Francesco Muzzioli

PLURILINGUISMO E ISTANZA CIVILE NELLA POESIA DI RUFFATO

La poesia di Ruffato, ben prima di svilupparsi lungo il versante linguisticamente particolare del dialetto, ha mostrato una marcata propensione per l’impiego di materiale lessicale proveniente dai più svariati ambiti e registri. Non è per un semplice riflesso dell’attività dell’autore (medico di professione), che si depositano nella composizione poetica cospicue dosi di vocabolario scientifico: si tratta di una vera e propria dimensione plurilinguistica connaturata al fare poetico, che chiama a raccolta sulla pagina tutta una variegata logosfera di lingue straniere, lingue antiche, flessioni parlate (compreso quel dialetto veneto che caratterizzerà — negli anni Novanta — la recente fase del nostro autore), citazioni letterarie, nuovi composti e neologismi (specialmente dei verbi parasintetici), calembours e quant’altro. Una dimensione aperta alla molteplicità dei linguaggi che è sicuramente in relazione con l’impatto della modernità, con i mutamenti dell’ambiente esterno (potremmo dire: l’artificializzazione della vita e la dispersione dell’identità nelle pratiche della massa consumista e nei messaggi delle merci), con la tensione sociale che ne deriva, nonché con il problema della complessità del mondo che richiede alla comunicazione letteraria e poetica lo stato di allerta, non potendo più affidarsi ingenuamente, per la trasmissione dei propri significati e valori, al presupposto di una scontata comunanza affettiva.

Ma oggi, dopo l’avvento e la diffusione delle teorizzazioni postmoderne, sappiamo che ci sono diversi modi di reagire a una tale situazione sociale, culturale e linguistica; e che c’è plurilinguismo e plurilinguismo. All’ipotesi (collocabile, in senso lato, nella prospettiva delle avanguardie) di una operazione di montaggio che penetri polemicamente nella rete della complessità, mettendo a fronte i tasselli plurali secondo i modi della contraddizione e del contrasto per far saltare — a colpi di accostamenti inconsueti e stranianti — i chiavistelli delle rispettive ideologie, è stata contrapposta l’ipotesi (etichettabile, questa, nelle varie apparizioni del postmoderno) di una risposta debole e prettamente mimetica all’intensificarsi delle articolazioni comunicative, una risposta arresa alle conseguenze dell’occultamento degli orizzonti oppositivi, nel caos dell’esistente: privato dell’utopia così come della polemicità, il plurilinguismo di marca postmoderna si presenta quale accostamento, contaminazione, mescidanza; modi in qualche modo necessari ma passivi, stante l’indirizzo di non incentivare la reciproca interpretazione dei membri prelevati e accostati, e invece il rilevamento implicito della loro equivalenza indifferente.

Quindi, se immediatamente la poesia di Cesare Ruffato ci si presenta impostata in direzione del plurilinguismo, dobbiamo però anche scendere in dettaglio per rispondere — alla luce di questo recente dibattito — alla domanda “quale plurilinguismo?”. Tale risposta dovrà estrinsecarsi in due momenti, affrontando la questione del rapporto tra le parti insieme a quella dei punti di sutura o di interruzione.

Occorre notare, innanzitutto, che le operazioni poetiche di Ruffato non hanno mai portato, mediante la raccolta sincretica di materiali disparati, a un ripristino delle strutture: in questo autore l’affrontamento della complessità genera un testo altrettanto e forse più complesso; si potrebbe correttamente affermare che la complessità viene sfidata in modo estremistico, fino ai confini dell’oscurità e della dispersione del senso. La prospettiva ruffatiana, negli anni Sessanta e Settanta, collima con l’avanguardia pur non partecipando direttamente al gruppo ufficiale di quel periodo e, per quanto si muova (al pari di altri eccezionali sperimentatori, come Cacciatore, Emilio Villa, il Volponi poeta) per propri sentieri e percorsi, tuttavia contribuisce a un clima di esasperata innovazione della scrittura. Se proviamo ad assaggiare un piccolo campione dal Ruffato più exlege, quello di Minusgrafie (Milano, 1978), vediamo che la comprensione (quella “fusione d’orizzonti” che l’ermeneutica presume tra testo e lettore) viene messa a dura prova:

«signa ostenta prodigia portenta

sconvolta straziata la scrofola sperimentale

il casco morto negli schemi del cuore

la roulette confidenziale le manine furtive

non vogliono con il sole presagire-conicere

la vera ragione di scegliere più saggio

del più saggio il piacere di disperdersi nella qualità

la capra ecclesiastica bruca le stelle lattee

non c’è male il trillo di lodola d’acqua corrente

si è fatto tardi nel bosco nel libro apostata

dai pixels pregenitali in libertà allucinatoria

giunti alla fine nell’idrica vigna di prugna

tocofiumi che vengono

da linee bianche e nere convergenti nel sogno regale

che si è fatto il cane salmodiante sotto la pioggia

nella caduta dislocata il bacio coronarico

mammola il mattino che maramalda gialli impazziti» (p. 125).

Il primo incontro con questo testo è senza dubbio uno “scontro” e, se ci fermassimo ad esso, potremmo dire di aver intenso solo un delirante sproloquio, senza capo né coda, vista la sintassi aggiuntiva e inarrestabile, per accumulo. In realtà, procedendo a una seconda lettura di tipo analitico, possiamo distinguere, intanto, le molteplici provenienze del lessico (latino, termini tecnici), le invenzioni di composti e verbi derivati (come, nell’ultimo verso citato, “mammolare” e “maramaldare”); e insieme alcune direzioni compositive, che conducono a accostamenti fantastici fondati sull’impossibilità (come fa un casco ad essere morto? cos’è che fa «regale» un sogno? cos’è un «bacio coronarico» e che rapporto ha con una «caduta»? e via dicendo), ma anche ai “contagi di senso” dell’analogia (le stelle sono «lattee» per effetto di contiguità della capra e della via lattea) e dell’assonanza (che giustifica una «vigna di prugna»).

A osservare ancora, si delineano vari collegamenti di isotopie: una corrente di liquidità attraversa l’«acqua corrente», l’«idrica vigna», i «tocofiumi», la «pioggia». La risoluzione di alcune immagini al modo del cadavere squisito surrealista (tipo: «la capra ecclesiastica bruca le stelle lattee», o: «il cane salmodiante sotto la pioggia»; guarda caso entrambi animali in atteggiamento bizzarramente religioso) sottolinea la persistenza di un ordine sintattico sotto la trasgressione dell’immaginario; nel frattempo, il caso più vicino all’intonazione lirico-romantica (quel «trillo di lodola d’acqua corrente») si fa notare per l’aggiunta di un commento autovalutante («non c’è male») decisamente ironico. Insomma sotto l’apparente anarchia e la «libertà allucinatoria» di questo brano si rinvengono le linee di un discorso per immagini che riguarda — ce lo annunciano varie spie, dalla «scrofola sperimentale» al «libro apostata» — la possibilità stessa dell’antagonismo della scrittura. Sono le immagini nei loro nessi (che non sono solo di felice sorpresa, ma si declinano altresì per i versanti dello “sconvolgere” e dello “straziare”) a doversi commisurare con l’asperità delle tensioni esterne. Ed ecco allora quella perentoria sineddoche del «casco morto» (davvero protezione difettiva), o il caso degradato ad ammiccamento nella «roulette confidenziale», o ancora la situazione del «libro apostata» sorpreso dall’urgenza nei tempi stretti di un «si è fatto tardi». La strada di una interpretazione semantica (traducendo in polisenso anche i rilievi puramente formali) apre l’apparente oscurità a una ricca fioritura di supposizioni che stimolano nel lettore, invece di un recepimento passivo, un contributo di partecipazione e di attività riflessiva e creativa.

Se passiamo alla recente fase dialettale della poesia di Ruffato, troviamo ancora seguita — pur con mezzi linguistici diversi in un mutato contesto culturale — questa linea di condotta. La scelta del dialetto rappresenta non già un rifugio nella parlata di una singola comunità, bensì un memento rivolto alla cultura nazionale per tutte quelle particolarità che sono andate perdute o rischiano di esserlo nel processo attuale di omologazione della lingua e della cultura condotto nei mezzi di comunicazione dalle tecnologie imperanti. Ma non è solo questo; poiché il dialetto stesso fa da base a operazioni plurilinguiste ospitando (ben oltre i parametri della propria tradizione vernacolare) apporti svariati, soprattutto dalle lingue scientifiche e dal dibattito teorico, e attrezzandosi così precisamente nel terreno della riflessione e dell’autoriflessione per solito lasciato all’italiano colto. Parola pirola (Padova, 1990), tappa prima dell’itinerario dialettale di Ruffato, contiene una sezione dedicata alla “parola” e alle sue possibili definizioni. Da uno di questi brani metaverbali (esattamente: Parola sguardo) vado a prelevare gli spunti seguenti:

«Massa cità salivà per no insendere

la conta sul so patrimonio frugolo

per sguardare frasi ciare frugnare

nel parentado rosegà spanto

farghe feboclisi antifreschin,

no la scomete ma la se mete intanto

flauto acordà ne la langue

plautina transfigura

(...)

Nel giardineto sublime cura

col cuore glicine rosari petunie

nel deserto de colori e polpe vegetali

per bocade de ritiro

fiumi bombaso spumilia ne la nebia

sursum corda» (p. 87).

Come si vede i termini dialettali più fortemente connotati da tratti espressivi («frugnare», «rosegà», «freschin»), sono messi insieme a termini dell’italiano o comunque non diversi (il «patrimonio frugolo», la «sublime cura» o le «polpe vegetali»); in alcuni casi, come il composto «antifreschin» (antidolore) il dialetto viene manipolato a imitazione della lingua. Ma soprattutto, compaiono termini tecnici (dalla lessicologia medica, la «feboclisi») e termini di lingue straniere o antiche (la «langue», e quel «sursum corda» proveniente, invece, dalle funzioni religiose) che proiettano il testo fuori dei confini del localismo. La «langue» di saussuriana memoria cede la sua rigidità codificata e ufficiale introducendo alla «plautina transfigura»: formula tutta metaletteraria, questa, che allude al movimento della teatralità e all’attraversamento critico delle immagini («transfigura» verrà adottato da Ruffato in prossimità delle sue esperienze “visuali”), costituendo una ben calibrata dichiarazione di poetica calata all’interno del testo.

La fase dialettale, se per un verso incentiva determinate “tematiche”, come quelle della corporeità (la parola è nello stesso tempo “citata” e “salivata”, nel suo passare di bocca in bocca) e dell’infanzia (qui nel «frugolo»: verrà poi sviluppata nella raccolta I bocete), è tuttavia coerente ai precedenti esperimenti minusgrafici nel procedimento metodico della poesia che, anzi, applicandosi adesso a un materiale nuovo, non patisce rischi di ripetizione: il metodo di costruzione caro a Ruffato non si è affatto arreso, qui, a una maggiore abbordabilità, ma appare pur sempre puntato sul costrutto per apposizione (nel primo passo, notiamo la sequenza dei verbi all’infinito: «per sguardare... frugnare... farghe»; nel secondo, la reiterazione di «glicini rosari petunie», accostati senza beneficio della virgola) e sull’invenzione di collegamenti sonori (nel primo passo, la sequenza paronomastica «la scomete ma la se mete», nonché la rilevanza iniziale dell’assonanza tra «flauto» e «plautina»; nel secondo, negli ultimi versi, le allitterazioni che attraggono in base “S” «bombaSo», «Spumilia», «SurSum», e in base “B” ancora «BomBaso» e «neBia»). Le diverse dimensioni della “parola” che qui il testo va investigando sono altrettante vie per le quali il dialetto è portato a potenziare il proprio impatto nel momento stesso in cui esce da se stesso, ossia va al di là delle funzioni subalterne alle quali è stato storicamente adibito. Forse, proprio quando la competenza dialettale si indebolisce nella comunicazione quotidiana, la comunicazione poetica è in grado di raccoglierne le facoltà e di rilanciarne gli obiettivi, con un gesto di rilevante provocazione e polemica.

Ma proprio il fatto che l’orizzonte “differenziale” del plurilinguismo tenda a coagularsi in momenti di opposizione (dove — e non paia paradosso — il molteplice si unifica di contro ai poteri unificatori) ci spinge a riflettere sulle pause dell’accumulo, sulle insorgenze dell’interruzione, quando il ventaglio delle varietà particolari lascia il campo a un discorso che riguarda tutti: allora compare, nella poesia di Ruffato, l’istanza “civile”, a mettere in discussione il modello di sviluppo su scala planetaria, a contestarne la sostenibilità, a riproporre con forza l’utopia ecologista. Un’opera-perno, e non solo in questo senso, è Padova diletta (Padova, 1988), situata tra il grande sfoggio retorico dell’autoriflessione metalinguistica e il salto a capofitto nelle “parole perdute” del dialetto, a un di presso dal punto di massima crisi esistenziale dell’autore (documentato in Prima durante dopo). Allora, troviamo qui una sintassi poetica che — pur non abbandonando la ricerca di lessico speciale e la costruzione per apposizione — si raccoglie attorno ai “centri” riconoscibili dell’“io” e delle sue prese di posizione:

«Particolari mi lussano le coronarie

farfugliano la percussione serrata del polso

bolso del simulacro cittadino

allo scoperto ne affronto il corpo iperbato

reale immaginario simbolico mi annodo pudico

nello sguardo del suo dire in sinestesi pazza.

Nell’universo dei significanti scavo segnali

e desideri. Sguscio dalle belle parole

che possono essere trucco

quasi trascendo con la flemma dei vigili

ne disapprovo l’assuefazione

spreco un po’ di quota

non sono stelo né stinco di santo

ma opto per la rivoluzione verde» (pp. 70-71).

In questo esempio, il lessico medico risulta applicato in senso proprio ai disagi fisici provocati dal degrado della vita urbana. Tutto il lavoro dell’immagine (con il pulsare del traffico raffigurato in un «polso bolso», con il soccorso della paronomasia), e tutte le implicazioni di marca critico-letteraria che entrano nella scena (dai tre ambiti lacaniani «reale immaginario simbolico», alla sinestesia, all’«universo dei significanti»), quasi a dimostrare che la poesia non può muoversi altro che in un paesaggio verbale — il che darebbe ragione, a conti fatti, alla prospettiva postmoderna — assume una nuova colorazione culturale grazie allo scarto fuori dei trucchi delle «belle parole», quasi a volare a bassa «quota» dal livello dei segni al livello dei corpi: così, anticipata dall’adesione al ruolo impopolare del “vigile”, arriva la recisa opzione, a mo’ di slogan, per la «rivoluzione verde», in consonanza con ulteriori affermazioni avanzate nel corso del testo (poco più avanti l’esortazione: «Si dia spazio alle prove non distruttive / all’ecologia delle scienze e coscienze»). Mentre il plurilinguismo e il gioco retorico e sonoro, di per sé, in quanto tratti di risaltata creatività costituiscono l’evidenza di un’utopia in atto, ma con ciò corrono il rischio di negare il male sociale con i suoi limiti e pressioni, poiché la libertà verbale smentirebbe la pesantezza del dominio ideologico; la parola della protesta rinvia l’utopia nel futuro e rimette la tendenza del testo — come si deve — in stridente ed esplicita contraddizione con l’esistente, riassegnando compiti antagonisti alla stessa invenzione neologistica.

La raccolta poetica pubblicata recentemente da Ruffato, Etica declive (Lecce, 1996) è un ottimo osservatorio per considerare gli sviluppi di queste problematiche. In contrasto con i cascami della poesia di fine secolo — che siano gli atteggiamenti sacrali di un nuovo sublime o le trasposizioni rasoterra del vissuto, i vacui manierismi oppure i recuperi di musicalità “facile” — Ruffato ha tenuto fede alla sua vocazione per la misura atonale del verso e per la composizione plurilingue del testo: non solo è introdotta nella poesia la terminologia medica, ma svariati apporti provengono così dal parlato come dal patrimonio della tradizione letteraria, dal vocabolario della grammatica e della retorica (i cui termini sono spesso personificati a protagonisti) ed ora anche dal dialetto, che — in questo ultimo ritorno alla poesia in lingua — ricompare non certo in omaggio a localismi di sorta, ma come traccia di una facoltà vitale e espressiva da salvare ad ogni costo.

Da un lato, infatti, il testo dell’ultimo Ruffato abbonda nel ritrovamento di quelle che l’autore stesso denomina «parole lunatiche», passando per il calembour e l’utilizzo inusitato, fino al neologismo dei composti ottenuti per fusione (qui, ad esempio: «presbiparole») o dei verbi ricavati da sostantivi (troviamo: “apneare”, “prebendare” e vari altri). Ma dall’altro lato, a questa felicità inventiva nella manipolazione dei significanti non corrisponde un altrettanto euforico effetto nelle combinazioni dei significati: le immagini rasserenanti si oscurano, con quella che l’autore stesso indica per una «paranoica tensione», nell’orizzonte senza scampo del cattivo stato del pianeta. Così da un lato:

«Poesia come sapienza del silenzio

indubbio brindisi tra le nuvole»;

ma subito dopo:

«Si rubano le maschere nel ghettume

non si vive di parole ritrovate

di trampolini capziosi abunde.

Il bilancio paziente prevede galantuomini

ma il più piccolo capobastone giostra

onnipotente incementa l’altrui morte.

Hospices nel tabù sociale

abbindolano linde agonie per famiglia

in conversari complici bianchi» (p. 51).

Senza rinviare a una dialettica tra illuminazione e opacità delle immagini o — in altre parole — tra sogno dell’utopia e incubo della storia, non risulterebbe comprensibile la produzione odierna di Ruffato, e forse neppure il suo percorso di poeta. Infine, le ragioni del plurilinguismo e quelle dell’istanza civile si saldano in un raccorciato cortocircuito che ha il carattere dell’ossimoro (qui le «linde agonie»; altrove l’«allegria desolata»).

La stessa «etica declive» ha valore di ossimoro. A soprintendere al montaggio, c’è un’etica, però un’etica “declive” (così specifica Ruffato, riprendendo un sintagma rintracciabile in un suo componimento della fine degli anni Ottanta; e ciò testimonia la coerenza intertestuale della sua scrittura); «declive», ovverosia inclinata verso il basso delle pulsioni desideranti, non statica sulla marmorea base del dogma ma posta in bilico, pendente per la discesa della prassi: nondimeno, pur sempre un’etica, un’istanza di rigore, di correttezza, di valore collettivo della parola; un’etica che invece di manifestarsi in stentoree sentenze, si iscrive nel corpo del linguaggio e incide e divarica i livelli stessi della poesia.

Ancora nell’ultima raccolta la poesia di Ruffato, estranea ai «salamelecchi dei poeti», si presenta come una sonda che tenta di scavare «l’archeologia della complessità»: non presume di possedere una rivelazione intangibile, ma piuttosto si situa nel punto di rottura di ogni illusione di identità e di totalità, là dove esse vanno in crisi e sono coinvolte nei «dispetti della scrittura». In questo periodo, di fronte a uno sbandierato trionfalismo della comunicazione, spesso circonfuso di una aureola tecnologica, è sempre più urgente elaborare la risposta radicale di una comunicazione critica e antagonista: Etica declive ci conferma e dimostra che il problema dell’avanguardia passa oggi attraverso le «minuzie» e le dislocazioni testuali, e che solo l’organizzazione polisensa della sintassi del frammento e della semantica dell’incongruo può sorreggere la giusta tendenza letteraria di un “impegno” morale e civile del tutto liberato dalle ideologie precostituite e dalle pose oratorie.



(Da: FRANCESCO MUZZIOLI, La poesia di Cesare Ruffato, con un saggio di Daniela Forni sulla bibliografia della critica, Longo, Ravenna, 1998)
Capitolo 6
Sperimentalismo dialettale

La fase dialettale della poesia di Cesare Ruffato, sviluppatasi nella prima metà degli anni Novanta, vanta già un corpus rilevante, per ora giunto a quattro titoli: Parola pirola, El sabo, I bocete, Diaboleria, pubblicati con costante cadenza. Si tratta quindi non di un estemporaneo excursus ma di una vera e propria “adozione” del dialetto, che impone all’interprete non solo l’accostamento ad una particolare competenza linguistica, ma anche un sovrappiù di riflessione in quanto, con il “Ruffato dialettale” ci si trova quasi di fronte ad un altro, ad un nuovo poeta: inoltre, diventa necessario aprire un confronto con i caratteri e le linee della tradizione poetica specificamente dialettale, rispetto alle quali la svolta di Ruffato pone precisi problemi, non essendo facilmente assimilabile (come avremo presto modo di constatare) alle direzioni più invalse.
Certo, la stagione dialettale di Ruffato cade in un momento di ripresa (testuale e critica) di questo settore poetico per lungo tempo emarginato e trascurato. A dispetto del suo arretramento nella pratica del “parlare comune” sotto l’incalzare dell’omologazione linguistica della koinè massmediatica, il dialetto sembra essersi conquistato nella poesia un terreno di grande vitalità e forza produttiva. Se già nell’arco del Novecento, la poesia dialettale si era scrollata di dosso gli aspetti bozzettistici e comico-realistici della tradizione vernacolare per raggiungere i temi della soggettività, con la cosiddetta poesia “neodialettale” del secondo dopoguerra essa consegue un livello di validità sostanzialmente paritaria — sebbene poco o nulla riconosciuta da storici della letteratura e antologizzatori ufficiali — rispetto alla poesia in lingua. Tuttavia, rispetto ai risultati più noti e rilevanti di tale area letteraria, Ruffato presenta alcune differenze di fondo, che rappresentano, a mio parere, un avanzamento ulteriore sulla strada di una piena “sprovincializzazione” del dialetto: abbandonato qualsiasi tentativo di intensificazione lirica o espressionista (lontano quindi, certamente da Pasolini, ma anche da Guerra), viene oltrepassato anche quel “marginalismo” che idoleggia il dialetto come residuo storico dei senzanome. Le stesse prove di Zanzotto sull’idioma, che pure potrebbero essere imparentabili, risultano alla fine dei conti più cedevoli alla nostalgia della naturalezza della parola dialettale (e non per nulla l’uso del dialetto comporta, nel suo caso, una maggiore distensione e una minore frammentazione del discorso poetico). Semmai, Ruffato consuona con quel fenomeno culturale e letterario che ha visto in anni recenti — con un movimento a chiasma — autori dialettali raggiungere esiti fortemente sperimentali e autori sperimentali ricorrere all’apporto del dialetto.
Ruffato imprime al dialetto la tensione dello straniamento: cosa che certamente lo farà apparire (agli occhi dei cultori della verginità linguistica del genius loci) troppo sbilanciato nel portare la parola dialettale extra moenia piuttosto che coltivarla iuxta propria principia. Il suo diventa un gesto di esorbitanza, di cui il dialetto si trova ad essere, nel contempo, il soggetto e l’oggetto. Da un lato, l’irrompere di un linguaggio emarginato e da sempre estraneo alle istituzioni fa esorbitare il testo dai limiti convenzionali, interrompe il corso delle “buone maniere” della comunicazione, appiattita e moderata, del consumo linguistico dominante. La stessa connessione del dialetto all’infanzia (programmatica, per dirne una, in un titolo come I bocete), concerne molto più una prospettiva di una anarchia disubbidiente e utopica, che non quella della regressione nel ricordo della propria individuale età prima. La stessa scelta del dialetto significa, dopo e contro gli anni del ricambio indifferente, una riconquista di spessore storico nelle parole, che riguarda l’intera collettività. Dall’altro lato, però, il dialetto è anche reso oggetto dell’esorbitanza: infatti, nella riappropriazione che Ruffato ne opera, si trova spostato su “funzioni” fino a ieri improbabili se non impensabili. La stessa plasticità e espressività stilistica dei termini dialettali viene estremizzata, qui, in direzioni di una inventività e creatività che lavorano sia sui significanti che sui significati: pratiche di smembramento e di agglutinazione dei corpi sonori; sintassi frammentaria e elencatoria; semantica di forte ambiguità per la costruzione di immagini paradossali e mosse da una interna carica critica di contraddizione; tutto ciò conduce il dialetto in zone assolutamente nuove. E la densità teorica e metalinguistica vale da acquisizione secca, rispetto agli standards correnti.
Non rifugio in una originarietà edenica, il dialetto adottato da Ruffato tanto meno può essere messo sul conto, neanche come vago sintomo, del movimento culturale (o inculturale che sia) emerso in questi anni di rivalutazione del localismo, con le punte di secessionismo e di intolleranza alla sangue-e-suolo che ben conosciamo. A togliere qualsiasi equivoco di ritorno all’indietro, varrà ricordare che quello utilizzato da Ruffato non è un dialetto “puro”; è un linguaggio reinventato, che trascina con sé in abbondanza componenti allotrie, che accetta di mescolarsi e di commisurarsi con un vastissimo bagaglio culturale e intellettuale: vi sono inglobati elementi della lingua colta (latino e provenzale), termini stranieri entrati nel parlato così come quella terminologia teorica, filosofica e scientifica, che — dai primi passi del suo “esperire” poetico — Ruffato ha introdotto nel testo della poesia. Non si tratta quindi di un interesse per il “c’era una volta”, né di un gusto antiquario per le “parole perdute”, quanto di un intento polemico (ancora una volta di stampo ecologico) contro l’uniformazione e l’omogeneizzazione forzata. Come si vedrà dall’analisi più ravvicinata dei testi, il nostro autore non ha inteso affatto ricorrere al dialetto per scavarsi una nicchia o recuperare un nido nell’alveo materno di uno strumento “minoritario”, ma ha tentato, invece, di prolungare con altri mezzi la propria linea di ricerca poetica: complessità plurivoca e tensione interna ne restano i caratteri principali, sicché non meno ragguardevole che nei componimenti in lingua risulta la dimensione sperimentale.

Si tratta sempre di un pluringuismo: con la differenza che ora la “base” è il dialetto. Basta aprire Parola pirola nella sua sezione di avvio (Orca eva e sorbole):

«La xe tuta colpa mia e no voria
ch’el t’inciodasse ti Adamo, cossì
a la spiageta del peoceto Eva
che rabaltà devien orgiosa Ave
ex abundantia cordis dissoluta
e molesina de lusso se inculpa
le vissere de tristessa madonera
efusiva a caturare ’na onda
per surfare chimera a la sponda»;

per trovare, innestati nella parlata patavina, tasselli di lingua latina o adattamenti di termini stranieri entrati nell’uso («surfare»; come poi si troverà “slalom” trasformato in «slalo»). Già qui il testo si muove al di fuori delle tematiche “municipalistiche” se mette in scena addirittura i progenitori del genere umano fatti archetipi del confronto maschile/femminile. È, insomma, un dialetto allargato e integrato di apporti culturali, e messo in grado non solo di compiere operazioni smaliziate sul significante (come il “ribaltamento” palindromico di Eva-Ave), ma anche di equivalere (quanto al suo raggio di intervento “teorico”) alla lingua: lo dimostra la frequenza e la consistenza della citazione, a spaziare, diacronicamente, fino alle radici della tradizione lirica (troveremo una «morosa de lonh» e un «trobar ombreto leu clus»), e sincronicamente mettendo a frutto in autoconsapevolezza spunti del dibattito (comparirà un «coto / pensiero debole» e una «tiritera su la morte de l’arte»), riferimenti in controluce («cuori sgombri mots sur les mots» fa il verso ai paragrammi di Saussure) e rimandi ai contemporanei (del bagaglio fa parte anche un «barone rampante»). Un tale spostamento sul versante teorico-intellettuale sposta decisamente la funzione-dialetto dal suo chiodo evocativo-nostalgico; nello stesso tempo introduce nuclei tematici che o sono resi in italiano, oppure costringono a formare inediti neo-dialettismi.
Molte analogie, non soltanto la forma del titolo, legano Parola pirola a Parola bambola: svariate le attivazioni dei termini astratti della retorica e della grammatica, animati attraverso l’apposizione del sostantivo (come Parola bambola aveva le «metonimie pipistrelle», qui si incontrano la «litote tarantola» e le «consonanti cerbiate»; e vi ha posto l’allegoria, debitamente dialettalizzata in «alegoria»); ma soprattutto, nell’ampia sezione Parola polena (che copre quasi la metà del testo complessivo), si applica un orientamento metalinguistico di discussione delle possibilità della parola e di tentativo definitorio, sotto a titoli parziali di volta in volta significativi (Parola malà, Parola matita, Parola coi busi, ecc., fino a Parola fiaba) di stati diversi o di diverse ipotesi di intervento. In questo caso, l’estensione del dialetto al di là delle sue funzioni subordinate e delle sue limitazioni al quotidiano e al familiare, giunge a mettere a fuoco — nell’insieme della poetica in versi — proprio la tendenza fondamentale che l’apporto del dialetto rappresenta in questa fase dello sperimentalismo di Ruffato: l’aspetto della “mescolanza”, che viene promossa e sollecitata dallo statuto del dialetto, meno rigido rispetto alla lingua ufficiale; lo “smissiare” del plurilinguismo (che qui Ruffato ben definisce con la formula di «free-parolese») si muove decisamente a suo agio «ne la brodagia / instabile» di un parlato con forte radicamento, sì, ma tutto ormai aperto ai contributi della multi-comunicazione moderna,

«in ’na gagliofa funamboleria
de macaroni sbreghi ronchi poteri
la follia sbólsega latinus grossus
rochei de storpiature e ’na polteca
che se la sbriga sensa riguardi».

Come si vede, l’assenza di regole inamidate dà il via libera ad una lezione di abilità aggressiva e dissacrante che trascina verso il basso le gerarchie codificate, le avvicina («sensa riguardi», appunto) nel miscuglio alquanto degradato della «polteca», le accompagna a non controllabili e poco rassicuranti guide (come la «follia», la quale — da par suo — «sbólsega», cioè tossisce, un suo latino popolare), le avverte della probabilità dei bruschi trattamenti promessi dagli «sbreghi» e dalle «storpiature». E un’altra definizione “forte” è quella della Parola morbin, rinviante al movimento eccitato e scomposto, indemoniato («La parola col morbin in corpo»); a indicare una operazione linguistica di “animazione” del testo che deve produrre attività su tutti i livelli, gli elementi, le giunzioni. A questa poetica il dialetto deve corrispondere e corrisponde effettivamente.
La favola delle “parole gelate” che Ruffato cita nelle pagine finali del libro è quanto mai calzante: il dialetto sempre meno impiegato nella vita reale è come un serbatoio di parole e schemi verbali irrigiditi, che spetta al testo poetico disciogliere dall’inerzia e rendere ancora utili in tutta la loro energia espressiva. Non è soltanto la vicinanza con le funzioni corporali vitali e neppure solo il legame con lo strato sociale degli oppressi senza storia a fornire il dialetto di una carica espressiva dirompente: c’è anche la sonorità onomatopeica che un poeta come Ruffato è pronto a sfruttare e a dispiegare; termini lunghi e buffi, uscite strampalate, raddoppiamenti infantili, soprattutto impasti verbali intriganti come, ad esempio, il gruppo iniziale s+consonante che caratterizza un gran numero di termini dall’inflessione stramba ed abnorme. Di esse un non esaustivo e provvisorio elenco comprende: «sbregà» (lacerato), «sbólsega» (tossisce: già incontrato), «sbrodegoni» (sudicioni), «scavegion» (capelluto), «scravassi» (rovesci di pioggia), «sgnarada» (combriccola), «sgrisole» (solleticanti), «snaroci» (muco nasale), «squaquarela» (rammollimento), e via così. Se qui il dialetto appare già pronto e naturaliter attrezzato per un “effetto d’urto”, non mancano poi i procedimenti di accostamento che producono i cortocircuiti sonori della paronomasia, in coppie quali «sgionfi e ponfi», «specio vecio», «de sera siera», «a stechi sechi», in aggiunta all’italiano «eterni esterni». Si tratta di un lavoro linguistico che — anche in questo caso — lascia indietro il gusto vernacolare per la sonorità e procede nel viaggio al termine della parola fino alla disseminazione del suono, alla spezzatura della sillaba, al privilegio della lettera. Sono tre livelli operativi che si dispongono esemplarmente proprio nelle sezioni che sono dedicate alla Parola e al suo vertiginoso mutamento “pirolante”: paronomasia («Parola pìrola pàrola»); divisione in sillabe («la sillaba pa drite staltre ro e la»); infine autonomia della lettera che alimenta la pluralità dei significati, vedasi questa sorta di acrostico:

«p inissiale de padre pié pan ponte
a de albero amore anema
r de rima religio roba rumore
o de ora origine opera orifissio
l de linea letera lume limite
de serto per scursarla coi nomi»

Insieme a questi interventi, del Ruffato in lingua restano le strutture sintattiche dell’apposizione, dello scarto semantico, dell’elenco. E tuttavia sarebbe troppo semplice intendere la fase degli anni Novanta come il versamento del nuovo vino dialettale in vecchi otri sperimentali. C’è di più. Con l’adozione del dialetto lo sperimentalismo si riappropria del problema della relazione “storica” con il passato: da un lato, infatti, la parola dialettale sembrerebbe la più acconcia al recupero del passato, anche per il fatto di essere, parola “corporale” e familiare, linguaggio senza scissione tra suono e senso, una sorta di ideale veicolo per la promessa di “pienezza” e di indistruttibilità del corpo collettivo nella carnevalesca materialità della “cuccagna”:

«tra fruti gonfi gonfi
melonare spinete goti de clinto
spose tetone culo barca de scondòn
lecone ’na bala totale
de odori pudori saori.
Cei se ociava scoltava snasava
se pensava che liquidità fosse proprio
la pompa de la monta
sgorgà de boto da le vergogne
e no tanto parola economica
serpente ne la frase de le finanse familiari»;

ma si noti, anche qui, tra le triplicate istanze dei canali sensoriali ben stimolati («odori pudori saori»), infine il mito della «liquidità» ricondotto dalla sessualizzazione universale («la pompa de la monta») alla sfera dell’economia («le finanse familiari») con una filologia della misinterpretazione che fa, al contempo, da climax discendente.
Il dialetto non può reggere fino in fondo la promessa di “redenzione”; in quanto ormai emarginato e ristretto nell’uso, l’adempimento che esso garantisce non può che essere relegato nella distanza temporale. Quella dialettale è una «parola opaca» la cui riemersione è incerta («riva a palponi»), problematica la funzione. Notiamo allora che, almeno in Parola pirola, la direzione non è a senso unico verso il passato: è invece duplice, «carga de futuro smissià col passà», volta a «combinare la distansa co la speransa»; insomma, non è memoria senza essere anche attualizzata “favola”.

El sabo è il testo in cui maggiormente la poesia di Ruffato si avvicina all’uso del dialetto iuxta propria principia: vale a dire che si applica nel cammino a ritroso del ricordo e della immagine memoriale, segnali indiscutibili le figure della famiglia, dai «marini oci materni» alla bicicletta Dei del papà, al “come eravamo” della tribù di nonne, nonni e zii. Riapparizioni degli anni dell’infanzia sono le sagre con le «carobe tiramola» da masticare e la «giostra a caenele calcinculo», oppure — ancor più nitido nel «vien ben in mente» — la giornata allo stadio:

«De festa me vien ben in mente
la sgropada premio a Padova
al campo Appiani co me papà
sul fero de la Dei da omo cussinà
per la partita de balon in serie A
bei gol discussion sarache
gazose, carameli de la dita Rocco».

E però il ricordo è una trivella instabile; impossibile farla rimanere ferma ad un solo livello cronologico. Da un “sabato” (sabo è, appunto, l’impagabile prefestivo) all’altro, lo scarto temporale è la sua norma, sicché gli «ani trenta dei fasci paroni» con la «palanca de liquerissia» e le nuotate «al Muson» si proiettano in breve sugli anni «dal sinquanta in su», fino alla

«(...) protesta sessantotina
ani tartassai da brigate tinte
siringhe, pocula
nomi de piombo pei giornai».

La distanza temporale è pur sempre un abisso che la parola colma con un salto avventuroso e precario (si parla a un certo punto di un “ponte di paglia”, «un ponte / de paia sul tempo del tempo»), di cui si avverte tutta la difficoltà e il pericolo: la riemersione del lontano, infatti, pur agevolata dal suono ben noto e primario della voce dialettale, deve fare i conti con la “differenza” ineliminabile del presente. La discontinuità storica e sociale che marca l’antitesi tra il «’na volta» e l’«adesso» deve constatare la radicalità del cambiamento («ormai ... xe cambià») e — ribadita anche dalla incisione del trauma personale che (perno ne è un sabato di sciagura) torna a far sentire la feroce frattura tra “prima” e “dopo” — non lascia senza dubbi la possibilità del rivolgersi all’indietro, «indrioculo», verso il passato. È piuttosto una contraddizione, quella che investiga e scava Ruffato all’interno del suo universo simbolico, tra l’esito euforico della trasfigurazione nella bellezza «simbolo del simbolo» e l’esito disforico della caduta nell’inerte materia dei «simboli fusi» e «segni tragici». Da ciò, i diversi livelli del ricordo e le diverse intensità dell’accensione immaginativa vengono condotte nella catena che analizza, di sabo in sabo, le mutazioni del “sabato”: «sabo (...) remoto lunario», «sabo sera familiare», ma anche «sabo de hooligans candeloti»; «sabo fiaba» e «sabo putin tarantolà de paese», ma anche «sabo discoteca psichedelica». Allora il passato diventa un attrito che si insinua nel presente e lo disincanta, con l’ironia (come nella promenade delle minigonne: «i modeli cotole vanessenti / l’eldelà de la reincarnassion») o con l’esasperazione che assomma febbrilmente i dettagli della “febbre del sabato sera”:

«El sabo discoteca psichedelica
luna afrodisiaca in covo
oci paonassi, peoci ratrapii
mulin de fandonie, lambada alcolisà
tabacae de velen
crack e ecstasy che i cani no snasa
spicioli micidiali»;

affidando folgoranti associazioni sonore non esclusivamente al dialetto da solo («oci»-«peoci»), ma anche in combutta con l’italiano (molto efficace quell’identità al mezzo di «spICIoli mICIdiali»), in un interessante amalgama che tiene conto della nuova cultura ormai “internazionale”. È davvero una particolare poesia questa del cortocircuito tra provincialismo e globalizzazione. E si noti pure che il nume protettore dell’infilata dei “sabati” è Leopardi con il suo “sabato del villaggio”: la lezione del Leopardi «frugnon», ricercatore e critico nelle pieghe della propria epoca rende l’orizzonte ampio di una prospettiva tutt’altro che risicata nel contesto di un microcosmo e neppure limitabile nell’epica familiare.

«Infanzia — onda continua di rivoluzione, e sistematicamente stroncata dai “grandi”, questi reazionari»; è una massima di Alberto Savinio che Ruffato potrebbe sottoscrivere: il tema dell’infanzia (ma sarebbe più esatto dire l’utopia dell’infanzia come forza alternativa e innovativa) è presente in filigrana in tutta la sua opera, ma si esplica al massimo e si articola nei suoi vari aspetti soprattutto ne I bocete, fin nel titolo dedicato ai “bambini”. Anche per Ruffato tra “grandi” e “bambini” è in atto una lotta culturale, antropologica, in senso lato “di classe”, e il parallelismo sintattico della poesia lo esprime nettamente:

«I grandi sulla giostra barbina
pendola pandola pollution verbale
strussia per farse vedare diademi
limai da la plastica.
I putei in briscolo midriatico
se scansa se disegna per vedarse
in dodese note bronse»;

nella contrapposizione tra il movimento circolare della «giostra barbina» e quello oscillatorio della “altalena dilatata” (così si traduce il «briscolo midriatico»), tra il convenzionale e socialmente costrittivo «farse vedare» e l’identità in ricerca del «vedarse», tra i tronfi diademi di plastica e le “dodici note” di una completa e anti-istituzionale espressività “dodecafonica”.
L’infanzia, in quanto carica vitale e dispiegamento di facoltà potenziali non ancora irreggimentate nei ruoli, si pone come controparte di un modello di sviluppo che pare sempre più intenzionato al depauperamento umano, ai “tagli” di energie, allo spreco delle capacità disponibili: qui il discorso poetico si fa protesta “ecologica” davvero a tutto campo e il dialetto si perita di intervenire al livello planetario dei problemi non solo per quel che riguarda la sorte dei bambini nel mondo (la “strage degli innocenti”: «più de diese milioni / miniprofughi e un milion xe orfani»; e troviamo anche i niños de rua brasiliani che «ne la fame stropa buse su le strade»), ma anche con il confronto al nuovo militarismo tecnologico esploso, dopo gli «ani otanta opulenti», nella Guerra del Golfo:

«La Pasqua bassa ga anda piata
el fredo sfersa, la guera sorda
del Golfo xe nafta che sbassa
la borsa e schifa el calmiere
de l’omo»

(dove notiamo l’uso del termine economico “calmiere” applicato all’uomo, a voler significare la necessità di una economia “dal volto umano”, per il momento disattesa).
L’incontro tra il dialetto e l’utopia libertaria dell’infanzia (per «stanse de sapiensa sensa botoni») va da sé se pensiamo che la condizione marginale e subalterna, informale e ufficiosa, riservata al dialetto è assai simile a quella dell’età minore. Per non parlare del fatto che — per l’autore — il dialetto è, precisamente, il linguaggio dell’esperienza prima e aurorale: eppure, ne I bocete, lo spazio riservato al riemergere del ricordo è secondario (e gli viene infatti concessa la seconda parte del libro); e poi, anche là dove torna l’“io” degli anni lontani (quando «ancora no ghe stava la DC»), è sempre situato in un insieme collettivo, inserito nel «clan ceo carbonaro» e nelle sue imprese avventurose sui confini del sociale. Voglio dire, con questo, che il ricordo si configura esso stesso in modo conforme alla strategia complessiva del libro che muove dalla concezione dell’infanzia come “pluralizzazione” (plurale è il titolo stesso: I bocete) e dal tentativo di esporla in una perorazione per immagini (quindi senza trampoli retorici), tutta giocata nel presente rivolto al futuro, che è il tempo proprio dell’infanzia.
Il protagonista non è, dunque, il poeta “da piccolo” richiamato in vita a forza di rievocazione; è, piuttosto, il «sistema bambin», quel nodo della “nozione di infanzia” composto di elementi esistenziali e immaginativi e insieme di istanze teoriche e critiche. La poesia stessa de I bocete sembra tenere costantemente sottinteso il soggetto plurale che le dà il titolo, per fornire diversi tentativi di definizione e di specificazione che si allineano uno dopo l’altro quali “apposizioni continue” a quel termine-base: neanche le parti più distesamente narrative e rammemoranti sfuggono a questa impostazione, andando a cumularsi, a loro volta, quali epiteti escussi in questo processo di elucidazione dell’infanzia. In alcuni casi l’assommarsi cumulativo è lampante e il testo appunto si dispone in replicata successione di risposte alla domanda implicita “cosa sono i bambini?”:

«(...) Sigo
de la cossiensa, giosse pure
che lava via colpe, el ruvijoto
del mondo tutosbecà in figurete
de crea. Ombrete del regno poetico
fogheto sapiente de amore
che no se pole insegnare
porte verte a scavare l’orbità
de l’anema, arche de robe scrite
dosso che vede no vede el specio
no sa se se specia».

Articolazioni svariate — come si vede — di un “sistema” non chiudibile e anzi deputato all’apertura (viste quelle «porte» che si spalancano fino ad andare in profondità nello “scavo” dell’incapacità visiva degli adulti) che comprende l’affrontamento della complessità (il “mondo” aggrovigliato e «tutosbecà» nella frammentazione moderna), e l’incertezza dell’identificazione speculare (fino ai paradossi dello «specio» in cui il dialetto ruffatiano “lacanizza” da par suo).
Ne I bocete, la connessione dialetto-infanzia fa montare anche l’animazione del linguaggio. Per un verso, viene incentivata la ricerca delle «parole strambe», quelle dalle spericolatezze consonantiche, come «spalpugna» (cincischiano), «sfunfigna» (strapazza) e il davvero ostico «braghiero gnagno» (tradotto con “strafanto lamentevole”), oltre al recupero del lessico da tiritera, da «bisibisi» (rumorio) a «brunbrun» (bibita), a «ciribicocolo» (intelligente: è detto del pallone con riferimento alla «Juve»); naturalmente, nell’ottica infantile, non vi è alcun ritegno dall’alterare il “corpo” ufficiale della parola, anzi ciò è di prammatica secondo l’istanza del gioco: e così va a finire per una parola di comunissimo uso come “legumi”, che «la rabalto / la strupio: migule gulemi imugel», l’importante è che niente resti fermo, che il linguaggio si muova continuamente con i ritrovati di una «lengua saltimbanca» costellata di invenzioni, di «wit balarini». Per un altro verso, dialetto e infanzia si direzionano sul livello “basso” e carnevalesco della riscoperta del corpo e della felice molteplicità delle sue emissioni: ruttini, spurghi nasali, tutti i generi di escrementi. L’oralità del dialetto sta accosta all’oralità gastronomica della fame e su questo tema, corporeo e materiale quant’altri, l’introiezione delle parole mima (allegoricamente) l’introiezione del cibo; merita conto di citare il passo sulla «pietansa leona», che nel richiamo a una soddisfazione tutta fisica e a un rito popolare e pagano, smaga la velata atmosfera del tempo passato imponendo, a forza di iperbole, una logica vorace di tipo “leonino”, che (come il grammelot dello zanni) non abbisogna di traduzione:

«La pietansa leona de carne
de domenega, gloria dei corpi
tentacola, lessa col cren o mostarda
nel tecion de brodo per la setimana,
rosta in graela carbonela
raise radici crocanti pan de casada,
ronrona ganasse, s-cioca lengue
sbrodega fileti in meso ai denti».

Qui convergono un segno che ritorna corpo, e viene quindi debitamente trattato e riplasmato, e un corpo che si moltiplica in segni, affermando con l’occupazione dello spazio la sua dirompente “presenza” e costitutiva insubordinazione ai contenimenti repressivi. Non a caso, la semiosi mista e ipotetica che li vede protagonisti fa sì che i «bocete» siano definiti «ideogrammi» e «geroglifici dionisini».

Il quarto libro del Ruffato dialettale s’intitola Diaboleria e vale da consuntivo delle linee di ricerca della nuova fase. Il fatto che possa essere predatato, per cronologia di stesura, davanti a El sabo non attenua tale dimensione allargata a comprendere, nelle diverse sezioni, le diverse modalità e orientamenti operativi esperiti dall’autore in questo periodo: l’inserimento delle prime prove in dialetto (quelle Minusgrafie dialettali qui denominate semplicemente Minusgrafie) dimostra l’intenzione di esplicitare e quasi di riassumere, agli occhi del lettore, i passaggi e le sfaccettature dell’acquisizione del dialetto in poesia.
Una sezione apposita è riservata proprio a un testo che sviluppa in piena consapevolezza la riflessione sul dialetto: El dialeto, come negli spunti “metapoetici” sparsi altrove (ad esempio, ne I bocete, si interviene su «el dialeto, mulin interno / de l’anema vose bianca / spineta dei sogni») aiuta a comprendere ancora meglio la scelta linguistica del Ruffato degli anni Novanta, quale coerente svolgimento di alcune sue propensioni psicoanalitiche e della sua posizione culturale anti-repressiva. Molto chiaro, e tanto più perché espresso esattamente nei termini di un linguaggio “primario”, il passo in cui l’autore collega la parola dialettale alla scoperta del corpo (si tratta, non a caso, del «dialeto corporeo») e al viaggio dell’infante sui corpi dei genitori, come basilare esperienza della frammentazione di oggetti, parole, simboli, suoni, stimoli, alla radice di tutta la complessiva “sintassi sperimentale” dell’autore. Così:

«’Ste parole prime parentali
ne l’oro de la vita ciama
l’inconscio lalante corente
letrica bianca de vocali sparpajae
sui corpi de mama e papà putini
anca lori distanti e vissini
e mi me godo ne la cola che sta
ancora prima dei sesti, parvense
fine sielte del soma».

«Me godo», dice il testo: nel segno di una jouissance che segue poi il “destino delle pulsioni” dal «dialeto anale» dei «banchi de le elementari» al successivo e ben strumentato recupero adulto attraverso la mediazione di «linguisti e semiologi culti» della forza del rimosso e represso contro la lingua istituzionalizzata e mercificata della comunicazione mediatica («del ciacolese fregnonese franfichese»), con un acquisto di immediatezza e vivacità (di “scioltezza” e “mobilità”) che tuttavia passa sotto le forche caudine di un continuo confronto con il codice dominante («nel volerlo maridare co la lengua / matricolada»).
La sezione Specio smemorà è quella che offre maggior spazio al ricordo tratto dal vissuto personale, basta pensare (oltre al titolo stesso della sezione, che rimanda a una contemplazione dell’immagine sperduta nel tempo) a testi legati a figure di congiunti come La mama o Foto de fameja (anche se quest’ultimo, a ben guardare, muove dalla chambre claire di Barthes); e però, nel mentre ancora la fanno da padrone i «bocete» («i bocete sguassa ne la polvare»...), il discorso si sposta — per le dinamiche che avevo già avuto modo di osservare — verso la polemica sociale rivolta al presente, della quale si fanno carico soprattutto testi come Nadale stravanio o ’Na mapeta de paroloni. In Nadale stravanio è proprio il periodo festivo dove maggiormente parrebbe trionfare la continuità della cultura tradizionale a mettere in campo, invece del prevedibile effetto-affratellamento, il senso dell’estraneità collettiva e la condanna anti-borghese dell’arrembante ideologia dell’individualismo e dell’arrivismo; ed eccoli, con indifferenza ai mali del mondo, nel luogo deputato della

«(...) piasseta
Pedrochi omnia animalia imbeletà
se n’impipa pensa a la so pansa
e scarsele a la machina nova»

(e si noti la mescolanza linguistica con il latino che assegna proprio alla lingua dotta la stigmatizzazione dei connotati subumani — l’animalità, appunto — della «cultura boara»). Ma l’invettiva, poi, si converte (e c’è però vera diaboleria in tale “conversione”) in parodia, nel rifacimento modernizzato del presepe, i cui personaggi tipici si animano e agitano assumendo le parti di una contemporaneità caotica e insanabilmente conflittuale: ed è parodia di doppio grado, questa, che annulla il tenerume da “ciaramelle” con punte dissacranti, ma nello stesso tempo pone un pesante interrogativo sulla festività sprecona della società dei consumi.

«Nel cancan piegore in siòparo
no vole tosaura pal fredo
pastori xe stufi de polenta e casatela
anzoleti co rasteghin da smog
stona il gloria in excelsis Deo
dubiosi su pax in terra hominibus
bonae voluntatis ramai sbatesai
la cometa disgustà dei sateliti
che daiedai ghe rapa la coa e grata
la tramontana, i re magi snoba
i camei per rivare in giambo
maserati (...)».

Dal canto suo, ’Na mapeta de paroloni proietta la polemica, in grande, contro le fonti dell’inquinamento e i pericoli dello sviluppo economico quando è privo di controllo democratico. L’ecologia va al massimo, e non risparmia, con il moderno, nemmeno il presunto post-moderno:

«L’omoecologo sa ben che moderno
e post ga inquinà el za sporco
società incretinia se scava
buse bacini cave sòfega de semento
orisonte acque vegetazione carte
geografiche polegana in trapole
no serna più gnente de giusto
sitàbidoni totomachine revival
de falsità file de plastica»;

in questa prospettiva, il passato riappare, ma come chiuso nella sua «sfera de véro», e non per niente le ruvidezze paterne ricevono il sigillo di una ironica annotazione psicoanalitica che certamente va messa in conto a una coscienza non coeva ai fatti («el papà su l’alt del parricidio / me sgionfava de pache freudiane») e di gran lunga aliena alle dimensioni tranquillamente domestiche di certa tradizione dialettale. Sarà invece allargandosi al problema della natura e alle reazioni patologiche del naturale nel dominio dell’artificiale («la natura ... s’imbissa co ruti gnochi vole / cambiare casa par vendeta»), fino a toccare l’urgenza di un nuovo patto con la natura (l’utopia di «inventare mondi / diversi più beli»), che il testo raggiunge il suo alto punto di chiusura.
L’ultima sezione, infine, sotto il titolo L’evoluzione, la statura, la veste, piega il dialetto verso una tematica generale di taglio antropologico. Il dialetto è un linguaggio rivolto all’indietro? E allora — sembra pensare Ruffato — che vada all’indietro del tutto, alle origini della specie, della vita, dell’universo intero: si apre perciò la strada ad una originalissima cosmogonia, scientificamente agguerrita ed espressivamente esuberante, in particolare quando si addentra nel rimescolio della materia:

«Ne le prime tre età un magma tracagnoto
de ragi orbaroli luminosissimi
faseva belo e bruto co scagarela
smissià de le varie materie
bomba atomica cosmica de fogo».

In questa sezione lo sperimentalismo dialettale di Ruffato rianima miti e archetipi senza tuttavia rinunciare a presentare il conto dell’attualità “collettiva”. Così, nella parte dedicata a La veste, la costante antropologica dell’abito e la nuova sacralità conferita dalla moda e dai modelli di bellezza femminile (secondo apparizione: «de sera vestale sciallosa in alta / furba lamprità noa slùsega sul véro») è posta a fronte della aggressiva esibizione dell’«omo gradasso» e «reobarbaro» che viene a ricevere, nelle ricercate creazioni degli stilisti, a forza di allargare le spalle e alzare la vita dei pantaloni, le sproporzionate fattezze di una ridicola rarità circense: il nano «bagonghi» («fighi bagonghi co spale alae / e braghe a vita in su»). Il tutto nel «bolso bailamme» del “falso movimento” delle merci.
In conclusione, dunque, la fase dialettale di Ruffato ci ha riservato parecchie sorprese e non poche “diavolerie”. E se anche può essere ascritta a un principio generale di preoccupazione ecologica, per il quale il dialetto interessa come fosse una specie in estinzione da proteggere e da salvare, tuttavia non comporta minimamente — l’ho sottolineato più d’una volta — il confinamento in una qualche “riserva”; al contrario scavalca il ridotto ambiente di campanile in continue aperture e spaesamenti di largo rilievo. E se anche risulta concedere un po’ più di distensione discorsiva (come si può vedere dal ripristino delle maiuscole iniziali e dei punti finali; insomma della complessiva normalità della grammatica), magari per il fatto che l’incomprensione è comunque garantita dall’aver assunto un linguaggio che il lettore non possiede facilmente a meno di non essere nativo del posto), ciò non avviene a scapito di quella ricerca di dissonanze sonore e semantiche che la poesia di Ruffato reca iscritta nel proprio DNA.



1 I primi due dalla Biblioteca Cominiana di Padova (1990 e 1991), il terzo da Campanotto (Udine, 1992), il quarto da Longo (Ravenna, 1993).
2 Nel primo campo ricorderei Scataglini, e soprattutto l’ultimo Maré; nel secondo campo, oltre alle poesie liguri di Vivaldi, c’è la prova di Ballerini con il doppio testo milanese-italiano di Che oror l’orient (Bergamo, Lubrina, 1991). Si inseriscono in quest’area anche le recenti prove in friulano di Paola Campanile. Dato non secondario, nell’antologia del nuovo movimento Terza Ondata (cit.), una sezione è dedicata al Ritorno della “funzione-dialetto” (comprende Lubrano, Delli Santi, Baino e altri).
3 CESARE RUFFATO, Parola pirola, cit., p. 31.
4 Ivi, p. 33.
5 Ivi, p. 62.
6 Ivi, p. 73.
7 CESARE RUFFATO, El sabo, cit., p. 65.
8 Ivi, p. 66.
9 Ivi, p. 69.
10 È tratta da ALBERTO SAVINIO, Tragedia dell’infanzia, Torino, Einaudi, 1978, p. 99.
11 CESARE RUFFATO, I bocete, cit., p. 52.
12 Ivi, p. 15.
13 Ivi, p. 16.
14 Cfr. ivi, p. 52.
15 Ivi, p. 53.
16 Almeno stando a IVANO PACCAGNELLA che, nell’introduzione a El sabo cita Diaboleria come libro già composto e «in corso di stampa» (El sabo, cit., p. 9).
17 CESARE RUFFATO, I bocete, cit., p. 29.
18 CESARE RUFFATO, Diaboleria, cit., p. 20.
19 Ivi, p. 54.
20 Ivi, pp. 55-56.
21 Ivi, p. 60.
22 Ivi, p. 68.





(Padova, 11-3-99)
Francesco Muzzioli
FORME E PARADOSSI DELLA POESIA DI RUFFATO

L’itinerario poetico di Cesare Ruffato è passato attraverso varie fasi, ciascuna caratterizzata da qualche cambiamento di forma. Una prima fase, tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, prendeva a muoversi nel clima nel tardo simbolismo, puntando però subito a rovesciarlo con la crisi dell’immagine e con l’ambiguità delle parole; una seconda fase più decisamente sperimentale e d’avanguardia, giunta fino agli anni Settanta, procedeva ad una anatomia del materiale verbale, con tanto di libertà del significante e frammentarietà del montaggio, per toccare il suo apice nelle Minusgrafie feltrinelliane del 1978; arrivati agli anni Ottanta, si sviluppava un maggiore interesse (qualcuno direbbe: postmoderno) per la figurazione retorica, ma si profilava anche la riscoperta del luogo d’origine, la Padova diletta della raccolta del 1988; si registrava, poi, il punto di svolta di un durissimo trauma personale che metteva in forse l’intero edificio del linguaggio; fino agli anni Novanta, alla fase dialettale ancora in corso, da poco documentata interamente nel monumentale volume di Marsilio Scribendi licentia, una fase in cui Ruffato ha cambiato addirittura la base linguistica del suo sperimentalismo poetico.

Sarebbe fin troppo facile addebitare queste mutazioni della forma alla mera cronologia, spiegandole come colpi di barra per adeguare grado a grado l’operazione testuale al trascorrere della storia (non importa se della storia “grande”, sociale ed economica, oppure della storia “piccola”, personale e psicologica). Una tale spiegazione della poesia come “riflesso” (sarebbe un po’ la vecchia sovrastruttura marxista) porterebbe a risultati davvero riduttivi: sarebbe semplicistico pensare, ad esempio, che l’esperimento linguistico fosse l’effetto della innovazione tecnologica nei modi di produrre e di vivere, elementare l’equazione tra il lessico scientifico caratteristico del Ruffato anni Sessanta e il boom della modernizzazione della società italiana; ancor di più, oggi, otterremmo ben poca luce se ritenessimo dipendere la scelta del dialetto dal diffondersi delle rivendicazioni delle identità locali e degli autonomismi. Dirò più avanti dei caratteri complessi e paradossali che sussistono anche nella poesia dialettale di Ruffato; per ora mi basta riferirmi al titolo del volume che di quella dà oggi intera testimonianza: Scribendi licentia. È un titolo in latino. Che razza di poesia dialettale è mai questa che sceglie di raccogliersi sotto l’egida della lingua morta vanto della cultura nazionale “alta”?
La storia inoltre non va mai dritta e la storia interna della poesia ruffatiana non fa eccezione. Le diverse fasi non si susseguono al modo di perfetti e assoluti superamenti senza residui. Non solo certe linee possono inabissarsi e riapparire (accade a un titolo degli anni Ottanta, Trasparenze luminose, di riportare a galla più di qualcosa della formazione lirico-simbolista), oppure coesistere collateralmente (ed ecco una ben valida raccolta in lingua, Etica declive, uscita nel 1996, in mezzo al fecondissimo periodo dialettale); ma, più in generale, la pluralità della forma appare connaturata all’esperienza che Ruffato fa della poesia. Se si può a buon diritto parlare di plurilinguismo per la ricchezza dei registri lessicali utilizzati nei suoi versi, se ne deve parlare anche a livello più ampio, delle scelte e direzioni che attraversano il corpo del testo e che (nei modi di contraddizioni dialettiche non inclini a comode soluzioni) tengono insieme l’operazione sui significanti e quella sui significati, la sintassi del frammento e la semantica dell’incongruo, la felicità dell’invenzione linguistica e la critica delle abitudini e delle ideologie.
Se questo è vero, nel polimorfismo potremmo vedere il filo rosso che attraversa l’intero percorso dell’autore, verificabile al contempo nella sincronia e nella diacronia. Non a caso il polimorfismo si associa all’infanzia e il tema dell’infanzia è uno dei più cari a Ruffato e dei più diffusi in tutto l’arco della sua produzione poetica. Lo si rintraccia nei testi, un po’ dovunque, nei titoli (Minusgrafie, Parola bambola); negli argomenti («bimbo, sei te stesso quando dormi e quando / sei sveglio guarda il mondo che passa...», sono versi di Minusgrafie); a livello operativo, nella manipolazione del linguaggio con i procedimenti verbali di costruzione di nuovi composti e di gioco con le parole; e diventerà il soggetto sottinteso di una intera raccolta dialettale come I Bocete. Ma c’è ancora un’ulteriore risvolto. La prospettiva “infantile” è fondamentale per una poesia come questa, che non avrebbe significato se non arrivasse a mettere in discussione il linguaggio: ora noi possiamo tentare di usare il codice e di non essere usati da esso solo se ritorniamo a pensarci in quella disposizione instabile di apprendimento, quando saggiavamo incerti l’uso delle parole e provavamo a impugnarle come corpi, come strumenti sconosciuti.

L’infanzia è la via per imprimere al materiale della lingua il massimo di energia semantica e somatica: questo sembra dirci la poesia di Ruffato nelle sue molte forme (non dimentichiamo l’esperienza visiva che prevede l’interazione di parola e immagine, la loro reciproca “transfigurazione”). E non a caso oggi l’infanzia è una nozione su cui insistono le tendenze del dibattito teorico, anche convergendo da posizioni molto distanti. Penso a Lyotard e a Eagleton, contrapposti per quanto riguarda il postmoderno, ma entrambi fautori dell’infantile: per Lyotard la letteratura e le arti sono tracce di una “infanzia” che persiste nell’età adulta e che ci dà la forza di «criticare» le istituzioni, «il dolore di sopportarle e la tentazione di sfuggir loro»; per Eagleton «i bambini sono i migliori teorici, perché non sono stati ancora educati a accettare come “naturale” la routine delle nostre pratiche sociali» e perciò «continuano a porre agli adulti le domande più imbarazzanti». Naturalmente, nessuna di queste ipotesi è ingenua: l’infanzia non è ancora del tutto dentro, ma non è nemmeno più del tutto fuori. L’in-fanzia, quel qualcosa che precede il parlare, a rigore impronunciabile, è recuperata soltanto al prezzo di un paradosso.
Che per Ruffato la condizione bifronte dell’infanzia abbia a che fare con il problema della natura emerge da un altro tema persistente nella sua poesia, quello ecologico, sostenuto — specialmente in questi ultimi anni — da una vena di forte polemica politica, civile e morale (sia pure di un’etica declive per dirla nei termini della recente raccolta). Questo potrebbe sembrare un controsenso, perché al primo impatto la poesia di Ruffato appare difficile se non impervia, caratterizzata da spezzature e da smottamenti delle direzioni del senso, la più innaturale che si possa immaginare, se per naturalezza s’intende lo scorrere e l’immediato recepirsi della comunicazione. Ma il problema è un altro. Si tratta dell’utopia, appunto paradossale, di ritrovare il contatto con una natura che si può soltanto ipotizzare che si trovi al di là dei codici sociali costituiti. Per far ciò la poesia non può che giocare per i tentativi plurimi delle sue forme, sommuovendo con tensioni dinamiche il complesso del suo organismo. Per tentare un contatto con la naturalità che non sia rapporto di sfruttamento, occorre andare al di là della piatta e scontata naturalezza. L’innesto nel lessico poetico della terminologia medica, cioè di quella branca scientifica che ha a che fare con il corpo e perciò nella sua sintomatologia è costantemente costretta, se non vuole fallire, ad uscire dall’applicazione esterna del metodo per interagire con il processo vitale, la dice lunga su questo cortocircuito tra tecnica e natura.
Allora: «se non certamente / nell’endocogliersi al di là dell’oggetto / nell’anticiparsi riflessione più mobile / riproponendosi monumentum di contraddizione / a reinventare corpo e spirito oltre il muro», così recitano le Minusgrafie. La “minusgrafia” è per l’appunto una scrittura che tratta ogni elemento come “minore”, sia negativamente perché ne annulla qualsiasi pretesa di sopraordinamento gerarchico, di pregnanza e autorità (il nome stesso dell’autore e la sua proprietà privata del linguaggio vengono messi a repentaglio), consegnandolo in modo assolutamente paritario alla sintassi elencativa e giustappositiva del montaggio sperimentale; sia positivamente perché ne esalta le capacità innovative di istituire nuovi legami, a partire dalla stessa possibilità di modificare la propria costituzione sonora in nuove combinazioni creative. A questo punto l’ipotesi “minusgrafica” si potrebbe mettere in conto alla psiche individuale, vedendo nell’intervento che scolla il significante dal significato il “lavoro” dell’inconscio, in una felice esplosione di jouissance sulle tracce di Lacan e di Barthes. E certamente la lezione del ramo della psicoanalisi più attento al linguaggio è servita ad indicare a Ruffato la via maestra della sperimentazione poetica nella scomposizione degli oggetti verbali in relazione alla crisi di un soggetto “detronizzato” dalla sua pretesa di signoria e illusione di unità (reso “minore”, come si diceva: scritto con l’iniziale minuscola). Sennonché questo riguarda anche i soggetti “sociali”. Al versante psicoanalitico della sua poesia, Ruffato fa corrispondere un versante politico-ideologico in cui l’abbassamento al “minore” comporta la vibrante polemica contro il mito dello sviluppo, l’attenzione — che comincia a svilupparsi molto presto — contro i guasti dell’occidentalizzazione nel Vanitoso pianeta, contro le disuguaglianze che portano alla rovina il “proletariato mondiale” dei popoli del Terzo Mondo e in particolare dei bambini affamati, lo spreco delle risorse e un inquinamento che non è soltanto malattia dell’ecosistema e disagio della vita metropolitana, ma anche colonizzazione delle menti — un particolare accento è apposto da Ruffato alla omologazione della moda e dell’abbigliamento, quella che con un suo termine potremmo chiamare l’ideologia della veste.
Ora, va osservato che questa rilevante direzione polemica non parla “a tutta voce”, ma preferisce situarsi negli interstizi dei testi, tra materiali di altra provenienza. Tocchiamo esattamente il problema di una letteratura impegnata di nuovo tipo, così come è stato affrontato dal teorico dell’avanguardia Peter Bürger: con l’avvento di un’opera “disorganica” (frammentaria, snodata, squilibrata, eterogenea, dissonante e quant’altro) si offre all’impegno una nuova — e maggiore — chance: mentre con l’opera classicamente organica l’impegno doveva occupare il posto di dominio e coordinazione del senso, con l’effetto di controllare l’opera dall’esterno e di coartarla pesantemente a detrimento dei suoi stimoli estetici; con l’opera disorganica, invece, la politica si inserisce come una delle “parti” in una composizione a livelli multipli, in tal modo evitando ogni prevaricazione e entrando invece in una dialettica di tensioni con i materiali non direttamente politici: questi ultimi sono chiamati a confrontarsi con i messaggi “forti” del sociale; ma la politica che entra in poesia è a sua volta chiamata a essere un’ipotesi, una probabilità fra molte, a farsi sperimentazione politica più che verità già fatta o imperativo intimidatorio. Una politica che irrompe nel tessuto della lirica incide di più (è più critica, dialettica, produttiva) che se cercasse di condizionarla pesantemente o di assumerla al proprio servizio.
E il dialetto? Il dialetto, eletto da Ruffato a terreno principale di ricerca nella sua più recente stagione, appare subito in sintonia con la prospettiva “minusgrafica”, tanto da essere stato collaudato (in Padova diletta), proprio sotto la sigla della Minusgrafia dialettale. Il dialetto è, infatti, il linguaggio dell’età “minore”, vicino alla vita concreta dei corpi, meno pretensioso e autoritario della lingua ufficiale, nonché gerarchicamente tenuto in non cale da essa, ed oggi minacciato di sradicamento e addirittura di estinzione, al pari delle “specie da proteggere”, a causa dell’invadenza massmediale di un italiano impoverito, ripetitivo e ottuso. Ma la scelta di rilanciare le tonalità espressive del dialetto non assume solo il valore di una difesa, di una protezione del patrimonio comune, di un richiamo della memoria; si propone soprattutto come un innesto di energie vitali nel campo della poesia. Non si tratta tanto di salvare il dialetto con la poesia, quanto di salvare la poesia con il dialetto. In questa operazione, il dialetto si trova caricato di responsabilità esorbitanti da quelle che era abituato a sopportare nel regime della sua specifica tradizione poetica. Fuori da quel settore a parte e un po’ ghettizzato, il dialetto si ritrova spostato, straniato, rispetto al modo di applicazione abituale. Con ciò è posto in fuga ogni sospetto di recinzione municipalistica: il dialetto in Ruffato è costretto a giocare a tutto campo, al punto che da parte mia ho ritenuto di poter parlare di “sperimentalismo dialettale”. Ci troviamo di fronte a un plurilinguismo che rispetto alle fasi precedenti cambia la “base”, ma non il tipo di intervento esercitato su di essa. Già accennavo al titolo in latino: è una ben curiosa poesia dialettale questa che riceve al suo interno oltre all’italiano più moderno della lingua tecnica e teorica, anche la lingua del passato classica e antica, e insieme le lingue straniere di un presente sempre più internazionale... Il dialetto non è condannato a percorrere soltanto il cammino a ritroso della nostalgia, ma si espande altresì evadendo alle molteplici richieste dall’attualità. Da questo punto di vista il Ruffato dialettale potrebbe essere visto come esempio dell’odierno testa-coda tra le minute particolarità e l’estensione planetaria del mercato, quel contraccolpo tra il globale e il locale che ha dato origine alla crasi, piuttosto cacofonica a dire il vero, del glocale.
Una poetica aperta a una “rete” di forme, come di universi di pensiero e di linguaggio, a partire dal suo singolo “sito”. Se guardiamo a fondo la produzione dialettale di Ruffato (e oggi possiamo farlo con tutte le verifiche necessarie, grazie al grosso volume di Marsilio), rintracceremo, intrecciate o di volta in volta in volta emergenti dall’uno all’altro componimento, alcune prioritarie tendenze o funzioni; che vorrei enunciare in un ordine che va dalla maggiore alla minore consonanza (e prevedibilità) rispetto alla tradizione dialettale: 1) la funzione di ricordo e di ritorno al passato, che potremmo definire rievocatrice (forte anche della reviviscenza e vivacità espressiva dei termini dialettali); 2) la funzione di illuminazione lirica e simbolica, che potremmo definire evocatrice, che misura il grado di intensità e di felicità dell’espressione; 3) la funzione di polemica politica e ideologica, che potremmo definire provocatrice, che apre la prospettiva — per squarci, come dicevo, nell’organismo eterogeneo del testo — al problema della distruttività e dell’ingiustizia del modello di sviluppo; 4) la funzione di sperimentazione e di autocoscienza del linguaggio (quella tra tutte la più lontana dalla spontaneità che il dialetto per tradizione pretende di possedere), che potremmo definire convocatrice per la sintassi giustappositiva che consente la riunione dell’eterogeneo, oppure revocatrice perché sottrae alla poesia l’immediatezza dell’espressione. Il polimorfismo, come si vede, è tutt’altro che archiviato, nella fase dialettale di Ruffato; e le quattro funzioni, così sommariamente individuate, sono anche in grado di disporsi in un gioco di rapporti tale da disegnare un quadrato semiotico alla Greimas, al cui interno è possibile tirare di nuovo in ballo il problema della natura. Infatti, data la natura e il suo opposto, la cultura, e aggiunti i contraddittori, l’artificiale e l’infantile, otteniamo un primo quadrato su cui poi disporre il ricordo (connessione di natura e infanzia), il simbolo (connessione di infanzia e artificio), l’esperiemento (connessione di artificio e cultura), la polemica (connessione di cultura e natura). Questo il grafico:

Potremmo giocare con questa machinette, per orientare di volta in volta su un lato o su un vertice del quadrato ciascun testo di Scribendi licentia. Da parte mia (anche a costo di essere accusato di partito preso, visto che in questo senso va tutta intera la mia lettura di Ruffato, così come si è configurata nel libro pubblicato per Longo con Daniela Forni, La poesia di Cesare Ruffato), tenterò la verifica su di un brano che si situa prevalentemente dalla parte dello sperimentalismo, cioè da quella parte del quadrato che contiene le funzioni a mio parere più radicali, dove il dialetto fa il più lungo tratto di strada oltre i propria principia, convinto come sono che solo per via di degenerazione venga in luce quella paradossale e contraddittoria ricchezza del polisenso poetico che oggi mi pare l’unica vera forza della poesia. La licenza di scrivere, che Ruffato chiede nel suo titolo complessivo, si può intendere in entrambi i modi, sia come licenza di scrivere in forme diverse, sia come licenza di scrivere nelle forme non ammesse o non previste; ma è certo in questo secondo caso che assume le sfumature più licenziose. Il testo che commenterò brevemente è il secondo pezzo di Parure liquida, compreso in Sagome sonambole (p. 276 di Scribendi licentia). L’ho scelto come campione dalle quattrocento-e-passa pagine del Ruffato dialettale per alcuni caratteri contraddittori proprio sul tema suesposto della natura: lo scenario naturale qui descritto (il mare), è reso tutto culturale dall’invasione dei vacanzieri; il ritorno alla natura è un falso ritorno se la stessa nudità dei corpi sulla spiaggia è rivestita dal costume (pezzo di stoffa, ma anche costume in senso lato, usanza che delimita uno spazio di esibizionismo consentito). Ecco comunque il testo:

Esodo boada obligo de l’ano


spalanca sbreghi voje nel corpo
burana carmina in sfese da bagno.
Istà par desso scatarata, strussia
tintarela in lampi toni diete
unguenti che prama le onde del mare.
La pelle se sbronsa in pressa
de melanina, sbandiera pori
n’altro sugo del suóre e zogo look.
La tera smegolà sgnica el sfasso
del strato ozono, piove i raji
astiosi de elio che sfrégola riosi
i oci sansa lenti scure, scròcola
la pele svelinà de micropimenti
spalmai che sòfega la squaquera dose
ultravioleta fetente.

(Esodo a valanga obbligo dell’anno / spalanca lacerazioni voglie nel corpo / carmina burana in fessure da bagno. / Estate per ora apre cataratte, stenta / tintarella in lampi tuoni diete / unguenti che bramano le onde del mare. / La pelle s’ubriaca in fretta / di melanina, sbandiera pori / un diverso sapore di sudore e gioco look. / La terra smidollata piagnucola lo sfacelo / dello strato d’ozono, piovono i raggi / astiosi del sole che sbriciolano nocivi / gli occhi senza occhiali scuri, fanno bollire / la pelle senza rivestimento di micropigmenti / spalmati i quali soffocano la dose diarroica / ultravioletta dannosa).

È una scelta molto tendenziosa, come si sarà capito subito: perché qui del quadrato rimane soltanto uno spigolo. La funzione del ricordo è introvabile (scena al presente, “io” assente); la funzione simbolica ha difficoltà a decollare (mare e cielo irritati dall’animale-uomo, i raggi dell’illumination emettono rancore). La stessa funzione polemica non è espressa direttamente (se non forse là dove la terra si mette a piagnucolare), ma è piuttosto indicata dall’accostarsi delle immagini, quindi tutta subordinata alla sintassi, alla forma sperimentale del contenuto. Il dialetto si trova qui in una condizione paradossale: proprio dove sembrerebbe raggiungere il contatto con la natura (la riva del mare, i corpi nudi) si ritrova, proprio lui, il linguaggio “materno” per eccellenza, a constatare un irriducibile dissidio, cui non può opporre alcun rifugio consolatorio. L’uomo distrugge — e distrugge se stesso, se i desideri si trasformano in «sbreghi» del corpo; la natura di rimando per ritorsione lo bombarda con le sue “cataratte” e suoi raggi “dannosi”. Lo stesso tessuto linguistico è aperto da tutte la parti a tutte le tensioni, con i termini tecnico-scientifici (appena dialettalizzati: «micropimenti», «ultravioleta»; e c’è l’«elio» e lo «strato ozono»), le parole dell’attualità “virtuale” (il «look»), le citazioni culturali (i «carmina burana»), le parole della lingua comune (come «esodo», insieme biblico e giornalistico; e il «fetente», posto nel ruolo di dura clausola), che si intrecciano ai termini più coloritamente dialettali come un livello interpretativo si intreccia a uno espressivo. Il dialetto è qui decisamente impuro, non mima nessuna rimpianta origine, nessun parlante vergine. Ciò che maggiormente colpisce, in questo testo (e che fa compiere un bel salto davvero alle potenzialità del dialetto), è il taglio allegorico: ovvero la totale assenza di soggetti umani, proprio in una scena che dovrebbe essere affollata da un grande numero di persone. Gli agenti sono collettivi (l’esodo), naturali (l’estate, la terra), oppure parti del corpo (la pelle, gli occhi). Il corpo è un lacaniano corps morcelé. Tutto si svolge in uno stato di abbandono etico, in cui la stessa invettiva fa fatica ad alzarsi. Protagonista della poesia è soprattutto la pelle, una epidermide degradata e contesa, in una contraddittoria esposizione (a colpi di pomate e schermi vari) tra l’estetica e la fysis. Su questa superficie, involucro esterno o buccia screpolata che sia, dove non riconosciamo più alcun “simile”, viene costretto ad aggirarsi il linguaggio dell’intimità, della familiarità e della immediatezza. È un paradosso non da poco.
Nel condurre il dialetto nelle zone ad esso meno ospitali, sta la licenza di scrivere che chiede Ruffato. Gliela concediamo volentieri. In un’epoca in cui la poesia rischia di essere licenziata da una “industria inculturale” che pare riservare la complessità esclusivamente ai mezzi di comunicazione ma non ai messaggi comunicati, ben vengano queste licenze poetiche ancora capaci di farci riflettere e discutere: investire in esse il nostro tempo e il nostro lavoro di interpretazione è un valore a lunga scadenza, indispensabile a un aumento delle delle autentiche “forze produttive”.