra le piante e i profumi del giardino. I ricordi diventano più piacevoli di ciò che si è vissuto: "cui oci ch'a reido soin de nuvo peicia / cameini par Dignan zogando am-salam / inseina tucà la reiga / ancura pioun brava de preima" ("Am-salam").
Quando l'invenzione e il sogno prevalgono sulla logica, ormai vinta la paura "da diventà oun gambero imbarlà / bon sulo de fase ciavà" ("Al gambero cui fiurdaleizi"), il paese non soltanto appare come terra di memorie ma assume contorni fantastici e misteriosi, è aereo come in un quadro di Chagall. La gente di Dignano toccherà la luna, il nonno morto ritorna in punta di piedi e diviene l'anima del paese.
Tra sogni e disinganni la poesia si chiude su una desolata "casa del monte", in rovina e invasa dal vento, estremo simbolo dell'Istria, luogo di fatiche e di sogni, ultima immagine di una coscienza lacerata ma aperta alle fantasticherie poetiche.

Francesco Piga





LA POESIA DIALETTALE VENETA NEL PRIMO TRENTENNIO DEL NOVECENTO.

La forte tradizione letteraria e scientifica del Veneto si manifesta nelle variegate entità culturali delle diverse provincie e città. E' un vero e proprio mosaico di culture in cui i vari dialetti, alcuni dei quali assai vicini alla lingua, come quelli padani, hanno espresso e coltivato in profondo, con coralità ed etica, la fisiologia sociale e umana della regione.
Le voci poetiche più rappresentative utilizzano una materia fono-espressionistica "culta", un meta-idioma, senza i retorici riferimenti alla lingua dell'origine, dove il genio stesso della
koiné era privo delle insite proprietà.
La poesia dialettale veneta, nel rappresentare per tutto l'Ottocento gli usi e i costumi locali, poneva, rispetto alle altre regioni, una particolare attenzione alla figura immersa nel paesaggio. A contraddistinguere i bozzetti della tradizione verista in dialetto veneto era il linguaggio del melodramma, poi adeguato alle passioni patriottiche del Risorgimento.
Con l'annessione al Regno e con la caduta dell'unità culturale veneta le provincie riscoprivano le loro tradizioni letterarie e linguistiche: i risultati erano però di scarso valore qualitativo e restavano nei limiti della rappresentazione naturalista.
Faceva eccezione parte della produzione lirica di Berto Barbarani che, unica personalità di spicco nell'ambito veronese-vicentino (1), mostrava i primi segni di una nuova sensibilità, sia pure nelle tematiche di tipo ottocentesco.
nato a Verona nel 1872, Barbarani inizia a comporre nel 1896 versi ispirati ai sereni paesaggi, alle gaie figurine di ragazze sullo sfondo di borghi, campagne e valli. Sono poesie che cantano con accenti popolari un'arcadia di maniera, idillica per il rosario di temi amorosi, appena attraversata da una leggera ironia, da malinconie subito stemperate ai colori vivaci della natura, ai piaceri del focolare.
A questi versi affiancano quelli di una poesia che vuole essere sociale nell'attenzione ai "pitochi", soli al mondo e sofferenti.
C'è già comunque nelle prime raccolte, scritte a fine Ottocento e poi riunite nel Canzoniere Veronese ( 1900), un'autentica intensità lirica, un progressivo raffinamento dello stile dovuto alle letture sempre più meditate di Pascoli e D'Annunzio, la consapevolezza dei valori espressivi del dialetto.
La scelta del dialetto come lingua della poesia è per Barbarani spontanea perchè ha un linguaggio dialettale quale suo mondo arcaico fatto di figurine e di paesaggi. Benché non si renda certamente conto della grande rivoluzione del linguaggio che Pascoli sta attuando, Barbarani è consapevole della pari dignità letteraria del dialetto rispetto alla lingua nazionale, sa che il dialetto contiene valenze espressive più adatte per comunicare con un pubblico locale.
Le poesie da Barbarani composte nei primi anni del Novecento, e poi riunite nel Nuovo Canzoniere Veronese (1911), propongono i soliti temi e ariette melodrammatiche, dalle figure e dai paesaggi de Le Adesine e di Val d'Adese alle tristi vicende de Le tre cune e alle ironiche intonazioni de La dimanda de nosse.
Val d'Adese è tutta una panoramica su "val" e "valade", "camposantin", "ciese", "campanileti", "pore case", "e boschi e sassi e sengie". Mentre l'Adige "core" nella "passe" di questo paesaggio si immergono la "ferovia", "un par de cari, rossi de quarei", "musi de pastore". Uniche voci sono i "campanei" dei carri, un "ciacolar de pàssare contente", una "canson che more". L'apologo, che nel senso allegorico e morale caratterizza la poesia veneta, è qui limitato alla fantasia di volare con "du cavai" sulle montagne del mondo per piantarvi "una canson che slusa", e alla considerazione umanitaria di forzare la natura per creare ricchezze da dare ai poveri.
Di Val d'Adese sono da evidenziare soltanto alcune metafore efficaci, la perizia e la grazia nel costruire i sonetti, l'impressione di certi versi, come delle due terzine dell'ottavo sonetto, quando il poeta si sofferma a parlare del villaggio di Rivoli:

"Quà Napolion l'à vinto una batalia!
Ma de note, se vede a luna bassa,
pronti a ciamarse e a dimandarse scusa

soldadi morti in meso alla mitralia
che el vento eterno de sti loghi spassa
par Cerain, portandoli alla Ciusa."
Novità sostanziali compaiono in San Zen che ride sia per l'uso più ardito, quasi sperimentale, del dialetto e sia per un'intonazione più pensosa sulle umane vicende.
Recitata da Barbarani al Liceo Musicale di Bologna nel gennaio del 1906 e poi apparsa nella rivista milanese "Ars et Labor" prima di essere inclusa nel Nuovo Canzoniere Veronese, la poesia dagli accento leopardiani ricrea la vita del borgo di San Zeno, con i ragazzi che giocano sul sagrato, gli artigiani che tornano dal lavoro e le vecchiette riunite sull'uscio. Mentre i monumenti antichi della Chiesa sfidano l'eternità, le vicende umane si dissolvono rapidamente.
Nel descrivere la basilica di San Zeno il poeta fa un uso più smaliziato del dialetto, gli dà valenze barocche che rientrano nel relativismo moderno come si va attuando nell'evoluzione e nella trasformazione del linguaggio e della letteratura dei primi anni del Novecento:
"Dal roson de la ruda, da i niari
de colonete sfogate a crosòl,
dentro in ciesa, sul marmo de i altari,
capita drento a farse santo el sol.

Nei capitei tuti ingropadi, i bissi
che se desnoda dal massel de piera,
par che i g' abia de i stremiti, de i sguissi
come i fusse in amor de primavera,

e i santi giali confinadi al muro,
e le madone sante col bambin,
fra tanto ciaro che li lassa al scuro,
par che i speta la grassia de un lumin."
Ardite, per una poesia peraltro ancora di tipo ottocentesco, sono anche certe similitudini che smuovono il quadro naturalistico:
"La ciesa, intanto, continua a cambiarse
da color oro in bel color turchin,
come un fero rovente drio a fredarse
come un fumeto bianco de camin!"
Nel Terzo Canzoniere (1922), dedicato alle "Vecchie contrade di Verona", ritornano i soliti temi e motivi, mentre si accentua la riflessione sui valori dell'esistenza, sulla precarietà del destino umano. Le maggiolate, i sogni, i canti della Primavera sono turbati da una malinconia e da una tristezza, a volte addolcite da certe arguzie(2).
E' la malinconia per il trascorrere rapido delle stagioni sugli uomini che tra l'altro hanno perduto la serenità di quella che era la vita tranquilla nella Verona di un tempo, cittadina e campagnola, è la tristezza per l'incombere di età morte sull'amato paesaggio che le guerre e le distruzioni hanno reso irriconoscibile. Il poeta non riconosce più la Primavera che si è personificata per prenderlo sottobraccio, ha perduto la giovinezza, si ripiega sul passato, su certi amari ricordi della sua terra, come la disastrosa inondazione provocata dall'Adige nel 1882 o come la tragica vicenda di Rosmunda nella Verona medioevale. Incalzano i tristi presentimenti:
"Passarà i ani e frusto l'oroloio,
vegnarà anca par mi quel çerto giorno
che marciarò al Ricovaro, al contorno
de quei lumini che no g'à più oio."
In queste poesie e in quelle successive, scritte tra 1923 e il 1936, Barbarani sa reinventarsi, attingendo alle risorse del dialetto veneto, la fusione di gioia e mestizia propria delle ballate romantiche, sa dosare con grande efficacia espressiva la compresenza negli stessi versi di malinconiche tristezze e di argute ironie. Fantasie di sogni si sprigionano da un impressionismo non sempre di maniera. Qualità della sua arte è "in una libertà di rapporti e di nessi, in una spontaneità nutrita spesso di felici moti irrazionali"(3).
Sono questi gli aspetti nuovi e più intensi del canto di Barbarani, presenti sotto l'aderenza ai temi e ai metri di un Pascoli semplificato(4) e degli autori minori del Tardo Ottocento, al cui romanticismo Pasolini vedeva attingere la poesia dialettale del primo Novecento.
Se da un parte Pasolini aveva ridotto Barbarani a poeta popolare e facile "nel senso più umile del termine"(5), dall'altra Diego Valeri suggeriva di non lasciarsi ingannare dall'apparente facilità popolaresca di Barbarani, le cui inquietudini celavano una forte costanza etica.
Un breve cenno va riservato ad alcuni poeti della regione del Trentino-Alto Adige, caratterizzata da una notevole varietà vernacolare e miscidanza di idiomi con il Lombardo, il Veneto, il Veneziano e il Ladino. Si tratta di pochi autori non particolarmente significativi che rientrano ancora in un naturalismo poetico tradizionale e liso: sono Romano Joris, Carlo Nani, Luigi Pigiarelli, Vittorio Felini, Giuseppe Mor, Giovanni Coslop e Mario Angheben. Tra questi risaltano per poetiche oppositive Felini, fondamentalmente idilliaco e Mor dalle tematiche più concrete.
Mentre a Venezia la poesia, come scrive Galimberti, "preferiva ripiegarsi sul passato, a vagheggiare temi e modi di un Settecento dal quale non riusciva ad avvertire la propria sostanziale diversità "(6), a Trieste e nell'Istria si hanno voci autorevoli e originali per una forte attenzione agli stati d'animo e ai rapporti con la realtà.
Nel suo pregiato lavoro Il fiore della lirica veneziana Dazzi riporta i nomi di alcuni autori triestini e istriani del primo decennio del Novecento, trai i quali Gino Gavardo, che raggiunge " l'effetto espressionistico d'una pittura ensoriana", Flaminio Cavedali, ricordato per i suoi versi patetici di tristezza e malinconia, e Adolfo Leghissa per una bozzettistica morale, satiro-caricaturale, venata di "sostanziali verità umane"(7).
Sono Trieste e Grado a dare i poeti più importanti, oggi "classici", che hanno indicato nel secondo decennio del secolo le vie nuove alla poesia veneta.
Nelle prime raccolte poetiche di Biagio Marin, Fiuri de tapo (1912), e di Virgilio Giotti, Piccolo canzoniere in dialetto triestino(1914), è già completamente sgretolata la compattezza delle rigide norme linguistiche dell'Ottocento per un concetto nuovo e più esteso di lingua. Entrambi hanno colto appieno le innovazioni del Pascoli, invenzioni formali che rivendicano l'uso di linguaggi aperti, di una struttura indeterminata in cui ogni sperimentazione è consentita, e così eterogenea da poter esprimere le condizioni esistenziali sempre più complesse venutesi a creare dopo la caduta delle certezze naturalistiche.
le prime prove poetiche di Marin e Giotti, oltre che dalla rivoluzionaria lezione di Pascoli, sono segnate da altre letture ed esperienze, in cui emerge il nuovo e diverso contesto culturale.
Nel 1912, quanto pubblica le sue prime poesie, Marin è a diretto contatto con gli ambienti culturali di Vienna, dove frequenta la Facoltà di Filosofia e approfondisce la conoscenza della letteratura mitteleuropea iniziata al Ginnasio e alle Scuole Reali Superiori di Gorizia e Pisino d'Istria. A Firenze, nel 1911, aveva fatto parte della cerchia dei collaboratori de "La Voce", insieme ad altri scrittori giuliani, da Scipio Slataper a Carlo e Giani Stuparich, a Carlo Michelstaedter, allo stesso Giotti.
Giotti, che era giunto a Firenze nel 1907, per rimanervi fino al 1919, si era prevalentemente dedicato alle arti figurative fra i pittori e gli scultori della Scuola Industriale di Trieste. Su "Solaria" pubblica le prime poesie in dialetto. E' in questi anni un attento e assiduo lettore dei simbolisti e decadenti francesi e dei crepuscolari.
Marin e Giotti, consapevoli dell'ampio concetto linguistico in cui il poeta si trova ad operare, con la possibilità di plasmare, deformare e reinventare il dialetto, che ormai fa parte di una lingua con struttura arbitraria, in continua evoluzione, creano una propria lingua che meglio possa esprimere il loro mondo esistenziale.
Marin allarga il lessico arcaico di Grado, costituito in gran parte da termini marinareschi, conia nuovi vocaboli. Giotti rielabora il proprio dialetto fino ad inventarne uno personale, che considera la lingua della poesia, da tenersi separato dal linguaggio parlato, dal dialetto che l'uso quotidiano ha consunto.
E' esplicito il significato che riveste il gradese arcaico personalizzato da Marin per l'uso poetico:
"Mio favela graisan,
che senpre in cuor me sona,
fior in boca a gno mare,
musicào da gno nona,

tu tu me porti el vento
che passa pel palùo,
che 'l sa de nalbe rosa
che puo de fango nuo.

E tu me porti incòra
siroco largo in svolo,
e corcali a bandiera
comò i fior del gno brolo;/..."
La "favela graisan", recuperata e reinventata da Marin, è la lingua che unisce chi vive con chi ha vissuto quei luoghi, è l'eredità dei padri raccolta nell'infanzia intorno al tepore del focolare domestico, è la voce stessa del mare. Il dialetto paleo-veneto, medioevale a fatica conservato nei secoli, parlato dalla piccola comunità di pescatori e artigiani, calato nelle villotte popolari(8), è assunto, insieme con altri elementi linguistici e nella direzione di "una privata endofasia"(9), a espressione poetica.
marin, che oltre a cogliere la carica eversiva del linguaggio delPascoli apprezza la melodia dei suoi poemi adatta a dire e non dire i piccoli e grandi misteri dell'esistenza, trova nel gradese un mezzo espressivo melodioso come il fluire delle cose, consono con quel microcosmo di marinai perduto tra mare e cielo.
Al tempo stesso il gradese, con la sua ricchezza di monosillabi, consonanti liquide e dolci, parole tronche e semitoni, consente la stessa pregnante sinteticità delle amate liriche in lingua tedesca, che Marin chiude per lo più in quartine rimate in settenari e di quinari.
In Fiuri de tapo e nelle raccolte di poesie che Marin pubblica negli anni Venti, le letture pascoliane influiscono fortemente non soltanto sul piano linguistico ma anche su quello dei contenuti.
Pasolini scrive che "è quello del Marin (che già abbiamo contato tra i più puri realizzatori dialettali del Pascoli: Fiuri de tapo è una delle tante sinonimie di Myricae) un pascolismo angelicato, scritto in funzione di una tenuissima epica paesana (10).
Fra io poeti dialettali marin è il primo a superare i modelli veristi. Nelle sue prime raccolte di liriche, da Fiuri de tapo a La girlanda de gno suore(1922), a Cansone picole(1927), il canto degli elemeti naturali, delle cose e degli animali che vivono in totale armonia, continuamente rigenerandosi e riproponendo le stesse forme e privato di ogni dato contingente e proiettato in una dimensione universale.
In Fiuri de tapo il canto melodico di una natura serena, di un piccolo mondo fra cielo e mare, con le vele al vento, il volo dei gabbiani, la palude, gli splendidi colori e i riflessi dei canali, è turbato da tristezze e malinconie:
"E ne pianzeva 'l cuor de desiderio
Fra tanta zogia d'oro e de seleste
El nostro cuor che 'l gera un simisterio
De tanti sogni e ricordanse meste"(...)
La contemplazione dell'armonia fra umano e divino è interrotta dalla stanca cantilena dell'allodola che ha dimenticato le canzoni d'amore:
"La cantinela stanca che col vento
La va pel mar, la passa pel palù,
La cantinela nata da un tormento
che quando 'l nasse puo nol more più..."("Ordole")
Quando i sentimenti del poeta sembrano intonarsi a quelli della natura subito scende sull'"imenso e fondo" golfo la "caligo" che porta i lamenti dei morti.
E' comunque presente in questa prima raccolta che si conclude con un significativo e doveroso omaggio, "In simisterio de Barga!", un certo naturalismo soprattutto quanto il poeta sente l'urgenza di trattenere con i versi i luoghi e i personaggi di una Grado che sta cambiando.
Ne La girlanda de gno suore, scritta dieci anni dopo Fiuri de tapo, benché il motivo iniziale siano le nozze della sorella si acuiscono le amarezze, per le vicende della guerra, per i soggiorni lontano da Grado e per una lunga malattia. Tra nostalgie e ricordi si fa più laceranti la perdita di unità con il proprio mondo:
"Che zogia a desse vele e anda col vento
Tremando de piasser pel golfo biavo
E no prova sto crussio e sto tormento
Che smania in cuor e che lavora in cavo."("Varda, Maria...",vv. 9-12)
E' conseguente il ripiegamento sui sentimenti e sugli affetti familiari, cantati con una maggiore raffinatezza e sempre in toni pascoliani. Laddove tenta un approccio con le cose, e vorrebbe risuscitare gioie e felicità il poeta resta irretito dal senso del mistero.
Il mistero dell'universo è ben percepibile nelle poesie più mature di Cansone picole, laddove i temi precedenti si rarefanno, Grado perde ogni entità storica e diviene "rappresentazione dell'anima" (11), la parola si frantuma in segni, si fa polisemantica.
Non è più afferrabile nè comprensibile la mamola, nel suo significato di fanciulla, ma anche di bel tempo passato, di canto felice, di isola amata con gli incanti degli elementi naturali, di vita prima delle illusioni.
Pace e sgomento, segnali di vita e di morte che si intersecano, divine immensità ed estreme propaggini del reale lasciano l'anima sospesa.

Francesco Piga






Cesare Ruffato, Diaboleria, Ravenna, Longo Editore, 1993, p. 83.

Diaboleria ripropone le prime liriche di Cesare Ruffato in dialetto padovano, insieme a due sillogi più recenti, così che viene disegnato l'intero percorso di una poetica assai complessa.
Il libro, edito da Longo di Ravenna, si avvale di una dotta introduzione del linguista Manlio Cortelazzo, con puntuali osservazioni sulla parlata "composita, strana, inquietante" di Ruffato.
Nelle poesie iniziali, raccolte sotto il titolo El dialeto, Ruffato liricizza la propria teoria poetica, la concezione che ha del dialetto. Prende le distanze dal dialetto artificiale, che molti costruiscono in laboratorio per sperimentalismi fini a se stessi e gli contrappone il dialetto viscerale, la voce materna. Quello amato da Ruffato, e qui esaltato, è "el dialeto corporeo", atavico che con i suoi presignificati, entra in modo naturale nel pensiero e nella scrittura, dice il poeta "nel pensiero della scrittura".
Il disagio nasce sui banchi delle elementari quando è costretto a comporre in italiano, una lingua che fa fatica ad usare. Il poeta, che oggi si serve del dialetto per i suoi bagliori espressivi, può capire come fosse allora istintivo per l'alunno "...desmentegarse fra le righe / coèghe mus-ciose del dialeto / che concede license e libertà / negae a la lengua rompibale".
Dunque, lingua della nascita, dell'infanzia e della maturità, che racchiude concetti, essenzialità, è anche lingua della vecchiaia quando, come farebbe una madre, "el me ninanana anca nel troto / roto senile el me liga al concreto / cavandome i selegati sensa sigarme...".
La seconda sezione del volume, Minusgrafie, comprende poesie che, con altre in lingua, facevano parte di Padova diletta, una silloge del 1988, edita dalle Edizioni Panda.
Le luci, i colori e le trasparenze del paesaggio, cantate con un lieve velo di malinconia, le festose partecipazioni con gli altri, in fraternità e in perfetta armonia, alla vita ritmata dal ciclo naturale dei mesi, si offuscano e la realtà non mostra più contorni precisi ma ambigue forme che hanno bisogno di essere decifrate, la conoscenza si fa enigma. Da qui scaturiscono le grafie e i fonemi presigificanti che Ruffato continua a mettere in campo, prendendo piena coscienza delle valenze linguistiche che contiene il dialetto materno, la loro possibilità di afferrare una realtà a più sensi.
Nelle due sezioni successive, Specio smemorà e L'evoluzione, una maggiore elaborazione del dialetto materno in funzione letteraria permette al poeta di far aderire il linguaggio ai molti travagli interiori che la vita non si stanca di procurare.
Così accanto ai persistenti ricordi di un lontano eden familiare, "un canton dulcor de intimità", i dispiaceri personali si sommano allo scontento per una società "trufalda" che ha una cultura "boara" e pensa soltanto ai propri bisogni materiali.
Il poeta mette sotto accusa le scienze che vorrebbero spiegarci tutto della natura "baroca", rivoluzionare l'inconscio dell'individuo; il poeta disilluso crede nel proprio dialetto, crede in qualche libro serio che va "digerio par inventare mondi / diversi più beli".

Francesco Piga






Le prime raccolte poetiche di Gabriele Ghiandoni

Il libro più recente di Gabriele Ghiandoni, Poesie a Fano (Edizioni lacerqua, 1992), è composto da liriche scritte in dialetto fanese. La scelta di usare il linguaggio della città natale, trasformato, è conseguente al percorso culturale e poetico che Ghiandoni andava facendo fin dalle prime esperienze di scrittore e di critico letterario.
A contraddistinguere sia le poesie in lingua, dall'iniziale raccolta In cima al mare ( Maggioli, 1986), sia le prose, da Idillio marinaro (Maggioli, 1987), era proprio la grande capacità nel reinventare i modi di dire del dialetto di Fano, nel fare entrare in gioco le tante valenze che il dialetto può avere all'interno della lingua italiana.
Come dimostrano i suoi molti interventi critici su varie riviste letterarie, lo scrittore è particolarmente attento alle culture locali, e ben consapevole del concetto diverso e più esteso della lingua che si ha nel Novecento, di quel plurilinguismo con cui meglio esprimere condizioni esistenziali estremamente complesse e tentare di valicare i confini della realtà e delle apparenze.
Ghiandoni sa che non basta limitarsi al recupero del linguaggio arcaico, degli usi gergali, dei modi di dire popolari, bensì necessita l'intervento colto del poeta sulla parola, la forzatura barocca, la rielaborazione che faccia scaturire quei bagliori improvvisi con cui richiamare dal nulla le immagini. E' l'operazione orfica di un poeta che si è inventato una propria lingua. Ora può dire di una realtà che il flusso della memoria e della coscienza gli riporta, seppure frantumata e travisata: i luoghi, le persone e le cose, di un passato ormai perduto.
In un volume dal titolo Sulle immagini. Fano d'antan (Editrice Flaminia, 1990) la Fano che Ghiandoni tenta di descrivere, con i mestieri e le osterie, la vita del porto e quella della campagna, è un paese senza contorni reali, perso nella fantasia fra ricordi e sensazioni.
Eppure l'entità dell'opera di Ghiandoni non si misura soltanto in queste prospettive perchè in lui, forse per la sua formazione di matematico, è una forte attenzione al dato oggettivo, alla razionalità che comunque vuol trovare un suo spazio fra ciò che è ambiguo e simbolico.
E' significativo a questo proposito il bel volumetto Veleni (Edizioni L'Obliquo, 1991) dalla scrittura molto personale tra prosa e poesia, quasi aforismi, frammenti in cui è ben impressa la realtà, con tutti quelli elementi chimici, animali e piante, che sprigionano veleni, presenze di un mondo ben tangibile.
In Veleni sono lucidi i ricordi del nonno, amico e maestro di saggezza, nume tutelare di un mondo che il nipote può recuperare e rivivere soltanto attraverso le lenti deformanti della memoria e dell'operazione culturale.
Lo scrittore ha l'abilità di ben cesellare le schegge di realtà continuamente distorte nel processo memoriale, testimonianze dell'attimo fuggente, dell'apparenza, di ciò che è stato vissuto con amore e discernimento.
Queste esperienze di scrittura fatte da Ghiandoni hanno dunque una validità e un supporto teorico che trovano naturale espressione nelle poesie in dialetto.
L'autore in un intervento critico metteva in guardia dicendo che "l'impiego del dialetto va fatto con cautela per evitare la figura dell'apprendista stregone" (1). Considerando l'iter culturale percorso prima di scrivere in dialetto, Ghiandoni ha mostrato la giusta cautela.
La prima poesia a Fano è programmatica del dialetto: "Na scritura legera/sopra el mur/na bava bianca/ che porti drenta".
Il linguaggio ora si riduce all'essenzialità, a poche parole che sembrano preludere al silenzio finale.
Ma in queste larve di segni sono brandelli di ricordi, richiamati ora da un suono ora da un colore. Esemplare è il pépé della tromba di Varisto el carbunàr, che riecheggiava anche nei testi in lingua e perfino nelle pagine di critica letteraria.
Vi è la scontentezza del presente, prefigurato dalla pianura coperta di fiori secchi là dove i ragazzi un tempo si inventavano giochi.
L'epigrafe di Poesie a Fano è la Dedica di Pasolini a Poesie a Casarsa, epigrafe e titolo che richiamano un poeta particolarmente congeniale a Ghiandoni per l'uso del dialetto e per quei temi che sottende, il voler risvegliare il tempo mitico, astorico e poetico dell'infanzia, e recuperare le memorie della terra madre.

Francesco Piga






Giuseppe Giovanni Battaglia, Fantàsima, con disegni di Vincenzo Ognibene, Palermo, Villaurea, 1993, pp. 61.

Giuseppe Giovanni Battaglia ha ripreso finalmente, dopo tredici anni, a scrivere in dialetto siciliano.
Era stato una delle voci più significative nel panorama della poesia dialettale novecentesca e già le sue raccolte giovanili, che risalgono alla fine degli anni Sessanta, avevano attirato l'attenzione di Sciascia, Pasolini, Buttitta, Tullio De Mauro.
Nonostante il successo critico, in una nota all'antologia, con inediti, del 1978, L'ordine di viaggio, Battaglia affermava di aver concluso il suo " viaggio poetico attraverso la lingua siciliana".
Dopo aver utilizzato il dialetto in una progressiva disgregazione del reale, dal tempo oggettivo alle intermittenze della memoria e del sogno, il poeta probabilmente pensava che a quel punto la lingua nazionale gli avrebbe aperto nuove prospettive di ricerca. L'iter poetico va dunque seguito nelle tante sillogi, da Luoghi di terra e cielo del 1982 a Frainteso a scatto del 1992, pubblicate dopo l'esperienza dialettale.
Dal poetare in lingua restano comunque escluse le traslazioni di certi sentimenti: sono per battaglia le ragioni del cuore, le pulsazioni essenziali che possono essere dette soltanto nella lingua madre, "primigenia e assoluta, integra e viva".
Nelle nuove liriche in dialetto di Fantàsima le sensazioni espresse dal poeta si sono fatte più cupe e tormentano una coscienza in crisi di identità, insicura delle apparenze.
Il paesaggio siciliano, luogo senza nome dell'anima, sembra mandare bagliori con le sue bellezze e i suoi colori, ma è percorso da un gelido vento di morte.
L'io poetante si sente sbalzato in questa realtà stravolta, dove spazio e tempo non hanno più una dimensione lineare, logica. E' come se si fosse aperto un varco tra i vivi e i morti.
Sotto un cielo che sembra pregno della luce della natura e della luce divina, il poeta è cosciente del dolore universale, lo assume su di sè come un Cristo in croce.
Si svolge così una simbologia cristologica che non porta però ad acquisire verità ma a ribadire, in un costante ritornare del poeta con minime varianti sugli stessi termini e sugli stessi versi, i limiti delle conoscenze umane, la consapevolezza di un'armonia perduta.
"Pantàsima", parola simbolica per Battaglia, non è "lu sensiu pantàsimu ca sparti e ica la cosa" in cui "tuttu ia 'n 'alimentu sulu" delle sue prime poesie, non è più la ragione fantasima che, in una realtà comunque già fortemente compromessa, poteva ancora essere cercata nei fiori e negli uccelli che cantano. E' ora il simbolo di una realtà che vortica paurosamente su se stessa per separare definitivamente, "pantasimiànnu annorba l'àriu / chi lu porta, e, pantàsima, / 'nsùlica e 'mprucchia / pi scucchiari a nui...", con un'unica consolazione nel finale della poesia, "...- Ma puru / lu Signuri pantasimìa cu mia -." ("Pantàsima ia pantàsima").
I disegni di Vincenzo Ognibene, dal segno spezzato, allusivo, teso all'astrazione, sono in perfetta sintonia con la poetica di Battaglia.

Francesco Piga






Luigi Bressan, Che fa la vita fadiga, Spinea-Venezia, Edizioni del Leone, 1992, £ 25.000.

La poesia di Luigi Bressan è di difficile comprensione non tanto per l'uso del personalizzato dialetto della nativa Agna, che è anzi di agevole traduzione, quanto per i contenuti da cercare dietro un profondo sconvolgimento e una forte riduzione dei segni poetici.
Da un lungo processo di macerazione interiore deriva lo sbriciolamento della parola e dell'immagine. Il residuo di linguaggio si flette per cercar di dire il senso stravolto dell'universo, per intrecciare nmetafore che sappiano catturare un brandello della realtà, pur sempre incomprensibile e inafferabile nelle sue infinite dimensioni: "No dimandémo che lengua/che ze cula che cria/e zhiga e pianzhe e se lamenta/co i cjari cade dal cjlestro,/gjràndole del tempo che jera/e 'esso 'l pare infià". Tanto meglio se la lingua è quella materna, con cui almeno porsi interrogativi sull'esistenza, tentare di decifrare quei segni, orme e indizi, minimi e imprevedibili, chissà se mossi dal destino, dal caso o dal gioco, quei frammenti e barlumi di realtà che rimandano al di là delle apparenze.
Nello scorrere rapido e inconsistente del tempo, "co indosso altro che 'l nostro durare", prima di scomparire nel nulla, le sole conferme possibili sono quelle del solipsismo, del senso di spaesamento e di sospensione nel vuoto, senza rapporti con il passato nè approdi, senza "'Na zhima ca me cala,/ca vaga da on ponto/l'altro de l'aria".
La poesia di Bressan ricorda quella degli espressionisti tedeschi, nel gelo e nel silenzio che pervade ogni cosa, nell'io in agonia, prosciugato di ogni forza vitale, nell'impossibilità di conoscenza.
Per una maggiore comprensione delle liriche di Bressan è illuminante la presentazione che ne fa Giovanni Tesio in El zharvelo e le mosche (Boetti & C., Mondovì, 1990), secondo volume di Bressan dopo El canto del Tilio (Campanotto, Udine, 1986).

Francesco Piga






Dante Maffia, La castità del male 1986-1989, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 1993, p. 95.

La castità del male 1986-1989 è la più recente raccolta, di liriche e brevi prose, di Dante Maffia e segue L'educazione permanente 1978-1985, entrambe stampate nelle pregevoli edizioni svizzere di Casagrande.
Maffia, scoperto da Palazzeschi e considerato da Sciascia il miglior poeta calabro, ha pubblicato anche importanti liriche in dialetto, che culminano in Nu Ddìje poverìlle, edito da Scheiwiller.
Scrive giustamente Giuseppe Pontiggia, nella bella prefazione a La castità del male, che "la poesia di Maffia ha sempre rivelato. Sotto una ingannevole trasparenza, un fitto tessuto di trame sotterranee che la negavano, rendendola più complessa e più ricca".
La complessità della sua poesia è dovuta al fatto che Maffia, con estrema sensibilità moderna, pone subito al centro della propria meditazione una situazione esistenziale ormai intricata nella sua caoticità, quasi insostenibile. La realtà sfaldata ha perduto ogni connotato oggettivo, ogni consistenza, e non c'è più armonia tra l'uomo e le cose, mentre i sentimenti che scaturiscono dalla visione di ciò che resta incompiuto non possono essere che vaghi; incertezza e nonsenso sono gli unici dati certi. Non rimane al poeta che "attingere oltre, dove l'inesistente / ha bagliori e dimenticanze, / fingere una diversità d'intenti" ("Da un seme guasto, da una cellula impazzita").
Maffia recupera i valori della cultura e dei miti antichi, li coniuga con le urgenze moderne in una poesia orfica: "La poesia un bagliore / di fuochi" scrive in "Ars poetica".
E' in questi bagliori, di una realtà che concede soltanto fuggevoli apparenze, la ricchezza della poesia di Maffia. E' nel modo in cui il nonsenso e i misteri di tale realtà sono seguiti e captati, in intermittenze, tracce e segnali: Maffia, che crede fortemente alla potenza medianica e simbolica delle parole, crea metafore inaspettate e azzardate, sapienti accostamenti di immagini che stridono, si contrastano.
Così al tempo stesso la poesia accresce il suo ruolo di arbitrarietà e di finzione e si fa testimone della lacerata, e dilacerante, condizione umana.
Si percepisce il dramma del poeta, le tensioni e le attese, le sue amarezze, la disillusione dalla Chimera e dalle chimere, i rimpianti per tutto ciò che sarà inesorabilmente perduto, le inerzie e il naufragare nelle memorie ormai sbiadite.
Complessità, ricchezza, finzione e consapevolezza del proprio stato dolente e nostalgico erano tutte nella prima, e programmatica, poesia in apertura della raccolta: " Le scintillanti aurore / tese a smaltire cumuli di luce.../ tutto si traduce / in languore, poi, / per il finale oscuro: / un ingorgo, uno sterile muro / d'incompiute ragioni" ("Risposta").
Nelle liriche di Maffia, piene di punti interrogativi, di contraddizioni, scandite da un divenire illogico che i sensi non riescono più a distinguere, l'immagine dell'ingorgo di vita ritorna per l'epilogo in cui prevale la consapevolezza della morte e un desiderio, che si sa inappagabile, di immortalità.






Mauro Marè, Controcore, Campanotto editore, Udine, 1993.

Rispetto alle precedenti raccolte poetiche, da Ossi de Pèrsica (Roma, Ed. I.E.P.I., 1978) a Verso novunque (Roma, Grafica dei Greci, 1988), Controcore mostra una particolare attenzione di Mauro Marè alle molteplici possibilità del linguaggio, una maggiore perizia nello strutturare il verso con la sintassi spezzata.
Lo scavo all'interno del vernacolo romanesco, le continue dissezioni e scomposizioni delle parole, provate in mille possibili combinazioni, dalle assonanze alle paronomasie, alle allitterazioni, tendono a recuperare e a ricreare una parlata perduta, a riappropriarsi di parole ancora capaci di suscitare autentici e importanti valori semantici. Già in Verso novunque le parole erano sollecitate, forzate, ad andare oltre la loro apparente fisicità, dovevano cioè essere "bbone a ddì vvino ar pane e ppane ar celo" ("In punta a le parole").
Il poeta tentava così di recuperare le origini, ripristinare il. rapporto tra l'io e le cose, ricostituire la perduta totalità dell'essere.
Quello che Giovanni Tesio, nella prefazione a Controcore, chiama "un esercizio stilistico che è trasgressione, quando non addirittura effrazione di parola", di contro alla peggiore tradizione popolare romanesca, sottende il disagio esistenziale, un profondo scontento. L'espressività barocca di Marè er il suo sperimentalismo, mentre il dialetto "tarocca/sbava spatocca sbrocca mazzarocca" ("Quer tempo mamma"), moltiplicano gli interrogativi di una visione profondamente pessimistica di dolenti condizioni esistenziali, di verità relative.
A scompaginare il linguaggio, riflesso della caoticità dell'esistente, concorrono anche le rime, che non acquietano i significati, ma preludono ad altri rimandi, e le citazioni di versi famosi qui spiazzate, e spiazzanti, dall'essere inserite in un altro contesto.
Si consolidano i temi consueti della poetica di Mauro Marè: la solitudine degli uomini invischiati nella monotona circolarità degli accadimenti e in un destino senza riscatto, la "dubliqua niunquietà", il non senso dopo la perdita di ogni riferimento, un totale spaesamento, la città-inferno, "ccittà-vveleno e ttanfo", degno rifugio per l'animale-uomo rabbioso e senza identità, la fiducia nella poesia che "t'insegna l'insogno", nella parola che "ppijja er sopravvento" ("Una partita"), il giudizio morale sull'uomo per il quale "l'anima è mmale" ("Guerra"), sul "monno ammazzafavola" ("Novellanno").
Con Controcore si definisce l'intera ricerca linguistica di mauro marè ed è portato alle estreme conseguenze con pensieri, con echi che già in Verso novunque rimandavano alle considerazioni di Pascal sulla fragilità umana: "Ai inteso l'omo er tempo? incroci solitari/dentro a un gioco ppiù ggranne/hai visto mai le canne/su le sponne de fiume?" ("Le canne").
A differenza dell'uomo pascaliano, l'uomo metropolitano di Marè è privo di sentimenti e di pensieri, ormai smarrito nell'insensatezza del vivere quotidiano.
Al poeta, pessimista e disilluso, non resta che rileggere le schegge delle parole che è riuscito a radunare intorno ad una realtà è pur sempre scarnificata e frantumata.






Una delle più significative raccolte poetiche degli ultimi anni è stata scritta da Maria Pisano e si intitola Scutu, edita nel 1999 a Palermo da “I Quaderni del Giornale di Poesia Siciliana”.

Maria Pisano, romana di nascita e toscana di elezione, compone in dialetto siciliano,in un siciliano rielaborato e personalizzato.

La sua poesia conserva forme letterarie e un vecchio stile che sono letteratura pura. Non a caso il siciliano che usa è quello studiato sui libri, dalla poesia colta in dialetto alle raccolte di canti popolari, fiabe e indovinelli, rèpiti e scongiuri. E’ questa dimensione poetica che rimane costante riferimento per i risultati espressivi e per i contenuti etici delle sue composizioni.

Sono versi di “ straordinarie valenze sia poetiche che linguistiche”, come scrive nella pregevole introduzione Salvatore Di Marco, che per questo “evento eccezionale” ricorda il solo riferimento possibile, quello di Giovanni Calabrò, professore siciliano di letteratura francese che nel 1930 scriveva “villotte” in friulano.

La rarità di queste poesie è il ritorno alla letteratura come tale, nella varietà di stili, dagli impasti dialettali agli elementi provenzali, nell’ordine mentale che sa dominare una complessa situazione esistenziale.

Dopo aver scoperto nei libri antichi, come ci dice, “un cosmo dominato dalla superstizione magico-religiosa”, dispone di uno spazio poetico inconsueto, “uno scenario quasi onirico nel quale i confini tra il reale e il surreale, tra il vissuto e l’immaginario, tra le verità e le sue deformazioni, tra la sconfitta e la rivalsa, svaniscono” (Di Marco).

Le poesie della Pisano sono una continua e intensa meditazione, pesante e leggera, riflessioni imposte da storie e situazioni. Sempre emerge l’elemento metafisico sostenuto dall’oggetto da cui è scaturito.

Il vento, che tutto conosce del vacuo mondo, porta fin dentro casa una foglia secca come segno “di n’arma persa ca ddaffora passa”.

A formare l’oggetto ci sono dunque le parole antiche, le ultime “duri palori” che l’eremita cerca là dove si sono perse, nel deserto della storia, spogliate dal tempo e ricoperte di cenere dal vento. Quelle parole sono anche nelle paludi della memoria ad ascoltare l’ansimare della terra, in attesa di riaffiorare, di sbocciare come fiori.

La realtà è quella che irrompe dai titoli di un foglio di giornale portato dal vento e fermato col piede: “verra, genti ca mori e ca s’ammazza”.

Gli elementi naturali sono inquieti: la luna, insonne e vagabonda, illumina il passo dei ladri e chiama la civetta a lamentarsi, il sole è cieco e sordo.

Gli animali, compagni di cammino, sono un cagnaccio sudicio e una gattina persa.

Sono realtà già turbate che si stravolgono ulteriormente risucchiate in un vortice così impetuoso da creare una situazione più reale della stessa realtà, quella della vita interiore, del flusso di coscienza dove si agitano sogni, pensieri e incubi.

E’ la condizione esistenziale di sempre, che non ha concesso neppure un’infanzia serena: da bambina, dopo aver messo la bambola a dormire in un lettino di stracci, veglia fino a tardi

“scantata di lu scuru e di lu spirdu”, impaurita dal buio e dal fantasma, che ha preso forma dai vestiti gettati sulla sedia e la guarda dal buio.

Incubi, sogni e insonnie non concederanno mai tregua, saranno orizzonti immateriali, confini entro cui indagare.

L’indagine avrà toni di dialogo, spesso alterati con i pensieri che mordono come lupi famelici, a volte leggeri quando, come tanti cuccioli invasati, le abbaiano intorno al letto.

Nelle poesie di Maria Pisano le parole sono sbocciate portando in superficie figure, brani di storia, che appena evocati si dissolvono “comu si fussuru cosi nzunnati”, così come il cuore che, dopo aver visto nel rapido fluire del tempo solo qualche lieve apparenza, muore senza poter trattenerne alcuna, senza aver capito, ormai nell’impossibilità di una rinascita.

Ma tanto è bastato per avviare un’avventura nella dimensione metafisica.

E’ un labirinto terrificante per le grida degli uccelli rapaci, sprigionati dai sogni, con artigli pronti a lacerare, per i fantasmi dalle spaventevoli boccacce sdentate.

A condurci è l’unica “Dea vera”, l’anima dalle molte sembianze. Innocente, condannata nel “corzari di lu tempu” e dunque specchio del mondo, o colpevole pirata d’accordo col diavolo, o forse soltanto menzogna di chi la nomina, è lei che concede l’estremo dialogo, rivelatore.

L’Arma dice alla Crozza, il Teschio segno dell’umana spoglia a cui non giovò conoscere la vita terrena dove ha visto male e bene: “Tu solo sei veritiero specchio / del destino della stirpe umana”.

E’ certo che il Tempo distruggerà anche la Crozza che, forse, potrà rincontrare l’Anima nel Niente.

La poesia di Maria Pisano si colloca su quel versante della cultura e tradizione siciliana che non tenta neppure un certo umorismo per esorcizzare e stemperare l’incubo della morte e del nulla. Qui si predilige quei luoghi culturali in cui è un realismo visionario a oltrepassare le soglie del mistero e della morte.

I segnali divinatori dello “scutu”, la personificazione della morte e dell’anima, la presenza del “marzamareddu”, vortice di vento ma anche demonio ed incubo, tutti elementi propri del barocco siciliano, avevano trovato la massima espressione letteraria nelle liriche di Alessio Di Giovanni, il poeta del quale Maria Pisano ha presentato e commentato alcuni brani di poemetto inedito. E’ lei stessa a situare l’esperienza poetica di Di Giovanni nel panorama della poesia dialettale novecentesca, in quel contesto in cui si colloca a pieno titolo la stessa poesia della Pisano, per affinità di temi e di intonazione: “la tanta poesia che, in questo secolo, ha trovato nel dialetto il mezzo espressivo più congeniale: ricordiamo i vivi/morti della poesia friulana del giovane Pasolini, nonchè la fluttuante presenza dei morti nel cosmo tursitano di Albino Pierro”.

Francesco Piga






Le espressività sperimentali della parola piroetta nel dialetto di Cesare Ruffato.

In una recensione (1) alla raccolta di liriche in dialetto padovano di Cesare Ruffato, Parola pirola, (Biblioteca Cominiana, Padova, 1990), il poeta e critico Franco Loi risolleva un problema all'interno del rapporto tra lingua nazionale e dialetto. E' possibile la sperimentazione linguistica in ambito dialettale oppure la sperimentazione compete unicamente alla lingua nazionale? Loi ritiene il dialetto "costitutivamente, spiritualmente, refrattario a ogni sperimentazione", dove si rischia di fare dei suoni un fine, al di qua dei valori a cui deve aspirare la vera poesia. Loi è contrario "a trasferire nell'ambito delle lingue orali problemi e soluzioni sperimentali propri delle tradizioni storiche e letterarie delle lingue scritte". Da una parte quindi l'espressività nativa e la coralità del dialetto, dall'altra le ricerche dell'avanguardia sul tessuto linguistico nazionale.
Già altri critici e altri poeti si erano espressi su questa questione; per capire quanto sia stato finora vario il ventaglio delle interpretazioni basti citare due interventi critici, uno di Giorgio Petrocchi e l'altro di Folco Portinari.
Se per Petrocchi che, considerando l'aspetto sperimentale nel versi di Giotti, di Noventa, fino al Pasolini friulano e poi ancora di Loi e di Pierro, scriveva che "il problema di una poesia sperimentale ci può far capire che non sempre si tratta di letteratura spontanea, ma fatta a tavolino" (2), Portinari rivoltava il discorso, in chiusura di una recensione all'antologia di poeti dialettali: "Mi resta un'ultima considerazione, da meditare o certificare, dato che le apparenze attribuirebbero al dialetto qualità di conservatorismo: e se il vero sperimentalismo fosse stato e fosse questo, verificata l'inattualità e la deficienza strutturale della Lingua, della Letteratura, della Poesia? Proviamo a parlarne" (3).
Il problema posto deve essere considerato nell'ottica del poeta che, scrivendo in dialetto, usando il dialetto come lingua incanalata in una struttura ritmica e metrica, lo fa diventare forma espressiva, e soggetta quindi ad ogni sperimentazione. E' ciò che fa lo stesso Loi quando usa il dialetto milanese e lo rende originale mescolando elementi d'ambito proletario e contadino con voci vernacolari e di altri dialetti, come quello nativo di genova, latinismi e parole straniere, arcaismi e medioevalismi.
Dal momento che viene rielaborato dal poeta e usato come forma espressiva, il dialetto rientra in una lingua con struttura arbitraria, in una letteratura artificiale per definizione. Come forma letteraria, il dialetto va verso una serie di mutazioni che lo renderanno diverso da quello che era nel parlato. Modificazioni del dialetto sono già necessarie per assoggettarlo allo schema metrico. Lo sperimentalismo accelera il processo di separazione tra i termini dialettali trasferiti in letteratura e l'oralità del dialetto, e ciò che permane in comune non esprime gli stessi concetti.
Dalla scelta di certi elementi dialettali invece di altri, che è già una personalizzazione, da operazioni stilistiche più complesse perchè reinventano il dialetto attraverso l'ampliamento e la deformazione, si ottengono i dialetti "illustri" per la loro forte espressività letteraria, come il triestino "petrarcheggiante" di Giotti, il "veneziano" inventato da Noventa, il personale gradese arcaico di Marin, il tursitano elaborato di Pierro. Sono linguaggi strani anche per gli abitanti del luogo, casseforti di tesori espressivi che vengono forgiati e utilizzati per un più ampio contesto lirico in cui ogni sperimentazione è consentita.
Il dialetto si fa strumento all'interno della lingua, che ha bisogno del dialetto e si accresce con i termini dialettali. A questo punto ciò che conta sono i risultati poetici, indipendentemente da una minore o maggiore coartazione del dialetto, dalle tensioni sperimentali più o meno ardite.
E' ovvio che sperimentare, in lingua così come in dialetto, non vuol dire disgregare comunque, in modo artificiale, l'ordine linguistico e la sintassi, ma avere un riscontro con i contenuti.
Ne è un esempio la poesia dialettale di Cesare Ruffato, noto negli ambienti letterari anche per le raccolte in lingua.
Già il passaggio di Ruffato dalle liriche in lingua a quelle in dialetto, che così si arricchiscono di temi e tecniche, dimostra quanto sia importante la diglossia e quanto sia futile la distinzione fra poesia in lingua e poesia in dialetto.
Nella continua ricerca poetica nasce il desiderio di esprimere la propria condizione esistenziale in dialetto, scelto magari per proseguire quella sperimentazione iniziata già in lingua. I segni linguistici si muovono in quello che appare, al tempo stesso, un gioco rocambolesco e una guerra metaforica senza quartiere, si aggregano e disgregano nel tentativo di decifrare, oltre il significato delle parole, realtà e sensi nascosti, enigmatici.
Il poeta è dio ermeneuta e ominide sperduto fra grafie e fonemi apparentemente insignificanti: "Davanti a 'sta pratica de parole/femene, a 'sti arzigogoli soranatura/me trovo labirinto imbranà/come scaltrìo da l'orlo del sublime" (Parola pirola).
La ricerca poetica di Parola pirola avviene in un registro sovraccarico di aggressioni al corpo poetico, allitterazioni e neologismi, con assonanze e dissonanze, in una continua riflessione sul confronto parola-cosa, parola-poesia. A tali sperimentazioni sono sottesi temi etico-sociali e mitici.
Il poeta è cosciente di operare in una struttura linguistica indeterminata, ad infinite dimensione, labirintica ed abissale, sa che è impossibilie far calare o far aderire le parole alla presunta realtà. La realtà è quella che noi ci creiamo, diversa da quella degli altri; con un linguaggio spinto al massimo della sperimentazione il poeta si può illudere di catturare i piccoli spostamenti di visione, frammenti variabili di realtà.
Così la metafora; scrive in Parola pirola: "la parola poetica che inventa pitura/iuta la realtà pelegrina donà/nomina in sordina i malani de l'anema/ darende la metafora che zonta tanti/consieri ne la sostanza del mondo".
Il mistilinguismo di Ruffato è rivestito di una certa classicità per quei termini tratti dalla grande tradizione romanza, in prevalenza latini e provenzali, tributo d'amore per una lingua madre che avvicina alla realtà costruita dal nostro sguardo, e trova connubi ideali fra parole forbite e parole dialettali.
Nel suo sperimentare un nuovo linguaggio il poeta è attento anche alle voci del dialetto arcaico, al prelinguismo, come lingua segreta, incerta.
Un dialetto così composito, a più valenze, ha una grande autonomia creativa, ha la capacità di liberarsi da quelli che Ruffato chiama i "panasèi streti", e può concedersi licenze e sfizi stonati per la lingua: "'na lengua estuaria a toni/alti quasi vocalese che se perde/nei boschi de la nostra vera sostansa" (Parola pirola).
Nella raccolta El sabo (Biblioteca Cominiana, Padova 1991) lo sperimentalismo di Ruffato determina una forte tensione espressiva dai toni cupi per i ricordi, di una tragica coralità. Il discorso poetico è infatti ora dettato da un'amara vicenda familiare per la morte della figlia Francesca, alla quale il libro è dedicato. El sabo svolge una galleria grigio- memoriale di quadri, luoghi di osservazione e riflessione, ove "capita el dialeto no come motivo/de carghe nucleari o trapeli/dirompenti ma come i spasemi/e i cucociae de la vose/co un fià de prima e de malissia/nel farse viva a dire/la so fedeltà de no sparire".
Verso dopo verso il testo cade nello specchio tenebroso di un'umanità frantumata e insensibile ai valori, di una gioventù che si misura con riti di morte, mentre il potere "melina (...) ponsopilaterie/gargarismi ganzi co la parola/prevenzione sensa el costruto/de cultura e carità".
L'interesse di Ruffato per i problemi sociali e per la condizione umana non viene meno, anzi si pronuncia con liberazione di senso più etico anche nell'ultima raccolta I bocete (Campanotto, Udine, 1992), dedicato alle problematiche dell'infanzia e che si potrebbe quasi definire per la stratificazione di sentimenti, emozioni e per gli enunciati, un cantico di passione e di amore per le piccole creature.
Qui il dialetto, l'idioletto personale che è una specie di provenzale, un oggetto del desiderio nel rincorrere l'infanzia senza afferrare nulla, si presta come lingua degli "angeli" per parlare di una problematica che per la sua intensità sfugge a qualsiasi norma poetica. Può trovare invece nell'ispirazione genuina che è tipica della lingua materna la completa significazione, il silenzio, l'enigma e l'ascolto.
Alcune poesie sono programmatiche del dialetto come sperimentazione, come dilatazione linguistica: "I bambini ideogrammi vari/de onomatopea, alone/sluseghin torno a le parole/bocete puteleti pupeti cei/pulsini picinini ninini bei/fregolete de subieti pargoleti/trabacolini schissoti tatarete/radeghini agnelini pierini/...". Così tutta la raccolta viene ad essere una ricerca sulla lingua-bambina, una ricerca continua mai disgiunta da un ulteriore approfondimento dei temi delle liriche precedenti.
Nella Postfazione di Bocete il critico Antonio Daniele osserva che il dialetto è assunto da Ruffato "come oggetto di recupero e insieme di abuso, ed è piegato a tutte le possibili alterazioni espressionistiche, esasperandone ora la patina arcaizzante e contadinesca, ora "civilizzandolo" mediante la dialettalizzazione di un lessico intellettuale astratto o accademico, l'astrattizzazione o addirittura invenzione di parole pavane, la creazione di parasintetici dialettali, specie da parole straniere".
Nel panorama della poesia del Novecento le liriche dialettali di Cesare Ruffato trovano quindi una propria autenticità per il rimando continuo, e riflesso, dall'oggetto, dalla persona alla parola, così che la condizione umana ha un corrispettivo nelle eterogenee e indeterminate strutture linguistiche. Lo sperimentalismo, che a volte può sembrare a oltranza, è teso a sondare i simboli e le metafore di una vita labirintica per le difficoltà di ogni giorno, la precarietà delle fedi, le intermittenze dei ricordi, i contrasti, le storture e i falsi progressi.

Francesco Piga






Via terra. Antologia di poesia neodialettale, Udine, Campanotto Editore, 1992, pp. 270.

L'antologia, curata da Achille Serrao, si colloca in quel processo di recupero e di rivalutazione della poesia in dialetto che, da poco più di un decennio, ha portato la ripubblicazione dei grandi autori e la collocazione di nuovi poeti in dialetto, presentati da autorevoli critici, nelle collane delle maggiori case editrici, un ampio spazio nelle antologie e nelle storie del Novecento, la nascita di alcune riviste, come "Diverse lingue", "Lengua" e lo stesso "Il Belli", dedicate interamente ai testi dialettali e alle lingue minori, e ancora, convegni, incontri e serate con letture di poesie dialettali e con la presenza dell'autore, la stampa delle nostre antologie all'estero.
Achille Serrao, che oltre ad essere poeta in lingua e in dialetto napoletano è anche un attento critico della cultura letteraria, è ben consapevole di questo nuovo contesto di cui è necessario tenere conto per presentare una nuova antologia.
La sua scelta, fra poeti nati dal 1930, vuol documentare ciò che di poeticamente valido si è andato formando nella piena consapevolezza dell'efficacia del dialetto come lingua poetica reinventata e inserita in un plurilinguismo aperto a nuove scelte stilistiche e più duttile, per esprimere, al di là delle tradizioni popolari, le complesse e problematiche condizioni esistenziali del Novecento.
Le liriche edite e inedite dei quarantaquattro poeti antologizzati, divisi per regione, e presentati da Serrao con note bio-bibliografiche e con brani estratti dai vari testi critici apparsi sui singoli autori, confermano le potenzialità espressive del dialetto, la sua capacità di toccare più corde liriche rispetto alla fissità del lessico letterario tradizionale.
Le antologie autorevoli, come questa di Serrao, sono importanti tasselli sul panorama sempre più vasto e complesso della poesia dialettale che, pur con le precedenti antologie, resta tuttavia incompleto per diversi motivi, tra cui non ultima la difficoltà di reperire i testi, molti dei quali sono pubblicati da piccole case editrici in edizioni limitate e fuori commercio.
Nel lavoro di intarsio condotto da Achille Serrao risalta, oltre all'attenta e oculata scelta delle liriche già edite, la numerosa presenza delle poesie inedite. Molte, e tutte significative, sono infatti le voci poetiche che appaiono per la prima volta in antologia e in testi critici sulla poesia dialettale, dalla voce in dialetto cremonese di Giancarlo Pandini a quella veneta di Fabio Doplicher, entrambi conosciuti finora come poeti in lingua, prosatori e critici. Per questi, come per altri poeti soltanto ora antologizzati, Serrao riporta gli interventi degli stessi autori sui motivi della loro scelta del dialetto come lingua della poesia. Così Marcello Marciani osserva che è stato per lui inevitabile usare una lingua fatta di termini gergali, stranieri, dialettali della nativa Lanciano, un lingua che avvertiva "fortemente espressiva, ricca di una remota musica, morta al mondo della moderna comunicazione ma misteriosamente palpitante come un evento biologico". Vito Riviello, ben consapevole dell'importanza delle origini gallo-italiche che ha il dialetto di Potenza, sua città natale, dice che preferisce però usare il dialetto della fine degli anni Quaranta per "conservare lo "spirito semantico" d'una generazione", e con quello far riaffiorare i tempi dell'adolescenza. Per Efisio Collu, l'emigrato che ritorna in Sardegna, il dialetto è la voce della propria terra a cui chiedere un'identità, una ragione di vita.
Di questa antologia va inoltre segnalata l'Introduzione in cui il Prof. Luigi Reina, dopo aver osservato le difficoltà che ha avuto il dialetto per farsi riconoscere la stessa dignità espressiva della poesia in lingua, riporta alcuni esempi di poeti, da Marin a Pierro, allo stesso Serrao e al poco conosciuto Rimanelli, che hanno reinventato il dialetto per farne una lingua letteraria, uno strumento culturale capace di dire le nuove istanze novecentesche.

Francesco Piga






Achille Serrao, 'A Canniatura, Roma, Editori & Associati, 1993, p. 105.

Sono bastate due raccolte di Achille Serrao in dialetto campano perchè la critica letteraria più autorevole si interessasse alla sua poesia. E' un fatto di maggior rilievo se si considera che sono brevi sillogi, Mal'aria, edita nel 1990 dall'Antico Mercato Saraceno di Treviso, e 'O ssopierchio del 1993 nelle edizioni Grafica Campioli di Roma. Del resto Serrao non si lascia mai prendere dalla frenesia di scrivere e ferma sulla carta solo i momenti di autentica ispirazione per poi iniziare un lungo lavoro filologico alla ricerca delle parole, fra quelle del lessico duro della nativa Caivano più adatte ad esprimere valenze antropologiche, affettive e culturali.
La critica che si è subito occupata delle liriche in dialetto di Serrao, già conosciuto come poeta in lingua, narratore e saggista, ha messo in risalto gli aspetti più importanti della sua poetica.
In diversi interventi, Franco Loi ha osservato che l'amore di Serrao per la cultura classica, per la lingua dai bei suoni e per la miglior tradizione napoletana, si traduce e si manifesta in una semplicità del dire, in una aristocrazia di tono, carichi di allusioni, di rimandi alla solitudine individuale, all'angoscia delll'uomo contemporaneo. Loi, tra l'altro, sottolinea quella che è una delle caratteristiche peculiari della poesia di Serrao, l'attenersi alle piccole e vane cose della cronaca per alludere ai grandi temi del vivere e del morire, intercalando sogni e realtà.
Con le pagine di prefazione al volume più recente di Serrao, che comprende le sillogi precedenti e nuove liriche, Giacinto Spagnoletti rileva i molti altri valori di una poesia ancorata a verità lontane e irrecuperabili, dai toni sacrali, intrisa di una tristezza "montaliana".
Quella di Serrao è una poesia sofferta non soltanto perchè filtra attraverso una forte tensione ispiratrice, ma anche per le esperienze culturali, i riferimenti del poeta, che sono tutti immersi in una situazione di disagio esistenziale, di individualità frantumata e autoprogettuale, in un contesto dove è alterato ogni senso logico e contano soltanto le intermittenze della coscienza.
Programmatico è il finale della poesia "'O puntone" che introduce e unisce le varie raccolte: "Nu vutà 'e pressa senza mai sapé / si chiare o ammagagnate so 'e pparole / 'e vvoce 'o riesto...na vutata... // Ma nun te n'addunà, trase a via 'e dinto".
Anche se tutto è apparenza, "entrare" diventa al tempo stesso imperativo categorico e ultima speranza.
Così il malinconico canto delle piccole cose, con il tessere termini fortemente espressivi, recuperati da un mondo lontano, quello dell'amata infanzia contadina, cattura lampi, bagliori, schegge di istanti perduti, in cui si mischiano stati d'animo e minime realtà.
Mentre il tempo dimentica il suo procedere, "s'arravoglia 'o tiempo", e la vita si deforma, "se sturzella", arruffando lo spazio e sovrapponendo avvenimenti e ricordi, è già tanto per il poeta aver la sensazione di riascoltare voci che si credevano ormai irrimediabilmente disperse. Illusioni e disillusioni si alternano, la tristezza prevale, sul sogno e sull'inconsapevolezza, nel decifrare i lamenti ancora vaganti nella "mal'aria" del passato, le voci di fantasmi, le parole "maje fernute", "vacante tale e qquale o viento".

Francesco Piga






Sul futuro della poesia dialettale.

"Dicono gli storici che, a causa del turbine dei traffici e delle trasmigrazioni, i dialetti sono destinati a scomparire rapidamente. Se è vero e fatale, avvenga pure: per questo spariranno i dialetti, scritti o parlati che siano. Il greco, il latino, l'etrusco pur essendo lingue morte, vivono nelle scuole e nel campo degli studiosi. L'Iliade vive, il poema dei Nibelunghi vive..."
Ervino Pocar

Le prospettive della scrittura in dialetto sono vincolate al futuro della letteratura dal momento in cui il dialetto diventa letterario entrando con pieno diritto a far parte di un contesto culturale.
Nell'Ottocento, quando la letteratura era basata su convinzioni logiche e il linguaggio era certo di poter circoscrivere la realtà, il dialetto documentava per lo più gli usi e i costumi regionali.
Assume un altro ruolo quanto cambia la visione dell'esistenza: viene meno la fiducia nella realtà oggettiva, si scardina l'unità organica della scienza. Così attestano il principio di indeterminazione di Heisenberg, che sottopone i fenomeni naturali ad una molteplicità di sistemi, e il teorema di Godel sull'incoerenza di sistemi apparentemente coerenti.
Come si affossa il sistema univoco e onnicomprensivo della scienza e si frantumano le tesi del materialismo dialettico, anche il concetto canonico di lingua, il monolinguismo, basato sulla visione chiara e determinata dei rapporti fra l'io e le cose in un mondo di cui si conoscono gli esatti limiti, cade ed è sostituito da un sistema aperto di segni linguistici, dall'associazione della pluralità degli idiomi: il linguaggio si decodifica, si fa invenzione, si dilata e diventa dinamico secondo le necessità espressive.
La letteratura, che si trova a dover esprimere condizioni esistenziali sempre più complesse e una realtà a più forme e sensi, usa lessici fino ad allora confinati fuori dalle opere letterarie, accetta intrusioni delle lingue straniere.
Il dialetto va quindi a far parte di un tale linguaggio rientrando così nel nuovo, diverso e più esteso, concetto plurilinguistico e mistilinguistico che si ha nel Novecento; nei diversi codici linguistici, aperti, si confonde con la lingua materna e con quelle straniere.
E' in questa struttura indeterminata, dove ogni sperimentazione è consentita, che il dialetto trova il suo nuovo ruolo, confacente, esprimendo più corde liriche rispetto alla fissità del lessico letterario tradizionale.
Il dialetto ha un futuro grazie alla sua polivalenza, come linguaggio della coscienza, scaturito da sfere astoriche, pre-logiche, senza tempo né luogo, come lingua materna, privata, tesa alle memorie, ai sogni e alle realtà perdute, come lingua di situazioni mitizzate contro un'attualità in crisi.
Recuperato con un accurato lavoro di ricerca filologica, stravolto e reinventato secondo le esigenze poetiche, il dialetto
è capace di difendere identità storiche e individuali, tradizioni e coralità, ha una libertà creativa che si oppone ai linguaggi consunti, massificati dell'economia e della politica.
Chi scrive oggi in dialetto, chi usa il dialetto come immaginazione e fantasia, ha comunque il senso della doppia lingua, sa che nel concetto allargato e arbitrario di letteratura non c'è più opposizione, come nell'Ottocento, fra koiné e lingua, è consa
pevole che l'arbitrarietà linguistica in cui opera ha portato la
frattura tra unità lessicali e valori semantici, la mescolanza dei piani linguistici, l'abolizione delle convenzioni metriche e sintattiche, della distinzione poesia - prosa.
Attenti a questo contesto letterarie in sintonia con i motivi della letteratura europea, i poeti e i narratori che usano il dialetto continuano ad inventare e sperimentare un linguaggio infinito per meglio esprimere le ambiguità dell'esistere e i polimorfismi novecenteschi. Così la poesia in dialetto non è destinata a morire, ma continuerà a testimoniare l'individualità sempre più frantumata, problematica e dolorosa dell'uomo.
Auguriamoci con Andrea Zanzotto che "l'interesse al dialetto possa aprire al futuro, creando una sensibilità linguistica più sottile, capace di difendere antiche identità, irrobustire l'esanguità della lingua nazionale "media", e infine ciò che più conta, di cogliere nessi e affinità che si estendono al di là dei reticoli nazionali, verso un ampio orizzonte sovranazionale".






TWO LANGUAGES, TWO LANDS” - L’opera letteraria di Joseph Tusiani a cura di Cosma Siani, Quaderni del Sud, San Marco in Lamis 2000, pp183.

Sono riuniti in volume gli atti di un convegno di studi dedicato all’opera letteraria di Joseph Tusiani.
Le relazioni e i contributi ricostruiscono le esperienze esistenziali, l’incidenza del tema antobiografico dell’emigrazione, per poi analizzare la poliedrica attività letteraria, dalle molte traduzioni dei classici italiani in inglese, dai romanzi alle poesie in latino, italiano, dialetto e inglese.
Il volume e il libro di Cosma Siani, L’io diviso. Joseph Tusiani fra emigrazione e letteratura, edito da Cofine nel 1999, sono supporti critici fondamentali, e necessari per rileggere Tusiani o per iniziare la scoperta di un’opera che, per passione civile e morale, e per valenze espressive, si colloca in una tradizione colta.
Cosma Siani, che organizzò nel 1999 il Convegno a San Marco in Lamis, il paese garganico d’origine del poeta, è il curatore degli atti e l’autore della dettagliata bibliografia che conclude il volume.
Il dialetto è per Tusiani un ritorno alle origini più arcaiche, una ricerca d’identità anche culturale. Scrive Siani nella postfazione ai canti in dialetto garganico di Na vota è ‘mpise Cola (Quaderni del Sud, 1997), che seguono il poemetto eroicomico di ascendenza boraziana La poceide (Quaderni del Sud, 1996): “per vie desuete e inconsuete, l’infittirsi della produzione dailettale in Tusiani coincide con la rinnovata fortuna che la poesia in dialetto incontra in questo finesecolo”. Alla ricerca delle radici in Gargano, Tusiani scopre che tutta una rete di riferimenti ai canoni ricevuti, al proprio passato lavoro, alla propria vita si presta ad essere trasposta nella lingua dell’infanzia”.
Si ha dunque un’analisi critica complessiva di tutte le opere italiane e straniere di Tusiani, e si segue il suo iter biografico, un ritratto preciso che culmina in un’intervista allo stesso autore, svolta in dodici domande da Carmen Scarpati.
Tusiani ci tiene a ricordare il suo impegno nell’ avere usato una lingua nuova per essere accettato come scrittore americano. Ricorda i tanti ostacoli incontrati nel superare il conflitto di culture.
Con giusto orgoglio parla delle sue traduzioni di sette secoli di poesia italiana, un lavoro che ha contribuito a diffondere la civiltà italiana negli Stati Uniti.
Si aggiunge , ultimo in ordine cronologico un altro volume, un’antologia di Joseph Tusiani, dal titolo In 4 lingue, sempre a cura di Cosma Siani, edita da Cofine nel 2001.
L’intento del curatore è quello di proporre alcuni esempi della sterminata e multiforme, nonché unitaria, opera di Tusiani.
Si ha così una prima sezione di testi poetici inglesi, lingua in cui, come scrive Siani, Tusiani “afferma il suo modo più convincente”.
Seguono le poesie latine dove si ritrovano i temi dominanti della sua poetica, “l’ evocazione della terra d’origine trasfigurata a simbolo, l’interrogarsi sulla propria identità, la meditazione sul passare del tempo, l’appressarsi della morte, la propria vicenda famigliare…”.
Seguono le sezioni in italiano, con poesie e prose “etniche” centrate sulle vicende migratorie e sulla doppia identità italo-americana.
Le poesie in dialetto garganico sono un recupero di una lingua considerata vitale, un tassello memoriale che illumina la propria identità.
La traduzione di una poesia italiana in inglese e un breve saggio ricordano le altre attività letterarie di Tusiani.
In appendice si ritrova la cronologia della vita e la bibliografia essenziale.






L’uso del dialetto in poesia.

L'uso del dialetto in poesia rientra nel concetto plurilinguistico e mistilinguistico delle letteratura novecentesca. Caduta la concezione unitaria e monolinguista del Manzoni, il relativismo moderno, antistorico e irrazionalista, ha legittimato una letteratura che ingloba linguaggi diversi e aperti, lessici fino ad allora confinati fuori dalle opere letterarie, intrusioni, anche violente delle lingue straniere, codici linguistici vari che consentono ogni sperimentazione.
Questo polimorfismo si avvale di strutture linguistiche indeterminate ed eterogenee per meglio esprimere condizioni esistenziali sempre più complesse una realtà a più forme e sensi: qui lingua materna nazionale e dialettale si confondono con pari dignità letteraria.
Analizzare la poesia in dialetto è quindi per il critico un'operazione naturale dal momento che il dialetto, usato come linguaggio personalizzato dal poeta e divenuto strumento all'interno della lingua, è una forma letteraria. Ciò che deve contare per il critico sono i risultati poetici, al di là di una minore o maggiore coartazione del dialetto, delle sperimentazioni più o meno ardite.
Dalle varie sfaccettature e dalle origine a volte addirittura opposte, come lingua-madre, lingua di diversità e di opposizione, di reperti e di ricordi, di tradizione e di uso quotidiano, il dialetto è comunque sempre mutato dal poeta che ne fa un linguaggio letterario, qualcosa di diverso dal dialetto parlato. In questa rielaborazione il poeta può usare sia il dialetto legato al mondo contadino, da recuperare con un'attenta analisi filologica, sia il linguaggio urbano, quello artefatto e parlato, in misura diversa, da ogni ceto sociale.
Il dialetto può essere utilizzato come strumento di grande espressività, come elemento linguistico composito capace di toccare più corde liriche rispetto alla fissità del lessico letterario tradizionale. Scrive Bufalino che il dialetto "più sembra rustico e greve più riesce a sprigionare musiche, eloquenze e fantasie espressive che non trova l'uguale nella parlata cortese...". Gli autori in dialetto dispongono addirittura di una maggiore libertà linguistica rispetto a quella che hanno i poeti in lingua nazionale.
In questo dilatamento delle forme letterarie si ritrova un dialetto comunque diverso da quello originario, un dialetto soggetto a minori o maggiori integrazioni e contaminazioni, che può essere stato sottoposto ad ogni tipo di sperimentalismi.
Le rielaborazioni e le mutazioni del dialetto, la scelta di certi elementi dialettali anziché di altri, hanno portato a linguaggi poetici personalizzati. Basti pensare al triestino "petrarcheggiante" di Giotti, al "veneziano" inventato da Noventa, al gradese arcaico di Marin, al tursitano memoriale di Pierro.

Francesco Piga