PLURILINGUISMO E ISTANZA CIVILE NELLA POESIA DI RUFFATO
La poesia di Ruffato, ben prima di svilupparsi lungo il versante linguisticamente particolare del dialetto, ha mostrato una marcata propensione per limpiego di materiale lessicale proveniente dai più svariati ambiti e registri. Non è per un semplice riflesso dellattività dellautore (medico di professione), che si depositano nella composizione poetica cospicue dosi di vocabolario scientifico: si tratta di una vera e propria dimensione plurilinguistica connaturata al fare poetico, che chiama a raccolta sulla pagina tutta una variegata logosfera di lingue straniere, lingue antiche, flessioni parlate (compreso quel dialetto veneto che caratterizzerà negli anni Novanta la recente fase del nostro autore), citazioni letterarie, nuovi composti e neologismi (specialmente dei verbi parasintetici), calembours e quantaltro. Una dimensione aperta alla molteplicità dei linguaggi che è sicuramente in relazione con limpatto della modernità, con i mutamenti dellambiente esterno (potremmo dire: lartificializzazione della vita e la dispersione dellidentità nelle pratiche della massa consumista e nei messaggi delle merci), con la tensione sociale che ne deriva, nonché con il problema della complessità del mondo che richiede alla comunicazione letteraria e poetica lo stato di allerta, non potendo più affidarsi ingenuamente, per la trasmissione dei propri significati e valori, al presupposto di una scontata comunanza affettiva.
Ma oggi, dopo lavvento e la diffusione delle teorizzazioni postmoderne, sappiamo che ci sono diversi modi di reagire a una tale situazione sociale, culturale e linguistica; e che cè plurilinguismo e plurilinguismo. Allipotesi (collocabile, in senso lato, nella prospettiva delle avanguardie) di una operazione di montaggio che penetri polemicamente nella rete della complessità, mettendo a fronte i tasselli plurali secondo i modi della contraddizione e del contrasto per far saltare a colpi di accostamenti inconsueti e stranianti i chiavistelli delle rispettive ideologie, è stata contrapposta lipotesi (etichettabile, questa, nelle varie apparizioni del postmoderno) di una risposta debole e prettamente mimetica allintensificarsi delle articolazioni comunicative, una risposta arresa alle conseguenze delloccultamento degli orizzonti oppositivi, nel caos dellesistente: privato dellutopia così come della polemicità, il plurilinguismo di marca postmoderna si presenta quale accostamento, contaminazione, mescidanza; modi in qualche modo necessari ma passivi, stante lindirizzo di non incentivare la reciproca interpretazione dei membri prelevati e accostati, e invece il rilevamento implicito della loro equivalenza indifferente.
Quindi, se immediatamente la poesia di Cesare Ruffato ci si presenta impostata in direzione del plurilinguismo, dobbiamo però anche scendere in dettaglio per rispondere alla luce di questo recente dibattito alla domanda quale plurilinguismo?. Tale risposta dovrà estrinsecarsi in due momenti, affrontando la questione del rapporto tra le parti insieme a quella dei punti di sutura o di interruzione.
Occorre notare, innanzitutto, che le operazioni poetiche di Ruffato non hanno mai portato, mediante la raccolta sincretica di materiali disparati, a un ripristino delle strutture: in questo autore laffrontamento della complessità genera un testo altrettanto e forse più complesso; si potrebbe correttamente affermare che la complessità viene sfidata in modo estremistico, fino ai confini delloscurità e della dispersione del senso. La prospettiva ruffatiana, negli anni Sessanta e Settanta, collima con lavanguardia pur non partecipando direttamente al gruppo ufficiale di quel periodo e, per quanto si muova (al pari di altri eccezionali sperimentatori, come Cacciatore, Emilio Villa, il Volponi poeta) per propri sentieri e percorsi, tuttavia contribuisce a un clima di esasperata innovazione della scrittura. Se proviamo ad assaggiare un piccolo campione dal Ruffato più exlege, quello di Minusgrafie (Milano, 1978), vediamo che la comprensione (quella fusione dorizzonti che lermeneutica presume tra testo e lettore) viene messa a dura prova:
«signa ostenta prodigia portenta
sconvolta straziata la scrofola sperimentale
il casco morto negli schemi del cuore
la roulette confidenziale le manine furtive
non vogliono con il sole presagire-conicere
la vera ragione di scegliere più saggio
del più saggio il piacere di disperdersi nella qualità
la capra ecclesiastica bruca le stelle lattee
non cè male il trillo di lodola dacqua corrente
si è fatto tardi nel bosco nel libro apostata
dai pixels pregenitali in libertà allucinatoria
giunti alla fine nellidrica vigna di prugna
tocofiumi che vengono
da linee bianche e nere convergenti nel sogno regale
che si è fatto il cane salmodiante sotto la pioggia
nella caduta dislocata il bacio coronarico
mammola il mattino che maramalda gialli impazziti» (p. 125).
Il primo incontro con questo testo è senza dubbio uno scontro e, se ci fermassimo ad esso, potremmo dire di aver intenso solo un delirante sproloquio, senza capo né coda, vista la sintassi aggiuntiva e inarrestabile, per accumulo. In realtà, procedendo a una seconda lettura di tipo analitico, possiamo distinguere, intanto, le molteplici provenienze del lessico (latino, termini tecnici), le invenzioni di composti e verbi derivati (come, nellultimo verso citato, mammolare e maramaldare); e insieme alcune direzioni compositive, che conducono a accostamenti fantastici fondati sullimpossibilità (come fa un casco ad essere morto? cosè che fa «regale» un sogno? cosè un «bacio coronarico» e che rapporto ha con una «caduta»? e via dicendo), ma anche ai contagi di senso dellanalogia (le stelle sono «lattee» per effetto di contiguità della capra e della via lattea) e dellassonanza (che giustifica una «vigna di prugna»).
A osservare ancora, si delineano vari collegamenti di isotopie: una corrente di liquidità attraversa l«acqua corrente», l«idrica vigna», i «tocofiumi», la «pioggia». La risoluzione di alcune immagini al modo del cadavere squisito surrealista (tipo: «la capra ecclesiastica bruca le stelle lattee», o: «il cane salmodiante sotto la pioggia»; guarda caso entrambi animali in atteggiamento bizzarramente religioso) sottolinea la persistenza di un ordine sintattico sotto la trasgressione dellimmaginario; nel frattempo, il caso più vicino allintonazione lirico-romantica (quel «trillo di lodola dacqua corrente») si fa notare per laggiunta di un commento autovalutante («non cè male») decisamente ironico. Insomma sotto lapparente anarchia e la «libertà allucinatoria» di questo brano si rinvengono le linee di un discorso per immagini che riguarda ce lo annunciano varie spie, dalla «scrofola sperimentale» al «libro apostata» la possibilità stessa dellantagonismo della scrittura. Sono le immagini nei loro nessi (che non sono solo di felice sorpresa, ma si declinano altresì per i versanti dello sconvolgere e dello straziare) a doversi commisurare con lasperità delle tensioni esterne. Ed ecco allora quella perentoria sineddoche del «casco morto» (davvero protezione difettiva), o il caso degradato ad ammiccamento nella «roulette confidenziale», o ancora la situazione del «libro apostata» sorpreso dallurgenza nei tempi stretti di un «si è fatto tardi». La strada di una interpretazione semantica (traducendo in polisenso anche i rilievi puramente formali) apre lapparente oscurità a una ricca fioritura di supposizioni che stimolano nel lettore, invece di un recepimento passivo, un contributo di partecipazione e di attività riflessiva e creativa.
Se passiamo alla recente fase dialettale della poesia di Ruffato, troviamo ancora seguita pur con mezzi linguistici diversi in un mutato contesto culturale questa linea di condotta. La scelta del dialetto rappresenta non già un rifugio nella parlata di una singola comunità, bensì un memento rivolto alla cultura nazionale per tutte quelle particolarità che sono andate perdute o rischiano di esserlo nel processo attuale di omologazione della lingua e della cultura condotto nei mezzi di comunicazione dalle tecnologie imperanti. Ma non è solo questo; poiché il dialetto stesso fa da base a operazioni plurilinguiste ospitando (ben oltre i parametri della propria tradizione vernacolare) apporti svariati, soprattutto dalle lingue scientifiche e dal dibattito teorico, e attrezzandosi così precisamente nel terreno della riflessione e dellautoriflessione per solito lasciato allitaliano colto. Parola pirola (Padova, 1990), tappa prima dellitinerario dialettale di Ruffato, contiene una sezione dedicata alla parola e alle sue possibili definizioni. Da uno di questi brani metaverbali (esattamente: Parola sguardo) vado a prelevare gli spunti seguenti:
«Massa cità salivà per no insendere
la conta sul so patrimonio frugolo
per sguardare frasi ciare frugnare
nel parentado rosegà spanto
farghe feboclisi antifreschin,
no la scomete ma la se mete intanto
flauto acordà ne la langue
plautina transfigura
(...)
Nel giardineto sublime cura
col cuore glicine rosari petunie
nel deserto de colori e polpe vegetali
per bocade de ritiro
fiumi bombaso spumilia ne la nebia
sursum corda» (p. 87).
Come si vede i termini dialettali più fortemente connotati da tratti espressivi («frugnare», «rosegà», «freschin»), sono messi insieme a termini dellitaliano o comunque non diversi (il «patrimonio frugolo», la «sublime cura» o le «polpe vegetali»); in alcuni casi, come il composto «antifreschin» (antidolore) il dialetto viene manipolato a imitazione della lingua. Ma soprattutto, compaiono termini tecnici (dalla lessicologia medica, la «feboclisi») e termini di lingue straniere o antiche (la «langue», e quel «sursum corda» proveniente, invece, dalle funzioni religiose) che proiettano il testo fuori dei confini del localismo. La «langue» di saussuriana memoria cede la sua rigidità codificata e ufficiale introducendo alla «plautina transfigura»: formula tutta metaletteraria, questa, che allude al movimento della teatralità e allattraversamento critico delle immagini («transfigura» verrà adottato da Ruffato in prossimità delle sue esperienze visuali), costituendo una ben calibrata dichiarazione di poetica calata allinterno del testo.
La fase dialettale, se per un verso incentiva determinate tematiche, come quelle della corporeità (la parola è nello stesso tempo citata e salivata, nel suo passare di bocca in bocca) e dellinfanzia (qui nel «frugolo»: verrà poi sviluppata nella raccolta I bocete), è tuttavia coerente ai precedenti esperimenti minusgrafici nel procedimento metodico della poesia che, anzi, applicandosi adesso a un materiale nuovo, non patisce rischi di ripetizione: il metodo di costruzione caro a Ruffato non si è affatto arreso, qui, a una maggiore abbordabilità, ma appare pur sempre puntato sul costrutto per apposizione (nel primo passo, notiamo la sequenza dei verbi allinfinito: «per sguardare... frugnare... farghe»; nel secondo, la reiterazione di «glicini rosari petunie», accostati senza beneficio della virgola) e sullinvenzione di collegamenti sonori (nel primo passo, la sequenza paronomastica «la scomete ma la se mete», nonché la rilevanza iniziale dellassonanza tra «flauto» e «plautina»; nel secondo, negli ultimi versi, le allitterazioni che attraggono in base S «bombaSo», «Spumilia», «SurSum», e in base B ancora «BomBaso» e «neBia»). Le diverse dimensioni della parola che qui il testo va investigando sono altrettante vie per le quali il dialetto è portato a potenziare il proprio impatto nel momento stesso in cui esce da se stesso, ossia va al di là delle funzioni subalterne alle quali è stato storicamente adibito. Forse, proprio quando la competenza dialettale si indebolisce nella comunicazione quotidiana, la comunicazione poetica è in grado di raccoglierne le facoltà e di rilanciarne gli obiettivi, con un gesto di rilevante provocazione e polemica.
Ma proprio il fatto che lorizzonte differenziale del plurilinguismo tenda a coagularsi in momenti di opposizione (dove e non paia paradosso il molteplice si unifica di contro ai poteri unificatori) ci spinge a riflettere sulle pause dellaccumulo, sulle insorgenze dellinterruzione, quando il ventaglio delle varietà particolari lascia il campo a un discorso che riguarda tutti: allora compare, nella poesia di Ruffato, listanza civile, a mettere in discussione il modello di sviluppo su scala planetaria, a contestarne la sostenibilità, a riproporre con forza lutopia ecologista. Unopera-perno, e non solo in questo senso, è Padova diletta (Padova, 1988), situata tra il grande sfoggio retorico dellautoriflessione metalinguistica e il salto a capofitto nelle parole perdute del dialetto, a un di presso dal punto di massima crisi esistenziale dellautore (documentato in Prima durante dopo). Allora, troviamo qui una sintassi poetica che pur non abbandonando la ricerca di lessico speciale e la costruzione per apposizione si raccoglie attorno ai centri riconoscibili dellio e delle sue prese di posizione:
«Particolari mi lussano le coronarie
farfugliano la percussione serrata del polso
bolso del simulacro cittadino
allo scoperto ne affronto il corpo iperbato
reale immaginario simbolico mi annodo pudico
nello sguardo del suo dire in sinestesi pazza.
Nelluniverso dei significanti scavo segnali
e desideri. Sguscio dalle belle parole
che possono essere trucco
quasi trascendo con la flemma dei vigili
ne disapprovo lassuefazione
spreco un po di quota
non sono stelo né stinco di santo
ma opto per la rivoluzione verde» (pp. 70-71).
In questo esempio, il lessico medico risulta applicato in senso proprio ai disagi fisici provocati dal degrado della vita urbana. Tutto il lavoro dellimmagine (con il pulsare del traffico raffigurato in un «polso bolso», con il soccorso della paronomasia), e tutte le implicazioni di marca critico-letteraria che entrano nella scena (dai tre ambiti lacaniani «reale immaginario simbolico», alla sinestesia, all«universo dei significanti»), quasi a dimostrare che la poesia non può muoversi altro che in un paesaggio verbale il che darebbe ragione, a conti fatti, alla prospettiva postmoderna assume una nuova colorazione culturale grazie allo scarto fuori dei trucchi delle «belle parole», quasi a volare a bassa «quota» dal livello dei segni al livello dei corpi: così, anticipata dalladesione al ruolo impopolare del vigile, arriva la recisa opzione, a mo di slogan, per la «rivoluzione verde», in consonanza con ulteriori affermazioni avanzate nel corso del testo (poco più avanti lesortazione: «Si dia spazio alle prove non distruttive / allecologia delle scienze e coscienze»). Mentre il plurilinguismo e il gioco retorico e sonoro, di per sé, in quanto tratti di risaltata creatività costituiscono levidenza di unutopia in atto, ma con ciò corrono il rischio di negare il male sociale con i suoi limiti e pressioni, poiché la libertà verbale smentirebbe la pesantezza del dominio ideologico; la parola della protesta rinvia lutopia nel futuro e rimette la tendenza del testo come si deve in stridente ed esplicita contraddizione con lesistente, riassegnando compiti antagonisti alla stessa invenzione neologistica.
La raccolta poetica pubblicata recentemente da Ruffato, Etica declive (Lecce, 1996) è un ottimo osservatorio per considerare gli sviluppi di queste problematiche. In contrasto con i cascami della poesia di fine secolo che siano gli atteggiamenti sacrali di un nuovo sublime o le trasposizioni rasoterra del vissuto, i vacui manierismi oppure i recuperi di musicalità facile Ruffato ha tenuto fede alla sua vocazione per la misura atonale del verso e per la composizione plurilingue del testo: non solo è introdotta nella poesia la terminologia medica, ma svariati apporti provengono così dal parlato come dal patrimonio della tradizione letteraria, dal vocabolario della grammatica e della retorica (i cui termini sono spesso personificati a protagonisti) ed ora anche dal dialetto, che in questo ultimo ritorno alla poesia in lingua ricompare non certo in omaggio a localismi di sorta, ma come traccia di una facoltà vitale e espressiva da salvare ad ogni costo.
Da un lato, infatti, il testo dellultimo Ruffato abbonda nel ritrovamento di quelle che lautore stesso denomina «parole lunatiche», passando per il calembour e lutilizzo inusitato, fino al neologismo dei composti ottenuti per fusione (qui, ad esempio: «presbiparole») o dei verbi ricavati da sostantivi (troviamo: apneare, prebendare e vari altri). Ma dallaltro lato, a questa felicità inventiva nella manipolazione dei significanti non corrisponde un altrettanto euforico effetto nelle combinazioni dei significati: le immagini rasserenanti si oscurano, con quella che lautore stesso indica per una «paranoica tensione», nellorizzonte senza scampo del cattivo stato del pianeta. Così da un lato:
«Poesia come sapienza del silenzio
indubbio brindisi tra le nuvole»;
ma subito dopo:
«Si rubano le maschere nel ghettume
non si vive di parole ritrovate
di trampolini capziosi abunde.
Il bilancio paziente prevede galantuomini
ma il più piccolo capobastone giostra
onnipotente incementa laltrui morte.
Hospices nel tabù sociale
abbindolano linde agonie per famiglia
in conversari complici bianchi» (p. 51).
Senza rinviare a una dialettica tra illuminazione e opacità delle immagini o in altre parole tra sogno dellutopia e incubo della storia, non risulterebbe comprensibile la produzione odierna di Ruffato, e forse neppure il suo percorso di poeta. Infine, le ragioni del plurilinguismo e quelle dellistanza civile si saldano in un raccorciato cortocircuito che ha il carattere dellossimoro (qui le «linde agonie»; altrove l«allegria desolata»).
La stessa «etica declive» ha valore di ossimoro. A soprintendere al montaggio, cè unetica, però unetica declive (così specifica Ruffato, riprendendo un sintagma rintracciabile in un suo componimento della fine degli anni Ottanta; e ciò testimonia la coerenza intertestuale della sua scrittura); «declive», ovverosia inclinata verso il basso delle pulsioni desideranti, non statica sulla marmorea base del dogma ma posta in bilico, pendente per la discesa della prassi: nondimeno, pur sempre unetica, unistanza di rigore, di correttezza, di valore collettivo della parola; unetica che invece di manifestarsi in stentoree sentenze, si iscrive nel corpo del linguaggio e incide e divarica i livelli stessi della poesia.
Ancora nellultima raccolta la poesia di Ruffato, estranea ai «salamelecchi dei poeti», si presenta come una sonda che tenta di scavare «larcheologia della complessità»: non presume di possedere una rivelazione intangibile, ma piuttosto si situa nel punto di rottura di ogni illusione di identità e di totalità, là dove esse vanno in crisi e sono coinvolte nei «dispetti della scrittura». In questo periodo, di fronte a uno sbandierato trionfalismo della comunicazione, spesso circonfuso di una aureola tecnologica, è sempre più urgente elaborare la risposta radicale di una comunicazione critica e antagonista: Etica declive ci conferma e dimostra che il problema dellavanguardia passa oggi attraverso le «minuzie» e le dislocazioni testuali, e che solo lorganizzazione polisensa della sintassi del frammento e della semantica dellincongruo può sorreggere la giusta tendenza letteraria di un impegno morale e civile del tutto liberato dalle ideologie precostituite e dalle pose oratorie.
La fase dialettale della poesia di Cesare Ruffato, sviluppatasi
nella prima metà degli anni Novanta, vanta già un corpus
rilevante, per ora giunto a quattro titoli: Parola
pirola, El sabo, I bocete, Diaboleria,
pubblicati con costante cadenza. Si tratta quindi non
di un estemporaneo excursus ma di una vera e propria
adozione del dialetto, che impone allinterprete
non solo laccostamento ad una particolare competenza
linguistica, ma anche un sovrappiù di riflessione in
quanto, con il Ruffato dialettale ci si trova quasi
di fronte ad un altro, ad un nuovo poeta: inoltre,
diventa necessario aprire un confronto con i caratteri
e le linee della tradizione poetica specificamente
dialettale, rispetto alle quali la svolta di Ruffato
pone precisi problemi, non essendo facilmente assimilabile
(come avremo presto modo di constatare) alle direzioni
più invalse.
Certo, la stagione dialettale di Ruffato cade in un
momento di ripresa (testuale e critica) di questo settore
poetico per lungo tempo emarginato e trascurato. A
dispetto del suo arretramento nella pratica del parlare
comune sotto lincalzare dellomologazione linguistica
della koinè massmediatica, il dialetto sembra
essersi conquistato nella poesia un terreno di grande
vitalità e forza produttiva. Se già nellarco del Novecento,
la poesia dialettale si era scrollata di dosso gli
aspetti bozzettistici e comico-realistici della tradizione
vernacolare per raggiungere i temi della soggettività,
con la cosiddetta poesia neodialettale del secondo
dopoguerra essa consegue un livello di validità sostanzialmente
paritaria sebbene poco o nulla riconosciuta da storici
della letteratura e antologizzatori ufficiali rispetto
alla poesia in lingua. Tuttavia, rispetto ai risultati
più noti e rilevanti di tale area letteraria, Ruffato
presenta alcune differenze di fondo, che rappresentano,
a mio parere, un avanzamento ulteriore sulla strada
di una piena sprovincializzazione del dialetto: abbandonato
qualsiasi tentativo di intensificazione lirica o espressionista
(lontano quindi, certamente da Pasolini, ma anche da
Guerra), viene oltrepassato anche quel marginalismo
che idoleggia il dialetto come residuo storico dei
senzanome. Le stesse prove di Zanzotto sullidioma,
che pure potrebbero essere imparentabili, risultano
alla fine dei conti più cedevoli alla nostalgia della
naturalezza della parola dialettale (e non per
nulla luso del dialetto comporta, nel suo caso, una
maggiore distensione e una minore frammentazione del
discorso poetico). Semmai, Ruffato consuona con quel
fenomeno culturale e letterario che ha visto in anni
recenti con un movimento a chiasma autori dialettali
raggiungere esiti fortemente sperimentali e autori
sperimentali ricorrere allapporto del dialetto.
Ruffato imprime al dialetto la tensione dello straniamento:
cosa che certamente lo farà apparire (agli occhi dei
cultori della verginità linguistica del genius loci)
troppo sbilanciato nel portare la parola dialettale
extra moenia piuttosto che coltivarla iuxta
propria principia. Il suo diventa un gesto di esorbitanza,
di cui il dialetto si trova ad essere, nel contempo,
il soggetto e loggetto. Da un lato, lirrompere di
un linguaggio emarginato e da sempre estraneo alle
istituzioni fa esorbitare il testo dai limiti convenzionali,
interrompe il corso delle buone maniere della comunicazione,
appiattita e moderata, del consumo linguistico dominante.
La stessa connessione del dialetto allinfanzia (programmatica,
per dirne una, in un titolo come I bocete),
concerne molto più una prospettiva di una anarchia
disubbidiente e utopica, che non quella della regressione
nel ricordo della propria individuale età prima. La
stessa scelta del dialetto significa, dopo e contro
gli anni del ricambio indifferente, una riconquista
di spessore storico nelle parole, che riguarda lintera
collettività. Dallaltro lato, però, il dialetto è
anche reso oggetto dellesorbitanza: infatti, nella
riappropriazione che Ruffato ne opera, si trova spostato
su funzioni fino a ieri improbabili se non impensabili.
La stessa plasticità e espressività stilistica dei
termini dialettali viene estremizzata, qui, in direzioni
di una inventività e creatività che lavorano sia sui
significanti che sui significati: pratiche di smembramento
e di agglutinazione dei corpi sonori; sintassi frammentaria
e elencatoria; semantica di forte ambiguità per la
costruzione di immagini paradossali e mosse da una
interna carica critica di contraddizione; tutto ciò
conduce il dialetto in zone assolutamente nuove. E
la densità teorica e metalinguistica vale da acquisizione
secca, rispetto agli standards correnti.
Non rifugio in una originarietà edenica, il dialetto
adottato da Ruffato tanto meno può essere messo sul
conto, neanche come vago sintomo, del movimento culturale
(o inculturale che sia) emerso in questi anni di rivalutazione
del localismo, con le punte di secessionismo e di intolleranza
alla sangue-e-suolo che ben conosciamo. A togliere
qualsiasi equivoco di ritorno allindietro, varrà ricordare
che quello utilizzato da Ruffato non è un dialetto
puro; è un linguaggio reinventato, che trascina con
sé in abbondanza componenti allotrie, che accetta di
mescolarsi e di commisurarsi con un vastissimo bagaglio
culturale e intellettuale: vi sono inglobati elementi
della lingua colta (latino e provenzale), termini stranieri
entrati nel parlato così come quella terminologia teorica,
filosofica e scientifica, che dai primi passi del
suo esperire poetico Ruffato ha introdotto nel
testo della poesia. Non si tratta quindi di un interesse
per il cera una volta, né di un gusto antiquario
per le parole perdute, quanto di un intento polemico
(ancora una volta di stampo ecologico) contro
luniformazione e lomogeneizzazione forzata. Come
si vedrà dallanalisi più ravvicinata dei testi, il
nostro autore non ha inteso affatto ricorrere al dialetto
per scavarsi una nicchia o recuperare un nido nellalveo
materno di uno strumento minoritario, ma ha tentato,
invece, di prolungare con altri mezzi la propria linea
di ricerca poetica: complessità plurivoca e tensione
interna ne restano i caratteri principali, sicché
non meno ragguardevole che nei componimenti in lingua
risulta la dimensione sperimentale.
Si tratta sempre di un pluringuismo: con la differenza che ora la base è il dialetto. Basta aprire Parola pirola nella sua sezione di avvio (Orca eva e sorbole):
«La xe tuta colpa mia e no voria
chel tinciodasse ti Adamo, cossì
a la spiageta del peoceto Eva
che rabaltà devien orgiosa Ave
ex abundantia cordis dissoluta
e molesina de lusso se inculpa
le vissere de tristessa madonera
efusiva a caturare na onda
per surfare chimera a la sponda»;
per trovare, innestati nella parlata patavina, tasselli
di lingua latina o adattamenti di termini stranieri
entrati nelluso («surfare»; come poi si troverà slalom
trasformato in «slalo»). Già qui il testo si muove
al di fuori delle tematiche municipalistiche se mette
in scena addirittura i progenitori del genere umano
fatti archetipi del confronto maschile/femminile. È,
insomma, un dialetto allargato e integrato di apporti
culturali, e messo in grado non solo di compiere operazioni
smaliziate sul significante (come il ribaltamento
palindromico di Eva-Ave), ma anche di equivalere (quanto
al suo raggio di intervento teorico) alla lingua:
lo dimostra la frequenza e la consistenza della citazione,
a spaziare, diacronicamente, fino alle radici della
tradizione lirica (troveremo una «morosa de lonh» e
un «trobar ombreto leu clus»), e sincronicamente mettendo
a frutto in autoconsapevolezza spunti del dibattito
(comparirà un «coto / pensiero debole» e una «tiritera
su la morte de larte»), riferimenti in controluce
(«cuori sgombri mots sur les mots» fa il verso ai paragrammi
di Saussure) e rimandi ai contemporanei (del bagaglio
fa parte anche un «barone rampante»). Un tale spostamento
sul versante teorico-intellettuale sposta decisamente
la funzione-dialetto dal suo chiodo evocativo-nostalgico;
nello stesso tempo introduce nuclei tematici che o
sono resi in italiano, oppure costringono a formare
inediti neo-dialettismi.
Molte analogie, non soltanto la forma del titolo, legano
Parola pirola a Parola bambola: svariate
le attivazioni dei termini astratti della retorica
e della grammatica, animati attraverso lapposizione
del sostantivo (come Parola bambola aveva le
«metonimie pipistrelle», qui si incontrano la «litote
tarantola» e le «consonanti cerbiate»; e vi ha posto
lallegoria, debitamente dialettalizzata in «alegoria»);
ma soprattutto, nellampia sezione Parola polena
(che copre quasi la metà del testo complessivo), si
applica un orientamento metalinguistico di discussione
delle possibilità della parola e di tentativo definitorio,
sotto a titoli parziali di volta in volta significativi
(Parola malà, Parola matita, Parola
coi busi, ecc., fino a Parola fiaba) di
stati diversi o di diverse ipotesi di intervento. In
questo caso, lestensione del dialetto al di là delle
sue funzioni subordinate e delle sue limitazioni al
quotidiano e al familiare, giunge a mettere a fuoco
nellinsieme della poetica in versi proprio la
tendenza fondamentale che lapporto del dialetto rappresenta
in questa fase dello sperimentalismo di Ruffato: laspetto
della mescolanza, che viene promossa e sollecitata
dallo statuto del dialetto, meno rigido rispetto alla
lingua ufficiale; lo smissiare del plurilinguismo
(che qui Ruffato ben definisce con la formula di «free-parolese»)
si muove decisamente a suo agio «ne la brodagia / instabile»
di un parlato con forte radicamento, sì, ma tutto ormai
aperto ai contributi della multi-comunicazione moderna,
«in na gagliofa funamboleria
de macaroni sbreghi ronchi poteri
la follia sbólsega latinus grossus
rochei de storpiature e na polteca
che se la sbriga sensa riguardi».
Come si vede, lassenza di regole inamidate dà il via
libera ad una lezione di abilità aggressiva e dissacrante
che trascina verso il basso le gerarchie codificate,
le avvicina («sensa riguardi», appunto) nel miscuglio
alquanto degradato della «polteca», le accompagna a
non controllabili e poco rassicuranti guide (come la
«follia», la quale da par suo «sbólsega», cioè
tossisce, un suo latino popolare), le avverte della
probabilità dei bruschi trattamenti promessi dagli
«sbreghi» e dalle «storpiature». E unaltra definizione
forte è quella della Parola morbin, rinviante
al movimento eccitato e scomposto, indemoniato («La
parola col morbin in corpo»); a indicare una operazione
linguistica di animazione del testo che deve produrre
attività su tutti i livelli, gli elementi, le giunzioni.
A questa poetica il dialetto deve corrispondere e corrisponde
effettivamente.
La favola delle parole gelate che Ruffato cita nelle
pagine finali del libro è quanto mai calzante: il dialetto
sempre meno impiegato nella vita reale è come un serbatoio
di parole e schemi verbali irrigiditi, che spetta al
testo poetico disciogliere dallinerzia e rendere ancora
utili in tutta la loro energia espressiva. Non è soltanto
la vicinanza con le funzioni corporali vitali e neppure
solo il legame con lo strato sociale degli oppressi
senza storia a fornire il dialetto di una carica espressiva
dirompente: cè anche la sonorità onomatopeica che
un poeta come Ruffato è pronto a sfruttare e a dispiegare;
termini lunghi e buffi, uscite strampalate, raddoppiamenti
infantili, soprattutto impasti verbali intriganti come,
ad esempio, il gruppo iniziale s+consonante che caratterizza
un gran numero di termini dallinflessione stramba
ed abnorme. Di esse un non esaustivo e provvisorio
elenco comprende: «sbregà» (lacerato), «sbólsega» (tossisce:
già incontrato), «sbrodegoni» (sudicioni), «scavegion»
(capelluto), «scravassi» (rovesci di pioggia), «sgnarada»
(combriccola), «sgrisole» (solleticanti), «snaroci»
(muco nasale), «squaquarela» (rammollimento), e via
così. Se qui il dialetto appare già pronto e naturaliter
attrezzato per un effetto durto, non mancano poi
i procedimenti di accostamento che producono i cortocircuiti
sonori della paronomasia, in coppie quali «sgionfi
e ponfi», «specio vecio», «de sera siera», «a stechi
sechi», in aggiunta allitaliano «eterni esterni».
Si tratta di un lavoro linguistico che anche in questo
caso lascia indietro il gusto vernacolare per la
sonorità e procede nel viaggio al termine della
parola fino alla disseminazione del suono, alla
spezzatura della sillaba, al privilegio della lettera.
Sono tre livelli operativi che si dispongono esemplarmente
proprio nelle sezioni che sono dedicate alla Parola
e al suo vertiginoso mutamento pirolante: paronomasia
(«Parola pìrola pàrola»); divisione in sillabe («la
sillaba pa drite staltre ro e la»);
infine autonomia della lettera che alimenta la pluralità
dei significati, vedasi questa sorta di acrostico:
«p inissiale de padre pié pan ponte
a de albero amore anema
r de rima religio roba rumore
o de ora origine opera orifissio
l de linea letera lume limite
de serto per scursarla coi nomi»
Insieme a questi interventi, del Ruffato in lingua restano le strutture sintattiche dellapposizione, dello scarto semantico, dellelenco. E tuttavia sarebbe troppo semplice intendere la fase degli anni Novanta come il versamento del nuovo vino dialettale in vecchi otri sperimentali. Cè di più. Con ladozione del dialetto lo sperimentalismo si riappropria del problema della relazione storica con il passato: da un lato, infatti, la parola dialettale sembrerebbe la più acconcia al recupero del passato, anche per il fatto di essere, parola corporale e familiare, linguaggio senza scissione tra suono e senso, una sorta di ideale veicolo per la promessa di pienezza e di indistruttibilità del corpo collettivo nella carnevalesca materialità della cuccagna:
«tra fruti gonfi gonfi
melonare spinete goti de clinto
spose tetone culo barca de scondòn
lecone na bala totale
de odori pudori saori.
Cei se ociava scoltava snasava
se pensava che liquidità fosse proprio
la pompa de la monta
sgorgà de boto da le vergogne
e no tanto parola economica
serpente ne la frase de le finanse familiari»;
ma si noti, anche qui, tra le triplicate istanze dei
canali sensoriali ben stimolati («odori pudori saori»),
infine il mito della «liquidità» ricondotto dalla sessualizzazione
universale («la pompa de la monta») alla sfera delleconomia
(«le finanse familiari») con una filologia della misinterpretazione
che fa, al contempo, da climax discendente.
Il dialetto non può reggere fino in fondo la promessa
di redenzione; in quanto ormai emarginato e ristretto
nelluso, ladempimento che esso garantisce non può
che essere relegato nella distanza temporale. Quella
dialettale è una «parola opaca» la cui riemersione
è incerta («riva a palponi»), problematica la funzione.
Notiamo allora che, almeno in Parola pirola,
la direzione non è a senso unico verso il passato:
è invece duplice, «carga de futuro smissià col passà»,
volta a «combinare la distansa co la speransa»; insomma,
non è memoria senza essere anche attualizzata favola.
El sabo è il testo in cui maggiormente la poesia di Ruffato si avvicina alluso del dialetto iuxta propria principia: vale a dire che si applica nel cammino a ritroso del ricordo e della immagine memoriale, segnali indiscutibili le figure della famiglia, dai «marini oci materni» alla bicicletta Dei del papà, al come eravamo della tribù di nonne, nonni e zii. Riapparizioni degli anni dellinfanzia sono le sagre con le «carobe tiramola» da masticare e la «giostra a caenele calcinculo», oppure ancor più nitido nel «vien ben in mente» la giornata allo stadio:
«De festa me vien ben in mente
la sgropada premio a Padova
al campo Appiani co me papà
sul fero de la Dei da omo cussinà
per la partita de balon in serie A
bei gol discussion sarache
gazose, carameli de la dita Rocco».
E però il ricordo è una trivella instabile; impossibile farla rimanere ferma ad un solo livello cronologico. Da un sabato (sabo è, appunto, limpagabile prefestivo) allaltro, lo scarto temporale è la sua norma, sicché gli «ani trenta dei fasci paroni» con la «palanca de liquerissia» e le nuotate «al Muson» si proiettano in breve sugli anni «dal sinquanta in su», fino alla
«(...) protesta sessantotina
ani tartassai da brigate tinte
siringhe, pocula
nomi de piombo pei giornai».
La distanza temporale è pur sempre un abisso che la parola colma con un salto avventuroso e precario (si parla a un certo punto di un ponte di paglia, «un ponte / de paia sul tempo del tempo»), di cui si avverte tutta la difficoltà e il pericolo: la riemersione del lontano, infatti, pur agevolata dal suono ben noto e primario della voce dialettale, deve fare i conti con la differenza ineliminabile del presente. La discontinuità storica e sociale che marca lantitesi tra il «na volta» e l«adesso» deve constatare la radicalità del cambiamento («ormai ... xe cambià») e ribadita anche dalla incisione del trauma personale che (perno ne è un sabato di sciagura) torna a far sentire la feroce frattura tra prima e dopo non lascia senza dubbi la possibilità del rivolgersi allindietro, «indrioculo», verso il passato. È piuttosto una contraddizione, quella che investiga e scava Ruffato allinterno del suo universo simbolico, tra lesito euforico della trasfigurazione nella bellezza «simbolo del simbolo» e lesito disforico della caduta nellinerte materia dei «simboli fusi» e «segni tragici». Da ciò, i diversi livelli del ricordo e le diverse intensità dellaccensione immaginativa vengono condotte nella catena che analizza, di sabo in sabo, le mutazioni del sabato: «sabo (...) remoto lunario», «sabo sera familiare», ma anche «sabo de hooligans candeloti»; «sabo fiaba» e «sabo putin tarantolà de paese», ma anche «sabo discoteca psichedelica». Allora il passato diventa un attrito che si insinua nel presente e lo disincanta, con lironia (come nella promenade delle minigonne: «i modeli cotole vanessenti / leldelà de la reincarnassion») o con lesasperazione che assomma febbrilmente i dettagli della febbre del sabato sera:
«El sabo discoteca psichedelica
luna afrodisiaca in covo
oci paonassi, peoci ratrapii
mulin de fandonie, lambada alcolisà
tabacae de velen
crack e ecstasy che i cani no snasa
spicioli micidiali»;
affidando folgoranti associazioni sonore non esclusivamente al dialetto da solo («oci»-«peoci»), ma anche in combutta con litaliano (molto efficace quellidentità al mezzo di «spICIoli mICIdiali»), in un interessante amalgama che tiene conto della nuova cultura ormai internazionale. È davvero una particolare poesia questa del cortocircuito tra provincialismo e globalizzazione. E si noti pure che il nume protettore dellinfilata dei sabati è Leopardi con il suo sabato del villaggio: la lezione del Leopardi «frugnon», ricercatore e critico nelle pieghe della propria epoca rende lorizzonte ampio di una prospettiva tuttaltro che risicata nel contesto di un microcosmo e neppure limitabile nellepica familiare.
«Infanzia onda continua di rivoluzione, e sistematicamente stroncata dai grandi, questi reazionari»; è una massima di Alberto Savinio che Ruffato potrebbe sottoscrivere: il tema dellinfanzia (ma sarebbe più esatto dire lutopia dellinfanzia come forza alternativa e innovativa) è presente in filigrana in tutta la sua opera, ma si esplica al massimo e si articola nei suoi vari aspetti soprattutto ne I bocete, fin nel titolo dedicato ai bambini. Anche per Ruffato tra grandi e bambini è in atto una lotta culturale, antropologica, in senso lato di classe, e il parallelismo sintattico della poesia lo esprime nettamente:
«I grandi sulla giostra barbina
pendola pandola pollution verbale
strussia per farse vedare diademi
limai da la plastica.
I putei in briscolo midriatico
se scansa se disegna per vedarse
in dodese note bronse»;
nella contrapposizione tra il movimento circolare della
«giostra barbina» e quello oscillatorio della altalena
dilatata (così si traduce il «briscolo midriatico»),
tra il convenzionale e socialmente costrittivo «farse
vedare» e lidentità in ricerca del «vedarse», tra
i tronfi diademi di plastica e le dodici note di
una completa e anti-istituzionale espressività dodecafonica.
Linfanzia, in quanto carica vitale e dispiegamento
di facoltà potenziali non ancora irreggimentate nei
ruoli, si pone come controparte di un modello di sviluppo
che pare sempre più intenzionato al depauperamento
umano, ai tagli di energie, allo spreco delle capacità
disponibili: qui il discorso poetico si fa protesta
ecologica davvero a tutto campo e il dialetto si
perita di intervenire al livello planetario dei problemi
non solo per quel che riguarda la sorte dei bambini
nel mondo (la strage degli innocenti: «più de diese
milioni / miniprofughi e un milion xe orfani»; e troviamo
anche i niños de rua brasiliani che «ne la fame stropa
buse su le strade»), ma anche con il confronto al nuovo
militarismo tecnologico esploso, dopo gli «ani otanta
opulenti», nella Guerra del Golfo:
«La Pasqua bassa ga anda piata
el fredo sfersa, la guera sorda
del Golfo xe nafta che sbassa
la borsa e schifa el calmiere
de lomo»
(dove notiamo luso del termine economico calmiere
applicato alluomo, a voler significare la necessità
di una economia dal volto umano, per il momento disattesa).
Lincontro tra il dialetto e lutopia libertaria dellinfanzia
(per «stanse de sapiensa sensa botoni») va da sé se
pensiamo che la condizione marginale e subalterna,
informale e ufficiosa, riservata al dialetto è assai
simile a quella delletà minore. Per non parlare del
fatto che per lautore il dialetto è, precisamente,
il linguaggio dellesperienza prima e aurorale: eppure,
ne I bocete, lo spazio riservato al riemergere
del ricordo è secondario (e gli viene infatti concessa
la seconda parte del libro); e poi, anche là dove torna
lio degli anni lontani (quando «ancora no ghe stava
la DC»), è sempre situato in un insieme collettivo,
inserito nel «clan ceo carbonaro» e nelle sue imprese
avventurose sui confini del sociale. Voglio dire, con
questo, che il ricordo si configura esso stesso in
modo conforme alla strategia complessiva del libro
che muove dalla concezione dellinfanzia come pluralizzazione
(plurale è il titolo stesso: I bocete) e dal
tentativo di esporla in una perorazione per immagini
(quindi senza trampoli retorici), tutta giocata nel
presente rivolto al futuro, che è il tempo proprio
dellinfanzia.
Il protagonista non è, dunque, il poeta da piccolo
richiamato in vita a forza di rievocazione; è, piuttosto,
il «sistema bambin», quel nodo della nozione di infanzia
composto di elementi esistenziali e immaginativi e
insieme di istanze teoriche e critiche. La poesia stessa
de I bocete sembra tenere costantemente sottinteso
il soggetto plurale che le dà il titolo, per fornire
diversi tentativi di definizione e di specificazione
che si allineano uno dopo laltro quali apposizioni
continue a quel termine-base: neanche le parti più
distesamente narrative e rammemoranti sfuggono a questa
impostazione, andando a cumularsi, a loro volta, quali
epiteti escussi in questo processo di elucidazione
dellinfanzia. In alcuni casi lassommarsi cumulativo
è lampante e il testo appunto si dispone in replicata
successione di risposte alla domanda implicita cosa
sono i bambini?:
«(...) Sigo
de la cossiensa, giosse pure
che lava via colpe, el ruvijoto
del mondo tutosbecà in figurete
de crea. Ombrete del regno poetico
fogheto sapiente de amore
che no se pole insegnare
porte verte a scavare lorbità
de lanema, arche de robe scrite
dosso che vede no vede el specio
no sa se se specia».
Articolazioni svariate come si vede di un sistema
non chiudibile e anzi deputato allapertura (viste
quelle «porte» che si spalancano fino ad andare in
profondità nello scavo dellincapacità visiva degli
adulti) che comprende laffrontamento della complessità
(il mondo aggrovigliato e «tutosbecà» nella frammentazione
moderna), e lincertezza dellidentificazione speculare
(fino ai paradossi dello «specio» in cui il dialetto
ruffatiano lacanizza da par suo).
Ne I bocete, la connessione dialetto-infanzia
fa montare anche lanimazione del linguaggio. Per un
verso, viene incentivata la ricerca delle «parole strambe»,
quelle dalle spericolatezze consonantiche, come «spalpugna»
(cincischiano), «sfunfigna» (strapazza) e il davvero
ostico «braghiero gnagno» (tradotto con strafanto
lamentevole), oltre al recupero del lessico da tiritera,
da «bisibisi» (rumorio) a «brunbrun» (bibita), a «ciribicocolo»
(intelligente: è detto del pallone con riferimento
alla «Juve»); naturalmente, nellottica infantile,
non vi è alcun ritegno dallalterare il corpo ufficiale
della parola, anzi ciò è di prammatica secondo listanza
del gioco: e così va a finire per una parola di comunissimo
uso come legumi, che «la rabalto / la strupio: migule
gulemi imugel», limportante è che niente resti fermo,
che il linguaggio si muova continuamente con i ritrovati
di una «lengua saltimbanca» costellata di invenzioni,
di «wit balarini». Per un altro verso, dialetto e infanzia
si direzionano sul livello basso e carnevalesco della
riscoperta del corpo e della felice molteplicità delle
sue emissioni: ruttini, spurghi nasali, tutti i generi
di escrementi. Loralità del dialetto sta accosta alloralità
gastronomica della fame e su questo tema, corporeo
e materiale quantaltri, lintroiezione delle parole
mima (allegoricamente) lintroiezione del cibo; merita
conto di citare il passo sulla «pietansa leona», che
nel richiamo a una soddisfazione tutta fisica e a un
rito popolare e pagano, smaga la velata atmosfera del
tempo passato imponendo, a forza di iperbole, una logica
vorace di tipo leonino, che (come il grammelot
dello zanni) non abbisogna di traduzione:
«La pietansa leona de carne
de domenega, gloria dei corpi
tentacola, lessa col cren o mostarda
nel tecion de brodo per la setimana,
rosta in graela carbonela
raise radici crocanti pan de casada,
ronrona ganasse, s-cioca lengue
sbrodega fileti in meso ai denti».
Qui convergono un segno che ritorna corpo, e viene quindi debitamente trattato e riplasmato, e un corpo che si moltiplica in segni, affermando con loccupazione dello spazio la sua dirompente presenza e costitutiva insubordinazione ai contenimenti repressivi. Non a caso, la semiosi mista e ipotetica che li vede protagonisti fa sì che i «bocete» siano definiti «ideogrammi» e «geroglifici dionisini».
Il quarto libro del Ruffato dialettale sintitola Diaboleria
e vale da consuntivo delle linee di ricerca della
nuova fase. Il fatto che possa essere predatato, per
cronologia di stesura, davanti a El sabo non
attenua tale dimensione allargata a comprendere, nelle
diverse sezioni, le diverse modalità e orientamenti
operativi esperiti dallautore in questo periodo: linserimento
delle prime prove in dialetto (quelle Minusgrafie
dialettali qui denominate semplicemente Minusgrafie)
dimostra lintenzione di esplicitare e quasi di riassumere,
agli occhi del lettore, i passaggi e le sfaccettature
dellacquisizione del dialetto in poesia.
Una sezione apposita è riservata proprio a un testo
che sviluppa in piena consapevolezza la riflessione
sul dialetto: El dialeto, come negli spunti
metapoetici sparsi altrove (ad esempio, ne I bocete,
si interviene su «el dialeto, mulin interno / de lanema
vose bianca / spineta dei sogni») aiuta a comprendere
ancora meglio la scelta linguistica del Ruffato degli
anni Novanta, quale coerente svolgimento di alcune
sue propensioni psicoanalitiche e della sua posizione
culturale anti-repressiva. Molto chiaro, e tanto più
perché espresso esattamente nei termini di un linguaggio
primario, il passo in cui lautore collega la parola
dialettale alla scoperta del corpo (si tratta, non
a caso, del «dialeto corporeo») e al viaggio dellinfante
sui corpi dei genitori, come basilare esperienza della
frammentazione di oggetti, parole, simboli, suoni,
stimoli, alla radice di tutta la complessiva sintassi
sperimentale dellautore. Così:
«Ste parole prime parentali
ne loro de la vita ciama
linconscio lalante corente
letrica bianca de vocali sparpajae
sui corpi de mama e papà putini
anca lori distanti e vissini
e mi me godo ne la cola che sta
ancora prima dei sesti, parvense
fine sielte del soma».
«Me godo», dice il testo: nel segno di una jouissance
che segue poi il destino delle pulsioni dal «dialeto
anale» dei «banchi de le elementari» al successivo
e ben strumentato recupero adulto attraverso la mediazione
di «linguisti e semiologi culti» della forza del rimosso
e represso contro la lingua istituzionalizzata e mercificata
della comunicazione mediatica («del ciacolese fregnonese
franfichese»), con un acquisto di immediatezza e vivacità
(di scioltezza e mobilità) che tuttavia passa sotto
le forche caudine di un continuo confronto con il codice
dominante («nel volerlo maridare co la lengua / matricolada»).
La sezione Specio smemorà è quella che offre
maggior spazio al ricordo tratto dal vissuto personale,
basta pensare (oltre al titolo stesso della sezione,
che rimanda a una contemplazione dellimmagine sperduta
nel tempo) a testi legati a figure di congiunti come
La mama o Foto de fameja (anche se questultimo,
a ben guardare, muove dalla chambre claire di
Barthes); e però, nel mentre ancora la fanno da padrone
i «bocete» («i bocete sguassa ne la polvare»...), il
discorso si sposta per le dinamiche che avevo già
avuto modo di osservare verso la polemica sociale
rivolta al presente, della quale si fanno carico soprattutto
testi come Nadale stravanio o Na mapeta
de paroloni. In Nadale stravanio è proprio
il periodo festivo dove maggiormente parrebbe trionfare
la continuità della cultura tradizionale a mettere
in campo, invece del prevedibile effetto-affratellamento,
il senso dellestraneità collettiva e la condanna anti-borghese
dellarrembante ideologia dellindividualismo e dellarrivismo;
ed eccoli, con indifferenza ai mali del mondo, nel
luogo deputato della
«(...) piasseta
Pedrochi omnia animalia imbeletà
se nimpipa pensa a la so pansa
e scarsele a la machina nova»
(e si noti la mescolanza linguistica con il latino che assegna proprio alla lingua dotta la stigmatizzazione dei connotati subumani lanimalità, appunto della «cultura boara»). Ma linvettiva, poi, si converte (e cè però vera diaboleria in tale conversione) in parodia, nel rifacimento modernizzato del presepe, i cui personaggi tipici si animano e agitano assumendo le parti di una contemporaneità caotica e insanabilmente conflittuale: ed è parodia di doppio grado, questa, che annulla il tenerume da ciaramelle con punte dissacranti, ma nello stesso tempo pone un pesante interrogativo sulla festività sprecona della società dei consumi.
«Nel cancan piegore in siòparo
no vole tosaura pal fredo
pastori xe stufi de polenta e casatela
anzoleti co rasteghin da smog
stona il gloria in excelsis Deo
dubiosi su pax in terra hominibus
bonae voluntatis ramai sbatesai
la cometa disgustà dei sateliti
che daiedai ghe rapa la coa e grata
la tramontana, i re magi snoba
i camei per rivare in giambo
maserati (...)».
Dal canto suo, Na mapeta de paroloni proietta la polemica, in grande, contro le fonti dellinquinamento e i pericoli dello sviluppo economico quando è privo di controllo democratico. Lecologia va al massimo, e non risparmia, con il moderno, nemmeno il presunto post-moderno:
«Lomoecologo sa ben che moderno
e post ga inquinà el za sporco
società incretinia se scava
buse bacini cave sòfega de semento
orisonte acque vegetazione carte
geografiche polegana in trapole
no serna più gnente de giusto
sitàbidoni totomachine revival
de falsità file de plastica»;
in questa prospettiva, il passato riappare, ma come
chiuso nella sua «sfera de véro», e non per niente
le ruvidezze paterne ricevono il sigillo di una ironica
annotazione psicoanalitica che certamente va messa
in conto a una coscienza non coeva ai fatti («el papà
su lalt del parricidio / me sgionfava de pache freudiane»)
e di gran lunga aliena alle dimensioni tranquillamente
domestiche di certa tradizione dialettale. Sarà invece
allargandosi al problema della natura e alle reazioni
patologiche del naturale nel dominio dellartificiale
(«la natura ... simbissa co ruti gnochi vole / cambiare
casa par vendeta»), fino a toccare lurgenza di un
nuovo patto con la natura (lutopia di «inventare mondi
/ diversi più beli»), che il testo raggiunge il suo
alto punto di chiusura.
Lultima sezione, infine, sotto il titolo Levoluzione,
la statura, la veste, piega il dialetto verso una
tematica generale di taglio antropologico. Il dialetto
è un linguaggio rivolto allindietro? E allora sembra
pensare Ruffato che vada allindietro del tutto,
alle origini della specie, della vita, delluniverso
intero: si apre perciò la strada ad una originalissima
cosmogonia, scientificamente agguerrita ed espressivamente
esuberante, in particolare quando si addentra nel rimescolio
della materia:
«Ne le prime tre età un magma tracagnoto
de ragi orbaroli luminosissimi
faseva belo e bruto co scagarela
smissià de le varie materie
bomba atomica cosmica de fogo».
In questa sezione lo sperimentalismo dialettale di Ruffato
rianima miti e archetipi senza tuttavia rinunciare
a presentare il conto dellattualità collettiva.
Così, nella parte dedicata a La veste, la costante
antropologica dellabito e la nuova sacralità conferita
dalla moda e dai modelli di bellezza femminile (secondo
apparizione: «de sera vestale sciallosa in alta / furba
lamprità noa slùsega sul véro») è posta a fronte della
aggressiva esibizione dell«omo gradasso» e «reobarbaro»
che viene a ricevere, nelle ricercate creazioni degli
stilisti, a forza di allargare le spalle e alzare la
vita dei pantaloni, le sproporzionate fattezze di una
ridicola rarità circense: il nano «bagonghi» («fighi
bagonghi co spale alae / e braghe a vita in su»). Il
tutto nel «bolso bailamme» del falso movimento delle
merci.
In conclusione, dunque, la fase dialettale di Ruffato
ci ha riservato parecchie sorprese e non poche diavolerie.
E se anche può essere ascritta a un principio generale
di preoccupazione ecologica, per il quale il dialetto
interessa come fosse una specie in estinzione da proteggere
e da salvare, tuttavia non comporta minimamente lho
sottolineato più duna volta il confinamento in una
qualche riserva; al contrario scavalca il ridotto
ambiente di campanile in continue aperture e spaesamenti
di largo rilievo. E se anche risulta concedere un po
più di distensione discorsiva (come si può vedere dal
ripristino delle maiuscole iniziali e dei punti finali;
insomma della complessiva normalità della grammatica),
magari per il fatto che lincomprensione è comunque
garantita dallaver assunto un linguaggio che il lettore
non possiede facilmente a meno di non essere nativo
del posto), ciò non avviene a scapito di quella ricerca
di dissonanze sonore e semantiche che la poesia di
Ruffato reca iscritta nel proprio DNA.
Litinerario poetico di Cesare Ruffato è passato attraverso varie fasi, ciascuna caratterizzata da qualche cambiamento di forma. Una prima fase, tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, prendeva a muoversi nel clima nel tardo simbolismo, puntando però subito a rovesciarlo con la crisi dellimmagine e con lambiguità delle parole; una seconda fase più decisamente sperimentale e davanguardia, giunta fino agli anni Settanta, procedeva ad una anatomia del materiale verbale, con tanto di libertà del significante e frammentarietà del montaggio, per toccare il suo apice nelle Minusgrafie feltrinelliane del 1978; arrivati agli anni Ottanta, si sviluppava un maggiore interesse (qualcuno direbbe: postmoderno) per la figurazione retorica, ma si profilava anche la riscoperta del luogo dorigine, la Padova diletta della raccolta del 1988; si registrava, poi, il punto di svolta di un durissimo trauma personale che metteva in forse lintero edificio del linguaggio; fino agli anni Novanta, alla fase dialettale ancora in corso, da poco documentata interamente nel monumentale volume di Marsilio Scribendi licentia, una fase in cui Ruffato ha cambiato addirittura la base linguistica del suo sperimentalismo poetico.
Sarebbe fin troppo facile addebitare queste mutazioni
della forma alla mera cronologia, spiegandole come
colpi di barra per adeguare grado a grado loperazione
testuale al trascorrere della storia (non importa se
della storia grande, sociale ed economica, oppure
della storia piccola, personale e psicologica). Una
tale spiegazione della poesia come riflesso (sarebbe
un po la vecchia sovrastruttura marxista) porterebbe
a risultati davvero riduttivi: sarebbe semplicistico
pensare, ad esempio, che lesperimento linguistico
fosse leffetto della innovazione tecnologica nei modi
di produrre e di vivere, elementare lequazione tra
il lessico scientifico caratteristico del Ruffato anni
Sessanta e il boom della modernizzazione della
società italiana; ancor di più, oggi, otterremmo ben
poca luce se ritenessimo dipendere la scelta del dialetto
dal diffondersi delle rivendicazioni delle identità
locali e degli autonomismi. Dirò più avanti dei caratteri
complessi e paradossali che sussistono anche
nella poesia dialettale di Ruffato; per ora mi basta
riferirmi al titolo del volume che di quella dà oggi
intera testimonianza: Scribendi licentia. È
un titolo in latino. Che razza di poesia dialettale
è mai questa che sceglie di raccogliersi sotto legida
della lingua morta vanto della cultura nazionale alta?
La storia inoltre non va mai dritta e la storia interna
della poesia ruffatiana non fa eccezione. Le diverse
fasi non si susseguono al modo di perfetti e assoluti
superamenti senza residui. Non solo certe linee possono
inabissarsi e riapparire (accade a un titolo degli
anni Ottanta, Trasparenze luminose, di riportare
a galla più di qualcosa della formazione lirico-simbolista),
oppure coesistere collateralmente (ed ecco una ben
valida raccolta in lingua, Etica declive, uscita
nel 1996, in mezzo al fecondissimo periodo dialettale);
ma, più in generale, la pluralità della forma appare
connaturata allesperienza che Ruffato fa della poesia.
Se si può a buon diritto parlare di plurilinguismo
per la ricchezza dei registri lessicali utilizzati
nei suoi versi, se ne deve parlare anche a livello
più ampio, delle scelte e direzioni che attraversano
il corpo del testo e che (nei modi di contraddizioni
dialettiche non inclini a comode soluzioni) tengono
insieme loperazione sui significanti e quella sui
significati, la sintassi del frammento e la semantica
dellincongruo, la felicità dellinvenzione linguistica
e la critica delle abitudini e delle ideologie.
Se questo è vero, nel polimorfismo potremmo vedere
il filo rosso che attraversa lintero percorso dellautore,
verificabile al contempo nella sincronia e nella diacronia.
Non a caso il polimorfismo si associa allinfanzia
e il tema dellinfanzia è uno dei più cari a Ruffato
e dei più diffusi in tutto larco della sua produzione
poetica. Lo si rintraccia nei testi, un po dovunque,
nei titoli (Minusgrafie, Parola bambola);
negli argomenti («bimbo, sei te stesso quando dormi
e quando / sei sveglio guarda il mondo che passa...»,
sono versi di Minusgrafie); a livello operativo,
nella manipolazione del linguaggio con i procedimenti
verbali di costruzione di nuovi composti e di gioco
con le parole; e diventerà il soggetto sottinteso di
una intera raccolta dialettale come I Bocete.
Ma cè ancora unulteriore risvolto. La prospettiva
infantile è fondamentale per una poesia come questa,
che non avrebbe significato se non arrivasse a mettere
in discussione il linguaggio: ora noi possiamo tentare
di usare il codice e di non essere usati da esso solo
se ritorniamo a pensarci in quella disposizione instabile
di apprendimento, quando saggiavamo incerti luso
delle parole e provavamo a impugnarle come corpi, come
strumenti sconosciuti.
Linfanzia è la via per imprimere al materiale della
lingua il massimo di energia semantica e somatica:
questo sembra dirci la poesia di Ruffato nelle sue
molte forme (non dimentichiamo lesperienza visiva
che prevede linterazione di parola e immagine, la
loro reciproca transfigurazione). E non a caso oggi
linfanzia è una nozione su cui insistono le tendenze
del dibattito teorico, anche convergendo da posizioni
molto distanti. Penso a Lyotard e a Eagleton, contrapposti
per quanto riguarda il postmoderno, ma entrambi fautori
dellinfantile: per Lyotard la letteratura e
le arti sono tracce di una infanzia che persiste
nelletà adulta e che ci dà la forza di «criticare»
le istituzioni, «il dolore di sopportarle e la tentazione
di sfuggir loro»; per Eagleton «i bambini sono i migliori
teorici, perché non sono stati ancora educati a accettare
come naturale la routine delle nostre pratiche sociali»
e perciò «continuano a porre agli adulti le domande
più imbarazzanti». Naturalmente, nessuna di queste
ipotesi è ingenua: linfanzia non è ancora del tutto
dentro, ma non è nemmeno più del tutto fuori.
Lin-fanzia, quel qualcosa che precede il parlare,
a rigore impronunciabile, è recuperata soltanto al
prezzo di un paradosso.
Che per Ruffato la condizione bifronte dellinfanzia
abbia a che fare con il problema della natura emerge
da un altro tema persistente nella sua poesia, quello
ecologico, sostenuto specialmente in questi ultimi
anni da una vena di forte polemica politica, civile
e morale (sia pure di unetica declive per dirla
nei termini della recente raccolta). Questo potrebbe
sembrare un controsenso, perché al primo impatto la
poesia di Ruffato appare difficile se non impervia,
caratterizzata da spezzature e da smottamenti delle
direzioni del senso, la più innaturale che si
possa immaginare, se per naturalezza sintende
lo scorrere e limmediato recepirsi della comunicazione.
Ma il problema è un altro. Si tratta dellutopia, appunto
paradossale, di ritrovare il contatto con una natura
che si può soltanto ipotizzare che si trovi al di là
dei codici sociali costituiti. Per far ciò la poesia
non può che giocare per i tentativi plurimi delle sue
forme, sommuovendo con tensioni dinamiche il complesso
del suo organismo. Per tentare un contatto con la naturalità
che non sia rapporto di sfruttamento, occorre andare
al di là della piatta e scontata naturalezza.
Linnesto nel lessico poetico della terminologia medica,
cioè di quella branca scientifica che ha a che fare
con il corpo e perciò nella sua sintomatologia
è costantemente costretta, se non vuole fallire, ad
uscire dallapplicazione esterna del metodo per interagire
con il processo vitale, la dice lunga su questo cortocircuito
tra tecnica e natura.
Allora: «se non certamente / nellendocogliersi al di
là delloggetto / nellanticiparsi riflessione più
mobile / riproponendosi monumentum di contraddizione
/ a reinventare corpo e spirito oltre il muro», così
recitano le Minusgrafie. La minusgrafia è
per lappunto una scrittura che tratta ogni elemento
come minore, sia negativamente perché ne annulla
qualsiasi pretesa di sopraordinamento gerarchico, di
pregnanza e autorità (il nome stesso dellautore e
la sua proprietà privata del linguaggio vengono
messi a repentaglio), consegnandolo in modo assolutamente
paritario alla sintassi elencativa e giustappositiva
del montaggio sperimentale; sia positivamente perché
ne esalta le capacità innovative di istituire nuovi
legami, a partire dalla stessa possibilità di modificare
la propria costituzione sonora in nuove combinazioni
creative. A questo punto lipotesi minusgrafica si
potrebbe mettere in conto alla psiche individuale,
vedendo nellintervento che scolla il significante
dal significato il lavoro dellinconscio, in una
felice esplosione di jouissance sulle tracce
di Lacan e di Barthes. E certamente la lezione del
ramo della psicoanalisi più attento al linguaggio è
servita ad indicare a Ruffato la via maestra della
sperimentazione poetica nella scomposizione degli oggetti
verbali in relazione alla crisi di un soggetto detronizzato
dalla sua pretesa di signoria e illusione di unità
(reso minore, come si diceva: scritto con liniziale
minuscola). Sennonché questo riguarda anche i soggetti
sociali. Al versante psicoanalitico della sua poesia,
Ruffato fa corrispondere un versante politico-ideologico
in cui labbassamento al minore comporta la vibrante
polemica contro il mito dello sviluppo, lattenzione
che comincia a svilupparsi molto presto contro
i guasti delloccidentalizzazione nel Vanitoso pianeta,
contro le disuguaglianze che portano alla rovina il
proletariato mondiale dei popoli del Terzo Mondo
e in particolare dei bambini affamati, lo spreco delle
risorse e un inquinamento che non è soltanto malattia
dellecosistema e disagio della vita metropolitana,
ma anche colonizzazione delle menti un particolare
accento è apposto da Ruffato alla omologazione della
moda e dellabbigliamento, quella che con un suo termine
potremmo chiamare lideologia della veste.
Ora, va osservato che questa rilevante direzione polemica
non parla a tutta voce, ma preferisce situarsi negli
interstizi dei testi, tra materiali di altra provenienza.
Tocchiamo esattamente il problema di una letteratura
impegnata di nuovo tipo, così come è stato affrontato
dal teorico dellavanguardia Peter Bürger: con lavvento
di unopera disorganica (frammentaria, snodata, squilibrata,
eterogenea, dissonante e quantaltro) si offre allimpegno
una nuova e maggiore chance: mentre con
lopera classicamente organica limpegno doveva occupare
il posto di dominio e coordinazione del senso, con
leffetto di controllare lopera dallesterno e di
coartarla pesantemente a detrimento dei suoi stimoli
estetici; con lopera disorganica, invece, la politica
si inserisce come una delle parti in una composizione
a livelli multipli, in tal modo evitando ogni prevaricazione
e entrando invece in una dialettica di tensioni con
i materiali non direttamente politici: questi ultimi
sono chiamati a confrontarsi con i messaggi forti
del sociale; ma la politica che entra in poesia è a
sua volta chiamata a essere unipotesi, una probabilità
fra molte, a farsi sperimentazione politica
più che verità già fatta o imperativo intimidatorio.
Una politica che irrompe nel tessuto della lirica incide
di più (è più critica, dialettica, produttiva) che
se cercasse di condizionarla pesantemente o di assumerla
al proprio servizio.
E il dialetto? Il dialetto, eletto da Ruffato a terreno
principale di ricerca nella sua più recente stagione,
appare subito in sintonia con la prospettiva minusgrafica,
tanto da essere stato collaudato (in Padova diletta),
proprio sotto la sigla della Minusgrafia dialettale.
Il dialetto è, infatti, il linguaggio delletà minore,
vicino alla vita concreta dei corpi, meno pretensioso
e autoritario della lingua ufficiale, nonché gerarchicamente
tenuto in non cale da essa, ed oggi minacciato di sradicamento
e addirittura di estinzione, al pari delle specie
da proteggere, a causa dellinvadenza massmediale
di un italiano impoverito, ripetitivo e ottuso. Ma
la scelta di rilanciare le tonalità espressive del
dialetto non assume solo il valore di una difesa, di
una protezione del patrimonio comune, di un richiamo
della memoria; si propone soprattutto come un innesto
di energie vitali nel campo della poesia. Non
si tratta tanto di salvare il dialetto con la poesia,
quanto di salvare la poesia con il dialetto. In questa
operazione, il dialetto si trova caricato di responsabilità
esorbitanti da quelle che era abituato a sopportare
nel regime della sua specifica tradizione poetica.
Fuori da quel settore a parte e un po ghettizzato,
il dialetto si ritrova spostato, straniato,
rispetto al modo di applicazione abituale. Con ciò
è posto in fuga ogni sospetto di recinzione municipalistica:
il dialetto in Ruffato è costretto a giocare a tutto
campo, al punto che da parte mia ho ritenuto di
poter parlare di sperimentalismo dialettale. Ci troviamo
di fronte a un plurilinguismo che rispetto alle fasi
precedenti cambia la base, ma non il tipo di intervento
esercitato su di essa. Già accennavo al titolo in latino:
è una ben curiosa poesia dialettale questa che riceve
al suo interno oltre allitaliano più moderno della
lingua tecnica e teorica, anche la lingua del passato
classica e antica, e insieme le lingue straniere di
un presente sempre più internazionale... Il dialetto
non è condannato a percorrere soltanto il cammino a
ritroso della nostalgia, ma si espande altresì evadendo
alle molteplici richieste dallattualità. Da questo
punto di vista il Ruffato dialettale potrebbe essere
visto come esempio dellodierno testa-coda tra le minute
particolarità e lestensione planetaria del mercato,
quel contraccolpo tra il globale e il locale
che ha dato origine alla crasi, piuttosto cacofonica
a dire il vero, del glocale.
Una poetica aperta a una rete di forme, come di universi
di pensiero e di linguaggio, a partire dal suo singolo
sito. Se guardiamo a fondo la produzione dialettale
di Ruffato (e oggi possiamo farlo con tutte le verifiche
necessarie, grazie al grosso volume di Marsilio), rintracceremo,
intrecciate o di volta in volta in volta emergenti
dalluno allaltro componimento, alcune prioritarie
tendenze o funzioni; che vorrei enunciare in un ordine
che va dalla maggiore alla minore consonanza (e prevedibilità)
rispetto alla tradizione dialettale: 1) la funzione
di ricordo e di ritorno al passato, che potremmo definire
rievocatrice (forte anche della reviviscenza
e vivacità espressiva dei termini dialettali); 2) la
funzione di illuminazione lirica e simbolica, che potremmo
definire evocatrice, che misura il grado di
intensità e di felicità dellespressione; 3) la funzione
di polemica politica e ideologica, che potremmo definire
provocatrice, che apre la prospettiva per
squarci, come dicevo, nellorganismo eterogeneo del
testo al problema della distruttività e dellingiustizia
del modello di sviluppo; 4) la funzione di sperimentazione
e di autocoscienza del linguaggio (quella tra tutte
la più lontana dalla spontaneità che il dialetto per
tradizione pretende di possedere), che potremmo definire
convocatrice per la sintassi giustappositiva
che consente la riunione delleterogeneo, oppure revocatrice
perché sottrae alla poesia limmediatezza dellespressione.
Il polimorfismo, come si vede, è tuttaltro che archiviato,
nella fase dialettale di Ruffato; e le quattro funzioni,
così sommariamente individuate, sono anche in grado
di disporsi in un gioco di rapporti tale da disegnare
un quadrato semiotico alla Greimas, al cui interno
è possibile tirare di nuovo in ballo il problema della
natura. Infatti, data la natura e il suo opposto, la
cultura, e aggiunti i contraddittori, lartificiale
e linfantile, otteniamo un primo quadrato su cui poi
disporre il ricordo (connessione di natura e infanzia),
il simbolo (connessione di infanzia e artificio), lesperiemento
(connessione di artificio e cultura), la polemica (connessione
di cultura e natura). Questo il grafico:
Potremmo giocare con questa machinette, per orientare di volta in volta su un lato o su un vertice del quadrato ciascun testo di Scribendi licentia. Da parte mia (anche a costo di essere accusato di partito preso, visto che in questo senso va tutta intera la mia lettura di Ruffato, così come si è configurata nel libro pubblicato per Longo con Daniela Forni, La poesia di Cesare Ruffato), tenterò la verifica su di un brano che si situa prevalentemente dalla parte dello sperimentalismo, cioè da quella parte del quadrato che contiene le funzioni a mio parere più radicali, dove il dialetto fa il più lungo tratto di strada oltre i propria principia, convinto come sono che solo per via di degenerazione venga in luce quella paradossale e contraddittoria ricchezza del polisenso poetico che oggi mi pare lunica vera forza della poesia. La licenza di scrivere, che Ruffato chiede nel suo titolo complessivo, si può intendere in entrambi i modi, sia come licenza di scrivere in forme diverse, sia come licenza di scrivere nelle forme non ammesse o non previste; ma è certo in questo secondo caso che assume le sfumature più licenziose. Il testo che commenterò brevemente è il secondo pezzo di Parure liquida, compreso in Sagome sonambole (p. 276 di Scribendi licentia). Lho scelto come campione dalle quattrocento-e-passa pagine del Ruffato dialettale per alcuni caratteri contraddittori proprio sul tema suesposto della natura: lo scenario naturale qui descritto (il mare), è reso tutto culturale dallinvasione dei vacanzieri; il ritorno alla natura è un falso ritorno se la stessa nudità dei corpi sulla spiaggia è rivestita dal costume (pezzo di stoffa, ma anche costume in senso lato, usanza che delimita uno spazio di esibizionismo consentito). Ecco comunque il testo:
Esodo boada obligo de lano
spalanca sbreghi voje nel corpo
burana carmina in sfese da bagno.
Istà par desso scatarata, strussia
tintarela in lampi toni diete
unguenti che prama le onde del mare.
La pelle se sbronsa in pressa
de melanina, sbandiera pori
naltro sugo del suóre e zogo look.
La tera smegolà sgnica el sfasso
del strato ozono, piove i raji
astiosi de elio che sfrégola riosi
i oci sansa lenti scure, scròcola
la pele svelinà de micropimenti
spalmai che sòfega la squaquera dose
ultravioleta fetente.
(Esodo a valanga obbligo dellanno / spalanca lacerazioni voglie nel corpo / carmina burana in fessure da bagno. / Estate per ora apre cataratte, stenta / tintarella in lampi tuoni diete / unguenti che bramano le onde del mare. / La pelle subriaca in fretta / di melanina, sbandiera pori / un diverso sapore di sudore e gioco look. / La terra smidollata piagnucola lo sfacelo / dello strato dozono, piovono i raggi / astiosi del sole che sbriciolano nocivi / gli occhi senza occhiali scuri, fanno bollire / la pelle senza rivestimento di micropigmenti / spalmati i quali soffocano la dose diarroica / ultravioletta dannosa).
È una scelta molto tendenziosa, come si sarà capito
subito: perché qui del quadrato rimane soltanto uno
spigolo. La funzione del ricordo è introvabile (scena
al presente, io assente); la funzione simbolica ha
difficoltà a decollare (mare e cielo irritati dallanimale-uomo,
i raggi dellillumination emettono rancore).
La stessa funzione polemica non è espressa direttamente
(se non forse là dove la terra si mette a piagnucolare),
ma è piuttosto indicata dallaccostarsi delle immagini,
quindi tutta subordinata alla sintassi, alla forma
sperimentale del contenuto. Il dialetto si trova qui
in una condizione paradossale: proprio dove sembrerebbe
raggiungere il contatto con la natura (la riva del
mare, i corpi nudi) si ritrova, proprio lui, il linguaggio
materno per eccellenza, a constatare un irriducibile
dissidio, cui non può opporre alcun rifugio consolatorio.
Luomo distrugge e distrugge se stesso, se i desideri
si trasformano in «sbreghi» del corpo; la natura di
rimando per ritorsione lo bombarda con le sue cataratte
e suoi raggi dannosi. Lo stesso tessuto linguistico
è aperto da tutte la parti a tutte le tensioni, con
i termini tecnico-scientifici (appena dialettalizzati:
«micropimenti», «ultravioleta»; e cè l«elio» e lo
«strato ozono»), le parole dellattualità virtuale
(il «look»), le citazioni culturali (i «carmina burana»),
le parole della lingua comune (come «esodo», insieme
biblico e giornalistico; e il «fetente», posto nel
ruolo di dura clausola), che si intrecciano ai termini
più coloritamente dialettali come un livello interpretativo
si intreccia a uno espressivo. Il dialetto è qui decisamente
impuro, non mima nessuna rimpianta origine,
nessun parlante vergine. Ciò che maggiormente colpisce,
in questo testo (e che fa compiere un bel salto davvero
alle potenzialità del dialetto), è il taglio allegorico:
ovvero la totale assenza di soggetti umani, proprio
in una scena che dovrebbe essere affollata da un grande
numero di persone. Gli agenti sono collettivi (lesodo),
naturali (lestate, la terra), oppure parti del corpo
(la pelle, gli occhi). Il corpo è un lacaniano corps
morcelé. Tutto si svolge in uno stato di abbandono
etico, in cui la stessa invettiva fa fatica ad alzarsi.
Protagonista della poesia è soprattutto la pelle, una
epidermide degradata e contesa, in una contraddittoria
esposizione (a colpi di pomate e schermi vari) tra
lestetica e la fysis. Su questa superficie,
involucro esterno o buccia screpolata che sia, dove
non riconosciamo più alcun simile, viene costretto
ad aggirarsi il linguaggio dellintimità, della familiarità
e della immediatezza. È un paradosso non da poco.
Nel condurre il dialetto nelle zone ad esso meno ospitali,
sta la licenza di scrivere che chiede Ruffato.
Gliela concediamo volentieri. In unepoca in cui la
poesia rischia di essere licenziata da una industria
inculturale che pare riservare la complessità
esclusivamente ai mezzi di comunicazione ma non ai
messaggi comunicati, ben vengano queste licenze
poetiche ancora capaci di farci riflettere e discutere:
investire in esse il nostro tempo e il nostro lavoro
di interpretazione è un valore a lunga scadenza, indispensabile
a un aumento delle delle autentiche forze produttive.