"LA LUCE BUIA": IL "GIERGO MORTIS" DI CESARE RUFFATO

Negli ultimi anni la già imponente bibliografia critica sull'opera poetica di Cesare Ruffato ha avuto un'impennata. Sono uscite due monografie (quella di Luciano Caniato nel 1995 e quella di Francesco Muzzioli nel 1996) e varie riviste hanno dedicato dei numeri unici alla definizione della sua poetica, con interventi numerosi di personagg noti e ignoti del mondo letterario. Accanto a traduttori in varie lingue, critici, poeti, saggisti, filosofi e giornalisti di ogni ordine e grado hanno scritto pagine e pagine, dicendo tutto e il contrario di tutto, citandosi l'un l'altro o ignorandosi a vicenda. Si tratta molto spesso di interventi densi, non sono semplici impressioni di lettura. Alcuni di questi sono saggi veramente pregevoli ed esaustivi. Confesso di non padroneggiare questa babele critica in crescita esponenziale, della quale non riuscirei del resto a tenere il passo. Soltanto pochi giorni fa mi è giunto per posta un corposo plico, inviato da Ruffato stesso, che conteneva le fotocopie di due nuovi saggi (uno di Pier Aldo Rovatti), e le fotocopie di alcune traduzioni di poesie probabilmente inedite in tedesco, e il bel volume In forma di parole, come numero del terzo trimestre del 1998 della rivista "Poetare e Pensare", in cui compaiono cinque poeti in dialetto veneto (Zanzotto, Ruffato, Caniato, Cecchinel e Villalta). Di fronte alla mole del materiale di indagine ho deciso di ritagliarmi un argomento molto circostritto per questa relazione, scegliendo di parlare delle immagini della morte che compaiono nella sezione a titolo Giergo mortis della raccolta Scribendi licentia del 1998. Naturalmente cercherò di arricchire il campionario con qualche incursione nei testi limitrofi che caratterizzano la più recente produzione poetica in dialetto e in lingua, da Diaboleria in poi. Dico fra parentesi che trovo assai significativo che una delle due poesie di Cesare Ruffato tradotta da Giorgio Faggin in Mimese (versioni poetiche in friulano di alcuni grandi poeti europei dell'Otto e del Novecento), per la collana Lingue di poesia diretta da Ruffato stesso per l'editore Marsilio, porti il titolo Nassita e morte , perché forse può essere visto come un indizio della centralità del tema nella sua produzione letteraria, almeno in quella dell'ultimo decennio.

Nei miei studi precedenti, usciti anni fa sulle riviste "Galleria" e "Otto/Novecento", avevo fatto il punto sulla poetica del poeta padovano dagli esordi letterari fino alla raccolta I Bocete. Avevo aggiunto poi una voce di dizionario, nel 1997, per un volume curato da Enrico Ghidetti e Giorgio Luti per gli Editori Riuniti. Sono, insomma, rimasta indietro di almeno due anni rispetto alla costruzione di un ritratto critico che si avvia ad essere quasi monumentale. Mi è piaciuta, quindi, l'idea di tentare di colmare la lacuna di un quinquennio seguendo le tracce di un motivo in fondo marginale (come la morte) nella pur vasta produzione di versi 1995-1999, correndo il rischio dell'ingorgo concettuale, di trovarmi cioè a far passare da una buia cruna d'ago una valanga di parole e di pensieri di questo scrittore torrentizio (lui stesso si definisce da qualche parte "acrobata d'arte mimetica" (1)) che tutt'a un tratto, imprevedibilmente, in data 1997, si è messo addirittura a scrivere Il cantico del silenzio, dove però - va detto - non si celebrano gli elogi del silenzio, ma si cerca di trovare i modi di una "dicibilità del silenzio". C'è a proposito un notevole saggio di Ruffato su I silenzi del Tasso, uscito nel volume degli Atti del Convegno di Rende del 24/25 maggio 1996 curato per l'Editore Rubbettino da Antonio Daniele e F.Walter Lupi nel 1996 col titolo Torquato Tasso quattrocento anni dopo, in cui il poeta studia le metafore del silenzio, della morte, della notte e dell'ombra nella Gerusalemme liberata, in un interessante impasto di commento letterario e notazioni cliniche, che culmina, a mio parere, nell'analisi del XII canto, con l'episodio del duello fra Tancredi e Clorinda, dove si crea una specie di controcanto con la voce del Tasso e si tenta una fusione di poesia con poesia:

Clorinda rincalzata da Tancredi muove con voce afflitta 'parole ch'a lei novo un spirto ditta / spirto di fé, di carità, di speme' (XII, 65), parole di perdono per l'anima sua e per il battesimo, e nella voce 'risuona / in non so che di flebile e soave' (XII, 66) che commuove Tancredi, il quale scoprendole la fronte per battezzarla la riconosce, 'Ahi vista! Ahi conoscenza!" (XII, 67) esclama lo sguardo del silenzio; e lei in lieto morire sembra dire 'S'apre il cielo; io vado in pace' (XII, 68) e gli rivolge la mano affettuosa silente più loquace di parole. Così di silenzio in silenzio 'passa la bella donna, e par che dorma' (XII, 69). Tancredi non da meno 'già simile a l'estinto...langue / al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue" (XII, 70) e 'in sé mal vivo e morto in lei ch'è morta' sia pure 'un misero mostro d'infelice amore' (XII, 76) per rammemorarla di vita silenziosa, anche nel fuggire da sé sempre con sé appresso, 'ora seco parlando, or con la sciolta / anima che dal Ciel forse l'ascolta' (XII, 89). Lei in dono nel sogno gli appare beata e gli palesa il suo amore. L'apogeo del silenzio è nel sasso che segna la sepoltura del corpo e che può solo esprimere tacito pallore, gelo e stasi indifferenti al pianto, ma vere pronunce di silenzio per far oscillare l'epicedio nello spazio (pp.72-73).

Ruffato - che già Folena, durante una presentazione di Parola pirola a Padova nel 1990 - definiva "affetto da bulimia poetica" ovvero da "fame morbosa di parole" - vuol arrivare a far parlare perfino il silenzio, o meglio a far sentire la sua incredibile voce, vedendo il silenzio come un tessuto seminale nel quale "si costituisce il senso della parola e la sua comprensione" (2). Così, per analogia si può fare l'ipotesi preliminare che con Giergo Mortis il poeta voglia far parlare la morte, dargli voce, facendo sì che anch'essa diventi un orizzonte di senso all'interno del quale però far risaltare le ragioni della vita. Sul fondo di tutta la sua scrittura, che è una scrittura che si guarda costantemente allo specchio, che riflette su di sé decostruendosi e trasformandosi all'infinito, c'è - ne sono sicura - una ricerca di base sui nessi che possono stabilirsi fra una fenomenomenologia del "divenire" e una fenomenologia del "dissolvimento". Ne è, in questo senso, prova d'artista eccezionale la raccolta recente di poesie in lingua Etica declive, edita dall'editore Manni nel 1996, in cui compare il canto insieme disperato e tenero di un referto clinico-sentimentale, quello di un medico che si trova di fronte alla propria compagna, anche lei medico, condannata da un male terminale e cerca di riscattare il dato brutalmente biologico in scambio simbolico, dove la parola poetica diventa il mezzo con cui attuare un gioco di risposte incessanti in cui la morte non può più installarsi come fine. E' una strategia poetica già usata nel dialogo oltre la morte di Prima durante e dopo. Cito da Etica declive :

Lui argonauta lontano, lei sgomitola / rare parole di vita sulla resistenza / del filo. Nulla più da scoprire / nei referti offuscati, le piastrine / mollano, scansioni ansiose scrivono / l'impegno del tronco cerebrale / l'edema dilaga il sembiante nel giorno / più breve. Tengo la mano lalica / indovino in vomito anemico il segreto / del vuoto, un paese liquido che cede / una turbolenza cupa del polso / tramonta l'indecisione della luce (3).

Prima di cominciare il mio breve itinerario al nero, vorrei riprendere alcune osservazioni molto generali che facevo nel 1993, perché mi sembra che possano ancora presentare motivi di interesse, preparando il terreno ad una analisi inevitabilmente specifica e settoriale. Dicevo che Ruffato appartiene alla folta e particolare genealogia dei medici-scrittori, e dunque, si può aggiungere oggi, anche nella sua rappresentazione letteraria della morte gioca un ruolo importante il suo sguardo tecnico-scientifico. Lo sguardo del medico e quello del poeta, anzi, si intrecciano e si contrappongono : c'è il medico che registra con tutto il suo bagaglio di cultura clinica gli errori fisiopatologici del corpo, le sue micidiali devianze, e c'è il poeta che tenta una se pur imperfetta sublimazione del dolore e sogna "tesori pulviscolari" di spazi alternativi, di silenzi assoluti e pacificanti:

Mi sento come un cieco sorpreso / da un tesoro pulviscolare più / vicino ai silenzi d'altrove / che a quelli quattr'occhi sfiniti (ED, p.12).

E' ciò che lo scrittore stesso chiama "l'orlo attivo del nulla", e ancora, sempre sulle pagine di Etica declive, l'ingresso perfetto "al mondo ascendente" (ED, p.53). E' il momento in cui perfino "la morte / si rilassa innocente" (ED, p.23), aprendo in quel flusso marasmatico di parole, di idiomi, di gerghi, di immagini, il varco verso l'invisibile, che è uno dei semi principali della ricerca di Cesare Ruffato, di quest'uomo generoso che ha scelto per professione prima quella del radiologo, per penetrare attraverso il suo accanito endosguardo nelle oscurità cellulari, per indagare i collassi della materia e giocare così, in un'osmosi continua fra vita e letteratura, fino allo spasimo il conflitto subito di visione e cecità. In questa operazione di straordinaria alchimia verbale è il dialetto, l'urlingua, a fornire il mezzo per entrare - come suggerisce Manlio Cortelazzo in un bel saggio La voce mentale del dialetto - "nella parte più oscura della caverna psichica, ma anche come abitatore in quelle tenebre" (4). Il dialetto, insomma, è qui soggetto, strumento e oggetto della ricerca. Perché - mi verrebbe da aggiungere - è proprio il dialetto ricreato, inventato e forzato ad esprimere il presente e il futuro, la lingua che più esprime l'identità di un soggetto che sfugge per sempre e che realizza un'utopia fusionale dove nulla è perduto, separato. Tutto è presente e reversibile, oggetto e antioggetto, luogo e non luogo. Anche davanti alla morte Ruffato tenta qua e là il suo spettacolo burlesco, fa le sue piroette linguistiche irriverenti, cortocircuitando qualsiasi nota di conformistica lamentazione. Nei punti in cui più alto si fa il registro dell'elegia funebre si assiste a un immediato e reattivo scatenamento del non senso.

Dicevo, nel 1993, che ciò che interessa questo medico-poeta è eminentemente ciò "di cui l'opera è fatta" (5), la sua natura di deposito di giacimenti sparsi e fluttuanti, in cui si distinguono gli inganni della natura, il patologico, le dissonanze, l'arcana geometria del disfacimento e della metamorfosi (O/N, p.163). E' da lì, infatti, che proverrebbero anche i materiali che colorano la serie di versi comparsi col titolo Otobre de zali sul numero 14 della rivista "Steve" del 1996, in cui incontriamo per esempio una "nautila nostalgia da perdonare / che preme da lapidi tombe per terra / da alberi dissanguati relitti fossi / buchi e plicature d'ozono prati diserbati / di polvere e cenere rancide". Non è la nostalgia del passato che prevale (ed è semmai "da perdonare") ma la rabbia, la denuncia di una realtà presente storica e sociale sempre più degradata e invivibile. Perché Ruffato - mi sembra giusto sottolinearlo - è anche un poeta civile.

Ciò che si denuncia, sulle sue pagine, insieme alla degradazione della vita moderna, non è la morte ma è "la morte dell'immortalità". Cito da uno scritto molto importante Per dire qualcosa sul dialetto del 1996, in cui si legge: "(Il dialetto) E' un cono d'ombra-penombra di ur-luce che ripara una verità insita; (...) Genevoce inestinguibile della complessità, ur-placenta d'ogni fuoco. Non è la lingua del potere purulento, ma una ecolingua-grembo-amnios collegata ad alfabeti naturali nascosti, colmi di oligominerali d'anima in pena che deve tollerarne la morte paradossa dell'immortalità" (6). Il dialetto, come lingua recisa e ormai in via d'estinzione, trova grazie al virtuosismo lacerante di questo "narciso derealizzante", che è il poeta intento a giocare con la propria voce, la possibilità di essere contemporaneamente "litania delle radici" e "plasmazione del vuoto" (7). Le parole in dialetto di questo "poeta con la febbre", di questo poeta alterato o "dinamitardo (come lo chiamava Aldo Rossi nella prefazione a Minusgrafie), si fanno - per sua stessa dichiarazione - "caucciù delle meraviglie", sfondano o si allontanano dalla squallida ribalta del "tritume sociale di protagonismo e look", e rivelano "il fuoco bianco della trasparenza", uno spazio neutro interstiziale, non necessariamente metafisico, ma certamente intramateriale, annidato nelle fessure, nelle crepe, negli strappi della natura e del cosmo, dove arde un fuoco latente, intriso di "realtà e di enigma" (8). Si può aggiungere che anche le rappresentazioni della morte, dunque, rispondono a questa doppia logica di realtà e di enigma, di degenerazione naturalistica e di purezza..

E' stato detto da molti studiosi, in vario modo, che Ruffato non ha mai fatto sfoggio di "ontologie negative", "non ha mai abusato della negazione e dell'assenza come di modelli up to date", che anzi il suo immaginario, ferito da lutti spaventosi e irrimediabili (la morte dell'unica figlia Francesca nel 1989 e recentemente della sua giovane compagna Liliana), riesce ad incalzare "anche la morte e la riduce, moltiplicandola" (9). Gio Ferri ha parlato perfino di "crisi come resistenza" (LB, pp.64-68). Ruffato, nonostante le grandi tragedie che lo hanno colpito negli ultimi dieci anni, non si è abbandonato al dolore, non si è narcotizzato in poesia con la litania funebre, con la nenia stordente del pianto rituale, piuttosto si è avventurato nel continente oscuro dell'assenza come un tenace uomo di scienza, si è fatto colonizzatore del nulla, ha sfidato la grande nemica predatrice e ha cercato - come si legge in una bella immagine de I Bocete - "la lanterna de la morte, la pompa / del pensiero" che sola può essere "requie ne lo spirito / del tormento" (10).

Sin dai tempi della raccolta Prima durante dopo, uscita per Marsilio nel 1989, il colloquio fra il padre e la figlia è continuato, si è anzi dilatato e rasserenato in un dialogo ininterrotto che vince qualsiasi sciarada malinconica, gli strappi della separazione, per diventare - come ha intuito Franco Pignatti - "slancio ottimistico verso la dicibilità delle cose, anche se nelle forme poliedriche, contraddittorie, labirintiche, ossimoriche" che al poeta sono congeniali (11). Le parole sono ponti che permettono di ristabilire il contatto con l'assente, perpetuano un dialogo che potrebbe infinitizzarsi e che comunque stabilisce un'intensificazione degli affetti, della presenza interna dell'altro. Vien da aggiungere che il dominio della morte nell'opera di Ruffato ha colorazioni precise che spingono le sue tracce nell'aldiqua, le incavicchia per lo più nella terra, in una metamorfosi naturalistica che è garanzia dell'incessante divenire di tutta la materia organica. Tutto ciò serve anche come ridimensionamento di un individualismo narcisistico che pone l'essere umano al di sopra di tutti gli altri esseri viventi. A questo riguardo si potrebbe ricordare un verso di Tommaso Landolfi che in Viola di morte (1972), dicendosi "mezzomorto di crepuscolo", accetta il cupio dissolvi in un desiderio di integrazione naturalistica e di ridimensionamento narcisistico: "Ma forse questa mia morte / non è cosa egregia e rara / Non è cosa importante / più che lo sfiorire nella corte, / dei fiori di dicembre, delle giunchiglie bianche".

Nella tavolozza cromatica di Cesare Ruffato che raffigura la morte c'è il colore "giallo" del dolore abbacinante, che permea una realtà desolata e irreale alla Van Gogh, e c'è il blu della non-vita, della "lontanaza inattingibile, dell'oscurità e della nekuia" (12), e infine c'è la "luce d'alabastro" di trasparenze infinite in cui si reincontrano i cari fantasmi, dove si percepisce la loro "voce benedetta", quasi fosse "coda del soffio della luce/ pura superna dell'assoluta Perfezione o della Trasmigrazione", dove il poeta è convinto di intravedere e scoprire la "ragnatela dell'eterno" (naturalmente sto citando nella trascrizione in lingua ciò che andrebbe invece ascoltato nella voce tenera, musicalmente liquida del dialetto (13)). Cito solo un attacco, che ha per me che capisco e non capisco, valenza quasi magica": "Magoni burane matine corpi / sfissiosi ori slusenti xe passai / el pan nel cantonale dona rose / sfiorie, bocon de festa secreta, lume / sabatico me porta la pena / de la morte smonà..." (14). Ecco, una Morte smonà, che pare improprio tradurre come "morte schifata" (ma è questa la traduzione dell'autore stesso) e che a me parrebbe giusto indicare, invece, nel contrapposto privativo di mona e del verbo derivato monare.

Quest'ultimo registro del Giergo mortis, ritrovato o inventato nel "muco notturno" di "fonemi aerei/ d'una animula che mai finisce" (15), è un registro trattenuto, ostacolato, oltraggiato, è un timbro lirico sempre pronto ad autodistruggersi o almeno a autopariodarsi, ed è, in fin dei conti, una delle corde più commoventi dell'intera tastiera ritmica e vertiginosa del poeta padovano, proprio perché si tratta di una vena sentimentale che lotta con se stessa, che si sovraccarica di pudore e di rabbia, che si fa portavoce di un amore che sopravvive alla perdita e di una contemplazione lucida del vuoto, dei tanti buchi che la scomparsa delle persone care lasciano sempre dentro di noi. La morte diviene così per Ruffato la ladra per eccellenza, colei che ci svuota, portandoci via pezzo a pezzo insieme agli affetti più cari. E' a lei che la rabbia del poeta lancia la sfida più grande e definitiva, ironizzando sull'ipotesi di una fine volontaria:

Questa morte mia proprio bene trattabile / nel rispetto dell'arbitrio supremo / diviene quasi una coppa davis del mondo / un nostro tete à tete che posso / con piacere orologiare (controllare con orologio) affilando / persino la mia cronometria o attendendola / (...) (16).

La ruffatiana cognizione del dolore, sulla scia del celebre ingegnere prestato alla letteratura, diventa un'operazione dell'intelligenza condotta sull'"orlo attivo del nulla" - come suggerisce Gian Franco Frigo in un saggio recente (T, pp. 58-9) - registrando l'itinerario eroico, tenace, non arreso di un poeta che scrive, come vorrebbe anche Sergio Givone, "come dall'al di là di un'immane catastrofe" (T, p.64).

Il poeta "guastatore" di un tempo se ne sta ora solo, in data 1999, ad aspettare i fantasmi (certo non fa solo questo), ne registra le presenze: "Nel silenzio / magico sono qui ad attenderti / con fili asole per annodarti / alle mie essenze e del tutto inalbarti (farti alba)" (17). Ruffato sa di rischiare di cadere nell'"epigrafe" o - come dice ironicamente - di sprofondare nella "via del marmo", avviando un fumo di figure "che sostiene la possibile verità / di rifare con le parole anche la salma", ma accetta questo imperfetto compromesso letterario pur di capire il mistero di un'alterità totale che sola può permettergli di conoscere di più se stesso (18). Lo specchio macabro è denudato di ogni maschera cosmetica, viene affrontato in tutta la desolazione materialistica della vita organica che si corrompe, degenera e finisce, ma poi il poeta accende un controcanto che impropriamente si può definire elegiaco, certo vagamente consolatorio, con l'immagine di una morte vista come estremo viaggio per acqua, come simbolo materno di un sogno di reinfetamento e di pace (19). E' la configurazione di uno spazio neutro dove forse è possibile ritrovarsi per sempre, e dove è consentito un foscoliano sonno dei giusti:

Che una pietra col nome distingua / e riposi fuori mura le mie ossa / già carenti di midollo e porotiche / che si versino pernacchi e balzelli / io animella aerea mi escludo / ed esperimento alla maniera nuova / di osannare sottovoce cogli occhi / senza pavoni cherubini e serafini / lontano dal monumentale memento homo / di papiro e vanagloria a lettere / cubitali (in grassetto) e racconti di deliri professionali. / Questo look di suffragio passerella / fumetti ciocche pompe funebri / bocche e lagrime di cordoglio / requie di morte e vita in equilibrio" (20).

L'ironia si fa tagliente e mette alla berlina ogni orpello della parata del lutto. Davanti al muro della fine i trucchi della finzione diventano osceni, le parole contrite di "un dies irae macaronico" smascherano l'"astuta dama mezzana trotula", la "cortigiana attempata / rattoppata d'unguenti cere aggiunte"(21), colei che quasi alla fine del lungo poema in più stazioni è chiamata "la tenebrosa peripatetica che conduce il nulla" (22). Qualsiasi figura di "suicidio letterario", allora, qualsiasi rappresentazione di una morte raffinata e accarezzata da epigoni decadenti, scolora e impallidisce davanti al pensiero di una morte in serie, spersonalizzante, davanti alla fine inconcepibile eppure banale di una piccola "Ofelia / cittadina", che incarna la morte giovanile più brutale, quella stroncata dalla droga (23).

Lo spettacolo della morte non è visto nella chiave della pietas e del vanitas vanitatum, ma nella più realistica chiave denudata dalla psicoanalisi di "sguardo egoistico" del sopravvissuto che coglie primitivamente nella morte dell'altro una garanzia della propria salvezza:

In vita si dispensano / occhiate egoistiche sulla fine degli altri / più o meno stecchiti satolli o in calore. / Proprio nulla si sa di questo mancare / che marcia invece a testa bassa /.../ (24).

Ma anche questa immagine di una lotta per la vita che permea ogni angolo della realtà sociale e diventa pure una guerriglia fra chi vive e chi muore, rompendo così ogni ipocrita sovrastruttura della retorica dei buoni sentimenti, riserva a sorpresa, sempre sulle pagine di Ruffato, dei micromotivi musicali antagonistici che mettono in risalto, invece, il desiderio di vedere nella morte la possibilità di un "beato ascolto / del pullulare d'una vita sgorgata" in purezza e finalmente la realizzazione di una giustizia (come si legge, con toni evangelici, "e chi si umilia sarà esaltato" (25)), nonché il raggiungimento di una "libertà all'estremo" (26). Forse si potrebbe anzi leggere alcuni versi di Smanie, raccolti nel volume miscellaneo In forma di parole, in questa luce che vede nella morte la porta della vita vera, dell'"anima dell'anima" al di là di "spazi e tele sbrindellate":

Non so proprio dove fermarla forse / in fotografia mescidiata con protoni sparati / acqua cristallina che scricchiola via, / maschere che cadono una dopo l'altra / il silenzio nelle cortecce. L'anima / dell'anima affievolisce la morte, / nel belato venga pure vera / vita a raccogliere qualcosa / da spazi e tele sbrindellati (p.71).

La morte, in questo progressivo e totale viaggio del poeta nel giergo mortis, diventa anche storia di un umile asservimento al mistero, fino alla bellissima poesia centrale del dialogo col fantasma della donna amata, quando avviene il contatto con l'ombra della amica strega che nell'adilà "sbircia tutto in luce / nera", aiutando il poeta nella ricerca della "bevanda d'immortalità". E vorrei finire questo resoconto critico con due citazioni di poesie composte su questa nota di speranza. Vorrei dedicare queste mie pagine, per quel poco che valgono, a Liliana che non è più fra noi, scommettendo sul fatto che da qualche parte nel cosmo lei riesca a sentirle:

Ed io figura d'una figura / triste trito il muto patema tu-io / alla ricerca della bevanda d'immortalità e di seguirti / nell'aldilà strega che sbircia tutto in luce / nera. Si adombra qua l'orlo / della fine e non si afferra / un pelo dell'esserci mistero (27).

Il tuo amore anche nel lutto mi lega / a promessa d'eternità, non posso / dissolvermi come neve al sole / e fare spergiuro sarebbe pure / un cotradimento, cosa raffazzonata. / Darsi alla dama supercaliginosa / in dono d'affetto che m'intui e t'inmii / una sola profonda sostanza virtù / spirituali di solida simbolica / fedeltà. Forse ci si impasta / persone altre (diverse) che reggono (resistono) non si sbriciolano / per un ricordo in sé che ci sostiene / per arricchire di sangue le nostre ombre (28).

Vorrei però aggiungere un'ultima postilla, perché credo che a Cesare Ruffato non piaccia una fine su toni alti, visto che più volte lui stesso fa la satira degli "eroi mimetici di sfide superiori" (29), di chi fa il lutto "con cravatte e velette" sporcando il cadavere (30) o di chi si esercita con "perbenismo e cordoglio posticcio" nella "morfologia del nulla" (31), tanto che a un certo punto scrive: "In casa mi vizio con il sacro, il sopra..." (32). C'è poco da fare, lui è "un poeta in fuga" - come diceva con bella immagine Armando Balduino nel 1990 - è un "poeta mascherato" (33). E allora, proprio alla fine, ecco la postilla, che ritrae il poeta chino coi suoi bisturi metalinguistici e metapoetici a sezionare, scomporre e ricomporre la parola morte: "E par zonta la morte se anagrama / tremo temor metro paura misura / mascara sfogà de lo spirto infogà"( che il poeta stesso traduce: "E inoltre la morte si anagramma / tremo temor metro (paura) timore misura / maschera sfocata dello spirito infuocato") (34). La morte è anagrammata, ma l'anagramma non sta qui a significare gioco sperimentale semmai vuole indicare concretamente, trattando di vita e di morte, una reversibilità. Insomma, per finire, vorrei fare un'ipotesi azzardata, in sintonia con chi sostiene che il dialetto di Ruffato sia più inventato che ricordato e direi che questa lingua è situata dal poeta nell'ambito dell'antisostanza, dell'antimateria, è strappato dalla logica del valore. E' come se, messo a contatto con altre lingue, il dialetto producesse, come avviene nell'incontro delle particelle e delle antiparticelle della materia, un annientamento reciproco, lasciando al lettore, per sovrappiù, il senso della liberazione di un'energia favolosa e insieme micidiale.

(Ernestina Pellegrini)


(1)C.Ruffato, Nell'indugio il pensiero..., in "L'Immaginazione", n.151, novembre 1998. Penso che una pista critica da seguire sarebbe quella che cataloga e commenta le molteplici e disparate autodefinizioni offerte dal poeta nel corso di un trentennio.
(2)C.Ruffato, Il cantico del silenzio, estratto da: AA.VV., Il Silenzio (antologia della VI Biennale Nazionale Letteratura / Ambiente, I libri di STEVE, n.21, 1997, pp.109-136. Il saggio di G. Folena è la trascrizione orale della presentazione a Padova, nel 1990, di Parola pirola.
(3)C.Ruffato, Etica declive, Manni, Lecce, 1996. D'ora in avanti nel testo con la sigla ED, segiota dal numero della pagina.
(4)M.Cortelazzo, La voce mentale del dialetto, in AA.VV., Cesare Ruffato nel suo settantesimo compleanno. Testimonianze critiche, a cura di Nelida Milani, numero speciale di "La Battana", n.3, 1997, pp.41-2. D'ora in avanti nel testo con la sigla LB, seguita dal numero delle pagine.
(5)Cfr.E.Pellegrini, Sulla poesia di Cesare Ruffato, in "Otto / NOvecento", maggio-agosto 1993, pp.163-173. D'ora in avanti nel testo con la sigla O/N, seguita dal numero delle pagine.
(6)C.Ruffato Per dire qualcosa sul dialetto, in "Steve", n.14 (1996), p.35.
(7)Ibidem, pp.36-7.
(8)Ibidem, p.37.
(9)Cfr. L.Curreri, L'immaginario lunare, in "La Battana", aprile-giugno 1996, p.81. Sull'argomento si veda anche l'interessante saggio di G.Scaramuzza, Il dialetto, l'infanzia, la morte nella poesia di Cesare Ruffato, in "Otto / Novecento" XVIII, 3-4, pp.267-273. Ma si veda anche il bel saggio di Giulio Ferroni, Verso l'etica declive, raccolto nel numero unico dedicato allo scrittore dalla rivista "Testuale" (nn.23-24, 1997/1998, pp.56-7), in cui compaiono interventi di V. Bagnoli, C. Bello, V. Bonito, R. Ceserani, P. Civitareale, G. De Santi, L. Detti, V. Esposito, G. Ferri, G. Ferroni, G.F. Frigo, S. Givone, G. Gramigna, V. Guarracino, R. Luperini, P. Luxardo, F. Musarra, F. Muzzioli, P. Pepe, F. Pignatti, M. Prandi, A. Prete, R. Roversi, G. Scaramuzza, S. Verdino, L. Vetri, A. Zanini. D'ora in avanti nel testo si citerà dalla rivista con la sigla T, seguita dal numero della pagina.
(10)C.Ruffato, I Bocete, Campanotto, Udine, 1993, p.23.
(11)Cfr. F.Pignatti, La via alla contemporaneità, in "La Battana", aprile-giugno 1996, p.107.
(12)Ibidem, p.109.
(13)C.Ruffato, Scribendi licentia, Marsilio, Venezia, 1998.
(14)Ibidem, p.399.
(15)Ibidem, p.397.
(16)Ibidem, p.411.
(17)Ibidem, p.398: "...Nel sito / magico so qua a spetarte / co fili gusiere par ingroparte / ai me costruti e in toto inalbarte".
(18)Ibidem, p.400.
(19)Ibidem, p.403: "La morte come primo iter in acqua / simbolo materno, un zugo acordà / quel cichèto de finire in pata / col catàrsela in barca insupà / che no se sa se tegna e me porta / caronte tuo mulo che mai se ferma".
(20)Ibidem, p.404 : "Che 'na piera col nome cernita / e impisòca extra moenia i me ossi / za scarsi de meòla e porotici / che tra lor se buta ruti e balzelli / mi animulo aereo fora me ciamo / e scaltrisso a la maniera nova / de osanare sotovose coi oci / sensa paoni cherubini e serafini / londi dal monumentale mementohomo / de papiro e vanagloria a letare / grosse e conte de deliri businessi. / 'Sto look de obito passarèla / fumeti cioche pompe funeree / boche e lagreme de condoliansa / rechie de morte e vita in balansa".
(21)Ibidem, p.407.
(22)Ibidem, p.423.
(23)Ibidem, p.403.
(24)Ibidem, p.408.
(25)Ibidem, p.409.
(26)Ibidem, p.412.
(27)Ibidem, p. 413: "E mi figura de 'na figura / trista trito el muto magon ti-mi / in serca del nei tan e starte drio / aldelà striga che ocia tuto in luse / nera. S'inombra qua l'oro / de la fine e no se cape / un pelo del starghe mistero".
(28)Ibidem, p.414: "L'amor too anca nel luto me liga / a promessa de eternità, no posso / sfantarme come neve al sole / e fare spergiuro saria pure / un cotradimento, roba tatarà. / Darse a la dama supercaliginosa / in dono d'afeto che m'intua e t'inmia / 'na sola ima sostanza virtù / spirituali de salda simbolica / fedeltà. Forse se s'impasta / persone altre che tien no se sfrègola / par un ricordo in sé che ne sostien / a sanguare de pì le nostre ombrìe".
(29)Ibidem, p.421.
(30)Ibidem, p. 420. In Etica declive si legge: "Alle porte dei morti perbenismo / rituale, cordoglio posticcio / un breviario di paura" (ED, p.13). La stessa immagine si trova in Primaa durante dopo : "Alle porte dei morti il mondo svende / cordoglio posticcio perbenismo / un breviario colato" (Marsilio, Padova, 1989, p.58).
(31)Ibidem, p.418.
(32)Ibidem, p.422.
(33)A.Balduino, Parabola della poesia di Cesare Ruffato, in "Il Ponte", XLVI, 3 marzo 1990, pp.137-143.
(34)C.Ruffato, Scribendi licentia, cit., p. 415.