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Nord, Sud e la poesia in dialetto
Dante Maffia
Un tempo la poesia dialettale veniva studiata dai filologi; i vari linguaggi regionali erano fonte
inesauribile di un materiale che offriva spunti per discussioni ampie e precise sulle etimologie, sulla
storia delle parole, sulle trasformazioni; che quei materiali fossero versi era appena un fatto casuale,
quasi da non considerare. Oggi invece, fermo restando che le cattedre universitarie si occupano dei
processi legati alla persistenza, alla perdita dei dialetti o al loro mutamento, i poeti in dialetto vengono
guardati con altro occhio, con altro riguardo, senza cioè il pregiudizio di poesia minore che da sempre
aveva accompagnato coloro i quali si erano espressi nella lingua del natio loco. Non solo, i critici
letterari cominciano a pensare ai poeti dialettali con un atteggiamento diverso, li includono, sic et
simpliciter, nel processo unitario dello sviluppo della letteratura italiana, processo che comunque mai
troppo unitario è stato e andrebbe ridiscusso nelle sue linee portanti e nelle sue implicazioni, a
cominciare dalla scuola siciliana, come, aveva intuito il Galiani già tanto tempo addietro'.
Parlare oggi di poesia dialettale però comporta, per molti aspetti, rischi che vanno dalla infatuazione
alla dialettomania, al pregiudizio inverso che vorrebbe le espressioni in italiano minoritarie rispetto
a quelle dialettali. E nata una specie di guerra e di conseguenze tutto si rivaluta, come sempre accade,
e tutto si scontra con le nuove istanze, tra abbagli e rivendicazioni, tra errori ed omissioni ulteriori.
Dal 1952, data dell'antologia di Pasolini e del1'Arco2 fino al 1984, non s'erano avuti libri più o meno
organici sui poeti dialettali; Tesio e Chiesa3 hanno colmato una lacuna, ma hanno anche messo una
pietra tombale sull'operazione culminante di Pasolini che io non ho mai letto come inizio, ma come
fine di un lungo percorso. Il quale, sia detto contro l'enfasi dei difensori, non apriva spiragli al nuovo.
Concludeva e basta, faceva il bilancio, ma non dava speranze future, semmai certificava l'abisso
definitivo entro cui era piombata la poesia in dialetto. Strano, perché l'operazione di Pasolini avviene
in pieno neorealismo; o forse non tanto strano, visto che allora i dialetti si utilizzavano per creare
effetti realistici, dolente strascico dell'ultimo Ottocento.
Prova ne sia che anche i poeti accreditati nel tempo ricevevano dai critici quell'attenzione che
rientrava nell'ambito di un rapporto mai disgiunto dal persistente pregiudizio del dialetto non come
lingua, ma strumento espressivo di serie B, e dunque inadatto, incapace di rendere al massimo e al
meglio ciò che dentro dettava. E non doveva essere semmai il contrario? Cioè non doveva il dialetto,
proprio perché nato col 'fiato materno", riuscire estremamente sicuro e perfetto e adeguarsi al mondo
interiore? Ma si comprende bene perché nacque tanta confusione, e perché addirittura Benedetto
Croce cadde nell'equivoco: ragioni sociali e politiche premevano per ricondurre tutti i parlanti ad un
unico alveo, in modo che fosse facile e immediato il recepimento dei messaggi e non ci fossero
variazioni nell'unità.
Si deve al Pancrazi la puntualizzazione di poesia in dialetto, ma anch'egli non andò oltre e si occupò
di un amio4 senza entrare dialetticamente nel vivo di ciò che era accaduto o stava accadendo, non
sfiorò neanche il vero problema: all'origine del volgare italiano tutto si era mosso in un gioco a
scacchi di dialetti che s'erano incrociati e spappolati, invasi l'un l'altro, fatti prestiti, fagocitati.
Adesso è un dilagare di studi, di libri, di convegni, di dibattiti, di antologie, di scoperte, di premi. IL
evidente che a ciò siano legate esperienze che vanno oltre il puro dato e si uniscano a più sottili
risvolti da misurare con le problematiche generali della poesia in lingua; sotto le mode si nascondono
crisi a volte enormi o addirittura rivoluzioni che hanno scelto da sè le vie tortuose (apparentemente)
per rivelarsi e imporre la loro mutata natura. Comunque, un elemento probante e tangibile di ciò che
sta accadendo è riscontrabile nella politica delle scelte delle grandi case editrici. Esse non hanno più
le remore del passato a pubblicare autori dialettali5, o libri di critica e di saggistica6 che facciano il
punto sulla situazione attuale e non sulla poesia in dialetto7 o antologie vigili a porre in rilievo tutte
le implicazioni che i dialettali hanno avuto nei vari secoli}. Non solo; protagonisti illustri della
letteratura ora si cimentano in saggi sempre più ampi e circostanziati (Beccaria, Fortini, Isella,
Contini, Stella, Segre, Corti, Stussi, Gibellini e si è finito qualche volta per dire che Delio Tessa è più
importante di Montale, che Vìrgilio Giotti e Biagio Marin sono migliori di Saba, che Michele Pane
e Vincenzo Anunirà superano Corrado Alvaro e infine che Pasolini e Zanzotto dialettali sono di gran
lunga più convincenti dei se stessi in lingua.
Spagnoletti, che da anni si sta occupando, con accanimento e rinvigorito entusiasmo, del problema
dei dialetti nella sua globalità, si è così espresso recentemente: "Non è mera ipotesi ormai che la
nostra poesia, negli anni che ci separano dalla scadenza del secolo, acquisti una nuova prospettiva,
osservata, come potrebbe essere, non solo sulla linea espressiva della lingua, ma anche su quella del
dialetto (dei vari dialetti). 1 risultatì ottenuti, che s'accrescono di stagione in stagione, - è questo il
punto importante, non servono più come un tempo ai van parlanti sparsi in ogni regione italiana,
gelosi delle proprie radici linguistiche, ma alla poesia medesima, al suo farsi e rinnovarsi. Il dialetto
non scorta più la poesia in lingua, come era accaduto nella letteratura del primo Novecento,
attardandosi su posizioni care alla lirica pura e a quella ermetica: al contrario si pone come
avanguardia espressiva, come stanno a dimostrare i casi più recenti, da Pierro a Zanzotto, a Loì, a
Guerra, a Scataglini, a Baldini (ed altri potrebbero essere citati). Il dialetto è divenuto, secondo una
profezia di De Sanctis, 'il nuovo semenzaio delle lingue letterarie'. Per il grande storico della nostra
civiltà letteraria, quella diversa condizìone lingua-dialetto poteva significare 'un ritorno alle fresche
sorgenti della vita naturale". Detto in sintesi, e con un'ottica positivista, era ciò che va predicando da
tempo Andrea Zanzotto nei suoi interventi sulla naiveté sublime del dialetto, discorsi che non ci
colgono più di sorpresa dopo Filò e Idioma"9.
A questo punto si comprende anche il perché della moda (oltre le dichiarate motivazioni
antropologiche) che cerca nella congèrie confusa e rumorosa, nella corsa folle alla valorizzazione del
dialetto, una identità forse perduta o sciupata, o da inventare dopo lo sbiancamento anonimo a cui
ci ha portato la poesia in lingua, esasperando solo in direzione del piano tecnico una ricerca vuota,
più o meno di realtà poetiche, ancorata esclusivamente a teorie o a riflessi di teorie che vengono di
lontano, a cominciare dal formalismo russo e dalla scuola di Francoforte per finire con le
scimmiottaggini del Gruppo 63 e con le recentissime riprese fallimentari degli stessi autori superstiti
dei convegno di Palermo per vedere di mettere insieme cocci che non potranno trovare adesione: già
all'epoca erano cocci e non vasi. La moda però non deve accecare fino al punto da confondere il
dialetto come fine e non come mezzo. Diversamente arriveremo a domandarci: "Dialetto o poesia?".
Voglio dire che l'operazione in atto presenta anche falsi problemi e mistifica insieme quando si
pretende di far rientrare nella poesia il vecchio e il nuovo soltanto perché è stato usato un "certo
linguaggio". Allora il tutto dev'essere convogliato nel rapporto dialettico etico ed estetico - tra lingua
ed espressione, fra strumento e realizzazione, poiché la crisi è più profonda e più larga di quanto si
sospetti e investe il senso primo e ultimo della poesia, la sua funzione, il suo stesso essere. Certo il
sospetto che l'uso-abuso dei dialetto sia la spia d'un disfacimento linguistico che sta sfociando piano
piano in insospettabili disfunzioni, altrimenti come spiegare il rifiuto di alcuni addirittura a leggere i
testi dialettali anche in traduzioni, visto che le loro letture per nove decimi sono traduzioni da lingue
straniere? Non si può avere lo stesso atteggiamento nei riguardi del dialetto? Le traduzioni del resto
si sono infittite e lo "stile da traduzione" prende sempre più quota, come aveva preconizzato
Quasimodo. I dialettali non si leggono, per lo più, in traduzione?
Allora la poesia in dialetto assume un significato che va ben oltre la moda e s'inserisce in quell'ansia
d'avanguardia di cui parla Spagnoletti, che non sottopone la sua visione a un (lato di parte.
Se è vero che il dialetto "non scorta più la poesia in lingua" ciò vuol dire che non è utilizzato a scopi
di ricalco o di parodia, non è più nemmeno sfruttato per cogliere il sentimento intimo popolare, per
descrivere il bozzetto, compendiare la battuta, l'arguzia del personaggio d'un luogo. Questo scotto
dovette pagarlo financo un poe t a come Belli, che poi però seppe uscite per sua bravura e -genialità
e non perché avesse chiara la funzione del dialetto nella chiave attuale.
Detto questo, comunque sorge un altro problema: finché il dialetto contribuiva a rinsanguare la linfa
spesso scialba della lingua, restando sempre subalterno, affluente, si poteva guardare ai casi dialettali
con accondiscendenza e benevolenza. li più delle volte erano gli studiosi locali a comprendere la verve
sotterranea, la "naiveté sublime", a rendere omaggio a questi scrittori fatalisticamente minori,
condannati in anticipo alla marginalità o messi sugli altari per motivi diversi, comunque lontani
dalla letteratura propriamente detta. Un esempio ci è dato da Gualtiero, Russo e Di Giacomo.
Quest'ultimo accendeva le folle per le sue canzoni (spesso liriche musicate), uscendo fuori dal solco
positivistico, da quello della cronaca (a differenza di Russo), per assestarsi su un piano lirico-narrativo
con connotazioni e movenze simbolistiche e non trovava tuttavia quelle accoglienze della critica, che
solo recentemente ha compreso come Di Giacomo sia anche alle origini innovativo. Del resto i
presupposti erano la comprensione e non valevano gli esempi del teatro veneziano di Goldoni a
smottare una posizione che tra l'altro veniva perennemente osteggiata. Al punto che Tullio De Mauro
e Mauro Lodi, nello studiare il fenomeno, hanno parlato di dialettofobia e di mito puristico "che vede
il dialetto come deviazione, errore, corruzione, incultura. ]~ l'idea, come si disse nella pedagogia del
tardo Ottocento, del dialetto come malerba, che la scuola dovrebbe provvedere a sradicare"".
La moda è un fatto, ma alla base della scelta del dialetto, ora, da parte di alcuni poeti stanno ragioni
molteplici e una in particolare: i poeti non scelgono, sono trascinati da un'esigenza (irrazionale?
indotta? determinata? intuita?) imprescindibile e improrogabile, che non ha nulla in comune con quella
che una volta si chiamava ispirazione. Si tratta di uno svilupparsi interiore di suoni che fanno ressa
e accendono, prima ancora che un senso, una musica rigeneratrice da cui poi scaturisce la poesia. Del
resto, non è sempre avvenuto questo anche in lingua?
Quando sono state fatte le distinzioni tra lingua quotidiana, del parlato, e lingua della poesia, si teneva
conto dello iato esistente. lato che non si debellerà mai e non perché il petrarchismo abbia deciso (ha
contribuito, questo sì), ma perché la lingua della poesia è lingua che appartiene solo a chi la usa. E
chi sì esalta o partecipa o si accende nel leggerla lo fa naturaliter su riflessi nuovi, tutti suoi, di cui
il testo è semplicemente spinta, orma, brogliaccio. Come si spiegherebbero altrimenti le esaltazioni
per testi di cui si sente o la maestosità o la musica o lo scavo nel mistero, o altro e altro senza
comprendere logicamente ~
Come si spiegano poi le traduzioni? Il fascino rimane, l'adesione a volte è altra, eppure sono mutate
le parole, e il senso e il suono e la musica e il ritmo e il tono. Dunque l'importante è che nella poesia
si riesca a far filtrare - sentita, totale - la magia ch'è nel poeta; chi leggerà, comunque mutato in altre
sillabe, in altri accordi... dovrà percepire quella magia, quel fulgore, quel furto perpetrato ai danni del
mistero. Diversamente è solo tecnica, l'orma vuota, riverbero d'una immagine infeconda e l'ernia al
descrittivo.
Ma all'interno dei discorso sui dialetti, poesia dialettale o in dialetto, deve t'arsi un'altra considerazione
(sia per quanto riguarda gli inizi e i secoli precedenti il nostro, sia per quanto, e forse soprattutto,
attiene al nostro secolo): il Nord ha avuto uno sviluppo molto diverso da quello dei Sud (una volta
tanto il Nord in perdita, e mi riferisco al concetto di dialetti come "testimoni preziosi di storia civile
e culturale... intrisi dell'intelligenza e della fatica, del sapere intellettuale e delle esperienze culturali
delle popolazioni che li hanno parlati e parlano"12, ha subito, per via degli scambi economici e
commerciali, un'acculturazione pressoché selvaggia, dapprima di vassallaggio (lo stesso che l'Europa
sta pagando alla lingua inglese ora) alla Francia, all'Inghilterra, alla Germania, all"Olanda, agli USA
e poi di sfida , di rincorsa, eliminando, evidentemente, l'apporto delle proprie radici e distruggendo
i residui di quel lievito che avrebbe dovuto caratterizzare il proprio patrimonio e renderlo meno
"internazionale", meno anonimo. I dialetti, anche quelli che sembrano più chiusi e arroccati nella
tradizione, si sono aperti, svelati, sono sdrucciolati su ibridi che hanno snaturato la originaria energia.
Essa li le-ava alle cose, a-li uomini, alla terra, al lavoro. Sono diventati dialetti in trasformazione
rapida e con interscambi notevoli.
Il Sud, in genere, non ha avuto questa ventura; se si escludono la radio e la televisione (per parlare
soltanto degli ultimi decenni), ma anche sii questi media ci sarebbe un lungo discorso da fare sul
Meridione a proposito di un particolare uso e a proposito della possibilità di acquisto degli
apparecchi, non si sono avuti altri canali che abbiano violentato gli idiomi. I giornali inesistenti o
quasi, gli scambi a zero, l'analfabetismo intorno al 5054 della popolazione, il cuore dell'Europa
lontano, un miraggio. Così, da una parte alcuni dialetti sono stati messi a confronto violento con il
linguaggio curiale-politico adottato dai giornalisti televisivi e hanno trovato una spinta regressiva di
conservatorismo nostalgico e direi privo di senso che ha prodotto, nell'opposizione debole e
strascicata qualche odore o sapore dei tempo che fu, poeti cantastorie epidermici, prolifici e
approssimativi e dall'altra ha creato una coscienza dei dialetto (fuori dallo "sfruttamento
-glottologico" di Rholfs e dei suoi seguaci) che ha fatto da specchio a una realtà comunque in
movimento e affacciata al nuovo. Tuttavia essa aveva bisogno d'un sasso per progredire nella
direzione giusta e trovare la strada maestra della poesia che sempre è legata al tempo della perennità
e al proprio tempo insieme. Il fenomeno appartiene a quasi tutte le regioni italiane che vanno dalle
Marche in giù.
Questa coscienza, polverosa, in combattimento con la lingua che veniva propinata dagli speaker
radiofonici e televisivi, si dibatteva in direzioni contrastanti incapace di trovare una via d'uscita che
non disperdesse la forza dei dialetto e nello stesso tempo riuscisse a legarsi in maniera indolore al
circuito nazionale. Cercava la via della poesia, quella che potesse risuscitare a un tempo l'identità dei
padri (delle madri) e potesse ribaltare la condizione umana e sociale verso approdi dei futuro. Un
passo non facile, perché la sirena dei dialetto, per la maggior parte di coloro i quali lo scrivono o lo
parlano, non accettava, sulle prime, la distorsione del rinnovamento, la scommessa del rinverdimento.
L'arcaicità era garanzia di un qualcosa di eterno che andava rispettato, conservato e accudito e non
contaminato. Solo quando le cose sono precipitate e il Sud ha dovuto pagare uno iato storico
ulteriore enorme perché catapultato direttamente dal consumismo al postmoderno senza un'adeguata
crescita ed esplicitazione degli accadimenti e senza un giusto inserimento, e senza una valutazione
dei valori in atto o del patrimonio culturale esistente, sia esso linguistico o storico, ci si è reso conto
che comunque il mondo aveva camminato e bisognava trovare un anello che tenesse bene e reggesse
all'urto della rincorsa. A questo punto il dialetto è rientrato (senza dubbio corrotto, abbrutito,
dilacerato e quindi diverso) a reggere un'identità che rischiava non solo di perdersi, ma di diventare
guazzabuglio di intenti moralistici, e ha ripreso a circolare per evitare d'essere inghiottito dal mostro
suadente del parlare incolore. Non si trattava di conservare il "maggior numero di memorie
possibili", come sosteneva Alvaro13, semplicemente bisognava porre una barriera allo sfrangersi di
tutto, perché il dialetto significava argine e dichiarazione d'origine, presa d'atto del proprio essere,
alternativa, distinzione, diversità di musica. Le aggregazioni erano miste e, a parte il gergo giovanile,
i dialetti si incrociavano con quel solito timore riverenziale da parte di pugliesi o lucani o calabresi
o siciliani che stentavano a dire semplicemente, come ora accade: "Perché sarebbe più bello il tuo
dialetto?".
Superata la fase dei timore, della vergogna, come se gli altri dialetti, quelli del Nord, fossero egemoni,
i ragazzi del Sud finalmente - anche questa un'altra apparente contraddizione visto che si andrebbe
verso un'omologazione della lingua - si esprimono nel loro dialetto quando rispondono ai coetanei
di 'Forino. Insieme si ascoltano le canzoni straniere, per lo più inglesi, insieme si usa la gestualità, ma
se l'altro ha diritto a dire la sua nel proprio dialetto, anche quest'altro la dice e ride. Stridere di suoni
che assorbiti, messi alla berlina, sì registrano in un linguaggio supremo. Questa nuova espressione se
non diventa poesia in senso diretto lo è sicuramente lato, in quanto prodotto di due realtà mobili che
si abbracciano senza escludersi. Insomma i (1,iovani del Sud mostrano ormai di riconoscere il proprio
ambiente in un riflesso dialettale e non solo più gergale. Risulta dunque chiaro che, non essendo
avvenuto nulla di simile al Nord, lo scrivere in dialetto in Sicilia o in Sardegna o in Calabria o in
Campania è stata una scelta, più che una difesa o una moda; è stato un sentirsi parte viva di una terra,
un obbligo per portare il se stesso intatto (marginale ma non fasciato dalla falsità della koinè nazionale
radiotelevisiva) all'attenzione di tutti, una maniera per ribadire la propria presenza agnino e culturale
nella sua integrità e nelle sue componenti originali. E' il caso di Albino Pierro, dì Tursi, alla poesia
del quale Mengaldo riconosce:
"Quasi allo stato puro, il necessario paradosso (e la possibile impasse) di una pane dell'attuale poesia
in dialetto, che da veicolo di messaggi socialmente aperti e comunicativi tende a farsi sempre più
linguaggio gelosamente individuale, quasi endofasico, Per Pierro credo che non sia soltanto così,
come sostiene Mengaldo, perché mostra piuttosto una solarità, anche là dove la morte si sente
camminare, "una capacità musicale, nonostante la durezza dei suoni e la forte dissonanza dei ritmi,
nel rievocare taluni aspetti della religiosità meridionale, i miti di un'austera civiltà dell'uomo legato
alla sua terra, ora però sottoposta all'angoscia di un'imminente perdita d'identità"1-5. Certo, c'è la
difficoltà della lettura (che Mengaldo non rileva per i poeti dell'area settentrionale), ma questo non
dovrebbe significare endofasia, a meno che non si voglia ricorrere alla lezione pascoliana di 1ingua
della poesia, sempre una lingua morta"16 che ci troverebbe d'accordo completamente, perché non
esiste la presa diretta tra il poeta e il lettore, non può esistere per ragioni semantiche anche troppo
ovvie: le interpretazioni, e prima ne ho accennato, sono sempre un parziale riscontro, o un'aggiunta
al testo.
Chiarito questo, allora si può riprendere con tranquillità la constatazione critica di Spagnoletti, cioè
riparlare di "avanguardia espressiva" in atto. Naturalmente bisogna avere lo stesso atteggiamenti che
di solito si ha con la poesia straniera (sia essa milanese o lucana, calabrese o torinese, pugliese o
veneta) e non supporre una finta conoscenza dì ciò che in effetti non è morto, ma è in agonia. L'uso
che ne fanno i poeti invece è un uso (e le teorie possono inventarsi mille pretesti giustificativi)
individuale, un uso di cadavere che risuscita. Ma intendiamoci, anche per la lingua è sempre così: il
poeta risuscita (o fa nascere dal nulla), non si serve del già vivo.
~' in questa scia (che tra l'altro toglie ambasce e timori nei confronti dell'ufficialità, ciò invece non
succede, non è mai successo, che so, al rumeno, al francese, allo svedese, allo spagnolo) che
finalmente i poeti del Sud trovano la loro dimensione espressiva senza preoccuparsi di debiti dell'altro
ad aderire. Non avvenendo più lo snaturamento o l'uso-abuso si riesce ad essere se stessi e si hanno
dunque poeti riconoscibili (e non solo versificatori e cantastorie che pullulano) anche nelle regioni del
Sud dove, se si escludono il siciliano e il napoletano con una nobile tradizione alle spalle (il
riferimento è naturalmente ai poeti) non si erano avuti riscontri se non occasionali e comunque a
mezza strada tra il bozzetto e la descrizione, che pure interessavano, visto che, per esempio, A pippa
del calabrese Vincenzo Ammirà fu tradotta da Byron, seppure credo per amore al comune vizio del
fumo.
I poeti meridionali dunque hanno ritrovato la forza di non assomigliare alla serie di vestiti su misura
dei grandi magazzini ni"17 e si esprimono in piena libertà, finalmente, usando il loro dialetto (così
diverso addirittura da paesino a paesino) con la medesima convinzione con cui gli scrittori toscani
hanno nel Cinquecento usato il loro. I risultati di conseguenza sono stati di rilievo, poiché gli autori
hanno cominciato a frantumare il reale senza restare più alla superficie, hanno abbandonato le esperienze personali (non tradendole) per una vertiginosa presa di coscienza dei mondo e se ne sono
appropriati senza doversi spogliare dì quel patrimonio che è genetico e che incontrandosi
col diverso potrebbe, se disarmato, perire. Anch'essi, come ad esempio Biagio Marin, adesso possono
aderire "perfettamente ai contenuti lirici attestando la fedeltà... alla natura dell'ispirazione"18.
E' una conquista eccezionale, che le ragioni accennate all'inizio non avevano consentito, anche se
l'Accademia di Svezia aveva dato l'esempio di un ribaltamento premiando scrittori e poeti di aree
linguistiche minoritarie.
Nel Sud, dunque, è avvenuto un fenomeno per la prima volta consistente e di qualità, almeno per
quanto riguarda la poesia; i poeti in lingua, per gran parte, continuano a muoversi tra carduccianesimo
e pascolismo o imitano (senza ragioni plausibili o necessità interiori) Giovanni Raboni, Antonio Porta,
Nelo Risi o le ultime propaggini, la retroguardia dello sperimentalismo; quelli che si esprimono in
dialetto, invece, sembrano muoversi con disinvoltura all'interno di realtà - lontane o vicine - che hanno
saputo trovare il senso profondo e la necessità del canto. Non sembrano aver saltato nessun
movimento letterario o scuola, non sono in ritardo rispetto a ciò che è nel frattempo accaduto
dappertutto.
Per dare un'idea di quel che sta avvenendo mi sembra doveroso fare qualche nome di poeta che in
questo clima di rinnovamento sta cercando di inserirsi, con difficoltà e caparbietà, ma anche con la
coscienza che nelle trasformazioni le perdite sono sempre ingenti e la possibilità della confusione,
della mistificazione, della indifferenza è in agguato, pronta a ghermire e a riportare al passo del
gambero. Il dialetto, infatti, illude con facilità molti poeti, li fa sentire al centro di un'attenzione che
ha spesso connotati antropologici o fisiologici o li mette a interpretare una realtà già morta, non in
divenire, il che equivale a dire che essi si trasformano in becchini di nostalgie, in demagoghi di
un'archeologia senza lievito.
Vediamo dunque un po', per regioni e, naturalmente, per sommi capi, la mappa che si sta formando
e si è formata negli ultimi decenni.
Cominciamo dalla Lucania, avendo già citato Albino Pierro. Prima di lui v'è stato un fiorire
interessante e, secondo me, abbastanza trascurato dagli studiosi. Per esempio nessuno ricorda più
Raffaele Danzi, di Potenza, che nel 1879, con la Tipografia Saltanello pubblicò una Raccolta di
poesie a dengna Putenzese (ristampata poi nel 1912, sempre a Potenza) e nessuno ricorda Vincenzo
Granata, di Rionero in Vulture, del quale scrisse perfino Giustino Fortunato.
Ma bisognerebbe forse rileggere anche Marco Sabia, di Avigliano, un prete che ricorda, per molti
aspetti, l'altro di Dipignano di Calabria, Duonno Pantu. Di Avigliano era anche Pietro Laguardia,
farmacista del posto, le cui liriche sono rimaste, ancora oggi, per la gran parte inedite.
Ma altri nomi non mancano, dal materano Francesco Festa, che nel 1855 pubblicò Poesie e Prose in
dialetto Materano, al potentino Luigi Verrastro e all'altro aviglianese Antonio Labella, fino a Michele
de Carlo, che ha alternato la scrittura in dialetto con quella in lingua.
Pierro ha continuato questa tradizione portandola a esiti migliori ma senza tuttavia sottrarla
interamente alle facili cadenze settecentesche di un Algarotti, di un Frugoni, di un Gozzi e di un
Metastasio, anche se svuotate da quegli echi concentrici ai quali oli autori citati ricorrevano per
rendere melodrammatiche le risonanze e i ritmi.
D'altra fattura, grazie ai rivolgimenti avvenuti nel frattempo sia nel campo della poesia in generale e
sia in quello della poesia in dialetto, sono i versi di Andrea Ianniello, medico di Irsina, membro
dell'Accademia Universale Orazione di lettere e scienze, con all'attivo una pubblicazione, del 1981,
dal titolo Giochi di parole.
Con Rocco Brindisi, Raffaele Negro (l'Autore de I fuochi del Basento e de La contessa
dell'Olivento), Vito Riviello (che aveva già dato prova della sua presenza poetica in lingua, da
ricordare almeno L'astuzia della realtà, prefato da Paolo Volponi e Assurdo e familiare, prefato da
Giovanni Raboni) e Roberto Linzalone anche la Lucania dialettale muta il suo atteggiamento nei
confronti della realtà e adopera i dialetti senza timore reverenziale e senza tenerli ancorati al tono
scherzoso, giocoso o patetico; basti dire che la consueta vena comico-giocosa di Riviello nel dialetto
si tramuta in ironia drammatica che incide sulle cose- con graffio moderno e sincopato e notare che
in Negro il dialetto, come scrive Leonardo Mancino, "tenta e vuole fissare l'inesprimibile ed uscire
dalla subalternità inventando il nuovo linguaggio nel rispetto della consuetudine espressiva".
La Pu21ia, che nel nostro secolo s'era segnalata per alcuni "piccoli maestri" in lingua (Vittorio Bodini,
Raffaele Carrieri, Gerolamo Comi) ha trovato, dopo l'operato espressosi nel solco della tradizione
più canonica di Francesco Antonio D'Amelio, Emilio Consiglio, Francesco Saverio Abbrescia, Davide
Lopez, Giuseppe De Dominicis, Antonio Nitti, Giacomo Strizzi, Filippo Maria Pugliese, Francesco
Ferrara, Antonio Gabrielli, Enrico Bozzi, Oberdan Leone, Francesco Marangi, Trifone Nutricati,
Agostino Chiementi, Giuseppe Marzo, Nicola Patitari, Francesco Castrignano, Angelo De Fabrizio,
Arcangelo Lotesoriere e Antonio Torro, un fiorire rinnovato e interessante che passa innanzi tutto
per i due poeti ormai ritenuti più importanti: Pietro Gatti e Nicola Giuseppe De Donno.
Ma non sono da trascurare poeti come Ermino Giulio Caputo (si ricordi almeno La chesùra uscito
con Capone Editore), anche se nato a Campobasso, Urbano Vincenzo, di Telizzi, che però si esprime
in dialetto romanesco e Gianni Custodero.
De Donno è nativo di Maglie, in provincia di Lecce. Donato Valli così ce lo presenta. De Donno
mostra la sua "proprietà più rimarchevole ... nel raggiunto equilibrio di dottrina e di istinto, di scuola
e di natura, dal quale derivano la riqualificazione delle possibilità espressive del dialetto e il
riconoscimento della dignità artistica, non più affidata alla concezione romantica di una ritornante
fanciullezza e barbarie in alternativa con le sofisticazioni e l'anonimato della cultura e della civiltà
industriale..."19. De Donno è raffinato, non tradisce la sorgente primaria che muove la sua necessità,
e la sua poesia ne guadagna in fuoco e in trasparenza, proiettandosi su un piano realistico-lirico che
non disdegna neppure gli strumenti della tradizione dosati e temperati e portati a soluzioni nuove, sino
alla più acerba polemica politico-sociale, per certi aspetti idealmente vicina al calabrese Nicola Giunta.
Diverso è il caso di Pietro Gatti, barese, ma sempre vissuto a Celie Messapico, dove ha lavorato come
impiegato dei comune. Le sue due raccolte (ma sappiamo che il poeta ha molti inediti) A terra mese
del 1976 e Memorie d'avere e de Joyce, del 1982 (Gatti, si badi, è nato nel 1913) offrono, con nota
d'intensa tenerezza e di abbandoni delicati, una realtà che pare sorgere dalle contrade e dagli occhi
degli uomini per farsi sguardo perenne, fluire nel quale perdersi almeno un istante della giornata e
ritrovarsi nella dimensione vera di una umanità che non ha perduto nulla dei sani, antichi valori
dell'esistenza.
Ma la Puglia, a conferma dell'annotazione di Spagnoletti sull'accrescimento dei poeti in dialetto
(qualità e quantità) di stagione in stagione"20
C , ha dato ultimamente altre sorprese: Salvatore Fischetti, Peppino Zaccaro, Guido Manfredonia,
Domenico Rignanese, Michele Muschitello, Lino Angiuli, Francesco Granatiero. Gli ultimi due hanno
mostrato non solo di credere fino in fondo in ciò che fanno, ma si stanno adoperando affinché tutta
la poesia in dialetto acquisti maggiore notorietà e si affermi nella sua dimensione reale, che sempre
più prende connotazioni ampie e complesse. Il dialetto ormai, non mi stancherò mai di ripeterlo, è
riuscito a mettere in crisi tradizione e avanguardie, ponendo dei dilemmi e dilacerando ancor più quel
tessuto connettivo della lingua inespressiva che per secoli si è impantanata nei rigurgiti della
genericità. Se è vero ciò che ha sostenuto Antonio Gramci: "Ogni volta che affiora la questione della
lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l'allargamento della
classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa
popolare nazionale, cioè di riorganizzare l'egemonia"21; altrettanto vero è ciò che afferma Roland
Barthes: "tra lingua e stile c'è posto per un'altra realtà formale: la scrittura" che "è una funzione: è il
rapporto tra la creazione poetica e la società, è la forma colta nella sua intenzione umana e legata così
alle grandi crisi della Storia"22. Stiamo infatti vivendo una crisi di mutamenti (caduta delle ideologie,
caduta del muro di Berlino, eccetera) e di conseguenza la scrittura diventa sempre più una funzione
che però assume intera la sua portata soltanto quando riesce ad assumere nelle sue cifre pienamente
il rapporto sociale e politico che intercorre tra uomo e società. Ora io mi chiedo se oggi vi sia una
scrittura che con maggiore energia di quella adoperata dal dialetto sappia ridare alle cose il loro senso
e la loro portata, la loro angelicità e la loro pienezza. Anche un dialetto come quello pugliese che, in
generale, mostra scabrosità di suoni e sobbalzi di ritmi, quando è usato come espressione che giunge
dalla divinazione delle cose e dei sentimenti assume una valenza nuova, capace di riportare perfino
i dati antropologici e demonologici su un piano di poesia.
Angiuli, che ha fresco di stampa un libro dal titolo Di ventotto c'è n'è uno, riceve forme e cadenze
proprio dal serbatoio rurale e, senza nulla togliere ai "ritratti" o al "bozzetto", rinnova la calda vivacità
d'una realtà che si muove e anela ad altro. Granatiero, anch'egli legato, con la memoria, al mondo
contadino, sfugge a qualsiasi parvenza di idillio soprattutto con la qualità del suo dialetto che si affida
allo scandaglio di "reperti" linguistici utilizzati con forza d'urto e d'evocazione.
La Calabria è un capitolo molto particolare: è la regione (con il Veneto) con più poeti, con
versificatori disseminati ovunque: si calcola che soltanto a considerare i viventi il numero è superiore
a cinquemila con almeno un libro già all'attivo. Una marea, per lo più insulsa e inutile di cui perfino
la portata sociologica è difficile da discutere.
Pasolini antologizzò Michele Pane. Ma bisogna non dimenticare Duonno Pantu, Vincenzo
Ammirà, Vincenzo Padula, Mastro Bruno, Vittorio Butera, Ciardullo, Nicola Giunta (comunque
già noti per essere stati antologizzati da Tesio e da Spagnoletti e Vivaldi) e Giacinto Benedicenti,
nativo di Rogliano Calabro, che però scrive nel dialetto di Serrapedace, Gustavo La Pera,
Agostino Pernice (di cui scrisse Antonino Anile), P. Sema, Conia, Creazzo, Enotrio, Carlo Nardi.
E poi Vincenzo Franco, autore del libro Cosiceddi, uscito nel 1923, e anche di studi pregevoli sul
dialetto, Giovanni Patari (studioso di Boccaccio, di Tasso e di Milelli), Giovanni De Nava
(tradotto in inglese e tedesco, in quest'ultima lingua dal famoso romanziere Paolo Heyse), Pietro
Milone, Attilio Adamo, di Altilia, comune di cui è stato sindaco per tre legislature, Carlo Branca,
di Catona, per il libro Canti r'a terra mia, vincitore del premio Rosarno nel 1984, Salvatore
Albanese (nipote dell'altro dialettale Giomu Trichilo), sacerdote a Gioiosa Jonica, e poi Giuseppe
Ginestra, Teresa Scali, Mimmo Staltari, Carmelo Stefanello (poeta contadino) e poi il figlio di
Ciardullo, Ciccio De Marco, l'ex senatore socialista Gino Bloise, il medico comunista Giacinto
Luzzi, Rocco Franco, di Roseto Capo Spulico, Giuseppe Arabia. L'elenco potrebbe proseguire
per decine di pagine, ma non darebbe che un quadro piatto e monotono di quel ritardo tanto
spesso messo in rilievo anche per i poeti in lingua.
I poeti dialettali (questa volta uso di proposito dialettali e non in dialetto) della Calabria si sono
mossi (e per la casi totalità continuano a muoversi) in quell'indugio nostalgico che ha chiuso le
versificazioni entro confini angusti di belle maniere, pateticamente votate al racconto stereotipo.
Qualche volta i racconti si sono tinti di coloriture politiche, ma senza forza o autenticità, altre volte
invece hanno organizzato, con qualche spiritosaggine, "fattarelli" per creare piccoli monumenti alla
plebe. Ma la plebe del Belli è rimasta lontana e sconosciuta. Naturalmente, in questo mare immenso
di nomi e di libri c'è da salvare qualcosa dalla documentazione cartacea, per esempio Perché non mi
spusai di Vincenzo Chiefari o alcune poesie scelte dalla vasta produzione di Achille Curcio.
A parere di Franco Loi però anche in Calabria c'è stata ultimamente una svolta che, a parte lo
scrivente, è portata avanti da Stefano Marino di Reggio Calabria.
Dove il risveglio è stato salutare e ha trovato impennate - pur nella diversità d'accenti e di temi
- è stato l'Abruzzo. I nomi da segnalare sono Giuseppe Rosato, che già affermato come scrittore in
lingua adesso trova accenti suggestivi ed efficaci, tanto da far scrivere a Vito Moretti: "Il dialetto dì
Giuseppe Rosato, analogamente ai contenuti delle liriche e ai temi di riflessione sviluppati, si presenta
con registri e timbri che non hanno nulla di convenzionale"; Pietro Civitareale, parlando del quale
Oreste Macrì afferma d'essere "Sempre più convinto che la dialettalità è una categoria interiore" da
poco ha dato alle stampe Vecchie parole; Marcello Marciani che approdando al dialetto dimostra un
modo più persuasivo di entrare nelle argomentazioni e nel penetrare il mistero dell'esistenza; Cosimo
Savastano, che scrive nella lingua antica di Castel di Sangro; Vittorio Monaco, che recentemente ha
pubblicato Specie de vierne con una prefazione di Alfonso M. Di Noia; Vito Moretti che con una
prefazione di Tullio De Mauro ci offre Déndre a na storie trovando accenti di poesia colta e raffinata
che allontanano caparbiamente il dialetto dai fantasmi del passato.
La poesia di Ottavio Giannangeli, che ha lavorato molto anche nel campo della critica letteraria
occupandosi dei dialettali abruzzesi e di Montale, si offre su due versanti, quello che potremmo
chiamare, in senso lato, civile, e quello intimistico. Sia l'uno che l'altro hanno in sè la "gravità" di una
saggezza che analizza e compendia se stesso di fronte alla società che sempre più si muove verso
frontiere ampie. Giannangeli non disdegna di trattare avvenimenti della storia recente e lo fa senza
però cadere nella pesantezza del dato, perché la sua lingua scarta da sè il superfluo e la poesia
guadagna in scatti lirici e narrativi molto belli. I nomi sono stati fatti senza seguire un percorso
cronologico, per informare il lettore, soprattutto per mettere in rilievo come da un po' di tempo a
questa parte sia i poeti più giovani che quelli educatisi alla lezione di Cesare de Titta, di Modesto
della Porta, di Alfredo Luciani, di Umberto Postiglione e di Vittorio Clemente abbiamo fatto passi
avanti.
E' il segno della trasgressione e del rinnovamento, quello che al risveglio accompagna la necessità
dì ritrovare la propria identità, le proprie radici senza chiudersi per il confronto. Del resto la
tradizione era ampia e variegata e gli esempi di Luigi Anelli, di Luigi Dommarco, di Luigi
Renzetti, di Luigi Brigiotti, Vincenzo Ranalli e Fedele Romani avevano sollecitato i giovani ad
affondare nel proprio mondo per trame vigore e novità e mettersi alla pari coi tempi, insistendo
addirittura sui contenuti da trattare.
Altri nomi da segnalare, per ragioni diverse, sono: Alessandro Dommarco, del quale si sono
occupati Mario Sansone e Tullio De Mauro; Emidio Magazzeni, Michele Ursini, Nunzia
Chiocchio di Cocullo.
Il Molise ha Eugenio Cirese, del quale ha messo in luce l'importanza, ultimamente, Sebastiano
Martelli in più d'una occasione, ma bisogna ricordare anche Emilia Altieri, di Isernia, Carlo Cappella
di Termoli, Ermanno Catalano (nato a Trento da genitori molisani), Mario De Lisio, Rosa De Rauso
Silvestri, Nicolino Di Donato, Antonio Romano, Giuseppe Jovine, Pietro Mastrangelo, Domenico
Meo, Angelo Sacchi e Giose Rimanelli, che dopo una attività intensa di narratore e di giornalista,
dagli Stati Uniti ha ripreso un filo ideale con la sua terra d'origine proprio attraverso il dialetto,
scrivendo ballate e canzoni che da una parte rispettano i moduli della tradizione lirico-canora e
dall'altra sincopano e variano con infrazioni da musica jazz.
Altrettanto ricco il parnaso della Sicilia. Probabilmente grazie alla tradizione poetica e teatrale in
dialetto i poeti si sono moltiplicati con un crescendo forse maggiore di quello calabrese.
Esiste un'antologia edita negli anni trenta che presenta trecento autori dìalettali, e poeti che scrivono
in siciliano sì trovano ovunque. Tralasciamo, anche perché poco conterebbe ai fini del nostro discorso
sul rinnovamento e sul senso attuale del concetto di poesia dialettale, i poeti classici e ricordiamo
soltanto quelli che all'inizio del nostro secolo cominciarono quel cammino che poi ha portato a
Salvatore di Marco, Mario Grasso, Calì, De Vita, Giuseppe Giovanni Battaglia.
Ricordo Alessio Di Giovanni, Giuseppe Foti, Francesco Guglielmino, Nino Martoglio, Vito Mercante,
Martino Palma, Nino Pappalardo, Saru Platania Vanni Pucci, Francesco Trassari, Alessio Valore,
Vann'Antò, Ignazio Buttitta, Santo Calì, Antonio Cremona, Salvatore Di Marco,
Dire di tutti, collegando il discorso al passato e verificando come sono avvenuti gli sviluppi, fino
ai libri più recenti che vedono ancora una volta attestare la Sicilia in avanguardia (come sempre è
accaduto nel corso degli ultimi decenni dell'Ottocento e durante tutto il nostro secolo la Sicilia ha
dato un contributo così cospicuo e così ricco da poter quasi affermare che la letteratura italiana degli
ultimi cinquant'anni è la letteratura siciliana) con poeti che rompono con decisione il loro modo
d'essere (nell'accezione di Moravia) e lo portano all'esistere, sempre nell'accezione moraviana di
questo punto di vista soggettivo.
Il vigilare della grande tradizione (a differenza di quel che avviene per lungo tempo per Venezia e per Napoli)
non ha impedito ai poeti siciliani di rompere gli schemi precostituiti e di portarli a esiti talvolta sorprendenti.
Certo, resta alla base il principio che il dialetto è lingua a tutti gli effetti e può giocarsi interamente le carte non
della sua sopravvivenza (anche la lingua di Platone, di Euclide, di Omero e quella di Virgilio, Lucano, Lucrezio
sono state abbandonate, ma non per questo le opere sono cadute nell'oblio, anzi...) ma la creatività, con pari o
maggiori possibilità della lingua italiana. Non minori!
Ognuno dei nostri poeti citati, naturalmente, meriterebbe un'approfondita indagine, ma a me premeva un quadro,
come ho prima accennato, premeva dare notizia d'una problematica che ormai ha investito tutta la letteratura italiana
portandola su un versante estremamente complesso dal quale certamente scaturiranno non poche sorprese e
comunque non inchioderanno la poesia nelle chete acque né di rinnovati petrarchismi, né in quelle più paludose e
infette del linguaggio incolore e privato della sua forza d'urto o di resistenza alle cose e alle emozioni.
Un cenno particolare a Mario Grasso e a Salvatore di Marco; i due, oltre che essere poeti di rilievo sono anche
operatori culturali che hanno combattuto non poco per affermare la pari dignità del dialetto rispetto alla lingua
(quale?).
Mario Grasso ha dato alle stampe, da poco, il suo Vocabolario siciliano23. L'entusiasmo della Corti, che scrive
la prefazione, è sintomatico: "Certo, una parte del merito va a questo straordinario dialetto, in fondo poco mutato
dai tempi di Stefano Protonotaro, con i colori delle sue vocali e l'energia fonica esplosiva; per non parlare della
stragrande abbondanza di sdruccioli e proparossitoni"24. Grasso, che viene da molteplici esperienze in lingua, ha
compreso, come Albino Pierro, che era ora di buttare la maschera (anche quella di cui fa cenno Brevini25 citando
Alberto Savinio) e usare con prepotenza (e perché no? una volta tanto con arroganza) il proprio idioma per affermare
non il diritto alla sopravvivenza, ma il diritto alla libertà della vita, cioè all'espressione.
Forse la verità più giusta l'hanno intuita Fernando Bandini e Sandro Zanotto (e la Corti richiamandosi a Protonotaro
ne dà un'indiretta conferma) quando hanno posto il parallelo tra il latino e il dialetto26, naturalmente con i necessari
distinguo che vanno fatti in riferimento alla grande tradizione latina e all'assenza, spesso totale, della tradizione scritta
in un determinato dialetto.
In pratica, la poesia in dialetto non è l'una entità a sè stante, distinta in qualche modo da altra poesia"27 e lo
dimostrano ampiamente i poeti come Dommarco o come il più giovane Andrea Fagiani, come Leonardo Mancìno
e Franco Scataglini che nelle Marche di Leopardi - (il poeta dell'Infinito espresso in una lingua sovradialettale e
sovraculturale!) - trovano la certezza espressiva in un salvadanaio idiomatico lontano e ricco di riflessi semantici
inediti. Scataglini in particolare (diversa è l'esperienza di Mancino) ha inventato un codice che ignora tutta la
tradizione recente, come il suo illustre Corregionale al quale, chissà perché, non si pensa mai, neppure per porlo in
controluce petrarchesca, quando si discute di poeti in dialetto.
Ma torniamo alla Sicilia per concludere il discorso con Di Marco. La sua poesia dà la misura di un lungo camrnino
percorso e che finalmente è giunto a risultati dì grande evidenza, tali da poter sopportare finalmente quel confronto
o quella integrazione a cui faceva cenno Mario Sansone, già nel 1948, quando sosteneva che in Italia non si doveva
parlare di letteratura italiana, ma di letterature regionali che si consorziavano per dare il quadro di quella composita
situazione che ancora si trascinava l'eredità comunale e delle Signorie28.
Altri nomi siciliani da segnalare sono: Giovanni Bari, Turiddu Bella, Ignazio Giusto, Pippo Guardo, Giovanni Isaja,
Giuseppe Musumeci, Vincenzo Nania Bonanno.
Si è mossa anche la Sardegna (dove purtroppo alcuni ancora discutono oziosamente su che cosa sia una lingua
o un dialetto) che, come scrive Angelo Mundula, "meritava e merita di uscire finalmente dal ghetto regionale per
figurare, con pari dignità, accanto a tutti gli altri dialettali di ogni parte d'Italia"29. Parecchi nomi a cominciare da
Salvator Ruju, Cesarino Mastino, Antioco Casula, Pietro Mura, Ignazio Delogu, Leonardo Sole, Salvatore Casu,
Benvenuto Lobina, Francesco Masala, Efisio Coccu. Alcuni, i più vecchi, sono ancora legati al descrittivismo mistico
paesaggista della Deledda o dì Sebastiano Satta; altri, i più giovani, sono passati attraverso Giuseppe Dessi e si sono
attestati su risvolti armonici con la poesia italiana. Naturalmente il panorama è incompleto gli accenni sono
esemplificazioni del tormento che sempre più si dilata e dell'ansia che va temprandosi a miglior sorte; andrebbero fatte
annotazioni su quel che è avvenuto anche nelle regioni del Centro e del Nord per vedere come realmente il panorama
della poesia sì è modificato e si è fatto visibilmente teso; andrebbe soprattutto considerata in sede critica e
storiografica una intuizione dì Tesio e Chiesa sulla poesia campana (non a caso lasciata da me per ultima) che avrebbe
avuto Di Gìacomo non solo capostipite di una tradizione locale, ma fautore primo di una vera e propria rinascita di
tutta la poesia dei dialetti italiani31). Se ciò corrisponde a verità diventa vistosa la lacuna di Brevini che ha escluso
dalla sua antologia annodano il poeta napoletano31. Fatto è che la Campania ha generato, senza dubbio, anche grazie
alla sua musica e ai suoi parolieri (tra i quali è da annoverare perfino D'Annunzio) melodie e magie molto pericolose
che forse hanno fatto leggere in maniera distorta anche le fonti da cui sono state generate. Di Giacomo ha mietuto
vittime, ma forse veramente ha fatto la "rivoluzione inconsapevole", quella stessa che in lingua, come ci ricorda
Debenedetti31 ha portato a compimento Giovanni Pascoli. Certo, chi ne ha preso gli aspetti esteriori chi ha utilizzato
gli stereotipi fuori dal contesto (ve lo figurate un ulivo a simbolo del paesaggio norvegese?) ha avuto conseguenze
disastrose e ha pagato, ritrovandosi addosso rattoppi più sconci dei buchi.
Ricordiamo però, prima di parlare del trio che ha dato una svolta alla tradizione partenopea, i nomi che hanno
avuto almeno un senso: Libero Bovio, Roberto Bracco, Giovanni Capurro, Pasquale Cinquegrana, Rocco Galdieri,
E.A. Mario, Roberto Minervini, Ernesto Murolo, Eduardo Nicolardi, Luca Postiglione e naturalmente Ferdinando
Russo.
E chiaro che se si volessero accreditare le migliaia di esperienze che Napoli ha prodotto andremmo a compilare
un altro elenco interminabile. Ma un po' di cronaca non guasta e perciò ricordare Luigi D'Elia, Alfredo Gargiulo, di
Caivano, come Achille Serrao, Raffaele Lupoli, Massimo Martinelli, Iolanda Narciso, Gennaro Ottavo, Maria
Pantano, Raffaele Pisani, Rosetta Fidora Ruiz, Giuseppe Santagata, Luciano Somma, Salvatore Tolino, Rino
Vittozzi, Renato Cammarota, Vincenzo Morra, Ugo Mucci, Raffaele Pisani, Bruno Zapparrata, Totò, Giuseppe De
Marco, Carlo Felice Colucci è il meno che si possa fare per comprendere, del resto, che sono stati questi autori, coi
loro lavoro e il loro tener desto il fuoco del dialetto, a preparare quegli sviluppi e a far raggiungere quegli esiti
convincenti che hanno portato alla neodialettalità eliminando, come dicevo all'inizio, quella paura di parlare e scrivere
in dialetto se non nel proprio mondo e soltanto per ritrarre bozzetti, scorci e raccontini.
Salvatore Di Natale, liberandosi dalle pastoie tradizionali con forza e con grande misura culturale è riuscito a portare
sia la sua lingua che la sua poesia a un livello che consente di percepire tutta la portata della innovazione ma anche
quel tanto di Il sano e di caldo" che resta come il miele nella esperienza delle parole e delle espressioni. Ha scritto
infatti Francesco Durante che egli "ha restituito al dialetto, estenuato nell'esercizio poetico da una stanca ripetizione
di moduli senza più senso, una dignità di 'assoluto' teso e vibrante, audacemente solitario".
Il caso di Achille Serrao è altrettanto probante. Dopo un tirocinio durato parecchi anni che lo ha visto protagonista
nella poesia sperimentale e dopo aver dato alle stampe libri di critica letteraria, di prosa e di poesia in lingua, è entrato
nell'agone dei dialettali utilizzando la lingua del padre, dell'area casertana, e rimuovendo allettamenti della recente
e della passata tradizione campana. Ha così ritrovato un suo modo di esprimersi, fatto di allusioni, ammiccamenti,
di dolore virile, di ancestrali e pur nuove istanze che portano a considerare la vita come un fiume eracliteo. Cesare
Vivaldi ha parlato di "dialetto chiuso e duro" e Franco Loi ha sottolineato che "si avverte in questa poesia l'adesione
alla sonorità e allo spirito di una parlata pur nell'intellettuale tematica cui il poeta induce la lingua". 1 giudizi mi
sembrano pertinenti e illuminano una vocazione e un percorso che si sta aprendo a ventaglio, prensile e umorale,
dischiuso a intenzioni che tramano echi e suggestioni scrostandole dai sensi indorati del risaputo.
Michele Sovente viene dal latino, ha già un'esperienza dunque di diversa lingua e questa esperienza la adopera
facendo rifulgere i suoi versi di quel sapore dolce e amarostico che tanto spesso si sente attraversando le strade di
Napoli. Eppure anche lui rifugge dai facili richiami e offre un mondo avviato al futuro.
Le citazioni dei nomi, come si è potuto notare con evidenza, non sono fatte in ordine cronologico nè sono fatte
con la sistematicità di chi abbia voluto compiere un percorso oltre il quale non si può nè si debba andare; mi premeva
mettere in rilievo che cosa si è mosso di recente nel Sud e che cosa si sta muovendo, sempre nella prospettiva che
vede il dialetto lingua a tutti gli effetti. Certo, bisogna stare attenti a non fare confusione e graduatorie proprio adesso
che si vanno chiarendo i punti di forza e gli sviluppi in rapporto a tutto lo svolgersi della letteratura italiana e perfino
europea, se non universale. Ci basti pensare che in questo ultimo quarto di secolo molto si è modificato (ci si soffermi
all'interesse suscitato da Vittorio Clemente, che ha avuto i consensi di Franco Fortini, di Leonardo Sciascia e di
Giorgio Caproni) e parecchio è in atto di modifica, che presuppone ulteriore crescita di poesia. E' evidente, lo ripeto,
che la poesia in dialetto abbia tante attenzioni e consensi al punto d'aver fatto non pochi sgambetti a molti anemici
nipoti di Balestrini e di Sanguineti.
NOTE
FERDINANDO GALIANI - GIAN VINCENZO MEOLA, Del dialetto napoletano, Napoli, Tip. Vincenzo
Mazzola-Vocola, 1799.
2 p.p. PASOLINI - MARIO DELL'ARCO, Poesia dialettale del Novecento, Parma, Guanda,1952.
3 MARIO CHIESA - GIOVANNI TESIO, a cura di .Le parole di legno, Poesia in dialetto (le] '900 italiano,
Milano, Mandatori, 1984.
4 PIETRO PANCRAZI, Giotto poeta triestino, in Ragguagli del Parnaso, a cura di CESARE GALIMBERTI,
Milano-Napoli, Ricciardi, 1967.
5 Alcuni esempi: la Garzanti ha pubblicato: ERNESTO CALZAVARA, Ombre sui veri 3990; FRANCO LOI, Liber,
1988 e vari classici, tra cui GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI, Sonetti, 1991. a cura di PIETRO GIBELLINI La
Einaudi ha pubblicato: FRANCO LOI, Stròlegh, 1975, Teater, 1978, L'aria, 1981; PAOLO BERTOLANI, Seinà,
1985; RAFFAELLO BALDINI, Furistìr, 1988; FRANCA GRISONI, L'oter, 1988; NICO NALDINI, La curva di
San Floreano, 1988. La Mandatori ha pubblicato: ANDREA ZANZOTTO, Filò, 3988 (che era già uscito, per le
"Edizioni del Ruzante" nel 1976). Un piccolo rilievo: questi volumi ricordati e altri che andrebbero menzionati
appartengono tutti ad autori dell'area settentrionale.
6 Si vuole ricordare almeno: FRANCO BREVINI, Le parole perdute, Dialetti e poesia nel nostro secolo, Torino,
Einaudi, 1990.
7 Si cfr., per esempio: M. ALINEI Dialetto., un concetto rinascimentale fiorentino. Storia e analisi, in "Quaderni
di semantica", 11, 1981; E. BONORA, Poesia letteraria e poesia dialettale, in Retorica e invenzione, Milano,
Rizzoli, 1970; M. CHIESA - G. TESIO, Il dialetto da lingua della realtà a lingua della poesia, Torino, Paravia, 1978;
F. BANDINI, Osservazioni sull'ultima poesia dialettale, in "Ulisse", XI, 1972, pp. 127-135.
8 GIACINTO SPAGNOLETTI - CESARE VIVALDI Poesia dialettale dal Rinascimento a oggi, Milano, Garzanti,
1991, voi. 1 e 11.
9 GIACINTO SPAGNOLETTI, Il balzo della poesia dialettale da Loi a Naldini, in "Lunarionuovo", XI, n. 51, p.
5.
10 cfr. CARLO MUSCETTA, Cultura e poesia di G.G. Belli, Roma Bonacci, 1981; tua anche PIETRO
GIBELLINI, La Bibbia del Belli, Milano, Adelphi, 1974 e M.A. CAPONIGRO, Le donne del Belli, Roma, Bulzoni,
1984; R. MEROLLA, Il laboratorio del Belli, Roma, Bulzoni, 1984.
11 TULLIO DE MAURO - MARIO I-ODI, Lingua e dialetti, Roma, Editori Riuniti, Paideia, 1986, p. 14.
12) ivi
13 CORRADO ALVARO, Memoria e vita, in Il viaggio, Brescia, Morcelliana, 1942.
14 PIER VINCENZO MENGALDO, Poeti italiani dei Novecento, Milano. Mondadori, 1978, p. 960.
15 GIACINTO SPAGNOLETTI, La letteratura italiana dei nostro secolo. Milano. Mondadori, 111, 1985, p. 1110.
16 GIOVANNI PASCOLI, Prose, Rizzoli, 1985, p. 162.
17 MARIA CORTI, Dialetti in appello, in Metodi e fantasmi, Milano, Feltritinelli, 1977, p. 117.
18 LUIGI REINA, Invito al Novecento, Napoli, Ferraro, 1986, p. 300.
19 DONATO VALLI, Nicola De Donno e la contaminazione dei miti, in NICOLA DI' DONNO, Paese, Cavallino
di Lecce, 1979, p- 28.
20 GIACINTO SPAGNOLETTI, Il balzo della poesia dialettale da Loi a Naldini. cit.
21 ANTONIO GRAMSCI Lettere dal carcere, T orino, Einaudi 1948, p. 27.
22 ROLAND BARTHES, Il grado zero della scrittura. Milano, Lerici, 1966, p. 27.
23 MARIO GRASSO, Vocabolario Siciliano, Catania, Prova d'Autore, 1989.
24 MARIA CORTI, Introduzione, ivi, p. 6.
25 FRANCO BREVINI, Introduzione, in Poeti dialettali del Novecento, p. VII.
26 SANDRO ZANOTTO. Intervista. 'in "Marka", n.6-7 nov.1982-marzo 1983 p. 143. Bandini ne parla ne "L'
Almanacco dello Specchio- n. 12,1985.
27 M. CHIESA - G. TESIO, Le parole di legno, cit., p. 6, 1.
28 Cfr. MARIO SANSONE, Letterature comparate Milano Marzorati, 1948.
29 ANGELO MUNDULA, La cultura e la vita in "Libertà*', 20/9/1991.
30 ALBERTO CONSIGLIO, in Antologia dei poeti napoletani accenna al problema, ma risulta un po' sospetto per
eccesso d'amore; il chiarimento avviene da parte di Chiesa e Testo, come è stato ricordato.
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