Colloquio

Premessa
Ben altri lettori, eccellenti lettori, hanno indagato la poesia in dialetto di Cesare Ruffato e basti qui per tutti ricordare Sperimentalismo dialettale, in La poesia di Cesare Ruffato, Ravenna 1998, di Francesco Muzzioli, o i saggi di Remo Cesarani, Pietro Civitareale, Gualtiero De Santi, Giuliano Gramigna, Francesco Muzzioli, Michel Prandi, tra gli altri, in Poetica di Cesare Ruffato, Testuale 23/24, Verona 1997/8, senza dimenticare le analisi di Luciano Caniato, in L’occhio mitridatico, Ravenna 1995 e i saggi presenti in Steve per Ruffato, Modena 1997, e in Cesare Ruffato, testimonianze critiche, La Battana n.s.3, Fiume 1997.
Emerge da queste analisi attente ed approfondite la qualità alta della poesia e della ricerca linguistica che il poeta compie all’interno di una ‘lingua’ sentita e voluta viva e vivificabile, come strumento per comunicare in modo originale e nuovo perché incessantemente indagata e ricreata dal di dentro, in quanto medium di personale e collettiva esperienzalità, e dal di fuori con gli apporti, gli stravolgimenti delle necessariamente sconfinanti esperienze linguistiche e culturali adiacenti: dall’italiano dei media o dei linguaggi specialistici, alle lingue delle culture passate o limitrofe; e infine interrogata e mutata nella specifica operatività del fare-poetico. Questi interventi, operando dal vivo di una realtà sempre più complessa e globale sul vivo di una ‘lingua’ -assunta, quindi, come polimorfico mezzo di testimonianza attuale e partecipante, come strumento capace di elaborare pensiero critico auto/etero-referenziale, come voce di poesia- rispondono oggettivamente ad eventuali domande sul senso della scelta di una ‘lingua’ marginale (ma verrebbe da chiedersi, oggi, quale lingua non è marginale nel sempre più caotico proporsi del rapporto uomo-mondo), e ancor meglio fugano dubbi di ripiegamento nostalgico o senile su una coniugazione del mondo al passato o al perduto.
Se queste, di cui appunto sono debitrice ai tanti che hanno lavorato sulla poesia in dialetto di Cesare Ruffato, sono le premesse, io, qui, ho soltanto tentato un colloquio con alcuni dei testi raccolti in Scribendi licentia; e già chiamarlo ‘colloquio’ è improprio, perché le mie movenze, che sono e restano indubbiamente soggettive -quando addirittura non apodittiche-, piegano e modificano anche gli interlocutori. A mio discapito accampo solo un desiderio di pensare intorno a certe cose che è nato incontrando questi testi di Cesare Ruffato.

Colloquio

Il nichilismo del nostro tempo è il prodotto di una cultura che ha operato una quasi totale astrazione dall’essere-mondo. E la nostra lingua è diventata la lingua della nientificazione della cosa-mondo, in una soggettività separata e disperata.
“Perplessa sul mondo ramai mondi/ sul gnente impossibile e sui dubi/ del parolare le robe, la prova/ serciarle e no lassarle morire./ ... / La sa ben da organo sientifico/ che nessun mondo parla e solo noaltri/ se machina inventa dise fa/ ela intona e inverba co speciale/ imaginassion metaforica de echi/ peli de oca, bocabolario birignao/ fora papéta e descrission eterne/ che ognuno se monta e conta/ fin che siensa sensàla verità/ e rigore co siamana parlantina./ Ela spia in robe e omini/ a capire sesti, segni coradela/ adatarghe tuta la corente/ shokin de la so essensa. Nel logo/ dove saere la parola scampà/ al lenguagio, specio spotico/ de solitudo de la boca che la dise.”
La lingua e la cultura in sè parrebbero necessariamente portare a questo.
“Solo la specie umana ... ha l’abitudine di raccogliere, produrre ... oggetti che hanno un’unica funzione, quella di significare... A differenza delle cose, questi oggetti portatori di significato, o semiofori ... hanno la prerogativa di mettere in comunicazione il visibile con l’invisibile, ossia con eventi o persone lontani nello spazio e nel tempo, se non addirittura con esseri situati al di fuori di entrambi... La capacità di oltrepassare l’ambito dell’esperienza sensibile immediata è del resto il tratto che contraddistingue il linguaggio, e più in generale la cultura umana. Essa nasce dall’elaborazione dell’assenza.”
La lingua nasce come sostituzione delle cose: al posto del mondo sono messi pezzi di fiato. Ma all’origine c’è ancora un rapporto stretto, come testimonia il pensiero-linguaggio magico-mitico: i pezzi di fiato, i nomi, richiamano la cosa, sono ancora la cosa, perché da essa emanati e provenienti, perché qualità essi stessi della cosa; e la cosa c’è anche se non c’è.
“Il selvaggio non sa distinguere chiaramente tra le parole e le cose e crede ... che la relazione tra il nome e la persona o la cosa denominata non sia un’associazione puramente arbitraria e ideale, ma un legame reale e sostanziale che li unisce...” Si pensi per tutti alla potenza terribile del nome di Jahvé nella Bibbia, sottoposto a uno dei più duri ed osservati tabù religiosi.
La perdita viene dopo.
Con la fine del sacro, del magico, del mitico, con la fine dell’ “essere manifestativo”, la parola veggente, la parola sibillina via via si svuota, taglia le relazioni col mondo, sostituendo i concetti alle cose e le relazioni tra i concetti ai rapporti tra le cose. Queste nuove relazioni vengono inquadrate rigidamente in una logica razionalistica immobile e ripetitiva che, a partire da Parmenide, fissa l’essere in un’unità staticamente solo positiva che dice ingannevole e falso il mondo dei molti e delle mutazioni, costituito infatti solo di nomi vuoti. Nel suo sviluppo sempre più rigido e formale la nuova concezione logica del mondo ignora la realtà manifestativa e le sue aperture, limitandosi tutt’al più a relegarla nel ruolo di un non-essere, esorcizzato come non-significativo ed illusorio, fino ad annullarla come inutile, non pertinente al sapere, alla conoscenza, o, più sottilmente, come irraggiungibile, kantianamente, comunque estranea e altrove dall’uomo, indicibile. E la lingua si è fatta normativa, necessitativa, convenzionalmente vuota ed autoritaria. “udite udite umane genti la parola/ mitraica a distanza da credere/ sensa tocare.../ Tanto mirà la podaria essere comprà/ sul banco perdendo integrità/ el mastice che la taca a la so roba.”
Una lingua che sostituisce le cose senza mettere più nulla al loro posto. Nemmeno il fiato.
“Parlare xe un debole congresso/ no darghe rispeto al sito/ che masena perfin le imagini/ de la natura infarinae de simboli/ e metafore.”, “...maniera de parlare d’ogni omo/ co termini afiliai sgarugiai/ nei bocabolari invita a nosse/ per analogie e metafore, ma xe/ squasi mejo starghese fora par no/ imbatariarse de sofismi filo-/ logici batoloni che t’ingiassa.”, “el mondo/ tuto ‘na lengua-po dobermana.”; “ La verità da tacà/ siglese mistico che scancela/ gelatina de fiori amor fatui/ tu et illa litote tarantola/... / nomi esplorandi dà dà/ che vani dindola paeri su speci neri/ un aldelà roversà.”
Nemmeno il fiato.
Con il suo procedere la scrittura non solo ha sostituito, ma ha riplasmato l’oralità stessa, distruggendone in gran parte i caratteri primigeni, decisamente connessi con l’esperire corporeo del mondo, con l’alterità diversa, con la irriducibile mutevolezza del vivere.
“Oralità co nostalgica spiera/ de falso gran bataria, calieron/ graspia che sbrusa squasi sempre/ sul piatèlo de la scritura.”
La parola ha perso la sua matericità (“nacquà sgagnà spanìo sdolcinà/ el ga perso l’anema minerale”), anche specifica, si è staccata dal mondo, dai sensi e dal corpo -dall’intero-, per diventare pensiero astratto, silenzio, pensiero di morte, perché l’essere che viene pensato e detto come “luogo della verità” è il “termine più vuoto, povero e indeterminato”, essendo negate con esso le qualità della vita.
Anche quando sono rese “nominabili” nel “platonico genere del diverso” le cose del mondo, però la “loro realtà -il loro luogo di significazione” sta “altrove” e la “derealizzazione del mondo... continua ad agire”.
“La memoria de la vose pardelà/ xe sensa oblio vanti de rivare qua/ dove tuto ghe pole capitare,/ nacquà torno parole eiacule in ore.”
E’ la morte. Come segno di una dicotomia che si fa sempre più profondamente segno di una perdita, di un’assenza: solo questa di fatto dicibile, perché delle cose del mondo è rimasta dicibile solo la negazione.
“la scaìna a ‘na roba che sèita/ a scominsiare appo nihil ex nihilo/ in fieri da no dirse, gossa de zefiro/ sensa fi ‘na volta idea peca de mi/ in serca de carne e peso.”
E’ questo indicibile da superare. L’ineffabilità di un linguaggio che si è autocostituito incapace di dire ciò che è, separandosi dal mondo, rendendosi autonomo da esso e padrone del proprio senso staccato.
“Un lenguagio co drento el so senso/ che sapia dire donde el riva e capirse/ pare ch’el manca... Imagarse / nel silensio, tempio del tempo/ e de l’essere che dà conotati./ Distante dal bestiario beato/ che imbàrbara sbocando se podaria/ proprio sbàtare ne la parola de Dio / che vien vanti muta genuina/ poesia incantà. Anca el cocepìo/ de ‘sti momenti xe sempre un also/ de la qualità umana e de l’amore/ co segreti speciali che impissa i corpi.”
“ L’indicibile mi potrà essere dato solo attraverso il fallimento del mio linguaggio.”
“Voria darte... l’anema de la parola/ che sta per rivare o rùmega/ e quando la se dà la la xe za/ plagià,... e de chiunque essere la podaria/ magari ‘na ciave che anunsia verse/ ... / No piansere pei fantasmi stereotipi/ per i doni beli che xe svanii,/ nel darse la man credemo de scusarse/ la distansa, ma el ris-cio de voler/ massa, de pertegare l’abisso/ de incorporarse in esodo erbario/ o in ‘na lengua estuaria a toni/ alti quasi vocalese che se perde/ nei boschi de la nostra vera sostansa/ xe tanto grande e scuro/ ‘na note che mai se supera/ e tuto rimete in discussion./ ... / La cacia scursa l’ambiente in tute/ le cadense, spaca el cuore profondo/ no se termina mai de conosserse/ a l’ombra del logos Eva milegusti/ sburatà che ne imbarca più/ a la morte che a la sopravivensa/ in ‘na giostra crudele tiratera/ che gnente cava ilusa de significare.”, “I busi... busini buseti busoni/ problema ostico sararli./ I podaria starghe da prima/ o a compenso del fracà/ in modo che la materia sfiata/ vegna penetrà ne le maniere più strambote/ ris-ciose de impiastri vari/ che strissa impegola petrolia/ fistola pastissa de rabalton/ un desio de oci falsi/ macabri operculi orifissi osculi.”, “Nel slancio verticale ghe preme/ sgrinfiare un tempo perso o dissipà/... / In alto un poco de silensio bersalia/ ‘na porta su ‘na zona no conossua/ forse quela che sgrafa e spense i desideri/ ... / Nel tentare el tuto par tuto/ se staca i poli da la parola/ per invosarse in cresta/ spacando el silensio/ perdendo el ben di Dio guadagnà,/ l’orisonte che la gaveva alsà/ a dirse e scriverse l’anema.”
Lo scacco del linguaggio non è condanna al mutismo, perché “ti racconterò come sono entrata nell’inespressivo... come sono entrata in quello che esiste fra il numero uno e il numero due, come ho visto la linea di mistero e di fuoco e che è la linea clandestina.”, perché si sperimenta “la gioia di perdersi”, “il fuoco delle cose”, la “tessitura di cui sono fatte le cose”
“fa pensare a un papiro scoperto/ coi conotati mistici secreti de Eva/ che miracola e bala el lessico.”, “‘Sta vista diversa particolare/ mena a inventare ‘na sintesi savarià/ la luce del mare, la sapiensa maga/ del vodo, la cometa de Giulieta/ le piasse tramortie de sangue/ carri armati e iene, sepolture/ scoverte al cospeto del cielo.”
E’ il ritrovamento del contatto, di quell’essere pieno, vitale, indistinto, che non conosce il negativo perché è tutto ciò che si manifesta così come si manifesta, di quell’essere che ci è venuto dalla madre, quando con il suo corpo-parola ci ha mediato e dato il mondo. Il suo linguaggio non era di astratte categorie, non era separato dalle cose, non era immateriale, perché era linguaggio di tutto il suo corpo: un corpo che dava ed era vita, dava ed era realtà. In questo linguaggio si è sperimentata l’appartenenza all’intero, nell’unione col corpo materno: è infatti un linguaggio-corpo del tutto convissuto e compartecipato, dall’interno, matericamente, fin dalla prima percezione nel ventre materno del “bioritmo” con cui il mondo si è manifestato attraverso la madre, per diventare poi, sempre attraverso la madre e in comunione con essa, lingua-esperienza che dice il mondo e lo crea.
“noi impariamo a parlare dalla madre... non oltre o extra ma come parte essenziale della comunicazione vitale che abbiamo con lei”, in quanto “matrice della vita” -lei- e “soggetto distinguibile dalla matrice ma non dalla sua relazione con essa” -noi.
“‘na lengua materna che viaja/ da le vissere a la metafora/ un tesoro de luce fogo acqua aria/ e sostanse che ne dà vita. ... ‘na ecolingua/ grembo o marsupio”, “ Un tempo ‘sta parola sana ironia/ de oci bocia sbarai/ farinosa perla permalosa de senno/ la dansava su le boche spetando/ che tuto la diga, un mondo/ de personagi ombre e robe incantae,/ ... / al punto che i putei infabulai/ sdrissa le monae, inventa/ prima dei io naranti/ -adesso te la conto mi la fiaba./ ... / Taiussà da semiologi ... la ga sbandonà l’ovile omerico/ ... / l’asèo del labirinto sempre manco/ navegà da la vose del dialeto/... / Te rifiabo sul cilà: l’ocio destro/ che ga rabia del sinistro, la boca/ che rampega su la fronte, el naseto/ che se spartisse co le recete/ un museto pastrocio in serca de catarse/ strigà che destrigo co l’eterno bocon/ ahum del lupo manaro./ Fabulava tute le sostanse, el nostro/ ovoduro, la to ovomaltina/ el saverte dono ogni matina./ ... / El latin la solidifica fabula/ che rimanda più antico/ l’eco de la vose materna/ rinsaldà de fede e emossion.”, “La prima fiata che me so catà/ nel dialeto xe sta la vose de mama/ fantasma chisachi, scartosso de pana/ presignificante dove mignògnola/ speriense, ombrìe afetive in buso/ nero de distinguo, de ‘na masena/ simbolica che me limegava al so corpo dolse impiocà / -te sì un bel bambin el me pansin-/ parsora el papà Edipo sacagnà/ -sito vero el me bravo ometo-/ come ‘na sorta de logos impelagà/ foratempo, do lustre pronunsie/ diverse una de scarga placentare/ beata, l’altra de pretesa autorità”
“L’antica relazione con la madre ci dà sul reale un punto di vista duraturo e vero, vero non secondo la verità-corrispondenza ma secondo la verità metaforica che non separa essere e pensiero e si alimenta dell’interesse scambievole fra l’essere e il linguaggio.”
“‘Ste parole prime parentali/ ne l’oro de la vita ciama/ l’inconscio lalante, corente/ letrica bianca de vocali sparpajae/ sui corpi de mama e papà putini/ anca lori distanti e vissini/ e mi me godo ne la cola che sta/ ancora prima dei sesti, parvense/ fine sielte del soma.” “ La mama solo oci/ d’amore intivava parfin intension/ ditava tuto palesin e bon.”
“Per poter trovare o ritrovare la parola, che lo scacco sia tutto intrasoggettivo o che sia provocato da circostanze sociali ( “Fadiga boia destegolare/ la parola materna nel talian/ uficiale, impirare bocaboli/ da festa patentai de lusso, /... / Un disastro/ el senso sorvolante” ), occorre per cominciare rinunciare alla propria indipendenza simbolica ... e contentarsi di poter dire qualcosa ... si tratta ... non di rinunciare alla parola ma di accettarne la perdita interpretandola come ritrovamento del punto di vista delle origini, quando eravamo nella dipendenza della madre. Ciò non equivale a regredire alla condizione infantile... Si tratta di un cambiamento di epistemologia. Si tratta di pensare che l’origine della vita non è separabile dall’origine del linguaggio, nè il corpo dalla mente, e pensarlo da un punto di vista in cui il loro legame non è l’oggetto di una dimostrazione ma un modo di essere, un abito.”
“El dialeto corporeo xe par mi/ importante come la prima mimica/ le statuete posturali, el rispeto/ de come comportarse par fare/ ‘na peca virtuale a la parola/ cioè el ghe entra nel pensiero/ de la scritura raisa geroglifica/ de la materia che crea vita/ da no tocare mai. Me ricordo/ co go detà mama i oh toh beh/ e brassi sclamativi -gheto sentio-/ e ninin nel specio de la lengua/ invento d’imamarme. Po co prove/ vegnevo fora spiera funambola/ de ilusion. Forse la mama xe vera vose/ crea solo ne la voja de fare un ceo.”, “Ne le venéte de la teta spiero/ canalete del dialeto, no rivo/ a scalumare la vose coralìo/ de raisa, late cajà, un gropo/ rabalta in deserto ‘na vita/ de lengua sistemà.”, “Desmentegarse fra le righe/ còeghe mus-ciose del dialeto/ che concede license e libertà/ negae a la lengua rompibale” , “Come primo computer el s’incola/ al mondo foresto coi segnali/ e soni prearticolai del sogeto./ Mente, pompa de la lengua, lievito/ narciseto, buto de falsa gnoransa/ giossa de tempo belo, caldo penelo/ nichia de pora filosofia che se/ carga el costruto de l’anema/ roba o ente o conceto assoluto/ siolto e mobile da no stechirse.” , “i diglottici... ga da supiarghe/ inteleto no solo sentimento/ parch’el sòna de cristalo sperma/ sangue fiora, el sia bengodi del corpo,/ parlante nuo vestio de l’anema/ o psiche, ponte verbale porto cuna.”
Un punto di vista delle origini. Per approdare ad una lingua che riporti indietro l’indicibile, ma l’indicibile della separazione, di quando eravamo uomini tagliati via. E allora:
“Saremo inumani - come la più alta conquista dell’uomo. Essere è essere oltre l’umano. Essere uomo non è un successo, essere uomo è stata una costrizione. L’ignoto ci attende... Non è uno stato di felicità, è uno stato di contatto.” Una lingua che ci permetta di dire: “Il mondo non dipendeva da me ... il mondo indipendeva da me, e non capisco ciò che vado dicendo... La vita mi è, e non capisco ciò che dico. E allora adoro....................................”
“E penso a la parola opaca deldelà/ carga de futuro smissià col passà/... / riva a palponi da distanse e posti/ impensabili... / ... / o che discore el sguardo astrato/ robando el più possibile la vose del silensio”, “L’io vodo scuro de l’universo/ buto de saere, cossiensa/ e sostansia l’essere”, “Vardo la verità farse ponto cao/ silensio e luce discorare su la palù/ sul stisso che se xe./ Vose me porta in anda co moto/ sermone de ati forti, i echi/ de la comparsa de l’universo.”, “Vose solo specià nel vodo tròtola/ novas motas co flaustels falseti/ sgaja el divino el blu.”, “‘Sto dialeto... ‘na janua coeli o ciara stela/ vose panoramica universale/ de salmi, togarìa sgrisolona/ de la materia primobùto... / ... / el scrive disinvolto/ robe stracote e scontae, el s’indentra/ de più ne le robe vere a priori.”
Ma anche tornare a un pensiero “che ha la sua risorsa e il suo termine in ciò che mi è presente... in forza del quale l’esperienza bisognosa di essere spiegata, e la sua spiegazione, siano fra loro in un rapporto circolare che ... mostra come esse abbiano uno stesso principio, facendo così intuire alla mente che il pensiero e l’essere sono consanguinei.”
“ e bloco/ el conceto Eva che ne scaraventa/ a la realtà e consa gusto epigramatico/ le parole devien aria de famegia/ e le se frise nel certamen/ del segno-come-cosa.”
Una lingua con cui “puoi dire il tutto che ti è presente, perché tu passi attraverso qualcosa che è presente anche ad altre o altri.”
Ritrovare la parola concreta, che “la parla coi oci rabaltai per goderse/ el gargato la pronunsia la boca/ originali de la so vose”, la parola gesto, quel “gesto puro/ de semenare rifilare ‘na paneta/ che pande da l’orlo del piato/ e sparpagia quelo che no ghe xe”, che “move e rivede/ el silensio che te ghe pensà/ el ghe giusta i dani”, quel gesto che J. F. Lyotard dice immettere nel linguaggio una traccia venuta dal sensibile: “Anca illa ... xe tuta forà de trivelae miste/... / da impienarse de senso, sentimenti/ colori unguenti soni/... / invito la poarina a colmarse/ a viagiarse insieme/ e nel sogno m’imparolo”
Ritrovare la parola passione, “co la fraca de lampra passion/ dei cavalieri pal tesoro del Graal”, “roba stagna curiosa, bolero/ de passion”, la parola poetica primitiva di Vico, che non è tecnica retorico-immaginifica astratta, ma necessario modo di spiegarsi che viene dall’esperire concreto, con cui l’uomo “di sè fa esse cose, e, col trasformandovisi, lo diventa”; la parola densa del “realismo segnico” di cui parla Conci, dove i nomi sono legati alle cose, “par incugnare pensieri e robe/ co vose fressa”, dove non c’è distinzione tra corpo e pensiero, tra pensante e pensato, tra essere uno e essere molti.
“Nata da parolo sir spenotà/ e da ‘na parolezza squinzi/ ... / ... paràola/ parola parora paruola/ sin dal tardo latin parona parabola/ e in volgare paraula/ ... / ... parolozzo/ paro:leta - lina - lucia - lona - lassa /... / leta soto roversà la deventa/ laparo/... /... e rimirandose/ le letere per drito e roverso/ ... la le vede / adate a le robe che fa l’aria/ dove la vose se destira e sfalda/... / p inissiale de padre pié pan ponte/ a de albero amore anema/ r de rima religio roba rumore/ o de ora origine opera orifisso/ l de linea letera lume limite/ ... / Ma da qualsiasi roba stimi, dal so corpo/ arlechin vien sempre su la vose/ ch’el silensio invida a le letere.”
La parola magico-mitica, “la parola buto, che pole/ da le vissare snosare vero e falso/ e sgorgarse più in là bianco el mito/ ramai sonà rosegà”, che relaziona per simpatia analogica, per similarità, per contiguità, per contagio, per promiscuità di umano, animale, vegetale, minerale.
“Zali i tabàri de la sciensa smissà/ nel palco de la mente de casada/ ... / Tèrici l’ovo cosmico, l’omo/ fàvaro, bocaboli de rabion/ ... / Zali prime foje d’albari strani/ infansia intelà in computer tivù / ... / Zali piovra canaja scoramenta/ fin el vodo/ ... / Zali droghe draghi, bessi onti / carità fintòna, sen de passion/... / Zali plaie, lagreme, fradei rùseni/ sangue da Aids, sgueltine, spore virus/ ... / Zali versi dei poeti/ ... / Zali vose e vento che ne impiena/ de voli e buti......”
La parola “bambola”, “pìrola”, che trasgredisce il linguaggio comune, logico, separato, la “lengua rompibale”, perché viene da un fuori, da un prima del linguaggio e dice sul confine tra io e mondo, non più confine ma luogo d’incontro.
“ Mi par la verità canto più ben tra/ le done i tropi e le dissonanse”, “Davanti a ‘sta pratica de parole/ femene, ... / me trovo labirinto imbranà/ come scaltrìo da l’orlo del sublime/... / e ne imbarassa anca el silensio/ che sta drento ‘na casatela stonà.”
La parola polisemica, caleidoscopica, che è per similarità la molteplicità, il metamorfismo del reale.
“Intanto che me darento le robe/ cambia”, “darente la metafora che zonta tanti/ consieri ne la sostansa del mondo”
La parola che dà voce al “selvaggio urlante” di Jung, che abita ancora -pur represso- in noi e che un tempo era artista e sacerdote: “Sighi pal silensio gravoso de Dio/ mai sparìo, muto ventriloquo eccelso/ de soni e parole bianche”
Se l’inconscio è il luogo del contatto tra corpo e psiche, tra mondo e soggetto, bisogna dargli voce con i mezzi creativi ed espressivi dell’arte: la coscienza può diventare luogo di incontro tra l’io e il mondo, se accetta, accoglie dell’inconscio la capacità del contatto, del contagio.
“El me costato tutomoto la esclama/ illa giravolta adorabile infans/ flatus”, “Beato el sunio/ endolengua del mondo intimo/ poesia speciale del stato puro/ de la mente che serca l’infinito/ in lemma infante passà via/ o desmentegà. No manca ch’el sunio/ sia ‘na religion che liga smissiae/ le robe de emossion più forti./ ‘Sta vose bronsa dona frégole/ diamante de memoria./... / La cueva del libro universale dove/ le parole torna, impèca i echi/ e se ricarga de fin stetica/ se pitura roverso sortilegio./ Vose parsora me pana el specio/ me respira el pensiero meditabondo.”
Per tornare alla vita, alla zona pre-categoriale dell’esperienza, al luogo senza pensiero dove nasce il pensiero.
Per Ruffato questo luogo è, non solo ma specialmente, il volgare padovano della sua poesia.
Cesare Ruffato, Ciao vose, in Vose striga, Scribendi licentia, Venezia 1998, pp.337/8
Carlo Ginzburg, Storia notturna, Torino 1995, p.244
James G. Frazer, Il ramo d’oro, Torino 1973, p. 381
Domenico Antonino Conci, Il matricidio filosofico occidentale: Parmenide di Elea, in Le Grandi Madri, a cura di T. Giani Gallino, Milano 1990, p. 153
C. Ruffato, Parola fiaba, in Parola polena, Parola pìrola, op. cit., p.51
C. Ruffato, Orca Eva e sorbole, in Parola pìrola, op.cit. p.10
C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op. cit., p.159
C. Ruffato, Vose sìngana, in Vose striga , op. cit., p. 347
C. Ruffato, La monega eurialina, in Parola pìrola, op.cit., p.15
C. Ruffato, Delirio sigàla, in Sagome sonambole, op. cit., pp. 268/9
C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op. cit., p. 168
Adriana Cavarero, La servetta di Tracia, in Nonostante Platone, Roma 1990, p.41
ibidem, p.45
C. Ruffato, Vose striga, op. cit., p.376
C. Ruffato, ibidem, p.385
C. Ruffato, Delirio sigàla, in Sagome sonambole, op.cit., p.269
Clarice Lispector, La passione secondo G.H., Milano 1991, p. 161
C. Ruffato, Orca Eva e Sorbole, in Parola pìrola, op. cit., pp. 11/12
C. Ruffato, Parola coi busi, in Parola pìrola, op.cit., pp.30/1
C. Ruffato, Parola sui trampoli, in Parola polena, Parola pìrola, op.cit., pp. 37/8
C. Lispector, op. cit., p.90
C. Lispector, ibidem, p.93
C. Ruffato,Orca Eva e sorbole, in Parola pìrola, op. cit., pp.8/9
Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Roma 1991, p.42
L. Muraro, ibidem, p.41
C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op. cit., pp. 161/2
C. Ruffato, Parola fiaba, in Parola polena, op.cit., pp.47/48/49
C.Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op. cit., pp.163/164
L. Muraro, op. cit., p. 46
C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op. cit., p. 164
C. Ruffato, Elbane, in Smanie, op. cit., p. 245
C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op. cit., p. 167
L. Muraro, op. cit., pp. 47/ 48/ 49
C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op. cit., p. 165
C. Ruffato, Ociae, in Smanie, op. cit., p.235
C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, p. 167
C. Ruffato, ibidem, p.171
C. Ruffato, ibidem, p. 169
C. Lispector, op. cit., p.157
C. Lispector, op. cit., p.164
C. Ruffato, Parola fiaba, in Parola polena, Parola pìrola, op. cit., p. 54/ 55
C. Ruffato, Fumeto bianco, in Sagome sonambole, op. cit., p. 285
C. Ruffato, Vose sìngana, in Vose striga, op. cit., p. 359
C. Ruffato, Vose striga, op. cit., p. 369
C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op. cit., pp. 161/2
L. Muraro, op. cit., p.58
C. Ruffato, Orca Eva e sorbole, in Parola pìrola, op. cit., p.7
L. Muraro, op. cit., p. 63
C. Ruffato, Parola sigà, in Parola polena, Parola pìrola, op. cit., p.40
C. Ruffato, Orca Eva e sorbole, in Parola pìrola, op. cit., p.6, p. 11
C. Ruffato, Parola coi busi, in Parola polena, Parola pìrola, op. cit., p. 31
C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op. cit., p. 159
C. Ruffato, Birignao del vodo, in Sagome sonambole, op.cit., p. 299
Giambattista Vico, citazione di Giusepe Conte in Introduzione, AA. VV., Metafora, Milano 1981, p.27
C. Ruffato, Vose striga, op. cit., p.389
C. Ruffato, Parola polena, in Parola pìrola, op. cit., pp. 25/ 26/ 27
C. Ruffato, Ciao vose, in Vose striga, op. cit., p.325
C. Ruffato, Otobre de zali, in Sagome sonambole, op. cit., p. 286 e sgg.
C. Ruffato, Orca Eva e sorbole, in Parola pìrola, op. cit., pp. 6 / 7
C. Ruffato, Smanie, in Smanie, op. cit., p.239
C. Ruffato, Parola fiaba, in Parola pìrola, op. cit., p. 50
C. Ruffato, Birignao del vodo, in Sagome sonambole, op. cit., p.306
C. Ruffato, Parola sigà, in Parola pìrola, op. cit., p.40
C. Ruffato, Vose striga, op. cit., p.375, p. 379