Scritti su Cesare Ruffato

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Vittoriano Esposito Giorgio Faggin Gio Ferri Paolo Frasson

V.S.Gaudio Gabriele Ghiandoni Nino Maiellaro

Milena Nicolini Ernestina Pellegrini

Germana Duca Ruggeri

Gregorio Scalise

Delmina Sivieri

·

I quaderni di

Hebenon

Supplemento a

Hebenon
Rivista internazionale di letteratura
n.4 – ottobre 1999

(Aut. Trib. di Ivrea n.195 del 22/01/1998)

Proprietà letteraria riservata: Associazione Culturale Hebenon

Direzione, Redazione, Amministrazione:
via De Gasperi 16, 10010 Burolo (Torino - Italy)

Fondatore e direttore:
Roberto Bertoldo

Corrispondenti dall'estero:
Luigi Fontanella (Stati Uniti),
Leonardo D'Amico (Argentina),
Sioned Puw Rowlands (Galles),
Cristina Zaccanti (Romania),
Hanna Kjellberg e Antonio Parente (Finlandia)

Coordinatore traduzioni: Marco Morello

Stampa: Tipolitografia l'Artigiana di Grosso Sategna,
Via Torino 6, 10010 Burolo


QUADERNI DI HEBENON

1


Indice

7 Cesare Ruffato: Scribendi licentia
di Vittoriano Esposito

12 Dal padovano al friulano
di Giorgio Faggin

15 "El metro fondo del dialeto" nella poesia di Cesare Ruffato
di Gio Ferri

25 Su Scribendi licentia di Cesare Ruffato
di Paolo Frasson

30 Cesare Ruffato: la semantica gergale e razionale dell'idioletto corporeo e della
poesia dialettale diacronica, il bioritmo dello stile-mama
di V. S. Gaudio

45 Il percorso poetico di Cesare Ruffato dentro la parola in dialetto
di Gabriele Ghiandoni

50 Scribendi licentia di Cesare Ruffato
di Nino Majellaro

65 Colloquio
di Milena Nicolini

74 "La luce buia": il "giergo mortis" di Cesare Ruffato
di Ernestina Pellegrini

83 Cesare Ruffato, “licenzioso” cercatore della verità nuda e cruda
di Germana Duca Ruggeri

88 La poesia dubbiosa di Cesare Ruffato
di Germana Duca Ruggeri


90 Scivolando sulla schiena del secolo
(Appunti sulle poesie di Cesare Ruffato)
di Gregorio Scalise

94 Scribendi licentia
di Delmina Sivieri

96 Breve nota biobibliografica


Cesare Ruffato: Scribendi licentia

di Vittoriano Esposito

In un corposo ed elegante volume (di ben 430 pagine), uscito presso Marsilio editori, Cesare Ruffato ha raccolto quasi tutta la sua produzione poetica in "volgare padovano", dopo averla sottoposta ad un'accuratissima selezione e revisione. Abbastanza singolare il titolo di copertina, Scribendi licentia, in traduzione letterale Licenza di scrivere, ma forse da intendere più significativamente, nel senso riposto, con allusione all'urgenza liberatoria della scrittura dialettale, come avremo modo di vedere tra poco.
La raccolta antologica comprende sillogi già edite, ed esattamente: Parola pìrola (prefazione di L.Borsetto, 1990), El sabo (prefazione di I.Paccagnella, 1991), I bocete (postfazione di A.Daniele, 1992), Diaboleria (introduzione di M.Cortelazzo, 1993); e sillogi inedite, con qualche testo anticipato in riviste: Smanie, Sagome sonambole, Vose striga, Giengo mortis, appartenenti tutte al periodo 1993-1997.
Dalla cronologia delle opere si direbbe che Ruffato si sia "convertito" al dialetto in età matura, quando aveva alle spalle già un trentennio di esperienza poetica in lingua italiana (da Tempo senza nome del 1960 a Prima durante dopo del 1989); ed invece si può ritenere nato come poeta bilingue, poiché i suoi primi tentativi dialettali risalgono allo stesso tempo del suo esordio in italiano, anche se restarono come in ombra, quasi frutto d'un esercizio privato. Rilievo importante, questo, che ci consente di parlare di una riscoperta, di un ritorno all'uso del dialetto, piuttosto che di una conversione improvvisa.
Illuminante, a tale proposito, quanto lo stesso Ruffato ebbe a dichiarare in una intervista rilasciata a Luciano Morandini qualche anno fa: riaffermato il ruolo etico-civile della poesia in genere, egli si disse convinto d'aver ritrovato nel dialetto una lingua capace di vivificargli immaginazione e ispirazione poiché, facendolo riaccostare "alle sorgenti della vita", gli consentiva di "penetrarne l'essenza in un registro patosofico di rievocazioni, confronti, riflessioni che incalzano la mente e la coscienza".
Va precisato tuttavia che, pur assumendo "come lingua di base il dialetto di Padova nella viva parlata quotidiana", Ruffato lo sollecita dall'interno e lo reinventa "sulla traccia di lacerti infantili e con volontari sbandamenti nell'italiano e in vari linguaggi settoriali". Egli non si nasconde il carattere "precipuamente letterario di tale operazione", ma è parimenti persuaso che, attraverso "questa libera messa in scrittura", si compia "un affettuoso etico riconoscimento verso la lingua materna e un tentativo, sfiorato da nostalgia, di corrispondere agli intimi richiami, particolarmente sottili e inattingibili, della sua voce".
Certo, i dialettologi puristi avrebbero ragione di scandalizzarsi di una operazione letteraria rivolta apparentemente a scardinare le strutture caratterizzanti del dialetto, accusandola di una imperdonabile arbitrarietà, se non addirittura di rinnegamento della tradizione propriamente "volgare". A favore di Ruffato, tuttavia, c'è la convinzione plurisecolare, diffusa ancor oggi tra critici ed esteti, che la poesia è soprattutto un fatto di linguaggio creativo, se non vuole ridursi ad un prodotto di mimesi naturalistica, duplicato amorfo dell'uso vivo, come accade di solito nella cosiddetta poesia popolare.
Bisogna rilevare, inoltre, che l'operazione di Ruffato riesce ad istituire una condizione di parità, sul piano della sua forza inventiva, tra l'italiano e il dialetto, conferendo a quest'ultimo la capacità di ampliare e arricchire non solo un vocabolario che molti credono in via di estinzione, ma anche la normativa grammaticale e sintattica che rischia di appiattirsi sui modelli esangui dell'italiano popolareggiante di oggi.
Sorprende, infine, la lucidità critica con cui Ruffato si avventura nell'esplorazione della propria coscienza con gli strumenti di quella che chiama la sua "lingua materna". In alcune pagine di Diaboleria, egli elabora una sorta di ars poetica in materia dialettale, densa di spunti e intuizioni che meritano un'attenta riflessione. Premette che si accosta al dialetto "co la fraca de lampra passion / dei cavalieri pal tesoro del Graal" ("con la carica di limpida passione / dei cavalieri per il tesoro del Graal"). Guardato dall'esterno, il dialetto "pare forse / 'na machineta da foto infrarossi / scalon dei colori puntilioso" e altro ancora; ma, a pensarci bene, esso sfugge al dominio incancrenito della lingua burocratica, per restare "'na ecolingua / grembo o marsupio che abita alita / riscata el sogno". Appreso da "la vose de mama" come fantasma impensabile, presignificante, prende poi a procedere dalle viscere alla metafora come un tesoro "de luce fogo acqua aria / e sostanse che ne dà vita" oppure, a volte, "tochi de carbon ne la calsa de la striga".
Ricondotto alle prime scaturigini dell'“inconscio lallante” della remota infanzia, il dialetto riemerge nella sua prima dimensione "corporea", importante come la prima mimica; poi, nell'età scolare, subentra la fatica di sdipanare l'allegro mucchio di parole storpiate, per ordinarle entro i "paletto gendarmi di grammatica e sintassi". Ma resta sempre vivo il bisogno di riassaporare le "cotiche muschiose" di una parlata "che concede licenze e libertà / negate alla lingua rompiballe".
Linguisti e semiologi si ostinano a ritenere che il dialetto parli fuori della storia ufficiale e quindi crei una letteratura minore, superata, ma è da credere che esso possa acquisire, per salvarsi, intelletto e non solo sentimento, rivestirsi dell'anima dei parlanti, farsi "ponte verbale porto culla" e non lasciarsi inghiottire dal mostro del "ciacolese fregnonese franfichese" quotidiano.
Sarà pur vero che col dialetto si può perdere la bussola "nel polvaron de conceti", ma è certo che esso ci restituisce una respirazione circolare coi ritmi della ventilazione, traspirazione di umori:

El xe pien de late fresca intiera
(…) Mente, pompa de la lengua, lievito
narciseto, buto de falsa gnoransa
giossa de tempo belo, caldo penelo
nichia de pora filosofia che se
carga el costruto de l'anema
roba o ente o conceto assoluto
siolto e mobile da no stechirse

("È pieno di latte fresco intero / (…) Mente, sorgente della lingua, lievito / narciso, gemma di falsa ignoranza /goccia di tempo bello, caldo pennello / nicchia di povera filosofia che ci carica / delle sostanze dell'anima / cosa o ente o concetto assoluto / libero e mobile da non stecchire").

Il poeta, infine, si ritiene fortunato a riscoprire il dialetto sui sessant'anni, trovandovi un'alcova rinverdita di scrittura dell'età matura, dopo essere stato ragione di vita nell'infanzia e nella vita calante. Tenerissimi i versi conclusivi:

el me ninanana anca nel troto
roto senile, el me liga al concreto
cavandome i selegati senza sigarme
par sgorbi de acenti e ortografia
nel volerlo maritare co la lengua
matricolada. El m'intiva sempre
versendome l'eden e l'Eva fruà
de la langue. Me smissio inretoricà
senza idee ciare e co passiensa
voria riscrivare tuto, ma me lasso
parlare segnare da bon ad libitum

("mi fa la ninna nanna anche nel trotto / rotto senile, mi lega al concreto / strappandomi i segreti senza sgridarmi / per errori di accenti e d'ortografia / nel volerlo maritare con la lingua egemone. Sempre mi indovina / aprendomi il parafdiso e l'Eva consunta / della langue. Mi mescolo retoricizzato / senza idee chiare e con pazienza / vorrei tutto riscrivere, ma mi lascio / parlare segnare per bene ad libitum").

Chi vuol intendere, a questo punto, esattamente il significato e il valore dell'operazione letteraria di Cesare Ruffato, ha ragioni sufficienti per non scambiarla con un divertissement formalistico, sconfinante in preziosismi baroccheggianti. Il rischio, come pur si è notato qualche volta, c'è davvero, ma viene solitamente aggirato dall'urgenza di questioni esistenziali, che sempre riaffiorano dal fondo di una coscienza tormentata.
Sarà utile, a tale riguardo, ricordare che Ruffato, solo dopo una vicenda drammatica (la morte di una figlia giovanissima) che lo ha sommerso di "interrogazioni" inquietanti, ha avvertito il bisogno di risalire alle radici della sua esistenza, come per un improvviso "risveglio bioritmico" dopo un lungo letargo. Non a caso la morte ("la siora in nero") s'intravede spesso, nelle sue pagine, accarezzare la falce tra pena e contrizione ("contrita in viso de pecà") e il poeta cerca di darsi conto del senso da attribuire alla vita. Resta il mistero, naturalmente: "Cussì a paro par man vien vanti / nàssita e morte eterne che se fa / divaganti soni e sesti de bon ton. / E chi se sbassa sarà solevà".
E chi si umilia sarà esaltato. Ma sarà un'impresa ardua, a ben riflettere, quella di umiliarsi per essere esaltati. Per riuscirvi, occorre tirarsi fuori dagli imbrogli degli affari terreni, ascoltare il pullulare della vita che sgorga dalla stessa morte, se l'anima si dispone "co la cognission e l'amore de Dio". Purtroppo in questo mondo, che è come un granello di sabbia dell'universo, il mala scava sempre il suo buco nero, dove si rischia di affogare nella lordura. L'angoscia che ne deriva, senza dubbio, stronca le forze e le brucia, ma infonde e suscita anche un'ansia di libertà all'estremo, pur tra il dolore e il pianto. Sentite:

E mi figura de 'na figura
trista trito el muto magon ti-mi
in cerca del nei tan e starte drio
aldelà striga che ocia tutto in luse
nera. S'inombra qua l'oro
de la fine e no se cape
un pelo del starghe mistero.

("Ed io figura d'una figura / triste trito il muto patema tu-io / alla ricerca della bevanda d'immortalità e di seguirti / nell'aldilà strega che sbircia tutto in luce / nera. Si adombra qua l'orlo / della fine e non si afferra / un pelo dell'esserci mistero")

Tra la nascita e la morte corre un filo intriso di lacrime, lungo il quale una mano segreta inserisce la spina della luce e del buio. Conviene avere scrupoli a fronte alta e dare il giusto calore al lutto, anche se il nulla ci perseguita "co mente ramai molin a vento anca / su quelo che ne dà la siensa".
La salvezza, o comunque un rimedio illusorio, sta nel ritirarsi in solitudine

a contemplare ciami enti silensi
co oci penitenti che scola zo
caligo caròli economici
destini imperiali e ne imbelisse
eroi mimetici da sfide parsora

("a contemplare richiami enti silenzi / con occhi penitenti che scuotono giù / nebbia tarli economici / destini imperiali e ci abbellisce / eroi mimetici da sfide superiori")

Saputo ormai come vanno le cose al mondo, mentre la mente si lacera tra il sacro e il profano, il poeta s'avvede di gironzolare come bendato tra le povere cose del giorno, si aggrappa alla nostalgia d'un amore che lo rende fantasma fino all'osso, con l'anima crucciata che pare l'abbia lasciato già appassito e prossimo alla morte.
A questo punto, la poesia dovrebbe cedere alla fede:

Dove parole e figure no riva
el mistero sbassa seje e sipario
la peripatetica nera mena
el gnente par sé tuto
l'estremo cao icse de ognun.

("Dove parole e figure non sono sufficienti / il mistero abbassa ciglia e sipario / la tenebrosa peripatetica conduce / il nulla per sé tutto / l'estremo limite incognito di ognuno")

La morte (la "peripatetica nera") è sentita, al modo leopardiano, come liberazione dal male di vivere, ma il poeta non sa se debba consolarsene: l'ignoto, il destino di ognuno, resta velato di mistero. L'anima, di fronte a questa certezza, pur se sconsolata, s'acquieta. Visione angosciata della storia umana, senza dubbio, ma non disperata. E, quel che più conta, divenuta materia accesa di autentica poesia.

Con Scribendi licentia, a parer nostro, Cesare Ruffato tocca uno dei vertici più alti del Parnaso italiano dell'ultimo Novecento. Ed è singolare che ciò sia avvenuto sul versante della poesia dialettale, cui ormai bisogna riconoscere il diritto di spaziare nel terreno della sperimentazione tecnico-formale, diritto che da gran tempo legittimamente, almeno per certa critica, è stato acquisito dalla poesia in italiano. È la prima volta, crediamo, che un poeta dialettale abbia osato tanto, nella misura e coi risultati di Cesare Ruffato. Nessuno potrà, da ora in poi, negargli questo merito.


Dal padovano al friulano

di Giorgio Faggin

La rivista udinese "La Panarie" (la panàrie = la madia) pubblicò nel dicembre 1996 le mie prime traduzioni friulane dei versi ruffattiani. Altre versioni apparvero nei volumetti Cesare Ruffato nel suo settantesimo compleanno (La Battana, Fiume/Rijeka 1997) e Steve per Ruffato (a cura di C.A.Sitta, edizioni del Laboratorio, Modena 1997). Purtroppo in tutte queste pubblicazioni non mancano scorrettezze tipografiche, dovute all'irsuta grafia friulana. È invece esente da refusi la mia operetta Mimese: Versioni poetiche in friulano (Marsilio, Venezia 1999), in cui ho inserito due traduzioni già presenti in Steve per Ruffato.
In occasione del LXXV anniversario di Cesare Ruffato, mi unisco affettuosamente ai tanti amici ed estimatori offrendo al Poeta le versioni friulane inedite di tre suoi componimenti inclusi nel volume Scribendi licentia (Marsilio, Venezia 1998). Ho tradotto, nell'ordine, le poesie La xe come l'ojo parsora (p.412), L'amor too anca nel luto me liga (p.414), Ma gnente vodo e angossa (p.419), che fanno parte di Giergo mortis (1997), ultima sezione del volume.
Nel tradurre questi componimenti ho potuto constatare ancora una volta la forte parentela lessicale tra veneto e friulano. Così, nel primo testo, al sintagma veneto struca struca ("in conclusione") corrisponde il friulano struche struche. Ho preferito tuttavia servirmi della locuzione di daûr. Nella stessa poesia incontriamo un verbo coniato dall'autore: ne postissa ("ci rende posticci"). Il lessema di base è l'aggettivo postisso. Con analogo procedimento, sull'aggettivo friulano pusti
ho costruito il verbo pusti
â. Il sintagma ne postissa è stato reso pertanto nus pustice. Le inserzioni romanze allotrie sono state tradotte in friulano (emblesmada de dor plor = svanide di dûl, di vaît; fuelha = fuee). Quanto alla locuzione ciuciàrte el core ("succhiarti il cuore"), pur possedendo il friulano lo stesso verbo
hu
, ho preferito muovermi più liberamente, servendomi di una metafora (furdu
he dal to cûr = "succhiello del tuo cuore").
Nella seconda versione avrei potuto tradurre sfantarme ("dissolvermi") con sfantâmi; ho scelto invece la più complessa e meno comune variante disfantâmi, che mi ha permesso di costruire un endecasillabo (disfantâmi tanche nêv tal soreli). Il composto lessicale cotradimento è stato reso con tradiment di nô doi ("tradimento di noi due"), mentre per l'ugualmente personale supercaligosa ho coniato un'espressione friulano equivalente: superfumatose. Il verso in dono d'affetto che m'intua e t'inmia presenta due verbi parasintetici di matrice dantesca. Non ho fatto lo sforzo di convertirli in friulano, ma li ho risolti nelle locuzioni che mi fâs to, ti fâs mê ("che mi fa tuo, ti fa mia").
Un paio di note, per concludere, sulla terza traduzione. La neoformazione verbale m'infilosofa ("mi rendono filosofo") è stata tradotta con la locuzione mi fasin savint ("mi fanno sapiente"). L'espressione rendez-vous non è stata lasciata nella lingua originale, ma rappresentata da un binomio friulano caratteristico, benché non frequente: ore pontade ("appuntamento").
Confido che queste mie nuove interpretazioni poetiche abbiano saputo mantenere la peculiare, inconfondibile aura ruffattiana, fatta di costante tensione formale, di spericolata inventività lessicale, di soffusa e vibrante sostanza lirica.
La xe come l'ojo parsora
'na bola sguelta de possibilità
che no se salta e scava el busonero
in sto mondo granèo de l'universo.
E struca struca angossa 'sto sogiorno
isolà nel saerla spugna bromba angossà
de calùsene che ne postissa
par la fine nel continuo lordame
che incaìcia inquercia mossiona sbrusa
a gosse ma t'infonde libertà al cao
anca ela emblesmada de dol plor
che squasi nel languor la te darìa
par ostie de la fuelha zale
sfinie spirae e ciuciàrte el core.
A jè simpri parsore tanche il vueli

bùfule imburide possent
che no si po’ sghindâle, buse nere
di chest mond pulvìn dal univiers.
E di daûr l'ingôs dal nestri lûc
dispartât a cognošile sponge imbombade
spasimade di
halim che nus pustice
pal finiment in cragne seguitive
che ti muard ti tapone ti ingusia ti bruse
a got a got ma tal ultin ti sfran
he
svanide an
he jê di dûl, di vaît
che dibot ti donarès tal so lancûr
la partìcule di une fuee ale
scunide spirade, furdu
he dal to cûr. 


("Sta sempre sopra come l'olio / una bolla rapida di possibilità / alla quale non si sfugge e che scava il buco nero / in questo mondo granello di sabbia dell'universo. / E in conclusione angoscia questo soggiorno / isolato nel saperla spugna pregna angosciata / di fuliggine che ci rende posticci / per la fine in continua lordura / che ti morde alla caviglie ti coperchia emoziona brucia / a gocce ma ti infonde libertà all'estremo / anche lei svenuta di dolore e pianto / che quasi nel languore ti darebbe / per particole delle foglie gialle / esangui spirate e a succhiarti il cuore")
L'amor too anca nel luto me liga
a promessa de eternità, no posso
sfantarme come neve al sole
e fare spergiuro saria pure
un cotradimento, roba tatarà.
Darse a la dama supercaligosa
in dono d'afeto che m'intua e t'inmia
'na sola ima sostanza virtù
spirituali de salda simbolica
fedeltà. Forse se s'impasta
persone altre che tien no se sfrègola
par un ricordo in sé che ne sostien
a sanguare de pì le nostre ombrìe.
Il to amôr fintremai tal corot mi pee

a impromesse di eterni, no puès
disfantâmi tanche nêv tal soreli
e il sper ûr al sarès an
hemò
tradiment di nô doi, robe slapagnade.
Dâsi a la dame superfumatose
in regâl d'afiet che mi fâs to, ti fâs mê,
sole sostance profonde, spirituâls
virtûts di salde simboliche
fideltât. Salacôr si impastisi
personis altris ch'a condurin, no si frucin
par un ricuard a sè che nus sosten
a insiorâ di sang la nestre ombrene. 


("Il tuo amore anche nel lutto mi lega / a promessa d'eternità, non posso / dissolvermi come neve al sole / e fare spergiuro sarebbe pure / un cotradimento, cosa raffazzonata. / Darsi alla dama supercaligosa / in dono d'affetto che m'intui e t'inmii / una sola profonda sostanza virtù spirituali di solida simbolica / fedeltà. Forse ci si impasta / persone altre (diverse) che reggono (resistono) non si sbriciolano / per un ricordo in sé che ci sostiene / per arricchire di sangue le nostre ombre")
Ma gnente vodo e angossa
me perseita m'infilosofa
che fede smorzà, mai un amen.
Se rinunsia cussì a mosche bianche
par godare 'na cubia de morte
se se smola in ciaroscuro
che ne lampra anca le sgrìsole.
So ramai partìo pal sentro
del rendez-vous par ciapare man
e n'altra lusinga de vita
co so ben che la vira in mi
solo co mi e la s'inraisa del me sito
cargo de responsi mancai.
Ma nuje, vueit e ingôs

mi dan daûr mi fasin savint
di fè distudade, une recuie mai.
Si rinunzìe cussì a mos
his blan
his
par holdi une cubie di muart
si smolisi in clâr e scûr
e al barlume an
he il nestri sgrisul.
O soi aromai partît pal centri
de ore pontade a ingrampâ mans
e un altri lichet di vite
co ben o sai che jê a vire in me
nome cun me e le inlidrise il gno cidìn

hamât di sentencis man
hadis. 


("Ma niente vuoto e angoscia / mi perseguitano mi rendono filosofo / di fede attutita, mai un amen. / Si rinuncia così a mosche bianche / per godere una coppia di morte / ci si allenta in chiaroscuro / che ci rende trasparenti anche i brividi. / Sono ormai partito per il centro / del rendez-vous ad afferrare mani / ed un'altra lusinga di vita / quando so bene che lei vira in me / soltanto con me si radica del mio silenzio / pregno di responsi mancati")


"El metro fondo del dialeto" nella poesia di Cesare Ruffato

di Gio Ferri

Va data innanzitutto soddisfatta notizia del prodotto bibliografico di rara raffinatezza (malgrado la mole, oltre 420 pagine) - nella confusa invasione delle edizioni 'usa e getta' ormai, forse necessariamente, di moda - il cui merito è attribuibile alla Marsilio Editori di Venezia: uscito alla fine del '98, Scribendi licentia - poesia in volgare padovano di Cesare Ruffato, è uno di quei libri che giustamente pretendono uno spazio particolare in ogni biblioteca privata (e anche pubblica, se in Italia esistessero, per la poesia, serie biblioteche pubbliche, nazionali o meno) che si rispetti. Farà bella figura di sé per la sua elegante robustezza e sarà un punto di riferimento per chiunque intenda la poesia come oggetto vivente (cosa, nel senso modernamente scientifico di campo di energia), segno tangibile del passaggio dell'uomo ne "il gran mar dell'essere" (citazione dantesca dello stesso Ruffato). Oltre ogni babelico limite linguistico: anzi esemplare ragione dei valori della forma poetica sia nel plurilinguismo trasformativo (metamorfico), sia nella dialettalità - vale a dire nelle parlate originarie demolitrici di una lingua 'ufficiale', e antecedenti ad una nuova lingua altrettanto, infine, istituzionalizzabile - come principio, origine segnica di ogni poetica espressività.

Per quanto riguarda l'imponente opera complessiva (creativa e critica) di Cesare Ruffato, poeta innanzitutto 'italiano' fra i maggiori del secondo Novecento (in appendice il volume reca una completa documentazione), da quanto si è letto si può lecitamente presumere che, a partire da Tempo senza nome (Rebellato, Padova 1960) per giungere ad Etica declive (Manni, Lecce 1996), passando per il suo testo forse più famoso Minusgrafie (Feltrinelli, Milano 1978), i suoi estimatori abbiano considerato la produzione in "volgare padovano" (si noti quanto sintomatica sia questa definizione del sottotitolo), pur cogliendone le prolifiche valenze, come marginale rispetto alla ricerca poetica 'in lingua' (così si suol dire in maniera decisamente superficiale, proprio perché il "volgare padovano" come qualsiasi altro volgare non può essere inteso che come lingua, anche se, lo abbiamo visto, di secolare transizione). Tanto più sorprendente quindi la pubblicazione di questa 'opera omnia in volgare' (comprensiva di testi editi in raccolte e inediti) che rivela, a chi ne avesse bisogno, che il bilinguismo di Ruffato viene da lontanissimo (come uomo, ovviamente, e come scrittore dalla sua giovinezza) e da lontano pure dal punto di vista pubblicistico, cioè a partire dal 1989/1990 con il volume Parola pìrola (Biblioteca Cominiana, Padova 1990).

"Volgare padovano" quindi, propriamente, cioè linguaggio che ha subito sorte parallela, dopo che anticipatrice, a quella del 'volgare toscano', poi divenuto anche istituzionalmente 'volgare italiano': sorte di parlata comunque neolatina essenzialmente, e per ragioni geografiche con ovvie influenze celtiche, germaniche, levantine (dalla vicina Venezia e quindi dal 'vicino' Oriente...). Tuttavia il padovano venne a far parte, pur con sue specifiche peculiarità soprattutto di pronuncia, di una vera e propria genìa dialettale, quella della più vasta lingua veneta, così da potersi imporre - almeno nel luogo d'origine - anche, in passato, come lingua ufficiale (istituzionalizzata dal lungo dominio della Repubblica Veneziana). E come lingua creativa e poetica: basti nominare il Ruzzante, autore di alcuni veri e propri capolavori del rinascimento italiano. Quindi nessuna banale propensione vernacolare nel "volgare padovano" tout court e in particolare nel volgare di Ruffato: nessun vernáculum paesano, nessun incolto sparlare degli 'schiavi nati in casa', secondo l'etimologia dispregiativa più antica. Anzi, nel lavoro di Ruffato - forse primo in ciò fra i poeti di pura tradizione padovana -, grazie agli "inserti di culture poliverse e a influenze di gerghi professionali" (come sottolinea lo stesso autore), e grazie soprattutto a strutture poetiche rare e 'nobili', percorse da profonde e distillate psicologie 'moderne', si instaura un progetto di elevazione del volgare a gergo poetico alto e insieme umanamente e culturalmente profondo, per l'appunto. Ruffato insomma, e lo conclama egli stesso, va alla ricerca di una poesia dal "metro fondo": "el metro fondo del dialeto". Il volgare padovano, attraverso un lavorìo cocciuto e sapiente (e passionale) in fusioni gergali, in invenzioni neologistiche, in riscoperte semantico-dialettali, in ritmiche sonorità colte ancorché sempre volgari (a Padova e in tutto il Veneto è, nei secoli e ancora, anche la lingua quotidiana delle classi elevate, professionali e sapienziali, persino accademiche), diviene così per Ruffato uno strumento genetico-strutturale che lo conduce a cogliere il fondo, l'anima dura, ossuta, perciò sempre più oggettuale e veritiera di una ragione poetica che non può non essere ragione di vita, e considerazione sensuale della comunione fra le cose e la parola che le rende definibili, percepibili e sensibili. E vive. E prolifiche, cioè metamorfiche.

Si legga, per fare un esempio qualsiasi, ma fortemente significativo per invenzione e complessità compositiva, la terza strofe di "Parola coi busi" in Parola pìrola:

"... Anca illa polena come l'universo / xe tuta forà de trivelae miste / le più larghe in p o a / da impienare de senso, sentimenti / colori unguenti sóni / conotati fisici e morali dei significanti / co responsabilità fantasiosa radegosa. / Da tamiso co qualche buso a vista / e 'na strage drento simitero ipogeo / invito la poarina a colmarse / a viagiarse insieme / e nel sogno m'imparolo".

[Anche illa polena come l'universo / è tutta forata di trivellature d'ogni sorta / le più ampie in p o a / da riempire di senso, sentimenti / colori unguenti suoni / connotati fisici e morali dei significanti / con responsabilità fantasiosa dialettica. / Come cribro con qualche buco visibile / e una miriade in cimitero ipogeo / invito la poverina ad otturarsi / a viaggiarsi insieme / e nel sogno m'imparolo (mi faccio parola)].

Senza nulla perdere dell'ironia (i dialetti hanno questa peculiarità rispetto alle lingue ufficiali: quasi sempre riportano toni ironici se non addirittura derisori), in questa strofe di chiusura Ruffato propone considerazioni ontologiche, cosmologiche e, conseguentemente, etico-escatologiche profonde e polivalenti. In un territorio verbale che, sminuzzando, straniando, ricostruendo si situa fra una realtà profana e una avventura onirica di coinvolgente ambiguità. E per saggiare il valore autonomo e solleticante dell'eloquio volgare si colgano alcune espressioni che in italiano perdono d'efficacia formale e totalizzante. Quali: "xe tuta forà de trivelae miste", un endecasillabo dalla sintetica espressività e dalla sonorità cantabile (là dove in italiano, è tutta forata di trivellature d'ogni sorta, il discorso si fa prolisso e banale); oppure quel "fantasiosa radegosa" che s'impregna nella rima interna consecutiva di striscianti misure risolventi musicalmente, con blandizie persuasive, un discorso contradittorio di fronte alle "responsabilità" formali dei "significanti" (una condizione appunto banalmente dialettica nella versione italiana, connotati fisici e morali dei significanti / con responsabilità fantasiosa dialettica). Per finire con quel sorprendente "m'imparolo" che, nel contesto tanto (in)sensato, diviene nel sensatissimo italiano: mi faccio parola. Voglio dire che, nella indubbia difficoltà e anche durezza criptica della composizione volgare, nella costruzione sintattica e metrica disarticolata, bucata (d'altro canto l'ellissi è una modalità fondativa della poesia, e l'ellissi è più che mai esaltata nei dialetti, non solo per le frasi ma persino nei singoli motti), si rivela una profondità di propositi e significati (qui anche linguistici, come nel caso dei conotati dei significanti) che si dissolvono sovente in adusate ovvietà nella versione italiana (un universo bucato e incomprensibile che richiede d'essere riempito di senso e di sentimenti... - anche se, per la verità, l'immagine italiana del cribro sia di per sé di qualche efficacia). È la forma straniata e sonante del dialetto-lingua, rispetto alla fredda convenzione discorsiva della lingua istituzionalizzata, che rivela l'epifania poetica. Una prova in più, se ce ne fosse ancora bisogno, che la poesia (come l'arte in genere e la musica in particolare) è, nel suo specifico, innanzitutto nella forma.

Tuttavia "el metro fondo del dialeto", quel buco riempibile di sensi e di sentimenti, partecipa di una primogenitura linguistica (riferita all'infanzia di una gente e di un individuo) barbarica e terrigna, sì, ma, di conseguenza, anche sensitiva, sensuale, sessuale: sanguigna. Perciò entro il "fondo" del dettato volgare si fa strada facilmente anche la grazia - materna in quanto generatrice -, la dolcezza di una condizione perpetuamente maternale e insieme infantile, e perciò fortemente creativa, proprio per innocenza verbale. Ne danno testimonianza, fin dai titoli delle raccolte, certe poesie della stessa Parola pìrola e de I bocete. Basti qui rileggere un testo quasi programmatico da I bocete:

"I bambini ideogrammi vari / de onomatopea, alone / sluseghin torno a le parole / bocete puteleti pupeti cei / pulsini picinini ninini bei / fregolete de subieti pargoleti / trabacolini schissoti tatarete / radeghini agnelini pierini / con pipì in bilico de rose / e cacona smorfiosa, tesorini / retorici ne la bòte psichica / vien vanti pian pianin dai cavei / al museto a le man per no sofrire / del tuto e mogimogi sentire / el tufo nel corpo de càcole / a cavalin sul manego de scoa / o nel fare dispeti a incantesimi / e fole. Larve edoniste / gelsomini de luce che brusa / e vibra la vose ne le cane / del naso, uncineti de l'essere / in 'na lengua che presumo / un parlare universale proprio / par umanare el dirse. / Peluco ne la tela pensieri / a piombo su grame parole / che stracòlo sensa dissiparghe el genio"

[I bambini vari ideogrammi / di onomatopea, alone / baluginante attorno alle parole / bocete puteleti putei cei / piccini piccolini ninnini belli / bricioline di zufoli pargoletti / traballanti grumetti giocattolini / rissosetti agnellini pierini / con pipì in bilico di rose / e caccona smorfiosa, tesorini / retorici nella botte psichica / avanzano pian piano dai capelli / al visetto alle mani per non soffrire / del tutto e mogimogi sentire / il tuffo nel corpo di caccole / a cavallino sul manico della scopa / o nel fare dispetti a incantesimi e frottole. / Larve edoniste / gelsomini di luce che brucia / e vibra la voce nelle canne / dal naso (coane), uncinetti dell'essere / in una lingua che presumo / un parlare universale adatto / al fare umano il dirsi. / Pilucco nella tela pensieri / a piombo su parole povere / che distorco senza dissiparne il genio].

L'onomatopea del balbettio infantile è espressamente dichiarata, con graziosa disponibilità d'anacoluti mimetici, accumulazioni più o meno analogiche (o di analogie nascoste nei genetici, segreti e irrivelabili meandri dalla mente infantile), rime diminutive, abbondanza di allitterazioni e paronomasie. Il dialetto esprime icasticamente situazioni ludico-infantili, tuttavia talvolta solo apparentemente innocenti. Quest'ultima è una caratteristica tipica (come l'ironismo) delle modalità espressive dei dialetti: passare inavvertitamente, con sottile gioco d'ambiguità, dalla tenerezza alla malizia. Il linguaggio infantile (difficile da rendersi in italiano, ma diffuso nei modi dialettali: tatareta, pierino, cacona smorfiosa, mogiomogio..., sono lemmi che ci si attribuiscono scherzosamente, se non sarcasticamente, anche fra adulti) è disturbato da qualche cattiveria che preannuncia quello spirito astuto e utilitaristico e anche menzognero (volto ad ottenere persino l'impossibile, o comunque ad avere più di quanto ci sia dovuto) che connoterà anche, anzi proprio, la lingua matura: "... tesorini / retorici ne la bòte psichica",... "o nel fare dispeti a incantesimi / e fole. Larve edoniste...". Di conseguenza fra tenerezze e velate profetiche malizie nei "bocete" si va inconsciamente, biologicamente sviluppando l'oggetto del discorso, che Ruffato - lo dice - cerca di sfruttare creativamente per rendere umano il dire, "un parlare universale proprio / par umanare el dirse". E così anche su "grame parole" (parole povere) si fonda una poesia nuova, in comunione con la realtà ma disposta, anche distorcendone la prima innocenza antifrastica, a mantenere la genialità di un atomismo verbale che nel discorso comune, infine, malgrado i residui di cui si è detto, tende a scomparire a beneficio della ufficialità discorsivo-utilitaristica. Ad osservare attentamente, sia sul piano formale, sia a livello semantico, questa poesia sembra voler fornire giustificazione critica della rivoluzione dissipatrice ma fortemente 'ingenua' e sensitiva auspicata dalle avanguardie storiche: il Da-da innanzitutto, ovviamente, che alla promozione del balbettio infantile affidava il rinnovamento scritturale e insieme etico (contro le menzogne della comunicazione di potere).

In Giergo mortis (1997), ultima raccolta dell'antologia, si prende atto tuttavia che la lingua così come nasce, fresca di paratassi non finalizzate e ludiche, pian piano muore, si consuma, si imbastardisce proprio là dove si voleva che si purificasse nella misura anche poetica. Poiché (sono gli ultimi cinque versi del volume):

"Dove parole e figure no riva / el mistero sbassa seje e sipario / la peripatetica nera mena / el gnente par sé tuto / l'estremo cao icse de ognun".

[Dove parole e figure non sono sufficienti / il mistero abbassa ciglia e sipario / la tenebrosa paripatetica conduce / il nulla per sé tutto / l'estremo limite incognito di ognuno].

Anche qui il bilinguismo (sostenuto da una metrica rigorosa, tre endecasillabi, un settenario, un ottonario tronco) riesce ad esprimersi in forti movenze arcaico-escatologiche. Che ancora l'italiano non sa rendere: "... el gnente par sé tuto / l'estremo cao icse de ognun" - qualcosa del mille e non più mille della paura millenaristica medioevale.

Ma poco prima, in

"Forsi 'na diapetesi universale / de vita-morte se mesta in ogni omo / sgaia de saverse e ghingararse / a sfida de cosmocianceri strologhi / bidonari de carte letare man / e sensitivi variegai. La morte latente / s'inòrgana in oci scavai serchiai / incùba in luse nera 'na parodia / seca de ombrìe tra s-ciantisi bianchi / e slisseghi pargoli a bindolare / l'ilusion de vita...".

[Forse una diapesi universale / di vita-morte si mescola in ogni uomo / curiosa di sapersi ed esibirsi / a sfida di cosmologi ed astrologi / fattucchieri di carte lettere mani / e sensitivi vari. La morte latente / si struttura in occhi infossati cerchiati / incùba in luce nera una parodia / secca di ombre tra scintille bianche / e scivoli infantili ad abbindolare / l'illusione di vita...].

secondo una richiamata immaginifica intelligenza popolare si riconosce il disvalore del vivere nell'eternale connubio "de vita-morte" che già si rivela nell'esistenza di ogni individuo. Sul suo stesso volto. Comunque, ancora una volta, va notato come questa presa d'atto, in lingua italiana si attenui in un discorso 'qualunque', mentre nel padovano volgare il suono e la rappresentazione della parola-immagine dia luogo a una beffa tragica e carnascialesca insieme, degna delle folle di maschere risibili e paurose dipinte da Ensor ("... sgaia de saverse e ghingararse...", "...La morte latente / s'inòrgana in oci scavai serciai...", "... 'na parodia / seca de ombrìe..."). È evidente che, specialmente nell'ultima raccolta Giergo mortis, il volgare padovano di Ruffato si presta a rappresentazioni e sonorità verbali energicamente espressioniste (che una gestione 'vernacola' del dialetto non saprebbe assolutamente rendere), in qualche modo, alla lontana, collegate con le beffe macabre e dissacratorie del mondo universitario medioevale, che a Padova trova, non occorre dirlo, uno dei suoi luoghi privilegiati.

E poiché mai si abbandonano certe maternali e infantili dolcezze, pure riportabili alla sensibilità popolare e dialettale - anche in Giergo mortis si scoprono versi come "... in graneli de sabia in fondo al mare / un caos siolto al scuro de sagome / sòtiche de puina gelatina / dai nomi in latinorum sicosi / o filosi come coa equina / o tressa de cavei ninoli... [... in granelli di sabbia nel fondo marino / un caos liquido al buio di sagome / esotiche di ricotta e gelatina / dai nomi latini chiccosi / o filanti come cauda equina / o treccia di capelli ninnoli...] -, fra ironia, beffa e tragedia il 'volgare padovano' di Cesare Ruffato coglie - assecondata la propria genetica propensione - l'antica saggezza di una civiltà popolare (un popolo con-fuso, e unitario quindi, di 'signori', 'sapienti' e 'plebei') che si esprime in un disteso eloquio di saggezze, anche ironiche con grazia, che ci aiutano a conoscere nel "fondo", e ad accettare perciò coscientemente, l'incombenza del nostro destino.

* * *

Quindi - la sottolineatura è importante per comprendere appieno il valore complessivo di questa opera omnia in "volgare padovano" e le valenze della stessa generale poetica di Ruffato - entro le formalizzazioni alte della scansione poetica si innestano pre-testualità di amplissima e onnicomprensiva connotazione individuale e collettiva. Pre-testualità condotte dalla maestria del poiéin al gran mare del nostro destino, per l'appunto, a "l'estremo cao icse de ognun". L'eternale parabola della vita-morte-vita evolve questa globale antologia (oltre un decennio - il decennio della piena maturità del poeta e insieme della presa di coscienza di una illusione vitale che erode inesorabilmente il tempo della quotidianità, con i suoi propositi, gli affetti, le gioie, le sofferenze) in 'canti' epocali che, nell'insieme, danno vita a una sorta di interminabile poema. Un viaggio, una misura, una dismisura nella contingenza e oltre ogni contingenza che - fuor da ogni banale paragone giudiziale - rimanda ad altre peregrinazioni proprie della mitopoiesi della nostra civiltà, da Ulisse (Omero e Joyce), a Enea (Virgilio), a Dante (...Dante)... a Poliphili (Colonna)... Fra la vita e il sogno, fra la prassi della sopravvivenza e l'oltreconfine, "l'estremo cao" dove "el gnente [è] par sé tuto". Il percorso ripetuto, e anche stanco infine, fra l'andare e il riandare de "la peripatetica nera": il percorso labirintico e oscuro di ognuno. [Una disposizione alta, va detto anche qui, che l'uso vernacolare del dialetto non saprebbe rendere, a fronte, invece, della potenza espressiva di una lingua volgare dalla storia antica e dalla metamorfica costante polivalenza].

E ogni tappa, ogni 'cantica' ha i suoi protagonisti: figure, maschere o cose che siano. Parola pìrola, per esempio, risente per buona parte del respiro (e talvolta, ironicamente, anche della amorevole petulanza) della femminilità:

"...Dona xe indovinelo enigma / sorpresa el peso del deto / insaorìo de brame e segreti / combrìcola el senso imperterito / scotàndolo co la febre del sapere. / Davanti a 'sta pratica de parole / femene, a 'sti arzigogoli soranatura / me trovo labirinto imbranà / come scaltrìo da l'orlo del sublime / co ti e l'altro doto pandoli / e ne imbarassa anca el silensio / che sta drento 'na casatela stonà."

[... Donna è indovinello enigma / sorpresa il peggio del suo dire / condito di desideri e segreti / combriccola il senso imperterrito / ustionandolo con la sete del sapere. / Davanti a questa pratica di parole / femmine, a questi arzigogoli extranaturali / mi trovo labirinto imbranato / come smaliziato dall'orlo del sublime / con te e l'altro dotto pupazzi / e ci imbarazza anche il silenzio / intimo d'un formaggino casereccio stonato].

Eva, il "concetto Eva" (più volte ripetuti nei versi precedenti): fatti linguistici fortemente abbarbicati alle cose, eppure, nel loro dinamismo epigrammatico, sommovitori. Richiamano quell'ipotesi dei biolinguisti secondo i quali il processo di comunicazione si sarebbe sviluppato per via femminile (cioè trasferito dal mitocondrio, dna esclusivamente materno) dall'Eva Nera dell'Africa Orientale: origine del discorso e delle sue mutazioni. Una incostante, metamorfica disposizione femminile verso le cose minime e le loro ambigue definizioni, quali segni esemplari, "segno-come-cosa": cosicché la parola mostrerà come trottola, annebbiate dal vorticare della vita, le sue mille indefinibili facce, la sua imprendibile verità, fresca, coinvolgente, ironica e tragica: sarà la "parola polena" e la "parola malà", la "parola matita" (dalla scrittura cancellabile e desiosa d'inchiostri per durare), la "parola coi busi" (in attesa di un senso), la "parola morbin" (che "schissinosa la trema / i oci lusori come stele"), la "parola denaro" (che "se scortega anca in donare"), la "parola sigà" (urlata), la "parola sguardo" (che s'intriga nel rapporto, e i suoi manierismi, fra parola e immagine), la "parola fiaba" (ormai lontana l'innocenza antica dei bambini).... Fino al dramma della "parola droga" (che "vis-ciosa calamita stracopa l'anema" - un verso forte che racchiude paura, rabbia, impotenza, dolore). La parola, infine, come segno di verità e di menzogna, di facezia e di tragedia. La parola origine e fine delle cose, delle storie. Risorsa e condanna. Misura e dismisura. Canto e grido.

Di ciò è fatta la natura de El sabo (il sabato), giorno del riposo e della rimeditazione, ma "ramai remoto lunario" (ormai remoto lunario):

"El sabo ramai remoto lunario / scritura weekend a mesasta / co mile robe co merto e falimento / xe cambià / la neve dei balochi se sfanta prima de rivar..."

[Il sabato ormai remoto lunario / scrittura weekend a mezz'asta / con mille cose di merito o fallimento / è mutato / la neve dei balocchi si dissolve / prima di giungere...].

La parodia del "sabato del villaggio" che investe la nullità del consumistico weekend contemporaneo. L'innocenza fatta consumo, appunto. Eppure, ancora, in

"'Sto sabo caldo in Alto Adige / sonà da nuvole de riguardo / nei boschi abeti longigotici / solenni, ricordi de le carte / parlarole che ga qua partorìa / la nave per Atene..."

[Questo sabato caldo in Alto Adige / suonato da nuvole cortesi / nei boschi abeti longigotici / solenni, ricordi delle carte / loquaci che hanno qui data alla luce / la nave per Atene...]

non si sperdono del tutto le memorie dei sabati giovanili, dalle avventure scrittorie sollecitate dai paesaggi, dalle "cose", ancora: reminiscenze benefiche e vitali, tuttavia occultate nelle discrepanze del vivere d'oggi e delle ironie amare che ne ridono e ne piangono.

De I bocete, delle loro innocenze e malizie, pur esse venute da sabati, da vacanze lontane, già si è detto: le loro epifanie, le loro crescite da lattonzoli a protagonisti inconsci de "'Sto storto mondo". Su di loro si abbatte l'insipienza del presente, e in loro tuttavia si rivela il principio dell'essere. Ma fedi e violenze si scatenano sulla purezza del verbo che inesorabilmente si nega all'infanzia e alla giovinezza, slabbrando la vita che si disfà in un dramma individuale ed epocale:

"... I nostri, lindi stirai in soasa, / campioni de versi e malusai / congelai con superoto i primi / passi in bala; sofegai de robe / sensa dire bai al fastidio, / - ma la colpa - siga la mare / - xe del pare massa fiapo - / tuti do parsora come l'ojo. / 'Na matina la siora in nero / nel so iride caressava la falsa / contrita in viso de pecà, / stravanivo par cavarla via / scaldarla col fià / la ghe sta drio pnotisà".

[... I nostri, lindi stirati in cornice, / campioni di gesti e viziati / cinematografati con camera superotto i primi / passi traballanti; soffocati di cose / senza dire bai al fastidio, / - ma la colpa - grida la madre / - è del padre troppo debole - / tutti e due al di sopra come l'olio. / Una mattina la morte / nella sua iride accarezzava la falce / con volto contrito di pena, / impallidivo per sottrargliela / riscaldarla col fiato / lei la seguiva ipnotizzata].

Niente s'arresta: dalle favelas a Bagdad, all'egoismo del nostro benessere, la strage degli innocenti si perpetua. Anche con il supporto dei mass-media rivolti all'annichilimento delle coscienze. In I bocete, il testo, la cantica forse più materica e universalizzabile, il dramma individuale si fa illimitata coscienza storica. Dalla felicità del balbettio tanto inconscio quanto vivace e favolistico, alla caduta delle speranze per quell'avvenire che è la gioventù. E l'opaca memoria della propria infanzia rimane l'ultimo illusorio incanto:

"... Me cato dosso 'sti singaneti / tribolando gropo a gropo / nel su e zo de la campanela / che me scatava come l'Amelia / nostra balia suta che me cavava / dal castigo del papà. / Drento 'sta vita rugolava el triciclo / sensa gome... / ... / Nel sogno somejavo a la mama / menà da bulo cavalin / bianco sauro infiochetà".

[... Mi trovo accanto questi zingarelli / tribolando nodo a nodo / nel su e giù della campanella / che mi faceva scattare come l'Amelia / nostra balia asciutta che mi sottraeva / al castigo di papà. / Dentro questa vita rotolavano il triciclo / senza gomme... / .../ Nel sogno assomigliavo alla mamma / trasportata dal cavallino galante / bianco sauro infiocchettato].

Diaboleria molto si scandisce nella speranza in una capacità, almeno, del dire. Di costruirsi un mondo ad immagine del proprio segno, materico, profondo, biologico. Alla ricerca di un riscatto linguistico, che è la volontà di una vita finalmente prolifica di cose come idee, e di ideali semplici, puri, come ragioni per essere e per viverne l'avventura:

"El dialeto. Se prova sensa convenevoli / e co umiltà 'na capatina pèpola / sul dialeto no par delucidare / ma co la fraca de lampra passion / dei cavalieri pal tesoro del Graal...".

[Il dialetto. Si tenta senza convenevoli / e con umiltà una capatina piccola / sul dialetto non per delucidare / ma con la carica di limpida passione / dei cavalieri per il tesoro del Graal...].

Alla scoperta persino della propria corporeità, del proprio passaggio tangibile nella teoria dell'universo:

"El dialeto corporeo xe par mi / importante come la prima mimica / le statuete posturali, el rispeto / de come comportarse par fare / 'na peca virtuale a la parola / cioè el ghe entra nel pensiero / de la scritura raisa geroglifica / de la materia che crea vita / da no tocare mai...".

[Il dialetto corporeo è per me / importante come la prima mimica / gli atteggiamenti posturali, il rispetto / del comportamento per fare / uno stampo virtuale alla parola / cioè penetra nel pensiero / della scrittura radice geroglifica / della materia che crea la vita / da non toccare mai...].

Fino alla necessità di riprendere, riconquistare, attraverso la 'lengua antica e nova' la propria salda poeticità, un poco svanita nel tempo e nelle diverse ragioni dei tempi, delle famose Minusgrafie, in cui l'originaria coscienza ideologica recupera freschezze e attualità, verità d'accenti. Così dalla convinzione poetante secondo la quale: Il pensiero filosofico smanioso / guida sopra il manicomio / sul gioco rogo soffice del demonio / il pensiero camuffato dell'ultima / rivoluzione industriale, non quella / verde azzurra di campi e mari / cielo e fiumi rivolta seriamente / ad un migliore benessere dei vivi sulla terra..., si riaccende nella forma del "dialeto corporeo", e nella tragicamente immutata nozione del vivere quel

"... pensiero filosofico smanioso / [che] timona parsora el manicomio / sul zogo rogo software del demonio / el cognito camufà de l'ultima / rivoluzione industriale, no quela / verde azura de campi e mari / cielo e fiumi volta dasbòn / a un mejo stare dei vivi su la tera".

Ed espressamente in Smanie l'impegno (per usare un abusato lemma) si rivolge ai motivi di più incombente attualità:

"Do tre canali spurgai / da rogna liquami. Sità de le acque / su arzari marsi s'insùnia fonti. / Un giorno imbarca pessi morti / draga boade de fogne impongae".

Anche qui si può 'gustare' quanto il dialetto, anzi il volgare padovano, sia di ben forte espressività - anche nauseabonda! - rispetto alla dizione in lingua:

[Due tre canali puliti / da rogna liquami. Città delle acque / su argini marci sogna le fonti. / Un giorno imbarca pesci morti / draga ventate di fogne intasate].

La preoccupazione ambientale diviene occasione di una nostalgica visione della sua Padua, che sgorga in vertigini, fantasmi, sogni e sofferenze:

"... Padua spapolà / in mestieri orbi sgnaca fora / vertigini genuine, fantasmi / in biciclete, bavesèle sensi / el Parnaso qua trasvolà, vecio / parlare pedalà da la mente".

[... Padua spappolata / in problemi ciechi (emana) sgorga / vertigini originali, fantasmi / in biciclette, zeffiri sensi / il Parnaso trasvolato qui, vecchio / parlare pedalato dalla mente].

Così, di passo in passo, lungo il fiume limpido della fede nella poesia, e nella sua profonda ragione primigenia, che è la fede stessa della vita, malgrado tutto, il pellegrino si avvicina a un luogo mitico di voci e di ascolti che per l'appunto s'infiora di lingua quotidiana:

"Delirio sigàla. La voce camina su e zo parole / nunsie de poesia vestigiale / 'na ontofania precisa fantasia / leta all'indrìo ravien eco l'universo / xe un buto lesiero del corpo / che struca fora sóni e respiro / de sensi, el cuore dei fiori".

[Delirio cicala. La voce cammina su e giù parole / annunciatrici di poesia vestigiale / una ontofania precisa fantasia / letta a ritroso rinviene eco universo / è una gemma leggera del corpo / che esprime suoni e respiro / di sensi, il cuore dei fiori].

Ma dal quotidiano e oltre si articola una palingenesi forse favolistica e illusoria: tuttavia icastica nella presa di possesso della nostra presenza nel mistero fascinoso e paradossalmente tangibile e visibile - per chi lo voglia - dell'universo che ci comprende e si dona. Per chi lo voglia:

"Vose perizoma de un posso lassà / tabù vanti a snìvia scala / d'un castelo drito su scarpà / simile a balaustra dela bassa. / La vàmpola vigne, sari e colori / zonche de bambù, sagome de Dodi / supi de balene, doje de mare. / La contralto in betel sui corali, / co telo candido in vita, catapulta / spirto de pronomi e strofe a la deriva / dove ogni roba trama, se ciama / se perde da sé e ognuno / in etica empatìa se specia".

[Voce perizoma di un pozzo deserto / tabù davanti a serica scala / d'un castello eretto su scarpata / simile a balaustra di pianoro. / Lei germoglia vigne, sari a colori / giunche di bambù, sagome di Dodi / soffioni di balene, doglie del mare. / Il contralto in betel sui coralli, / con telo candido avvolto in vita, catapulta / spirito di pronomi e strofe alla deriva / dove ogni cosa trama, si chiama / si perde da sé e ognuno / in etica empatia si specchia].

Chi lo voglia, comunque, non può mai dimenticare che dovrà scoprire la luce sotto il pesante incubo, naturalissimo d'altronde, di un'ombra. Perché "Nassita e morte parole insupae / de pianto che taca e destaca / la spina del ciaro e del scuro... [Nascita e morte sono parole (inzuppate) intrise / di pianto che inseriscono e disinseriscono / la spina della luce e del buio...], cosicché ci "Perséita un nihil note che intriga / le savie vie e s'intragedia in un mondo / perso... [Persèguita un nulla notte che intriga / le sagge vie e si fa tragedia di un mondo / perduto...].

Chi voglia, perciò (per ritornare su una constatazione essenziale in questo poema del primo volgare e delle sue metamorfosi biologiche), deve prendere coscienza che la parola poetica non è uno strumento di sdilinquite nostalgie e illusioni evasive e consolatorie, bensì un'arma da affilare per un duello inevitabile fra il nulla e la volontà innata di vita. Per la conquista di quel Graal che non è poi così lontano e inaccessibile: basta cercarlo fra le cose che ci circondano nella quotidianità di un gesto, di una voce che può anche venire, e forse più facilmente viene, dal fondo del dialeto.


Su Scribendi licentia di Cesare Ruffato

di Paolo Frasson

Col titolo Scribendi licentia, Cesare Ruffato ha da poco raccolto in un unico volume, pubblicato da Marsilio, le diverse raccolte di poesia «in volgare padovano» che ha scritto fino ad oggi: dalle prime Parola pìrola (1990), El sabo (1991), alle più recenti Vose striga (1990-1997) e Giergo mortis (1997). Come si vede dalle date, quasi un decennio di lavoro dedicato, se non esclusivamente certo in modo costante, alla reinvenzione del «volgare». A dimostrare che tale reinvenzione è fatta con slancio e sapienza degni dell’interesse del lettore è sufficiente la mole stessa del volume (più di 400 pagine) e la varietà di temi e motivi che vi si possono individuare anche con una rapida scorsa. Interessante, poi, in calce ad ogni pagina, è anche la versione in italiano dei testi, eseguita dallo stesso autore con accurata scelta lessicale (che, tra l’altro, rispetta l’ordine delle parole), per cui – come accade sempre in questi casi – un lettore bilingue può rendersi immediatamente conto della diversa forza con cui le stesse immagini o gli stessi concetti possono essere espressi a seconda della lingua usata. E, per anticipare brevemente un giudizio complessivo, bisogna riconoscere che Ruffato riesce a richiamare alla memoria una tale varietà e ricchezza lessicale da rendere la sua poesia quanto meno una preziosa testimonianza di quella parlata dialettale che, dopo essere andata lentamente scomparendo, è oggi da più autori ricercata e recuperata.
Entriamo allora nel merito del volume seguendo proprio quest’ordine di problemi, che possiamo rendere più espliciti con alcune domande. Per esempio: di che natura è la lingua usata da Cesare Ruffato in queste sue costruzioni cicliche, tendenzialmente poematiche, che compongono Scribendi licentia? Oppure: di che natura è l’operazione linguistica compiuta dal poeta? I poeti che scrivono in dialetto coniugano, verosimilmente, l’amore per questa lingua col desiderio (o l’impegno) di ridarle vita e renderla in qualche modo nuovamente attuale, se non altro per il tesoro di forme che essa custodisce. Partono dal presupposto che, a fronte di un italiano ormai frusto e stiracchiato, il dialetto conservi nelle sue radici una forza poetante. Apparentemente in modo non diverso, Ruffato scorge nel dialetto «'na religion da ereditare» (p. 168) e, tuttavia, già questa espressione ci schiude un orizzonte affatto nuovo di pensiero. Infatti, nella prospettiva indicata da questo verso, non si tratta tanto di restaurare un vernacolo, o una lingua popolare: nella prospettiva del restauro ogni tentativo dialettale ha già perduto la sua scommessa. Non di recupero, dunque, parla Ruffato, ma di eredità: non si tratta di recuperare il dialetto, ma di ereditare la lingua dei nostri padri che è quel complesso processo linguistico che dal latino ha prodotto i vari dialetti, con le loro infinite varietà locali.
È vero quel che scrive il poeta: «La prima fiata che me son catà / nel dialeto xe sta la vose de mama», e nella prospettiva di una religione da ereditare, il dialetto diventa un frutto spirituale che può essere strappato dall’oblio e dalla caduta soltanto a partire da un’elezione. Richiede che una persona, un poeta, sia in grado di elevarlo a oggetto del proprio piacere e coltivarlo come proprio beneficio. Richiede, insomma, che un artista, ritrovandovisi, sappia elevarlo alla dignità di lingua. Ne deriva che donarsi alle sorti del dialetto non è soltanto un’esperienza tra tante, ma un’esperienza di vita. Forse proprio per indicare un’esperienza di questo tipo troviamo come sottotitolo al volume di Ruffato: «Poesia in volgare padovano». L’uso della parola «volgare» al posto di «dialetto» (oggi infatti si parla per lo più di poesia «in dialetto») è significativo, se non altro perché rimanda alle origini dell’italiano e, appunto, ai «padri» di questa lingua. E tra tutti, in Diaboleria (1993), poco dopo il passo riportato (ma anche altrove), viene citato proprio Dante, con queste parole:

El finfa proprio in sercio streto
endofasia de ’na perla sfinia
el se frua spiera per endofagia.
’Sta passion tien vivo el conceto
vocale famoso a u (v) i e o de Dante.

"Frigna proprio in cerchio stretto / endofasia di una perla sfinita / si consuma lama di luce per endofagia. / Questa passione mantiene vivo il concetto / vocale famoso a u (v) i e o di Dante".

Par di capire, allora, che l’ottica nella quale lavora Cesare Ruffato è quella di guardare al dialetto (ai dialetti) come ad una lingua che, conservatasi (forse proprio in quanto dimenticata) ancora sostanzialmente integra, diventa il punto di partenza non tanto per riformare l’italiano, ma per forgiare un nuovo volgare, la lingua del prossimo evo.
Rigorosamente coerente con questo assunto, il volgare di Ruffato non è il dialetto che evoca, con un misto di malinconia e di fatalismo, una civiltà ormai trascorsa (la civiltà contadina), i suoi paesaggi e i suoi valori. Niente di tutto questo in Scribendi licentia, neppure là dove sembrano affiorare personaggi o luoghi di quel mondo. Il volgare di Ruffato è piuttosto un impasto primordiale chiamato a cantare gli aspetti più diversi della vita; è una lingua, in cui confluiscono diverse lingue (il latino e il greco; l’italiano anche nei più arditi neologismi; il francese e altro ancora), chiamata a confrontarsi con tutti i temi possibili e ad uscirne vincitrice. Valga, come esempio, un brano poetico tratto dalla stessa raccolta:

’Sto dialeto da sora pare forse
’na machineta da foto infrarossi
scalon dei colori puntilioso
permaloso ciak dei atimi de polpa
de paca dresfai, spumantina danseuse
sui sòcoli trampoli savatele
recioto un tantin agrodolse, forse
’na janua coeli o ciara stela
vose panoramica universale
de salmi, togarìa sgrisolona
de la materia primobùto, forse
’na lengua materna che viaja
da le vissere a la metafora
un tesoro de luce fogo acqua aria
e sostanse che ne dà vita. O tochi
de carbon ne la calsa de la striga.

"Questo dialetto dall’alto sembra forse / una machinetta da foto a raggi infrarossi / scalone dei colori puntiglioso / permaloso ciak di istantanee di sostanza / rapidamente disfatte, effervescente danzatrice / sugli zoccoli, trampoli, ciabattine / recioto un pochino agrodolce, forse / una janua coeli o chiara stella / voce panoramica universale / di salmi, attrazione brividante / della materia primigenia, forse / una lingua materna che viaggia / dalle viscere alla metafora / un tesoro di luce fuoco acqua aria / e sostanze che ci danno vita. O pezzi / di carbone nella calza della strega".

Sembra quasi che sia proprio per mettere alla prova questo suo nuovo strumento che il poeta tocca i motivi più diversi, dalla rappresentazione del paesaggio primaverile alla meditazione filosofica; dalla descrizione scientifica all’evocazione degli affetti familiari. Non mancano neppure poesie in cui la lingua viene mobilitata a cimentarsi con temi desunti da discipline moderne come la psicanalisi, la sociologia o la linguistica. E bisogna ammettere una cosa che alla fine desta un poco di stupore: sembra che il volgare di Ruffato non si trovi mai in difficoltà ad esprimersi in registri così differenti. Una lingua, il dialetto, che a causa delle condizioni storiche in cui si è sviluppata sembra pronta a muoversi in un ristretto orizzonte di temi e registri, si rivela invece duttile e versatile in questa nuova combinazione che abbatte ogni preconcetta divisione linguistica. Il dialetto padovano diventa «volgare padovano» proprio grazie all’opera del poeta che riesce a creare nuovi vocaboli, forgiare nuove forme, suggerire possibilità inaspettate; il volgare padovano assume in questo modo la dignità di lingua.
Alcuni sostengono che il dialetto restituisce una riserva inestimabile e preziosa per dare nuovo vigore alla lingua nazionale. Ma poi, a ben guardare, non molto è stato fatto in questa direzione dagli scrittori, che preferiscono per lo più inserire nei loro testi espressioni tratte dal parlato piuttosto che italianizzare vere e proprie espressioni dialettali. Altri guardano al dialetto come a un valore in sé, da custodire e difendere. Ma così i poeti dialettali si sono diretti, in genere, verso un’improbabile operazione archeologica: il recupero d’una lingua che ormai esiste soltanto come lacerto o frammento. Il risultato è che poesia in italiano e poesia in dialetto procedono come due filoni espressivi ben separati l’uno dall’altro. Come si capisce, Ruffato ribalta questa impostazione: il suo «volgare» ha il potere d’una calamita. Attrae nella sua orbita non soltanto, come si è detto, altre lingue, ma prima di tutto la lingua italiana. Numerose sono le parole italiane dialettizzate, e non soltanto quelle specifiche di alcuni linguaggi tecnici e che, quindi, non possono avere alcun corrispondente nel dialetto. Insomma, capita che il poeta si avvalga della stessa tecnica che usa il parlante, quella cioè di ridurre e plasmare nelle forme del suo particolare linguaggio ogni nuovo termine, ogni nuova parola. Ecco allora perché, come scrive giustamente l’autore, la lingua di queste poesie non è dialetto – se per dialetto intendiamo una lingua di cui oggi è possibile soltanto il recupero –, ma, appunto, volgare, cioè una lingua che ha forti legami col parlato ed è quindi capace di trasformarsi e rinnovarsi di continuo, benché si fondi su una tessitura dialettale che sicuramente recupera molti termini oggi dimenticati.
Succede a volte, nella lettura, di provare una sorta di straniamento. Ci troviamo d’accordo nell’apprezzare l’efficacia di tante parole dialettali, ma poiché il dialetto è stato declassato a seconda lingua, i suoi termini non mancano d’apparirci espressione d’un sermo humilis. Ora, questi stessi termini quando sono usati dal poeta per esprimere riflessioni filosofiche o morali, rimandano al lettore una sensazione curiosa: ci si chiede se non irrompa improvvisamente nel testo una sfumatura ironica o comica. Ecco, per esempio, un brano tratto dai Bocete (1992):

Se i magna poco cicin o male
i se storpia, stue intasae
no i tira più, boficini sbassai
panseta da rana pele seca
oci in fora sbiadii
infame documento dei lager.
I nostri, lindi stirai in soasa,
campioni de versi e malusai
congelai co superoto i primi
passi in bala; sofegai de robe
sensa dire bai al fastidio,
- ma la colpa - siga la mare
- xe del pare massa fiapo –
tuti do parsora come l’ojo.
’Na matina la siora in nero
nel so iride caressava la falsa
contrita in viso de pecà,
stravanivo par cavarla via
scaldarla col fià
la ghe stava drio pnotisà.

"Se mangiano poca carne o male / si storpiano, stufe intasate / non tirano più, culetti abbassati / pancina batraciana pelle secca / occhi sporgenti sbiaditi / infame documento lager. / I nostri, lindi stirati in cornice, / campioni di gesti e viziati / cinematografati con camera superotto i primi / passi traballanti; soffocati di cose / senza dire bai al fastidio, / – ma la colpa – grida la madre / – è del padre troppo debole – / tutti e due al di sopra come l’olio. / Una mattina la morte / nella sua iride accarezzava la falce / con volto contrito di pena, / impallidivo per sottrargliela / riscaldarla col fiato / lei la seguiva ipnotizzata".

Ad un lettore che conosca il dialetto usato dal poeta, ma parli di solito l’italiano (riservando quella lingua ad un contesto espressivo o confidenziale), termini quali «cicin» (tratto dal linguaggio petèl) o similitudini del tipo «panseta de rana» (ma si possono trovare nel testo altri esempi simili) non mancheranno di far pensare lì per lì ad un registro «comico». Eppure l’evocazione dei lager (o in un’altra poesia l’accenno alla strage degli innocenti, all’idea dei quarantamila bambini che muoiono di fame ogni giorno) oppure l’immagine della morte che accarezza la falce non lasciano dubbi sul fatto che il poeta parla seriamente. Non c’è comicità o scherzo nelle sue parole. E che sia proprio così, lo dimostra non soltanto tutta la versione in italiano, ma, in particolare per esempio, la scelta di riportare «panseta da rana» in termini tecnico-scientifici: «pancina batraciana».
Allora, se qui uso il termine «comico» non lo faccio a caso: con esso faccio riferimento alla Commedia dantesca. Questa deriva il suo nome proprio dalla scelta programmatica di usare un sermo humilis, che, nell’epoca in cui veniva scritta, era appunto il volgare. Ora non è escluso che nei lettori medioevali colti e abituati al latino, l’uso del volgare per esprimere concetti filosofici o teologici non finisse per suscitare quegli effetti di straniamento di cui ho parlato e che per noi lettori moderni sono sicuramente superati, perché le parole usate da Dante hanno perso la loro valenza «comica» di derivazione humilis. Questo riferimento ad un testo delle origini della lingua italiana risulta assai importante per capire come debba allora essere inteso e percepito il linguaggio di Scribendi licentia: nel leggere il libro è necessario far riferimento ad una sorta di grado zero della scrittura, e cercare di interpretare le parole usate dal poeta per il loro più schietto valore referenziale. In altri termini, se si vuole capire fino in fondo la natura e il valore dell’opera di Ruffato, le parole che egli usa non devono essere sovraccaricate di quel valore supplementare, allusivo ed evocativo, che ci deriva per lo più dall’uso che facciamo del dialetto come lingua dell’immediatezza espressiva, con la quale talvolta vogliamo manifestare di proposito una certa grossolanità e rozzezza.
Poiché, dunque, nella scrittura di Ruffato intervengono istanze tali da costituire una trama e un ordito assai complessi, non è strano che l’opera di questo poeta abbia già suscitato l’interesse dei linguisti: proprio per studiarla è stato recentemente promosso un convegno dal Dipartimento di Italianistica dell’Università di Padova. Un motivo ulteriore, questo, per leggere con più attenzione il volume appena pubblicato e guardare con curiosità alle prossime opere del poeta.


Cesare Ruffato: la semantica gergale e razionale dell'idioletto corporeo e della poesia dialettale diacronica, il bioritmo dello stile-mama

di V. S. Gaudio

1. Le variabili morfo-lessicali e gli Indicatori Globali del Codice Elaborato di Ruffato

Se dovessimo verificare le caratteristiche sociolinguistiche del Codice Elaborato del Ruffato poeta dialettale non potremmo che segnalarle in questi sei punti:
1) la frase è breve, ma la sua semplicità è soggetta a un accurato ordine grammaticale;
2) l'uso delle congiunzioni è semplice e ripetuto, ma c'è anche un frequente uso di proposizioni che indicano relazioni più complesse;
3) c'è un uso ripetuto di pronomi impersonali;
4) una selezione discriminativa tra una serie di aggettivi e avverbi;
5) il simbolismo espressivo, nel fornire un supporto affettivo a ciò che si dice, ha un ordine di astrazione piuttosto alto;
6) l'uso linguistico punta alle possibilità inerenti ad una complessa gerarchia concettuale.
Che sono una sintesi delle 18 caratteristiche di cui riferiva il sociolinguista inglese Basil Bernstein nel saggio A public language: some sociological implications of a linguistic form: dieci punti attengono alle caratteristiche del cosiddetto Codice Ristretto, il "linguaggio pubblico" in uso presso la working class e otto punti attengono alle caratteristiche del Codice Elaborato, il "linguaggio formale" in uso presso la middle class.
Ora, io voglio ricordare che, a un certo punto della biografia di Cesare Ruffato, la forma soggettiva del poeta si è fatta meno ermeneutica, tanto che, di pari passo, l'immaginario, fattosi meno rigido e meno formalizzato, divenne più corto: quando l'immaginario si fa più corto vuol dire che ha perso un po' del ditematico, e significa anche che quella vertigine, a cui il lettore sospende la sua alea, è meno ambigua, al punto che il senso sembra che non si sposti ma che scivoli, o voli via.
Se è il Tu che si fa misura del soggetto ermeneutico, quando la forma soggettiva comincia a contemplare gli altri, grosso modo a partire da Prima durante dopo, l'espressione lessicale del linguaggio tecnico del corpo muta registro, allora "la connotazione tocca il sintagma e il sintagma è più felice, come se corresse sulla pista di un sistema verbale a corta distanza".
Questo è il 2° Stile di Ruffato, lo Stile B: che si differenzia dal 1° Stile di Ruffato, lo Stile A, quello di Caro ibrido amore, Minusgrafie, Parola bambola, quando la sensorialità del poeta non era gestita dal tempo del proprio habitat ma dal tempo dell'habitat dell'altro, ragione per cuio lo spostamento continuo dell'ossessione del Codice Elaborato, con un sintagma dietro l'altro, caricava di affettività sociale la scrittura.
Se si va ad analizzare quello che sto chiamando Stile A, mettiamo, con qualcuna delle 90 variabili linguistiche che alcuni sociolinguisti, basandosi sulla Grammatica italiana descrittiva di Regula e Jernej, scelsero come indici per verificare la differenza tra "Codice Ristretto" e "Codice Elaborato", si possono usare molte delle 32 variabili morfo-lessicali, ad esempio il Totale Sostantivi, i Sostantivi Differenti, il Totale Aggettivi, gli Aggettivi Differenti, gli Aggettivi Qualificativi, gli Aggettivi Qualificativi Differenti, il Totale Avverbi, gli Avverbi Differenti, il Totale Verbi, i Verbi Differenti, il Rapporto Verbi/Aggettivi, il Rapporto Verbi/Sostantivi, il Type token (che è il rapporto tipo/ricorrenza applicato alla somma di sostantivi, aggettivi, verbi ed avverbi differenti, divisa per la somma dei rispettivi totali), i Modi della realtà Semplici, i Modi Infiniti, la Diatesi Attiva, la Diatesi Passiva, il Rapporto Verbi Passivi/Totale Verbi, le Congiunzioni Coordinative, le Congiunzioni Subordinative, il Totale Congiunzioni, le Preposizioni Improprie, gli Elementi Radicali (Lessemi), gli Elementi radicali più Elementi Flessionali, i Sostantivi Derivati.
Lo Stile A di Cesare Ruffato, in poche parole, ricco di molte di queste variabili, si correla positivamente con lo status alto e, quindi, con le caratteristiche del "Codice Elaborato" descritto da Basil Bernstein: che non vi venga in mente di pensare all'esame delle variabili sintattiche (Proposizioni principali, coordinate, subordinate di 1°, 2° e 3° ordine, Indice di Loban, Indice di Lawton, Proposizioni esplicite, temporali, consecutive), e che, invece, vi venga l'uzzolo di sostituire le variabili del 3° gruppo, indicate dai sociolinguisti bernsteniani come Indici delle incertezze e degli errori nell'uso della lingua, con gli Indicatori Globali che Abraham A. Moles usa per analizzare l'immagine e/o lo schema e che caratterizzano anche la morfologia e la connessa retorica del testo poetico: il tasso di Iconicità, dell'immagine, corrisponde al tasso di Intellegibilità del testo; il tasso della Complessità è identico; la Pregnanza dell'immagine corrisponde all'entimema e al ruolo delle ellissi; alla combinatoria i procedimenti retorici; al tasso di Polisemia il tasso di Ambiguità; alla carica connotativa il rapporto denotativo/connotativo.

2. Lo Stile A e lo Stile B: codici di Bernstein e Indicatori Globali di Moles

Lo Stile B di Cesare Ruffato comincia a correlarsi positivamente con lo status del "Codice Ristretto" descritto da Basil Bernstein: questo 2° Stile perde "complementi e ombre, è più immediato", l'esserci, ritrovando la connessione primaria tra Identità di Percezione e Identità di Pensiero, si avventura nell'altro e, come tocca l'identico e l'impossibile, conosce, vive e narra; insomma, registra informazioni e misura. Questo Stile B nasce come Prima durante dopo e corrisponde a quello che ho chiamato testo-punctum: "ha una certa instabilità visiva, come se cercasse di costituire una Paarung accarezzando l'altro. Carezza il mondo che c'è e si allontana, carezza il,reale che è il Dasein di chi scrive, carezza l'immaginario ditematico del suo esserci".
Prima dello Stile B c'era lo Stile A, che dura fino a Parola bambola, e che è quello del sintagma vestito, quello che ancor prima ho chiamato testo ditematico: "ed è questo linguaggio ditematico che sospende l'alea del lettore a una vertigine da sostituire solo con il silenzio o il bianco della pagina. Il testo di Ruffato è fatto di un linguaggio misto che lo pervade di ambiguità sistematica".
Prima di svelarvi il mistero del perché mi sia riferito alla sociolinguistica di Bernstein, che è della fine degli anni cinquanta e dell'inizio degli anni sessanta ma che è anche elaborata da altri studiosi per tutti gli anni settanta, differenziamo i due stili di Cesare Ruffato, non con le 32 variabili morfo-lessicali né con le 35 variabili sintattiche, ma, semplicemente, con gli Indicatori Globali di Abraham A. Moles, che è un modo per rendere più iconica la poesia, che, essendo così astratta e contrapponendo il valore letterario al valore estetico dell'immagine e dello schema, avrebbe bisogno di essere analizzata con strumenti usati di solito per l'altro medium al fine di ottenere almeno un terzo del potenziale di fascinazione dell'immagine ad alto valore estetico.

TAVOLA A – Gli Indicatori Globali nello Stile A e nello Stile B di Cesare Ruffato
Stile
Testo
Iconicità

—————
Intellegibilità

Complessità

——————
Normalizzazione

Polisemìa

————
Ambiguità

Pregnanza Rapporto denotativo

connotativo

Bernstein       
1° STILE:

Stile A
TESTO-DITEMATICO

1974-1983
Caro ibrido amore
Minusgrafie
Parola bambola

-= +X -= =Codice Elaborato: =+ 
2° STILE:

Stile B
TESTO-PUNCTUM

1989
(1987)
Prima durante dopo
(Trasparenze luminose)

=+ == =+ +Codice Ristretto: =+ 

LEGENDA

-= TASSO NEGATIVO. Il tasso evidente dell'Indicatore è insufficiente perché nello stile adottato non conta. Ma è insufficiente anche perché è ALTO, o EVIDENTE, il tasso dell'Indicatore complementare; per esempio: -= in Iconicità ’! X in Polisemìa; -= in Pregnanza ’! + in Complessità.

= TASSO SUFFICIENTE, POSITIVO.

=+ TASSO PIÙ CHE POSITIVO.

+ TASSO ALTO.

x TASSO ALTISSIMO. Da solo questo Indicatore, in presenza di almeno due effetti insufficienti in altri Indicatori, può essere la chiave dello stile del poeta.

Nello Stile A, il campo simbolico, occupato dall'autore in quanto attore della performance, allunga sintagmi e sensi, tanto che non si riesce a capire se è il corpo, ispezionato da se stesso, che parla o parla con il suo occhio particolare.
Il Codice Elaborato non contiene l'inesprimibile, e perciò questo non può farsi pensosità. Piuttosto con questo Codice Elaborato il poeta scrive il ditematico che, non essendo più orale, affronta il senso del paradosso.
Le variabili morfo-lessicali correlano positivamente la non-univocità che curva ogni enunciato: l'alto tasso di Polisemia, parallelo al buon tasso di Complessità, dà valore letterario al testo, anche in presenza di un rapporto denotativo/connotativo non tanto esplosivo, proprio in ragione della specificità del Codice Elaborato.
Nello Stile B, il testo-punctum effettua una collusione tra percezione e durata, si dà misura inventando un tema che viene svolto rendendo complici o reversibili l'altro e il narcisismo cosmico.
Tra la parabola dell'ego e l'iperbole dell'altro, la forma soggettiva del poeta verifica, da questo momento, le pertinenze dell'immaginario per costruirsi un equilibrio che gli permetta di riconoscere nella verticalità dell'infinito le ossessioni della propria biografia.
Il Codice ristretto comincia ad assottigliare la ridondanza e fa intravedere una certa stabilità: difatti, la Complessità si "normalizza", l'Iconicità si innalza, l'ambiguità sistematica si rarefà, il rapporto tra denotazione e connotazione è più intellegibile come se la scrittura fosse più attiva e potente: "la connotazione tocca il sintagma e il sintagma è più felice, come se corresse sulla pista di un sistema verbale a corta distanza".
Diminuisce il rapporto Verbi/Sostantivi e Verbi/Aggettivi: l'Identità di Percezione, avendo meno tempo a disposizione, non insiste con gli accumuli nominali e la metafora più dolce e docile, cullando l'oralità del poeta, ne allontana inquietudini e ansie.

3. Lo stile della prosperità, lo stile della contemplazione e l'idioletto del corpo.

Se il tasso degli Indicatori Denotativi (= Intelligibilità e Pregnanza) dello Stile B è più alto del tasso degli Indicatori Denotativi dello Stile A, vuol dire che, nel Codice Ristretto, la correlazione positiva nel settore morfo-lessicale interessa più che altro il rapporto Verbi/Aggettivi, le Congiunzioni Coordinative e Subordinative, e le Preposizioni Improprie.
Specularmente, il tasso degli Indicatori Connotativi (= Complessità e Ambiguità) subisce una riduzione non indifferente rispetto al tasso degli Indicatori Connotativi funzionale nello Stile A.
"Nei testi di Prima durante dopo e di Trasparenze luminose, il tempo non ha più l'esplosione luminosa dell'infinito, ma la serenità del vento che soffia sulla terra, che è l'immagine della contemplazione nell'esagramma KUANN dell'I Ching: adesso il vento giunge dappertutto e mostra tutto, il 'nove all'ultimo posto' significa proprio: contemplare gli altri".
Il Vento sulla Terra dell'esegramma 20

_____

_____

__ __

__ __

__ __

__ __

ha, in alto, il 9 al sesto posto e, in basso, il 6 al primo posto: l'intelligibilità del verso, riducendo l'ermeneutica della forma soggettiva, facilita la contemplazione del corso della propria vita, che è il 9 al quinto posto e che, nella Tavola A, è il tasso = della Complessità; il Codice Ristretto =+, che è il 6 al primo posto, permette di osservare le cose alla maniera dell'Identità di Percezione del poeta-ragazzo, ma con tutta la potenzialità dell'Identità di Pensiero radicata dal 6 al quarto posto (che è = in Ambiguità), dal 6 al terzo posto (=+ in Pregnanza) e dal 6 al secondo posto (+ in Carica Connotativa): dallo studio del Dasein alla contemplazione della propria vita come se spiasse dal battente socchiuso della porta dell'Identità di Pensiero.

V
E 6° %%%%% Intelligibilità
N 5° %%%%% Complessità
T 4° %% %% Ambiguità
O T 3° %% %% Pregnanza
E 2° %% %% Carica connotativa
R 1° %% %% Codice Ristretto
R
A

Nel testo-ditematico, l'esagramma dell'I Ching è il 55, FONG, l'immagine dell'abbondante prosperità, il Tuono sul Fuoco in cui, al primo posto, c'è il 9 che serve a far risaltare la prosperità dello stile, specchio del 6 all'ultimo posto, quando lo stile ditematico con cui guarda dall'alto della sua superba Polisemia coglie il silenzio del Dasein: come se l'esserci così prospero scoprisse, nell'iperbole dell'ego, l'assenza dell'altro, il contatto impossibile con il tu.

T
U 6° %% %% Intelligibilità
O 5° %% %% Complessità
N 4° %%%%% Ambiguità
O F 3° %%%%% Pregnanza
U 2° %% %% Carica connotativa
O 1° %%%%% Codice elaborato
C
O

Il Tuono sul Fuoco ha uno stile poco iconico e intelligibile al 6° posto, le metafore complesse al 5° posto, l'ambiguità sistematica al 4° posto, tutti elementi connotativi eccitanti illuminati dal fuoco della Pregnanza insufficiente al 3° posto, del rapporto denotazione/connotazione positivo al 2° posto e dell'elevato Codice Elaborato al 1° posto.
L'esagramma della grande abbondanza: il trigramma che rappresenta movimento (il Tuono) è unito a quello che rappresenta splendore (il Fuoco). Quindi il poeta raggiunge tale stadio delle forme in modo che lo splendore illumini tutte le cose sotto il cielo. Quando il sole raggiunge lo zenit comincia a declinare, così il poeta, dapprima, ha lo stile vigoroso e abbondante (lo Stile A), poi, se non vuole che sia lento e scarso o che dalla dilatazione non passi alla contrazione, lascia l'abbondanza e sceglie la contemplazione, dai trigrammi del Tuono e del Fuoco passa ai trigrammi del Vento e della Terra, della docilità e della flessibilità, così che, dall'alto della sua Identità di Pensiero, possa contemplare tutto ciò che accade nel mondo sottostante: adotta, perciò, lo stile della contemplazione (lo Stile B) in attesa che la docilità e la passività della Terra e del Vento, riesumando il Dasein della crescita, non ne rammentino la permanenza adottando lo Stile C, quello dell'idioletto del corpo. "La 'lingua del corpo' non esiste più, diventa l' idioletto del corpo perché il tempo non è più verticale ma ha l'orizzonte di un Dasein riconoscibile, non più sistematicamente ambiguo (la differenza dell'economia dell'altro è il reale impossibile) ma sistematicamente discorsivo":

El dialeto corporeo xe par mi
importante come la prima mimica
le statuete posturali, el rispeto
de come comportarse par fare
'na peca virtuale a la parola
cioè el ghe entra nel pensiero
de la scritura raisa geroglifica
de la materia che crea vita
da no tocare mai. Me ricordo
co go detà mama i oh toh beh
e brassi sclamativi – gheto sentio –
e ninin nel specio de la lengua
invento d'imamarme (…)

4. Lo stile del narcisismo cosmico, la serenità e le figure dell'espressione

Così Ruffato si fa poeta dialettale perché, finalmente, scoprendo la presenza del tu, può, in un certo senso, abbandonare la finzione che ha penetrato la coscienza e il corpo, anche se

'Sto dialeto da sora pare forse
'na machineta da foto infrarossi
scalon dei colori puntilioso
permaloso ciak dei atimi de polpa
de paca dresfai, spumantina danseuse
sui sòcoli trampoli savatele
recioto un tantin agrodolse, forse
'na jauna coeli o ciara stela
vose panoramica universale
de salmi, togarìa sgrisolona
de la materia primobùto, forse
'na lengua materna che viaja
da le vissere a la metafora (…)

Con lo Stile C, Ruffato, dopo aver progressivamente svestito il sintagma, accorciato il senso e addolcito la metafora con lo Stile B, adesso parla e scrive la stessa lingua di prima, "la prima fiata che me so catà nel dialeto xe sta la vose de mama", cercando, nel narcisismo cosmico del proprio Dasein, il contatto impossibile: lo specchio, in cui l'io e l'altro, pur vedendosi, non possono toccare la rispettiva parabola e iperbole.

TAVOLA B – I tre stili di Cesare Ruffato: Codice, Paarung, Immagine e Identità di Percezione
Stile
Testo Paarung Immagine
Identità di percezione (=S)

vs
Identità di Pensiero (=P) 

   
STILE A
TESTO- DITEMATICO

Codice Elaborato
=+ 

  L'ABBONDANTE PROSPERITÀP )" S 
STILE B
TESTO-PUNCTUM

Codice Ristretto
=+

Denudato come Parabola dell'Ego/Palpeggiato come Iperbole dell'Altro LA CONTEMPLAZIONE S U P 
STILE C
IDIOLETTO CORPOREO

Codice Elaborato Ristretto
+

L'Iperbole dell'Ego riconosce, nella distanza e nel silenzio, la Parabola dell'AltroL'IMMOBILITÀ

vs
LA GIOIA

Narcisismo Cosmico 

LEGENDA

U = connette
)" = sconnette

TAVOLA C L'idioletto corporeo, gli Indicatori Globali e l'I Ching per il lettore dello stesso Dasein del Poeta e per il lettore nazionale
Per il lettore del proprio Dasein
Per il lettore nazionaleI Ching per l'autore
I Ching per il lettore   
Iconicità +Iconicità +
——–
–– –– 
Complessità -=Complessità =+
–– ––
——– 
Polisemia -Polisemia =+
–– ––
——– 
Pregnanza +Pregnanza =+
–– ––
–– –– 
Denotativo/Connotativo XDenotativo/Connotativo =
–– ––
——– 
Bernstein
Codice Ristretto X
Bernstein

Codice Elaborato Ristretto +X

–– ––
——– 
  
23.PO

L'Immobilità
58.TUI

La gioia 


L'esagramma della Gioia, che scaturisce nel lettore fuori dal Dasein del poeta, riunisce due laghi insieme: dal Monte sulla Terra, in cui non è propizio andare in qualche luogo e il poeta ricerca la quiete del proprio esserci tanto che sparge la dolcezza e l'armonia del Lago. L'immagine del sereno: qui il poeta riunisce il Codice Elaborato e il Codice Ristretto. Il 6 sopra è la serenità seducente dello stile "fonematico", tatto dei suoni del linguaggio, allofonìa che, se dà delle figure le dà sul piano dell'espressione quando si identificano i fonemi; e che, sul piano del contenuto, se non viene tradotta l'espressione, si è di fronte all'impossibilità di comprenderne le figure. Difficoltà riconosciuta anche a livello teorico dallo stesso padre delle figure del contenuto, L. Hjelmslev, quando afferma che tale termine è "puramente operativo, introdotto semplicemente per convenienza".

5. La poesia dialettale connessa al Dasein e la diacronìa del 3° stile di Ruffato

Ho scritto che la poesia dialettale ha una proprietà specifica: produrre discorsi, in quanto, come dice Robert Escarpit, è il linguaggio orale che produce discorsi mentre la scrittura produce testi: "Limitato al canale orale, il discorso è un flusso di significati con un ordine cronologico irreversibile: ha una durata ma non ha una permanenza, che costituisce, invece, il carattere principale del testo. Il testo della poesia dialettale manca di permanenza, ma non di stabilità anche perché quest'ultima le è disposta dalla memoria: e grazie alla memoria è possibile che la poesia in dialetto perda un'altra delle caratteristiche del linguaggio orale, la ridondanza. La ridodanza, dice Robert Escarpit, è una caratteristica del linguaggio orale e del discorso, il quale non consente di tornare indietro né di verificare a posteriori e perciò deve ripetere più volte il messaggio per evitare errori".
La poesia dialettale, che io intendo connessa al Dasein del poeta con un Codice Ristretto sempre in uso, sembra che si strutturi come una novella in versi: ballata moderna o romanza, che narra o documenta vicende patetico-eroiche ma con un contenuto eminentemente morale o religioso. Novella in versi che è ballata moderna ma che è anche cantica: in essa la funzione discorsiva pone una concatenazione cronologica irreversibile; mentre la funzione documentaria toglie schiuma alla ridondanza semantica.
Come ho già scritto, c'è una correlazione tra la scrittura della poesia dialettale e quella del racconto: una sorta di macro-struttura narrativa che contiene, per motore, le cinque funzioni di Isenberg: 1) SITUAZIONE INIZIALE 2) COMPLICAZIONE 3) AZIONE O VALUTAZIONE 4) RISOLUZIONE 5) MORALE O CONCLUSIONE.
La poesia dialettale contemporanea, non essendo connessa naturalmente al Dasein del poeta o all'habitat del locutore, perché non parla più quel Codice Ristretto che è il dialetto di una comunità (o, perlomeno, non lo ha usato per il suo farsi poeta), non è mai una novella in versi, né una romanza, né una cantica e, perciò, non è soggetta alle costrizioni logiche e pragmatiche della Macro-Struttura Narrativa di Isenberg.
Non avendo più predicati narrativi, proposizioni che combinino il paradigma con un attante, sequenze come suite di proposizioni, il testo della poesia in dialetto non è una combinazione di sequenze.
È un testo che combina la situazione del poeta con la morale della sua biografia: è un testo che è sempre specchio della sua metafora che conclude la situazione iniziale della sua biografia.
Sembra che non essendoci più oralità, o testo che eventualmente riproduca un discorso orale, l'oralità, non potendo recuperare il proprio linguaggio orale – la prima fiata che me so catà nel dialeto – riassume la vose de mama "no par delucidare ma co la fraca de lampra passion dei cavalieri pal tesoro del Graal: 'sta raisa etimologica dia-legomai xe maniera de parlare d'ogni omo co termini afiliai sgarugiai nei bocabolari invita a nosse per analogie e metafore".
D'altra parte: "co penso al dialeto a fortiori me pìgola in mente un castelo coi merli ponte alsatoio el gran corteo servitosùo de dame e tortorele che pìssega i balconi de bele morose co giugiola nel servèlo del principe azuro".
L'oralità, al centro della dialettica degli oggetti "buoni" e "cattivi", fa sempre intendere che, essendoci la scissione dell'oggetto, pulsi all'infinito, col suo carattere irriducibile dall'origine dell'esistenza dell'individuo, l'ambivalenza.
L'oggetto reale, su cui la poesia dialettale sincronica sembra che non investa alcuna pulsione e che, pertanto, non lo alieni con nessuna istanza immaginaria o, quanto meno, fantasmatica, non viene scisso nel discorso orale.
L'oggetto reale (il seno) è, però e sempre, il primo oggetto che viene scisso (se è "buono", esterno e interno, diventa il prototipo di tutti gli oggetti benefici e soddisfacitori; se "cattivo" è il prototipo di tutti gli oggetti persecutori esterni e interni, dice Melanie Klein, in Alcune conclusioni teoriche sulla vita emotiva del bambino…, in Scritti 1921-1958, trad.it. Boringhieri, Torino, 1978), nella poesia dialettale diacronica, essendo fantasmaticamente dotato di poteri simili a quelli di una persona, è sempre dinanzi all'immagine del bambino (o del poeta) nello specchio: l'oralità, in quanto verbalizzazione contestuale sull'oggetto reale, buono o cattivo che sia, diventa, per l'oralità del poeta, l'oggetto totale, prima che sia scisso per difendersi contro l'angoscia. La relazione speculare, che sottende l'esagramma della Gioia con il Lust (cfr.nota 30), per far sì che possa essere operativa, richiede, in ogni caso, un ripiegamento sull'Io della libido, che, va da sé, o: 1) deve essere sottratta ai suoi investimenti oggettuali o: 2) deve reinvestire gli oggetti con tutta l'oralità del Lust-Ich (= Io-piacere). Come vedete, quando la Biografia ha un ingorgo della libido, per uscirne la potenzia, non solo perché la Libido ha più una potenzialità quantitativa che qualitativa ma anche perché, quando è ferito il narcisismo primario, ci si rivede allo specchio e la libido che fa sul poeta è narcisismo primario e il reinvestimento del Lust-Ich è narcisismo secondario.

TAVOLA D – Poesia dialettale sincronica e Poesia dialettale diacronica: macrostruttura, linguaggio, procedimenti metaforici, immagine, uso situazionale
Funzioni e regolePOESIA DIALETTALE connessa al Dasein del Poeta
POESIA DIALETTALE non connessa sincronicamente al Dasein del Poeta  
Codice CODICE RISTRETTO = dialetto in usoCODICE ELABORATO (o Lingua) che viene sostituito ma che connette, con la sua morfo-sintassi, la riassunzione del Codice Ristretto (o Dialetto in uso) 
Macrostruttura NarrativaLE 5 FUNZIONI DI ISENBERGNO 
Identità di Percezione
vs
Identità di Pensiero
Identità di Pensiero che narra, comunica o descrive con i tempi della realtà: imperfetto, passato e passato prossimo. Narcisismo Cosmico che contiene la soluzione biografica tra Identità di Percezione e Identità di Pensiero del Poeta. 
Linguaggio di crescita
vs
Linguaggio scritto dialettale
LINGUAGGIO DI CRESCITALINGUAGGIO SCRITTO DIALETTALE che produce discorsi, è stabile e ha ridondanza controllata

RUFFATO 3° STILE che riassume Linguaggio di crescita mediando da 1° e 2° Stile 

Procedimenti metaforici  Il termine di partenza (P) diventa quello di arrivo (A) con la proprietà comune che permette la metaora (I):

1) attuando una traduzione più o meno letterale;
2) l'oggetto di partenza viene ridefinito.
Nel caso di Ruffato, il procedimento 2) riconverte l'1) tramite il coinvolgimento graduale dei reperti biografici del 1° e del 2° Stile.  

Immagine Immagine acustica = Concetto IdentificanteL'Immagine Acustica, se non si conosce il Concetto Identificante, va prima specchiata nel Concetto Identificato. 
Uso corrente, contestuale
o situazionale
La sincronia della poesia dialettale fa sì che la coincidenza tra le parole selezionate e le proprietà che definiscono i lessemi, dandosi come referenza al Dasein, non produca una particolare polisemia.La diacronia della poesia dialettale di Ruffato (come si è detto in altri termini per il processo di selezione operato dalla Biografia con Stile A e Stile B) fa sì che i versi abbiano una doppia semantica gergale, in cui il Codice Ristretto del Linguaggio di Crescita, riassunto dopo l'uso del Codice Elaborato del linguaggio settoriale (professionale), non ha più i semplici dati situati sincronicamente sull'asse del Locutore-Ragazzo.  

6. Il Lust de la vose de la mama xe el discorso sòtico

L'inconscio è come il dialetto, "è piuttosto qualcosa di prossimo alla vescica, e questa vescica, si tratta di farsi vedere che, a condizione di metterci un lume dentro, può servire da lanterna". Per effetto della parola, il poeta si realizza sempre più nell'Altro, ma qui non persegue già più che una metà di se stesso. Non troverà il suo desiderio che sempre più diviso, polverizzato, nella metonimia, isolabile, della parola. Come dire che, posto che vi sia un fuori, non sia che indifferenza a meno che non trovi il Lust che aveva lasciato e che, avendolo ritrovato, è diventato Unlust.
Dico questo perché l'esagramma 23 dell'I Ching, essendo l'immobilità dello spargere, è come la vera vose de la mama che ci si inventa nello specchio della lingua: "ogni volta che avete a che fare con un oggetto di bene, noi lo designiamo – è una questione di terminologia, ma una terminologia giustificata – come oggetto d'amore", che è come segnare l'effetto di senso che produce nella metafora, tra significante e significato, una formula a quattro piani che, applicata alla Biografia, dà le posizioni soggettive dell'esistenza:

LINGUAGGIO-MAMA

ä ã
å á æ
3° STILE: C ß à 1° STILE: A

ã â ä
æ å
2° STILE: B

in C, ninin nel specio de la lengua, inventa d'imamarse, che è come la tecnica del reperimento del transfert: Socrate che risponde ad Alcibiade: Occupati del tuo desiderio, inventate d'imamarte!
Solo che "po co prove vegnevo fora spiera funambola de ilusion" se la mama xe vera vose nel campo del miraggio della funzione narcisistica del desiderio, come l'oggetto in-ghiottibile, crea solo ne la voja de fare un ceo, imamarse così che, "co go detà mama i oh toh beh e brassi sclamativi", essendo anteriore alla vista non può cogliere il fascino della macchia, una volta che l'ha vista, essendo l'oggetto a, come dice Lacan, identico allo sguardo, o, se l'inconscio è stato sentito nel dialetto, il significante del desiderio, essendo l'oggetto in-ghiottibile "come 'na sorta de logos impelagà foratempo" xe 'na respirazione serciosa coi ritmi de la ventilazione: l'avete capita bene: il significante del desiderio xe el discorso sòtico che se mastega la coa: la coda mastegata è la circolarità della Biografia, la distanza che c'è tra il Lust e l'oggetto a.

7. La teoria delle preposizioni di Viggo Brøndal e il bioritmo dello Stile-Mama; il farsi sbafare del testo-imamarse

Il sei punti del Codice Elaborato del Ruffato poeta dialettale rendono diversa la sua poesia da quella di Calzavara o di Zanzotto non solo per la sostanziale differenziazione operata dagli Indicatori Globali: ad esempio, tra le varianti morfo-lessicali, certi aggettivi qualificativi o il rapporto tra verbi infiniti e il totale dei verbi, per non parlare dei modi della realtà semplici e i modi infiniti e le congiunzioni coordinative che sembrano proporre subordinazioni impossibili; tutto questo produce, e ancor di più nella struttura fonematica del dialetto, gradi di complessità e di tensione.
Le unità semantiche, per esempio le preposizioni o l'infinito usato come deissi temporale, hanno un grado di complessità e di tensione qualitativa e formale: come dice Viggo Brøndal "qualitativamente una preposizione è determinata come posta su un piano più o meno elevato dal numero di specie di relazioni o dimensioni che entrano nella sua definizione (…) tridimensionali le parole che indicano 'su'/'sotto' (…) complesse-polari sono per es. italiano tra:fra (che dividono la nozione di 'inter': variabilità complessa) (…) formalmente la tensione è misurata dalla distanza tra le forme di relazioni. Questa distanza è maggiore tra le forme polari, e diminuisce a misura che le forme si avvicinano sia alla forma neutra, sia alla forma complessa. Una tensione formale ridotta ci viene offerta (…) dall'italiano a e con (…). Una grande tensione formale caratterizza al contrario l'italiano su e di".
Come dire che, studiando il rapporto formale e qualitativo delle preposizioni in una poesia, è possibile determinare un centro di gravità che funziona come una sorta di bioritmo, i cui cicli di armonia, simmetria, asimmetria, transitività, intransitività, determinano l'andatura, lo stile, di quel fare poesia.
Per esempio, applicando, per la poesia El dialeto, il sistema di relazioni astratte (simmetria, transitività), elaborato da Brøndal per le preposizioni, avremmo questo andamento, questo bioritmo tra simmetria, transitività, asimmetria, intransitività:

El dialeto corporeo xe PAR mi
intr-tr [asim-sim]

importante COME la prima mimica
intr [asim-sim]

le statuete posturali, el rispeto

DE COME comportarse PAR fare
intr [sim intr/asim-sim] intr-tr [asim]

'na peca virtuale A LA parola
intr [asim]

cioè el ghe entra NEL pensiero
tran [asim-sim]

DE LA scritura raisa geroglifica
intr [sim]

DE LA materia che crea vita
intr [sim]

DA no tocare mai. Me ricordo
intr-tr [sim]

co go detà mama i oh toh beh

e brassi sclamativi – gheto sentio –

e ninin NEL specio DE LA lengua
trans [asim-sim] intr. [sim]

invento D'imamarme. Po CO prove
intr[sim] trans [sim]

vegnevo FORA spiera funambola
intr-tr [asim-sim]

DE ilusion. Forse la mama xe vera vose
intr [sim]

crea solo NE LA voja DE fare un ceo.
trans [asim-sim] intr [sim]

Per permettere a chi ne ha voglia di cullarsi con "la prima voce bioritmica" (che sottende una implicita armonia tra sintassi e morfologia) del volgare padovano di Ruffato, ecco la tavola con cui la vose oscillerà da sinistra a destra, dall'INTRANSITIVO al TRANSITIVO, e da su a giù, dall'ASIMMETRIA alla SIMMETRIA, creando una composizione fonica tra volgare padovano e codice ristretto elaborato dal 3° stile di Ruffato:

TAVOLA E – Le preposizioni del volgare padovano secondo la teoria di Viggo Brøndal
QUALITÀ INTRANSITIVA INTRANSITIVA-TRANSITIVA
TRANSITIVA   
ASIMMETRICA A AL A LAPAR PER PEI

PAL

SU SUL SU LA SUI SU 'STA SOTO SORA  
ASIMMETRICA-SIMMETRICA DRIO DEDRIO

VANTI CONTRA
COME VERSO
SENSA SIN

TRA FRA

DRENTO FORA

IN NEI NE LA

NEL NE LO 

SIMMETRICA DE DEL

DE LA
DE MA

DA DA LACO COL

COI CO LE 


Tipi d'uso

Tipi astratti
Il tipo ASIMMETRICO indica la direzione, lo scopo, per esempio, di un movimento.
Il tipo INTRANSITIVO indica una condizione, una ragione.
Il tipo DISCONTINUO, cioè ASIMMETRICO-SIMMETRICO, indica un salto, un'opposizione, una concessione.

Tipi concreti
Il tipo ASIMMETRICO-INTRANSITIVO indica la direzione e la condizione, ovvero lo scopo, la destinazione, un fine, una determinazione.
Il tipo ASIMMETRICO-DISCONTINUO (cioè: che oscilla tra Intransitivo e Transitivo) indica la direzione e l'esclusione, ossia la sostituzione, l'equivalenza.
Il tipo INTRANSITIVO-DISCONTINUO indica la condizione e il salto, ossia la causa, il destino.

Tipo complesso
Indica contemporaneamente la direzione, la condizione, il salto, come pure la sintesi dello scopo, della sostituzione e della causa.

Tipo neutro
Indica un salto condizionato in una direzione determinata, ossia l'iniziativa.

Nell'esempio, abbiamo un elevato tasso di preposizioni intransitive e simmetriche: "la relazione simmetrica ha sempre proprietà opposte: bilateralità, reversibilità, riflessività; essa si usa perciò parlando del punto di partenza di un movimento nello spazio o nel tempo, della base di una tendenza, di un equilibrio o di un'armonia; (…) la relazione intransitiva (…) indica costantemente un punto non oltrepassato e dato una volta per tutte; ecco perché è usata a proposito dei punti nello spazio, nel tempo o in una serie, a proposito di una possibilità o di una potenzialità, di una perfettività, tra l'altro in una certa forma di futuro: il futuro previsto o atteso".
Questa reversibilità dell'attesa, che c'è, in sostanza, nel bioritmo del 3° Stile di Ruffato è come se, in qualche modo, togliesse sostanza ai semi della Durata o della Permanenza, che sono connessi in ogni forma di poesia dialettale: nel motore morfo-lessicale del 3° Stile di Ruffato c'è un movimento verso un punto non oltrepassato, che sembra avere strane corrispondenze con quella sensorialità gestita dal tempo che appartiene all'habitat dell'altro, misura del 1° Stile ruffattiano, in cui la voluptas sembra connettersi, e lo abbiamo scritto nel 1985, con gli strappi che il testo subisce dalle preposizioni.
Insomma, non è mica lo stesso, anche se, a ben guardare, è sempre l'economico dell'altro che la fa da padrone: l'attività della pulsione del Poeta si concentra nel farsi: 1) farsi vedere, nel 1° Stile; 2) farsi sentire, nel 3° Stile.
"Il farsi vedere è indicato da una freccia che veramente ritorna verso il soggetto, il farsi sentire va verso l'altro": dal narcisismo primario del 1° Stile al narcisismo secondario del 3° Stile: e "dato che ci riferiamo al poppante e al seno, e dato che l'allattamento è il ciucciare, diciamo che la pulsione orale è il farsi ciucciare (…): il che ci illumina su ciò che è quell'oggetto singolare – che mi sforzo di scollare nella vostra mente dalla metafora nutrimento – il seno. Il seno è anche qualcosa di applicato su, che succhia, che cosa? – l'organismo della madre".
Lo Stile-Mama, in questo farsi sentire della terza modalità di Ruffato e in quel farsi vedere della prima modalità, preannuncia il farsi sbafare, che sarà l'imamarse di un motore stilistico:
a) a relazione asimmetrica (in cui il movimento nello spazio e il rapporto nel tempo è irreversibile);
b) a relazione intransitiva-transitiva (in cui il punto è in connessione con la linea e la possibilità con la realizzazione);
c) a relazione inconnessa (che indica la liberazione o l'isolamento, l'indipendenza o la esclusione; applicata al tempo, indica il passato, da cui il sentimento è definitivamente escluso).
Che è "la lengua materna che viaja da le vissere a la metafora, un tesoro de luce fogo acqua aria e sostanse che ne dà vita o tochi de carbon ne la calsa de la striga": una striscia poetica, in cui il motore preposizionale è tutto concentrato sul farsi sentire simmetrico e transitivo.
Per correlare il farsi sbafare, che sarà il testo-imamarse, la striscia andrebbe più o meno riscritta così:

DENTRO LA lengua materna che viaja
FORA da le vissere DE la metafora
un tesoro COME luce fogo acqua aria
e sostanse che ne dà vita. O tochi
de carbon A LA striga CHE I SE MANDA
E REMEDIA A LENGUA BASSA
DRENTO 'STO BRODO-ENTROPIA
INSUCÀ DE gomitaure
malòrseghe tecnologiche gas (…)

in cui l'asimmetria delle relazioni non transitive inconnette un luogo in cui il poeta, col suo narcisismo secondario, trasforma definitivamente la "contemplazione" del 2° Stile e l'“immobilità narcisistica” del 3° Stile in rapporto con l'emmerdeur eterno del 4° Stile: nel campo linguistico ristretto e costretto del 4° Stile, l'oggetto non è molto lontano dal campo che è detto dell'anima. Dalla Schaulust, che è lo sguardo, al farsi sentire, fino a questo farsi sbafare, purché capiate bene che, se "l'inconscio xe lalante, corente letrica bianca de vocali sparpajae", "il soggetto è quel sorgere che, appena apparso, si fissa come significante": lu se la gode ne la cola che sta ancor prima dei sesti, parvense, fine sielte del soma: se lassa parlare, segnare da bon ad libitum, incrucà ne la bola psichica, in bala tira moragia pramosa.


Il percorso poetico di Cesare Ruffato dentro la parola in dialetto

di Gabriele Ghiandoni

La regola aurea nella scrittura di una poesia è quella - antica ma ancora attuale - dettata da Umberto Saba con lo scritto “Quel che resta da fare ai poeti” (1911):
“Ai poeti resta da fare la poesia onesta”; si intende parlare di onestà intellettuale e letteraria, che è “prima un non sforzare mai l’ispirazione, poi non tentare, per meschini motivi di ambizione e di successo, di farla parere più vasta e trascendente di quanto per avventura essa sia”.
Allora seguendo questa regola (e gli insegnamenti contenuti nel laboratorio di poesia di Ezra Pound: evitare il lirismo di maniera, l’enfasi retorica, la sovrabbondanza di aggettivi e avverbi; inventare immagini metafore allegorie parole dense, piene di pensiero) diventa del tutto “indifferente”, nel fare poesia, l’impiego dell’italiano o del dialetto; o addirittura l’alternanza dell’una e l’altra lingua, come nel caso di Cesare Ruffato che nell’arco di circa quarant’anni (dal 1960 al 1998) ha pubblicato venti libri di poesia.
Solo un pregiudizio pigro può far considerare un poeta in dialetto “minore” rispetto all’analogo poeta in italiano. A questo pregiudizio Ruffato si ribella con il poemetto El dialeto, contenuto nel libro-pamphlet Diaboleria (1993):

Linguisti e semiologi culti dise
ch’el dialeto parla forastoria
‘na leteratura minore passà…

"Linguisti e semiologi colti dicono / che il dialetto parla fuori storia/ una letteratura minore superata…".

In Ruffato invece non è presente l’intenzione di usare il dialetto come lingua estranea, morta; per lui il dialetto è una delle chiavi di lettura - non l’unica - di una “vicenda” rappresentata da una città: Padova diletta.
Per capire sino in fondo il rapporto lingua-dialetto bisogna prendere atto che esiste una ‘questione non risolta’ sul tema letteratura: “La letteratura è un’attività spirituale che mira alla realizzazione di prodotti esteticamente edificanti oppure la portata sociale del fare letterario è una delle forme principali di elaborazione teorica?” (Edoardo Sanguineti, L’Unità, 30/12/1991). Il poeta in dialetto sembra propendere per la seconda parte del problema; anche come atteggiamento di opposizione al potere che ha cercato e cerca di imporre i propri linguaggi consunti.
Considerando però il dialetto come unica “lingua della poesia” si corre un rischio: quello di stabilire un legame stretto con la ‘strategia dell’immediatezza’, con la presunzione di attingere a una facile saggezza, e l’incapacità di confrontarsi con la negatività della storia..
Esistono anche seri motivi per individuare alcuni pericoli e limiti delle poetiche dialettali (come rileva al riguardo Gian Mario Villalta su Tratti, 44, primavera 1997, sotto il titolo “Ragioni e limiti delle poetiche neodialettali”); cioè:
1. L’accentuazione del fenomeno endoletterario, ovvero una circolazione della poesia limitata ai poeti, ai critici e ai “cultori della materia”.
2. L’autocompiacimento della emarginazione: il poeta, fiero della sua diversità e della particolarità della sua scelta, tende a sviluppare un discorso che non ha altre ragioni se non la diversità stessa e la stessa particolarità della propria scelta di campo. Dopo l’arcadia della neoavanguardia e dello sperimentalismo, ecco affacciarsi l’ipotesi di una arcadia neodialettale.
3. L’assunzione in poesia di un dialetto non passato attraverso l’esperienza profonda del vissuto.

È necessario quindi che il poeta in dialetto, per evitare di trovarsi a proprio agio nel ghetto della bella ricordanza, eviti di essere il testimone di una realtà demodé, con un insulso elogio dei tempi passati che non esistono più. Anche perché il dialetto, come la storia-mondo, non è mai statico ma in continuo movimento e mutazione, con miscele e alternanze di codici: è una lingua macchiata, straziata.
Lo ha ben capito Ruffato che, nel licenziare il suo intero corpus di poeta in dialetto, Scribendi licentia (Marsilio, 1998) scrive nella sintetica presentazione: ”Questo volume raccoglie la maggioranza dei testi poetici in dialetto padovano - mio ideale idioma da genuino diglotta ma sottoposto a filtri di cultura poliversa e ad influenze di gerghi professionali - affiorati in privato ad iniziare dal 1960 e con processualità bioritmica divenuti impegno creativo editoriale nel decennio 1989-1998”. Il titolo, esplicitato in lingua dotta e con ambiguità ironica, precisa che si tratta di “poesia in volgare padovano”; e sembra voler far entrare in scena l’autore - professore coltissimo e scienziato - in forma sommessa.
In realtà il poeta suggerisce al lettore l’opportunità di rintracciare nella Parola pìrola (1990) “una microstoria familiare, una cronaca cittadina” della sua città. Con il suo dialetto ‘memoriale’, una scrittura irta, ardua, una poesia ispida, ruspia/ruvida, intenta ad “aggredire” idee e parole più che fatti e cose - sempre per altro presenti come ‘cifra nel tappeto’ - Ruffato sembra voler individuare, in maniera esplicita, una koiné limitata di lettori; “…l’autore, conscio del rischio di operazione di leggibilità limitata, intende questa sua libera messa in scrittura un tentativo di corrispondere ai misteriosi richiami della voce” (così nella Avvertenza a Parola pìrola).
La sua intera opera in dialetto - uno dei colori, forse il più splendente, della ricca, ampia tavolozza del poeta - mostra l’interesse rigoroso dell’autore per la ricerca-scavo sulla parola:

Parola malà/Parola ammalata:
el rumore fato dal gargato
le vocali prime le consonanti strane
p inisiale de padre pié pan ponte
a de albero amore anema
r de rima religio roba rumore
o de ora origine opera orifissio
l de linea letera lume limite

"il rumore prodotto dall’ugola/ le vocali prime le consonanti strane/ p iniziale di padre piede pane ponte/ a di albero amore anima/ r di rima religio roba rumore/ o di ora origine opera orifizio/ l di linea lettera lume limite".

Parola matita:
Busiéte de la ponta matita
che no intinge el paero, el legneto
scortegà o massa uà se spaca



"Piccole bugie della punta matita/ che non intinge lo stoppino, il legnetto/ scorticato o troppo affilato si rompe".

Parola coi busi/Parola coi buchi. Parola morbin/Parola eccitata. Parola denaro. Parola droga: Parola pìrola pàrola nel scuro / doping scorpion sbate sul muro / specioso colabrodo la sfibra…
La parola sofferta drogata sbattuta contro il muro (oppure è la parola che sbatte contro il muro cosa?) sale sui trampoli, viene urlata (la parola ga alsà la vose ossessa), diventa parola sguardo, fiaba, affabulazione, poesia-scavo. Senza però lasciarsi trasportare dal fascino dell’innamoramento della stessa e cadere nel castello incantato della lingua parlata solo in alcune riservate enclaves, con il suo sottinteso potere orfico: per Ruffato la parola ha un senso solo se contiene un pensiero denso, forte. La sua genialità nella scelta della lingua-dialetto pare risiedere nella capacità che essa ha di avvolgersi su se stessa e non essere però più sufficiente per dire altro; quindi è continua l’interrogazione che egli fa del mondo fenomenico che lo circonda, teso a una impossibile “scientifica” interpretazione complessiva. Allora la poesia-parola diventa un’allegoria della condizione contemporanea.
Ruffato assume il dialetto come lingua della parola; e costruisce quasi un’opera astratta con uno strumento linguistico autonomo e, forse, incomunicabile. La ‘scommessa della comunicazione’ per altri così importante, sembra in lui essere messa sotto tono, per l’importanza primaria attribuita alla parola-scrittura, alla poesia-espressione che dà voce al senso delle cose.
Il mito del viaggio dentro la parola attraversa per intero la sua opera poetica; una parola equivoca-ambigua-ambivalente piena di sottintesi nelle sue varianti classiche e moderne: “parola parabola” (latino), “paraula” (volgare); comunque sempre parola-protagonista.
Come è stato da altri notato, in Ruffato la parola nasce da “una tensione non solo linguistica ma anche morale” (Mauro Marè): la scelta è sofferta, meditata, messa a confronto. La intuizione è quella giusta, essenziale per dire ciò che interessa al poeta in quel preciso momento (in dialetto o in lingua). Perché l’ambiguità semantica della parola (specie quella in dialetto) è il dono dato al poeta, che solo così può “comunicare”. In R la poesia procede la forma e l’artista cerca - e trova - le forme-formatrici che preesistono all’oggetto d’arte. La scrittura poetica è piena di fermenti di ricerca, giochi linguistici di rime, assonanze, aggiornamento del linguaggio:

Vose de sità trapèla bai, russèi
de soni neri, mòcoli morali, sguardi
fonfegai d’un poema cuerto come coa
de funerale. Zornali ramai piàtole
la sòfega de pancatastrofe.

"Voce di città trapela tarli, ruscelli/ di suoni neri, moccoli morali, sguardi / spiegazzati d’un poema ipocrita come coda/ di funerale. Giornali ormai noiosi (blatte)/ la soffocano di pancatastrofi".

Il poeta canta il suo poema - originale e acuto - contro quello ipocrita, simile alla coda distratta e annoiata di un funerale -; come distratti e annoiati sono i canti di tanti flebili cantori, soffocati nelle vane pancatastrofi - queste immense catastrofi che stanno a indicare la precarietà della vicenda-mondo: la flebile voce del cantore, sperduto nel villaggio globale, è incapace di chiudersi nella dimensione della sua ‘piccola patria’, dalla quale può invece trovare nuova linfa creativa.

E ancora:

Nel mal de mare del plafon imbarcà
increspo l’eliosiesta, anca le stele
s’incolpa in salisi crianti
che spuffa giosse de luse
a caena anemele, salutz e versi
che me descolpa squasi rialsa i tolti
el futile par finire la morte.

"Nel mal di mare del plafond dissestato/ raggrinzo l’eliosiesta, anche le stelle/ si colpevolizzano in salici piangenti/ che spruzzano gocce di luce/ a catena animelle, saluti e versi/ che mi discolpano quasi risollevano gli scomparsi / il futile per finire la morte".

La curiosità del Ruffato scienziato fa capolino in questo Vose striga/Voce strega, articolato nei tre movimenti: Ciao vose/Ciao voce, Vose sìngana/Voce gitana, Vose striga/Voce strega.
Nel sentire le voci che si rincorrono viene alla mente il lavoro di un sofisticato zoologo, “Il dialetto degli animali” di Wolfang Wickler (Bollati Boringhieri, 1988). Lo scienziato afferma: “gli uccelli sono specialisti di comunicazione a distanza in biotopi chiusi che non consentono sufficiente visibilità (boschi o foreste), e conseguentemente essi si sono perfezionati nella comunicazione acustica”. È la stessa comunicazione che la “voce” del poeta riesce a realizzare in un microcosmo ormai chiuso e isolato, di visibilità insufficiente: la città.
Ma la poesia di Ruffato non è solo suono e ritmo, perché forte è la sua presenza e il radicamento nella realtà che circonda, opprime e ferisce il poeta (come la morte prematura della figlia). Nel descrivere fatti, eventi, accadimenti egli rifiuta la lingua ‘pura’ della poesia: il suo dialetto padovano “rappresenta una sorta di contenitore reale, corrispondente a una concreta esperienza comunicativa, di quella sperimentazione plurilinguistica” (Francesco Zambon) da lui condotta nell’arco della lunga produzione poetica.
Lo “sguardo al margine” accompagna il lettore attento ad attraversare le microstorie oblique, i cui versi hanno un andamento centripeto: nel caos della scrittura - segni criptici, fantastici, dispersi sulla volubile sabbia; o geroglifici incisi sull’acerbo e orgoglioso ebano; come gravures secche e sapienti che traspaiono dal fondo - l’intenzione del poeta è quella di conseguire un ordine (non l’Ordine) seguendo un percorso a spirale rovesciata: dal margine al centro. Il colloquio con i testi di Ruffato è difficile: una poesia ‘insofferente’ delle regole della buona, piana, piacevole lettura. Questo perché l’autore sembra rivendicare con forza il diritto di essere “oscuro”; senza però che l’oscurità diventi un banale gioco a nascondersi dietro fumose cortine di Nulla. Per altro il lettore non deve desistere di fronte alla oscurità: deve penetrarla sino in fondo e ‘comprenderla’ nelle sue sfolgoranti forme.
È già stato indicato il rischio che si corre facendo ricorso al dialetto come unica e squisita “lingua della poesia”: quello di una afasica circolazione della stessa tra pochi (una poesia come cult). Inoltre lo spericolato sperimentalismo di Ruffato può lasciare intendere come il poeta desideri “giocare con la parola come si gioca con una bambola”. Così non è, perché il rischio della sperimentazione viene fugato in quanto dentro il verso trovi la realtà della prosa, ai livelli dell’impoetico contemporaneo - la contaminazione con ciò che non è ‘poetico’-. Nel risvolto di copertina di Scribendi licentia si legge: “I testi hanno come lingua di base il dialetto di Padova nella viva parlata quotidiana, ma frequentemente sollecitato e reinventato dal sogno sulla traccia di lacerti infantili e con volontari sbandamenti nell’italiano e in vari linguaggi settoriali. Comunque è sempre sottesa la ricerca di intensità espressiva con svariati registri di senso e intenti di ri-creazione”. Nella scrittura poetica di Ruffato l’opposizione non è tra passato e presente (la nostalgia di una Padova d’antan, tra l’Io che ricorda e la società attuale che lo circonda); perché il poeta ha sempre coscienza del pericolo di essere costretto nell’isolamento di una minoranza linguistica. E se ciò non accade – come nel caso di chi chiede, con ironica umiltà, “licenza di scrivere” – allora si raggiunge (al di là e al di sopra di giochi funambolici con le parole) il livello alto della poesia.


Scribendi licentia di Cesare Ruffato

di Nino Majellaro

Il primo contatto con la poesia di Cesare Ruffato risale al 1978 con Minusgrafie, testo che recensii sulla rivista "Nuova Corrente". Tra l'altro scrivevo che vi trovavo "i due momenti limite della sperimentazione linguistica: la regressione sintattica e la parola come centro di ogni rapporto col reale". Riavvicinandomi a distanza di anni alle raccolte successive trovo (il presente è d'obbligo) che la sua poesia si è tolta "dalla regressione sintattica" che aveva il suo termine di paragone nell'affollata e spesso caotica esperienza della neoavanguardia e della sperimentazione linguistica che ne era seguita. La parola, invece è diventata il centro (mantengo questo termine) di una ricerca sul linguaggio che ha trovato altri sbocchi che non sono più quelli della sola trasgressione linguistica ma di un viaggio nella coscienza che travalica i limiti del sentimento e della nostalgia e sale sull'albero della poesia nella piena libertà verticale del dialetto:


'na lengua materna che viaja
da le vissere a la metafora
un tesoro de luce fogo acqua aria
e sostanse che ne dà vita...

Il dialetto di Ruffato, che non è lingua di comunicazione facile e immediata, viene dalla lunga stagione che da Minusgrafie (preceduta da testi come Il vanitoso pianeta e Cuorema tanto per citarne qualcuno) si è andata sviluppando attraverso le raccolte tra gli anni ottanta e novanta, mantenendo sempre la connotazione di una poesia in continuo sviluppo e mai conclusa in una cifra stilistica ripetitiva e appagata. Cesare Ruffato ha cercato nel dialetto ciò che nella lingua italiana non poteva trovare, cioè la continuità "bioritmica" dell'esistenza e dei sentimenti attraverso un parlato che viene da lontano in cui sofferenza ed ironia trovano il loro linguaggio.
Confesso che non mi è stato facile interpretare il dialetto patavino di Ruffato perché vi convivono influenze di "gerghi professionali", di distorsioni linguistiche infantili, di giochi ricreativi letterari anche se si ripercorre per lunghi tratti il viaggio che il poeta ha dovuto fare con una scrittura che forse, già all'inizio, aveva come meta il dialetto. Esserci arrivato con un'assillante lavoro di scrittura e di riscrittura e con esiti del tutto nuovi e imprevedibili propone uno studio su una cifra stilistica che esce dai canoni elegiaci e ripetitivi della poesia attuale.
È su questa cifra stilistica che, in particolare, ci si deve soffermare per comprendere le varie stagioni in cui la poesia di Ruffato è andata via via modulando i suoi registri "vocali" e scrittorii. Parlo di vocalità e non soltanto di scrittura in quanto la poesia in dialetto di Ruffato diventa a volte colloquiale, a volte cantata, a volte ironica e parodistica. In ogni caso si connota per la sua apparente mancanza di sintassi per un verso e per l'altro per la ricerca ossessiva di comunicare una realtà quotidiana fatta di lacerti di parole in continua formazione. Una realtà esibita con le parole e nello stesso tempo negata dalla sintassi letteraria: un dato in cui si configura anche il suo mestiere di medico radiologo. Guardare dentro, cercare; ancora guardare dentro e di nuovo cercare. La poesia è un corpo con gli infiniti misteri del corpo, ogni volta diverso ma sempre rapportato alla sua forma.
Oltre alla professione medica di Ruffato bisogna tener conto della città in cui è nato e in cui ha quasi sempre vissuto. Padova ha avuto un'influenza determinante su tutta la sua vita ed è stata il luogo in cui sono avvenute tutte le scoperte del suo lungo lavoro di poeta. Bisogna aggiungere, poi, che a Padova egli ha esercitato la professione di radiologo e a Padova sono nati i suoi affetti e le sue sofferenze. Una città che ha raccolto la sua "esperienza esistenziale" e ha dato radici alla sua poesia in dialetto.
Scriveva, fra l'altro, Aldo Rossi nel lontano 1978 e nella sua prefazione a Minusgrafie che "Ruffato è un poeta con molte qualità ma senza stile, al pari di molti poeti d'oggi. Che cosa vuol dire essere un poeta senza stile? Vuol dire non riconoscersi in un malloppo prefissato e precostituito, ma cercare di volta in volta attraverso la finzione linguistica di ricreare un mondo autonomo che ha degli agganci molto disastrati con la referenzialità, dal momento che questi agganci sono stati interrotti, lacerati prima che il poeta si mettesse a scrivere".
Io, nella mia recensione di allora, contraddicendo e nello stesso tempo allargando la prefazione di Aldo Rossi scrivevo che bisognava riconoscere nella poesia di Ruffato "una ricerca non soltanto circoscritta a rompere il duro involucro delle parole d'uso ma anche impegnata in un faticoso confronto con il dettato poetico delle avanguardie che si pensava fosse arrivato a un limite dietro il quale non vi può essere che non significanza".
Bisogna ritornare al clima di quegli anni per capire il senso degli scritti che ho citato che riflettono in minima parte ciò che è cambiato e ciò che è sopravvissuto nella poesia italiana. Non scriverei oggi ciò che scrissi allora perché la sua poesia, pur mantenendo una direzione costante nella ricerca, si è metabolizzata nel dialetto arando in profondità un terreno saccheggiato dalla continue incursioni sperimentali con la speranza di ridare aria e vigore alle radici dialettali che erano già emerse nel plurilinguismo delle raccolte degli anni settanta. Lo sforzo di Ruffato è stato quello di frenare l'irruenza del periodare asintattico per ridare trasparenza alla poesia. Il luogo non è cambiato, è cambiato il paesaggio col mutare delle stagioni, con il "parnaso de supioni su l'anemone" con la memoria del morire e del vivere che ogni parola ha dentro di sé, "rami in libertà" che hanno colore e respiro:


Illa sin da putina poeta palatina
i la rima de pufeti canti e coccoloni
sul corpesin co tanti rami in libertà
Un parnaso de supioni su l'anemone
che se spena streto a cardiaca giovinezza
al criare de la mente
che indelebilmente sente.

Il paesaggio poetico di Ruffato si configura per un insieme di passaggi che pure esplorando le parole disegnano un "dire" che non è sempre suggerito dall'atto linguistico e dai significati connessi alla sintassi del periodo. Vi è tra parola e parola, cosa che si avverte specialmente nella poesia in dialetto, una foresta di suoni in cui il lettore è intento a percepire più che a capire un insieme di meccanismi isotopici che fanno da intertesto più che da testo. Vi è un continuo cambiamento dei codici letterari tradizionali che rovesciano il senso del verso per poi ripristinarlo in un canto parodico in cui sofferenza ed ironia non si fanno racconto ma innestano una serie di rappresentazioni svincolate da ogni intento retorico. La retorica del dire, che è uno dei segni distintivi della poesia attuale, è assente in Ruffato e viene affidata in maggior parte alla libertà lessicale, a un fonosimbolismo che lo avvicina per certi versi alle avanguardie storiche del primo novecento. Ma la sua produzione testuale mentre tende a isolare la parola dal contesto sintattico, riesce a produrre altri significati, altre libere combinazioni di senso, che avverto specialmente nella poesia in dialetto folta di sonorità e di metafore e dove il lirismo è solo un accenno che appare e dispare tra gli interstizi delle parole: un lirismo della memoria che è come la luce del primo mattino che dura qualche attimo e trascende dalla realtà delle ore sempre uguali dell'esistenza.
Nelle sue raccolte di poesie degli anni sessanta Ruffato aveva trovato una consonanza lirica con i poeti di allora, una consonanza molto marcata nella sua raccolta di poesie di Tempo senza nome in cui l'influenza del simbolismo si specchiava nella rappresentazione del paesaggio che aveva ancora accenti crepuscolari e dove l'Io vi si confrontava con toni di ricordo e di memoria. Ma già allora l'uso di termini scientifici e dialettali era presente nei suoi versi, un uso evidente che creava scarti ed effetti stranianti nel contesto in cui veniva immesso. Ne Il vanitoso pianeta gli scarti si facevano più netti evidenziando un paesaggio urbano pieno di scorie e di detriti in luogo di quello campestre in cui luce e ombra, quiete e vento si alternavano col variare delle stagioni. Dall'intimità lirica delle raccolte che si situano nella prima metà degli anni sessanta, con Cuorema pubblicata quasi alla fine del decennio, c'è un vuoto di quattro anni ed è in quel vuoto apparente che la poesia di Ruffato si riempie di tutte le utopie nate in quella stagione come se la realtà esterna abbia rotto il guscio chiuso del suo Io e l'abbia obbligato ad affacciarsi su un mondo squassato dai rivolgimenti ideologici e politici. In verità dentro Cuorema e nel successivo Caro ibrido amore prevalgono più le immagini della realtà esterna che le rivolte interiori contro l'ordine costituito della società di allora. La realtà esterna si presenta sfilacciata, disordinata e confusa per cui la sua rappresentazione è rimandata ad una versificazione che si nutre di un impianto di parole gridate come titoli di comunicazione giornalistica più che di ribellione personale contro lo sterminio fatto dai "bulldozer" del consumismo nostrano. La frantumazione del mondo più che sofferta viene mimata dai versi per cui anche le frasi che fanno da palinsesto risentono di quella frantumazione e si dispongono in un disordine che il Poeta non riesce più a controllare con gli strumenti della sintassi. Ma proprio da questo funambulismo verbale portato ad eccedere più che a dire Cesare Ruffato esce liberato dalle strettoie della sperimentalizzazione del suo tempo trovando nella scienza l'unità biologico-poetica che sarà lo strumento e il meccanismo delle sua poesia e lo porterà con la raccolta Minusgrafie, che ho citato all'inizio di questo scritto, alla elaborazione di un suo progetto poetico unitario per tutto il lavoro successivo.
Intorno e nell'anno in cui veniva pubblicata Minusgrafie dall'editore Feltrinelli, usciva con lo stesso editore l'antologia La parola innamorata sottotitolata I poeti nuovi 1976-1978 e sempre con lo stesso editore nel 1979 l'antologia Poesia degli anni settanta curata da Antonio Porta. Ma se quest'ultima antologia che assumeva come data di partenza il 1968 con tutte le connotazioni di ordine ideologico evidenziate dall'introduzione dello stesso Porta che, però, non avevano poco o nulla a che fare con la poesia scritta e pubblicata in quel decennio, La parola innamorata poneva, almeno nelle intenzioni dei curatori, problemi di altro ordine che andavano da "una nuova maniera di leggere il testo" alla "durata eterna e infinita del testo meraviglioso e inarrestabile". Dopo la parola poetica - innamorata - colorata - rapinosa: vi era quella amorosa.
In questa antologia non compare Cesare Ruffato mentre un suo testo "Caso due" compare in quella di Porta stretto tra due autori come Dacia Mariani e Carlo Betocchi, con la data 1974, anteriore di quattro anni a Minusgrafie. Se la data, la sistemazione, il luogo è del tutto incomprensibile per lui non lo è per il curatore che tende a enfatizzare il proprio lavoro come una "colossale fenomenologia" (citando Jung) e "carnevalizzazione del discorso": (il citato Bachtin). Cesare Ruffato ne esce fuori come un nomade in cerca di altro territorio, di altri strumenti linguistici, e sempre più lontano da quella antologizzazione strumentale in nome o contro il '68 portato come bandiera di un incontro o scontro ideologico in cui si voleva costringere la poesia, e non soltanto la poesia, ad adeguarvisi.


nella organizzazione sintattica evasive assonanze
riverbano i trapassati ablativando espedienti
in tono minore quasi vergante confricazione
pendule fragranze di populistica amenità
passita crociata fittizia
scommessa categoriale di una divergenza esclamativa;


Ma Cesare Ruffato non si adegua "alle pendule fragranze di populistica amenità", cerca altro. Con Parola bambola che è del 1983, porta avanti la ricerca iniziata con Minusgrafie approfondendo la tematica linguistica attraverso l'immaginario infantile. Il titolo della raccolta di per sé indicativo per il futuro della sua poesia, futuro che dopo la pubblicazione di Etica declive a distanza di anni scioglie un nodo e ne aggroviglia altri come una macina linguistica che raccoglie, impasta e modella altre forme ed altri significati.
Ho scritto brevemente delle opere precedenti più significative e che conosco, prima di affrontare Scribendi licentia, testo che l'Editore Marsilio ha pubblicato in un curato e corposo volume che raccoglie tutte le poesie in dialetto che Cesare Ruffato ha scritto tra gli anni 1989-1998.
Vorrei, prima di parlarne, riportare quanto lo stesso poeta ha anticipato nella sua breve presentazione:
«Viene il momento in cui si compie a ritroso il percorso di un settore particolare del proprio lavoro di scrittura con occhio più equilibrato e focalizzato nell'intenzione di organizzare fedelmente e proporre una sorta di corpus testuale più filtrato e più aderente a motivazioni estetiche e di poetica. Va comunque segnalato come gradienti di complessità testuale condizionino una "dipendenza della lettura dalla intentio operis"».
Nel volume sono raccolte in progressione cronologica Parola pirola; El Sabo; I bocete; Diaboleria, e molto materiale inedito o pubblicato in riviste. Devo confessare che non conoscevo le poesie in dialetto di Ruffato: per me sono state la scoperta e il piacere di una lettura del tutto inaspettata e averle lette tutte insieme e non negli anni di pubblicazione a cui esse fanno riferimento mi hanno dato la sensazione di essere entrato in un universo poetico del tutto lontano da quanto i poeti esemplificati nelle cronache letterarie come i migliori della loro generazione andavano pubblicando nel decennio in cui Cesare Ruffato dava il meglio di sé nella scrittura poetica.
In verità ho frequentato poco la poesia in dialetto perché nella maggior parte dei casi i poeti dialettali, e mi rivolgo ai poeti della seconda metà di questo secolo, rimandano la loro lingua a una civiltà agraria quasi del tutto scomparsa o a un verseggiare elegiaco costruito sulla tradizione in cui viene cantato il sentimento amoroso, la fatica del lavoro, il rapporto con le stagioni, anche se P.P. Pasolini nella sua introduzione alla Poesia dialettale del novecento scriveva che "i dialetti posseggono una tradizione non meno colta, anti-popolare di quella della lingua. Quasi sempre si tratta di una semplice traduzione dalla lingua al dialetto, e le dilatazioni caricaturali, quando ci sono, si devono a una polemica puramente formale: non è senza significato che quasi tutte le letterature dialettali facciano risalire le loro origini al Barocco".
Su quest'ultima affermazione di Pasolini ci sarebbe da discutere ma non è qui il caso scrivendo di Cesare Ruffato (lo stesso discorso si potrebbe fare per un Loi o per una Pierro seppure con intenzioni e prospettive diverse); in questo intervento vorrei soffermarmi sulla poesia in dialetto, e non dialettale, che sperimenta e porta avanti nel corpo del padovano un proprio bioritmo linguistico che dal dialetto si stacca e nello stesso tempo lo reinventa nelle forme che si riallacciano alle esperienze della sue precedenti raccolte in "lingua patria". È chiaro che nelle due esperienze ciò che emerge è la maniera dello scrivere che non ha steccati fra un'opera e l'altra; è un fluire ininterrotto di una ricerca personale irta di linguaggi speciali, di arcaismi, di nomenclature scientifiche, di dottrina linguistica, di parlati familiari, di memorie sofferte, di invenzioni lessicali in cui la citazione ha il suo posto privilegiato.
Detto questo non si può affrontare la poesia di Ruffato per comparti stagni perché essa nella scrittura si fa unica evitando le secche di un'analisi critica che rischierebbe di isolarla nel campo di una sperimentazione di laboratorio colto e nelle stesso tempo fine a se stesso.
Tutta la mole della sua poesia in dialetto, raccolta per intero in questo suo Scribendi licentia, pone la domanda di come la sua poesia pur essendosi sviluppata in direzioni opposte e nello stesso tempo convergenti sia riuscita a inventare un linguaggio compatto e preciso pure essendo composta da diversi apporti linguistici. La risposta dovrebbe essere trovata in questo suo ultimo testo antologico che riproduce i meccanismi del suo lavoro sulla e dentro la lingua che, attraversata e ferita dal dialetto, crea continui spostamenti di senso e fa collassare le parole dentro le strutture della sintassi ormai privata di ogni rapporto con le regole della tradizione seriale. I testi poetici di Cesare Ruffato non sembrano avere una struttura-sistema perché il dialetto agisce come destrutturante, forse proteso a restituire alle parole la loro libertà attraverso fessure che si aprono e si chiudono per inghiottire e rigettare le stesse parole prive di ogni ordine di senso:

Sin da prima de nascere la moveva
i orti de l'anema perleta ex voto
in lago de clorofilla tarmà
che ga grotesco el nome balbetà
la fronte da cavei invasa
laetitia impirà come vita eterna.
Partoria la criava sconta sigala
snonolava bava esoterica intanto
i cavalieri in sofita sfilsava
galete de moraro su le grisole.
Ab ovo avatara
la ga la so materia prima
la verte el mare aurora
da sgnacare su le idee saori
siere de foreste, sfese de parole

Dalla fessura delle parole si aprono spazi in cui la componente lirica, presente già in Minusgrafie e che si farà più evidente in I bocete, affiora in versi cantati in contrapposizione alla "clorofilla tarmata", a quel senso di disfacimento ("ninnolava bava esoterica") che è presente in certe sue poesie in dialetto e in lingua.
Su questo panorama poetico percorso come in un'alba primordiale da infinite e ossessive forme che diventano immagini e pensieri a seconda della collocazione delle parole, Cesare Ruffato compone la sua irrequieta biografia, che è tutta pensata cronologicamente in rapporto agli accadimenti della sua esistenza e alla realtà della storia che anno per anno ha scandito la sua memoria poetica. Ed è strano che in una poesia difficile e così lacerata, grammaticalmente e sintatticamente, si possa seguire un percorso che porta alla luce tracce visibili e per alcuni versi immagini di un'esistenza vissuta e sofferta in grande solitudine. Dal frastuono delle parole, dalla spericolata ricerca di materiali che irrompono da ogni settore dello scibile, siano essi materiali provenienti dalla scienza, dalla medicina, dalla filologia, dalla filosofia, dalle usanze domestiche, da banali conversazioni o da tutto ciò che avviene nella vita di ogni giorno, la figura del poeta si proietta in una fragranza spirituale sempre tesa alla ricerca di un senso compiuto della propria vita. Mi pare che il suo modo di sconfiggere la realtà risenta del magma pittorico di alcuni pittori americani (Pollock, Tobey?) che forse ha influenzato la sua sintassi poetica. Le parole di Ruffato si affollano in un cosmo che ha perso ogni equilibrio gravitazionale e sono diventate dei frammenti alla ricerca di un punto di attrazione che possa ricreare un pianeta visibile. A tale processo di assemblaggio di un pianeta visibile è teso lo sforzo di "riscrittura" di una poesia visibile sul piano della conoscenza; egli pur aggirandosi in una terra smarrita sente che la parola vive di là di ogni sintassi e contro la stessa sintassi che la vuole chiudere in una logica di senso. E, nella mia interpretazione, si affaccia infine su un orizzonte di palloni frenati che è come un balcone, orlo bellezza sul vuoto affilato per esplorare poi su specchi neri un aldilà rovesciato:

La verità da tacà
siglese mistico che scancela
gelatina di fiori amor fatui
tu et illa litote tarantola
ieri e doman che no se ciapa
orlo bellezza sul vodo uà
orizonte de baloni frenà
nomi esplorandi dà dà
che vani dindola paeri su speci neri
un aldelà roversà

Il dialetto di Ruffato è una lingua? La domanda si è affacciata continuamente nella mia mente da quando ho cominciato a leggere le sue poesie in questa summa del dialetto che pur mantenendo, all'inizio, il disegno prestato dalla lingua italiana si espande in un lessico torrenziale che a volte si stacca dalla matrice-pensiero che ha dato avvio alla scrittura di una poesia. Il suo dialetto è una lingua giocata con l'apporto di neologismi dissacranti che escono fuori da una tradizione letteraria classica e dalla convenzione romantica di cui è intrisa ancora la nostra letteratura. Sono i neologismi a costruire i nuovi registri della lingua ruffatiana, neologismi già presenti nei diversi codici e nei diversi registri delle precedenti raccolte che immessi nel dialetto padovano sono serviti a crearne altri: una ricchezza lessicale in cui suono e senso si alternano fraseggiando una gamma musicale di "parole" del tutto imprevedibili:


Nata da parolo sior spenotà
e da 'na parolezza squinzi
in ex lege goliardese
parolante sul paion, squasi rivelà
da l'antichità piena de sotintesi
voltà ai passi del senso e del gesto
per dirghese qualcuna: paràola
parolla parora paruola
sin dal tardo latin parona parabola
e in volgare paraula...

È la "parola polena", la parola che attraversa il grande mare della lingua con la punta della polèna, figura scolpita sull'estremità del tagliamare, la "poulanne" che indica la direzione dell'andar per mare e dà il titolo a tutta la raccolta e che si metaforizza poi nei diversi significati: Parola matita, Parola coi busi, Parola morbin, Parola denaro e attraversando ulteriori enunciazioni si conclude con Parola fiaba che evoca un mondo di personaggi e di memorie, un mondo de "putei infabulai" che inventano degli io narranti e che il poeta maturo conclude con - adesso te la conto mi la fiaba.
Il dialetto di Cesare Ruffato è una lingua giocata su un'ossessiva colonna sonora ma nello stesso tempo "co responsabilità fantasiosa radegosa" che nel sogno s'imparola.
In quasi tutti i versi di Parola pirola la "parola" domina sovrana come una droga "scuro doping" che spegne l'istinto di vita: qui la parola nelle sue svariate torsioni commenta e trasmette una sofferenza che oltrepassa tutti i giochi linguistici:

filastroca ancora più granda
su passoni de legno a ritmo novo.
In ritardo la se incorse de l'aria
rarefata che sbaca el cogito e la solitudine
rimbomba l'eco del cuore in boca

La raccolta successiva El sabo dell'anno dopo inizia con una poesia che ha una curiosa ed ironica citazione a Giacomo Leopardi e, all'inizio della raccolta, il rimando al "Sabato" leopardiano è costante, pieno di variazioni esistenziali ed è percorso dall'infanzia ma anche dall'attuale realtà fatta de "galerie stagne de auto / bai al cloroformio, siami spiritai" e in cui dominano:

Quele violente, ruspie gropolose
lontane da l'erba le torna sempre su
co l'incidente, i rotami l'inquirente
le fulmina la megola...

La poesia de El sabo più che di parole è fatta di invettive dolorose, di una stanchezza del vivere in una società attraversata dai miti del consumismo in cui "Morsego el pomo co tache marse" ma con richiami nostalgici a:

El rosa del tramonto portava
la croda in premio su le prove
de versione, su le giacone
de coton egissian

Una definizione del suo dialetto Cesare Ruffato la dà nella prima poesia di Diaboleria, raccolta che è del 1993:

Se prova sensa convenevoli
e co umiltà 'na capatina pèpola
sul dialeto no par delucidare
ma co la fraca de lampra passion
dei cavalieri pal tesoro del Graal

Il poeta dice di entrare nel dialetto con umiltà e solo per una piccola capatina non per spiegare un discorso ma per una limpida passione dei cavalieri per il tesoro del Graal. Egli dunque nega l'impegno filologico ma evidenzia la passione che è fatta d'amore (e di memoria) o di qualcosa di svanito "come desso se fa pal mondo stranio / da la stratosfera co satelite".
Molte volte nelle sue poesie in dialetto egli prende le distanze dal dialetto che "dall'alto gli pare una macchinetta da foto a raggi infrarossi" come per dire che quella lingua materna è qualcosa che non si distingue con gli occhi ma che "viaggia dalle viscere alla metafora" come un oggetto che si vede attraverso un altro; qualcosa che viene dal profondo come materiale primigenio di cui è difficile fissare la provenienza né spiegare il motivo per cui questo materiale ha preso il posto di quello letterario. Il dialetto di Ruffato sfugge a qualsiasi codificazione, lievita come il buon pane di cucina dell'adolescenza di cui si sente ancora il profumo (quanto vi è di proustiano in certe sue poesie?) che non si può raccontare come in un diario dei bei tempi andati.
Nella sua poesia sono dominanti i luoghi mentali più che quelli sentimentali, ma quando il luogo mentale tende a ripetersi nei versi con quel sovraccarico di parole che a volte si perdono nel buio dell'incomprensibile, la trama oscura si sfilaccia, mostra improvvisi cedimenti di luce e balugina il sentimento che seppur negato dalla struttura esplorativa della lingua rimane il filo tenace del suo fare poesia. A volte il sopra corre come controcanto del sotto, a volte ne escono degli stridori, degli incomprensibili balbettamenti, dei gorgoglii d'annegati mentre da sotto ne esce il respiro dell'anima che è come il liquido azzurro sulla tela grigia spremuto dal tubetto del pittore. Un colore che al momento resta fermo e poi comincia a respirare in rivoli che scivolano dentro gli interstizi della dura forma letteraria. Parlo di pittura che per me è lo specchio-eco della sua poesia, ma potrei anche parlare di musica accennando ai ricercari cinquecenteschi e secenteschi che fra organo e liuto sono ancora la base di tutta la musica moderna. L'insistente ripetitività unita alle improvvise fughe senza respiro tra citazioni e parole, tra consonanze e assonanze, tra metastasi e grumi di frasi, hanno nella poesia di Ruffato l'intento preciso di dare al lettore la visione di una nuova carta cosmologica della letteratura liberata da quei confini che si potrebbero chiamare tolemaici. La nostra poesia attuale si è attestata su quei confini rispettando la retorica e lo stile senza i quali rischierebbe di non essere capita ricoprendo le sue parole con una vernice fissa per farle sembrare eterne.
Ma Cesare Ruffato rifugge la supposta eternità della forma composita, finge di mischiare tutto ciò che conosce in un amalgama di forzature barocche lasciando ai pochi lettori che la intendono la poesia del calendario quotidiano:

Na sbrassà de volte a luce albasia
go fruà el calendario, robe robe
sempre miele fiele
de le varie lengue, go tentà enigmi
simulacri date nel to sillabario,
imbragà sbaco
interdeto a starte drio
sento forte cortei e mutansa
mia hermosa, mia edera effatà

Questa poesia tratta dalla raccolta I bocete disvela l'altra faccia del fare poetico di Ruffato. Le opere in dialetto, raccolte in questo bel volume, danno l'impressione di un susseguirsi diacronico della sua ricerca. "Sono queste il suo personale fiume eracliteo la cui corrente non è mai la stessa, le cui acque nel loro defluire cercano nuovi meandri e gorghi e rive e laghi" scrive Andrea Csillaghy a proposito della sua poesia dialettale.
La raccolta I bocete è quella in cui le invadenze metalinguistiche sono meno evidenti così che il dialetto ha maggior spazio per disporsi in sequenze più vicine al parlato. Intendiamoci, il dialetto di Ruffato non è un dialetto che si rapporta alla tradizione; è continuamente attraversato da altri linguaggi che si rifanno alla lingua colta di origine latina e provenzale, da una terminologia tecnica e scientifica e da una "rottamazione" di linguaggi diversi che si inseriscono in un parlato che a volte somiglia al parlato dei fumetti. L'intento satirico e ironico è evidente come è evidente la carica eversiva che trascina lo stesso dialetto ad azzopparsi in un plurilinguismo che mescola intenzioni dialettali alla comunicazione e informazione sperimentate coi mezzi del parlare quotidiano ripetitivo e distratto. Come dicevo, il testo I bocete è meno frequentato dalla citazione e dal travestimento sperimentale e si dispone verticalmente secondo frequenze del cantato dialettale: insomma è il meno complesso tra i testi in dialetto di Ruffato ed è quello in cui i sentimenti e le emozioni sono più percepibili alla prima lettura:


Aria pineta, coline zale,
apanae, tortorele e sarmenti
odore ateo del mare,...

Con questi versi si apre la prima poesia della raccolta, poesia che si chiude

el caldo de San Martin in spadina
co bucole de sole in man

E chiudendo e aprendo il testo m'imbatto in "Fiamele de speransa / sui confini" poesia scritta alla fine degli anni ottanta che conserva intatte, a questo fine secolo, le immagini dei dieci anni precedenti:

in certi paesi richi ga fato
pocheto per milioni de puteleti
che sbrindola tambara in pocie
e robe che non se pole avere.
La Pasqua bassa ga anda piata
el fredo sfersa, la guerra sorda
del Golfo xe nafta che sbassa
la borsa e schifa el calmiere de l'omo

Mi sono soffermato su questi versi anche perché, mentre sto scrivendo, provengono notizie di nuove bombe su Bagdad come alcuni anni fa, e Ruffato li leggeva per "milioni de puteleti / che sbrindola tambara in pocie / e robe che no se pole avere".
Mi sono chiesto allora se la sua poesia al di là dei brandelli di parole, al di là dei punti estremi della ricerca, al di là dei neologismi tecnico-scientifici, offra anche un'altra lettura, quella di una indagine profonda sui mali di questo fine secolo, mali che stanno sotto cumuli di rifiuti di cui la società "opulenta " si sbarazza ogni giorno per costruire la "disneybabele", una città artificiale che si trasforma in una realtà disgregata e corrotta.
In I bocete, a differenza delle altre raccolte, l'infanzia è il tema dominante. E una poesia tutta affidata all'invenzioni che sembrano prodursi nei giochi de "i puteleti " che vengono guardati dal poeta con un'ineffabile tenerezza ma anche con profonda sofferenza, un tema su cui la ricerca critica nei suoi vari e molteplici studi non si è soffermata abbastanza. L'infanzia si porta dietro felicità e sofferenza e nella vita che "lagrema sconsolà / no cavemoghe la carioleta dei sogni".
Al sillabario della lingua che per secoli è stato uno strumento per costruire un ordine logico di concetti trasmissibile ai diversi livelli di scrittura, Ruffato oppone il dialetto intriso della ricchezza lessicale che era propria della sua precedente poesia in lingua. È la dimostrazione che il dialetto può diventare una lingua se non lo si costringe nei limiti poveri in cui sono confinati quasi tutti i dialetti. I motivi per cui la cultura consumistica considera il dialetto un prodotto in estinzione sono di varia natura, in parte riconducibili alla storia stessa della società borghese e in parte alla scomparsa del mondo agricolo che, nelle diverse "marche" in cui operava, fondava i suoi rapporti di comunità e di lavoro con l'uso proprio del dialetto. Dialetto che opera su un altro versante che è del solo lessico in cui immette liberamente, come del resto aveva già fatto con la sua poesia in lingua, tutto ciò che è patrimonio e ricchezza della sua cultura superando la supposta povertà glottologica e morfologica che è tipica della parlata dialettale con le acrobazie dei suoi giochi neologici che attingono alla tecnologia, alla scienza, alla filosofia, alla politica, all'ideologia, in fondo recuperando tutto ciò che aveva già sperimentato sino dai tempi di Minusgrafie.
Con la sua operazione ha spezzato il luogo comune di considerare il dialetto come strumento di comunicazione tra le classi povere, ultimo strumento per semianalfabeti e per gente stretta tra confini limitati. Certo che personalmente considero la sua operazione piena di insidie, ma se mi attengo solo alla lettura delle sue poesie la mia esperienza di poeta e di letterato non vede le insidie e si lascia trasportare in quel suo mondo che:

El xe proprio fora dal spòtico
incancrenio de la lengua buro-
cratica de lege, 'na ecolingua
grembo e marsupio che abita alita
riscata el sogno, el scrive disinvolto
robe stracote e scontae, el s'indrenta
de più ne le robe vere a priori

Da Diaboleria, già pubblicata in volume, fino alle successive raccolte in cui figurano poesie pubblicate su riviste e poesie inedite, il dialetto di Ruffato si è andato evolvendo e semplificando pur rimanendo fedele a quella spinta interiore che l'aveva portato a ritrovare una "lingua" che veniva da lontano e che, non mi stancherò di ripetere, veniva dalle viscere più che dalla coscienza:

La prima fiata che me so catà
nel dialeto xe sta la vose de mama
fantasma chisachi, scartosso de pana...

È anche vero che mano mano che il dialetto si affina la voce tende a prendere il posto della parola per cui il discorso sulle cose si fa più diretto, più colloquiale e rinuncia, ma non sempre, all'uso festoso e infantile della "respirazione serciosa" per ritrovare di nuovo lo "sbùssolo nel polvaron de conceti". Il cambio di direzione è più apparente che reale ma quando c'è si comprende come la sua poesia stia seguendo un percorso circolare che la sta riportando alla lingua letteraria depurata, attraverso il dialetto, di alcune pesantezze strutturali e che sfocerà nella raccolta Etica declive su cui parecchi critici si sono soffermati ampiamente e di cui, per ovvie ragioni, non rievocherò in questo mio intervento centrato più che altro sul robusto "corpus testuale" di Scribendi licentia.
Analizzando tutte le diverse raccolte che compongono il testo ultimo di Cesare Ruffato ho cercato di leggere le sue poesie più con gli occhi del poeta che con quelli del critico e ho fatto un viaggio dell'anima invece di un percorso di ricerca letteraria, anche se fra i due momenti vi sono rapporti che non possono essere scissi in quanto la scrittura poetica è sempre un scoperta estetica e non può essere goduta stando su un solo versante.
Lo stesso Ruffato scrive: «Parlare del dialetto per un sentire oltre implica un ritorno, un rientro in sé nella cripta dell'inconscio, una comunione fra corpo e spirito, un rivelarsi nel gioco del sottrarsi e riproporre il velo, di "trovare" un trobar nou e prim; aprire nuovi passi all'esserci. Un simile conflitto interiore abbisogna di maturità, di autocoscienza critica per condiscenderne la confluenza tra clima d'ombra e di luce, la plastica permessività estetica non gradita dalla lingua egemone».
È nella "permessività estetica" che il dialetto di Ruffato ha la sua maggior forza: tra progettazione e intuizione la sua poesia in dialetto, e non soltanto in dialetto, trova il suo equilibrio in parte dovuto alla sperimentazione sul linguaggio e in parte alla ricerca filologica con l'immissione di materiali di diversa estrazione attraverso associazioni verbali e tonali che sono proprie della parlata dialettale. Ed ecco allora apparire, o meglio sentire, "la voce", fatta di parole ma anche di interrogazioni, di silenzi, di rimandi alla tradizione, di antichi misteri, di pause fatte di "sóni perlai"

La so vose tema amigo de sempre
maraveja psicosomatica
che guada uranio da luna
peòcia in caodano me porta
el logo de la verità, el sole
coi penoti, el plesso de la megòla
spinale, el pletro altro che sconde
ogni virtù

Ritorno alla "vose", "a la grammatica ben ligà a la vose", verso che chiude la prima poesia di Smanie, raccolta che porta la data del 1995 e che era quasi del tutto inedita in volume. Seppure il verso che ho citato all'inizio di questo periodo abbia un sottofondo ironico, la raccolta nel suo complesso inizia un altro momento della poesia di Cesare Ruffato che, attraverso Sagome sonambole (1993-1997), Vose striga (1990-1997) e Giergo mortis (1997) si conclude per ora in Etica declive raccolta pubblicata nel 1996. Non parlerò di questa raccolta che, con le raccolte inedite pubblicate in Scribendi licentia, sottolinea un'ulteriore e forse contrastata ricerca poetica. Altri ne hanno parlato, inoltre la raccolta non compare nel testo pubblicato dall'Editore Marsilio e pertanto esula dalle intenzioni di questo mio scritto. Faccio una sola osservazione: il dialetto in Etica declive ha perso in parte la sua forza deterrente, ha determinato un percorso di sintassi più legato alla voce in lingua che a quella in dialetto, per cui "la metrica è costante: versi liberi costruiti su tre, massimo quattro accenti forti, e di lunghezza variabile tra le nove e le dodici sillabe". Lo scrive Romano Luperini nella sua presentazione che vuole essere una summa di tutta l'avventura poetica di Cesare Ruffato; presentazione che condivido in parte perché la raccolta è per me una pausa, un riposo dopo l'affollato paesaggio delle raccolte precedenti. E a proposito Vincenzo Guarracino puntualizza che «l'ordine ossessivo, che omogenizza e aggioga il senso alla metrica, altrove triturando le parole per ridurle a pari suoni qui disponendo un sapiente gioco consonantico, al fine di orchestrare una mimetica rappresentazione del "grottesco" della vita sotto specie oniricamente verbale».
Con Giergo mortis, che dovrebbe essere successiva ad Etica declive, Cesare Ruffato ritrova la poesia in dialetto. Quale sarà l'uso che ne farà è forse contenuto in questi versi:

Voria scavalcare qualunque greto
e riva per cascare in poesia
idroponica solo mia sardonica
fatua spiera. Dormi cussì
resta ispirassion. 'n'araba fenice
e mi eterno lupus in fabula

Poesia come ispirazione, come araba fenice che muore e risorge; e ancora "caronte tuo mulo che mai si ferma"; e ancora "la mania de suicidio leterario / ne fa imaginare 'na morte squasi/ sielta per intimo destin caressà / e tirà de fin". Insomma la morte della vita che coincide con la morte della poesia, "rechie de morte e vita in balansa".
In queste sue ultime raccolte Cesare Ruffato ha apparentemente messo da parte il torrenziale vocabolario dei neologismi per distillare versi di intima necessità, di antica sofferenza, di universale dolore: il "giergo" e non più "el dialeto" parlato dei vagabondi che camminano e gironzolano bendati, vagabondo anche il poeta senza una meta "squasi che l'anema me gabia saludà za fiapo e prossimo a catarmela" una continua evocazione della morte. Ma la morte viene vista come "’na drita dama Alcahueta tròtula / che trame imbastisse da qua aldelà"; una creatura, una parola di Dio, un angelo speciale che assume peso e sembianza in cadavere, ma che nello stesso tempo è essere umano e strega mezzana. In questa rappresentazione mi pare di vedere illustrate incisioni di origine medievale che traevano ispirazione da un Dio punitivo e crudele durante le grandi epidemie. Ma sotto questi disegni di morte punitiva serpeggia l'ilare e ironico discorso di un poeta che vede anche nella morte la fonte di un gioco letterario che chiama intorno a sé "curiosi e sissienti de salvassion" come per assistere ad una rappresentazione da giudizio universale. In Giergo mortis pare che la figura della morte si allontani e si avvicini secondo un alternarsi di isotopie, o meglio ancora di pluri-isotopie, e per dirla con Lotman riguardo a un testo «in cui gli stessi segni servono, a diversi livelli strutturali e di senso, all'espressione di un diverso contenuto».
A questo punto sarebbe interessante rivedere e rileggere le poesie in dialetto che hanno trattato a diversi livelli, secondo un ritmo cronologico, avvenimenti politici e storie private situati nel tempo e nel ricordo e che hanno scandito l'avventura poetica e umana di Cesare Ruffato.
E per finire vorrei citare un brano tratto dal saggio che Francesco Muzzioli ha dedicato alla poesia di Cesare Ruffato, saggio che giudico tra i migliori a lui e per lui scritti, che oltre ad essere uno studio sulla poesia ruffatiana è anche una rievocazione degli anni, più tempestosi della nostra storia recente, in cui quella poesia si è andata costruendo confrontandosi con la realtà.
La citazione si riferisce alla raccolta El sabo ma potrebbe riferirsi a molte delle poesie di Ruffato e particolarmente a questa Giergo mortis che per ora conclude tutto il suo ciclo dialettale.
«La distanza temporale è pur sempre un abisso che la parola colma con un salto avventuroso e precario (si parla a un certo punto di un "ponte di paglia", "un ponte/ de paia sul tempo del tempo"), di cui si avverte tutta la difficoltà e il pericolo: la riemersione del lontano, infatti, pur agevolata dal suono ben noto e primario della voce dialettale, deve fare i conti con la "differenza" ineliminabile del presente. La discontinuità storica e sociale che marca l'antitesi tra il "’na volta" e l’"adesso" deve constatare la radicalità del cambiamento ("ormai...xe cambià") e - ribadita anche dall'incisione del trauma personale che (perno ne è un sabato di sciagura) torna a far sentire la feroce frattura tra "prima" e "dopo" - non lascia di rivolgersi all'indietro, "indrioculo", verso il passato».
Il "cambiamento" scandisce anno per anno la voce di Cesare Ruffato, il cambiamento della sua e della nostra vita, e il passato torna insistente commentando l'infanzia e la tragica morte della figlia. Ma il cambiamento, il ricordo, il passato, perfino il quotidiano appartengono a tutti noi che siamo vissuti nella storia comune di questa seconda metà del secolo, ed ora che siamo alla fine e ci guardiamo alle spalle vediamo che l'opera poetica di Cesare Ruffato non è invecchiata, come tante altre che hanno seguito l'esplosione della neoavanguardia. La sua opera ha seguito un percorso lessicale ed esistenziale dentro una rete di strutture semantiche e apporti filologici, a volte di difficile decifrazione ma anche di godibile lettura. Debbo confessare che l'attraversamento di questo vasto universo antologico della sua poesia dialettale, non è stato per me impresa facile, ma una volta tentato, l'attraversamento è risultato una scoperta di una poesia che giudico come "unica": da qui l'impossibilità di un confronto con la poesia altra che riempie tutti gli spazi disponibili degli spettacoli letterari.
Scrive il poeta alla fine:

Non so se me consolo d'un buso
da studente ad hoc al Verdi in logion
lusinghe ociae da londi sbecae d'ilusion
anfosa. Desso "est ma vie trop pesande
a porter...
mors, de ma vie me delivre" delusion.
Dove parole e figure no riva
el mistero sbassa seje e sipario
la peripatetica nera mena
el gnente par sé tuto
l'estremo cao icse de ognun

Per un poeta la morte evocata è sempre lontana, perché la poesia non trasmigra tra le "deserte nuvole su la luna" ma "’Na luna legnosa levantina / combina galerie stagne de auto / bai al cloroformio, siami spiritai. Cesare Ruffato si sforza di rimanere dentro la realtà e dentro le poesie che la vivono, un poeta che alla distruzione e alla morte può opporre soltanto la parola "sitadina del mondo / de stansa nei vocabolari".


Colloquio

di Milena Nicolini

Premessa.

Ben altri lettori, eccellenti lettori, hanno indagato la poesia in dialetto di Cesare Ruffato e basti qui per tutti ricordare Sperimentalismo dialettale, in La poesia di Cesare Ruffato, Ravenna 1998, di Francesco Muzzioli, o i saggi di Remo Cesarani, Pietro Civitareale, Gualtiero De Santi, Giuliano Gramigna, Francesco Muzzioli, Michel Prandi, tra gli altri, in Poetica di Cesare Ruffato, Testuale 23/24, Verona 1997/8, senza dimenticare le analisi di Luciano Caniato, in L’occhio mitridatico, Ravenna 1995 e i saggi presenti in Steve per Ruffato, Modena 1997, e in Cesare Ruffato, testimonianze critiche, La Battana n.s.3, Fiume 1997.
Emerge da queste analisi attente ed approfondite la qualità alta della poesia e della ricerca linguistica che il poeta compie all’interno di una ‘lingua’ sentita e voluta viva e vivificabile, come strumento per comunicare in modo originale e nuovo perché incessantemente indagata e ricreata dal di dentro, in quanto medium di personale e collettiva esperienzalità, e dal di fuori con gli apporti, gli stravolgimenti delle necessariamente sconfinanti esperienze linguistiche e culturali adiacenti: dall’italiano dei media o dei linguaggi specialistici, alle lingue delle culture passate o limitrofe; e infine interrogata e mutata nella specifica operatività del fare-poetico. Questi interventi, operando dal vivo di una realtà sempre più complessa e globale sul vivo di una ‘lingua’-assunta, quindi, come polimorfico mezzo di testimonianza attuale e partecipante, come strumento capace di elaborare pensiero critico auto/etero-referenziale, come voce di poesia- rispondono oggettivamente ad eventuali domande sul senso della scelta di una ‘lingua’ marginale (ma verrebbe da chiedersi, oggi, quale lingua non è marginale nel sempre più caotico proporsi del rapporto uomo-mondo), e ancor meglio fugano dubbi di ripiegamento nostalgico o senile su una coniugazione del mondo al passato o al perduto.
Se queste, di cui appunto sono debitrice ai tanti che hanno lavorato sulla poesia in dialetto di Cesare Ruffato, sono le premesse, io, qui, ho soltanto tentato un colloquio con alcuni dei testi raccolti in Scribendi licentia; e già chiamarlo ‘colloquio’ è improprio, perché le mie movenze, che sono e restano indubbiamente soggettive -quando addirittura non apodittiche-, piegano e modificano anche gli interlocutori. A mio discapito accampo solo un desiderio di pensare intorno a certe cose che è nato incontrando questi testi di Cesare Ruffato.

Colloquio.

Il nichilismo del nostro tempo è il prodotto di una cultura che ha operato una quasi totale astrazione dall’essere-mondo. E la nostra lingua è diventata la lingua della nientificazione della cosa-mondo, in una soggettività separata e disperata.
“Perplessa sul mondo ramai mondi / sul gnente impossibile e sui dubi / del parolare le robe, la prova / serciarle e no lassarle morire. / ... / La sa ben da organo sientifico / che nessun mondo parla e solo noaltri / se machina inventa dise fa / ela intona e inverba co speciale / imaginassion metaforica de echi / peli de oca, bocabolario birignao / fora papéta e descrission eterne / che ognuno se monta e conta / fin che siensa sensàla verità / e rigore co siamana parlantina. / Ela spia in robe e omini / a capire sesti, segni coradela / adatarghe tuta la corente / shokin de la so essensa. Nel logo / dove saere la parola scampà / al lenguagio, specio spotico / de solitudo de la boca che la dise.”
La lingua e la cultura in sè parrebbero necessariamente portare a questo.
“Solo la specie umana ... ha l’abitudine di raccogliere, produrre ... oggetti che hanno un’unica funzione, quella di significare... A differenza delle cose, questi oggetti portatori di significato, o semiofori ... hanno la prerogativa di mettere in comunicazione il visibile con l’invisibile, ossia con eventi o persone lontani nello spazio e nel tempo, se non addirittura con esseri situati al di fuori di entrambi... La capacità di oltrepassare l’ambito dell’esperienza sensibile immediata è del resto il tratto che contraddistingue il linguaggio, e più in generale la cultura umana. Essa nasce dall’elaborazione dell’assenza.”
La lingua nasce come sostituzione delle cose: al posto del mondo sono messi pezzi di fiato. Ma all’origine c’è ancora un rapporto stretto, come testimonia il pensiero-linguaggio magico-mitico: i pezzi di fiato, i nomi, richiamano la cosa, sono ancora la cosa, perché da essa emanati e provenienti, perché qualità essi stessi della cosa; e la cosa c’è anche se non c’è.
“Il selvaggio non sa distinguere chiaramente tra le parole e le cose e crede ... che la relazione tra il nome e la persona o la cosa denominata non sia un’associazione puramente arbitraria e ideale, ma un legame reale e sostanziale che li unisce...”. Si pensi per tutti alla potenza terribile del nome di Jahvé nella Bibbia, sottoposto a uno dei più duri ed osservati tabù religiosi.
La perdita viene dopo.

Con la fine del sacro, del magico, del mitico, con la fine dell’“essere manifestativo”, la parola veggente, la parola sibillina via via si svuota, taglia le relazioni col mondo, sostituendo i concetti alle cose e le relazioni tra i concetti ai rapporti tra le cose. Queste nuove relazioni vengono inquadrate rigidamente in una logica razionalistica immobile e ripetitiva che, a partire da Parmenide, fissa l’essere in un’unità staticamente solo positiva che dice ingannevole e falso il mondo dei molti e delle mutazioni, costituito infatti solo di nomi vuoti. Nel suo sviluppo sempre più rigido e formale la nuova concezione logica del mondo ignora la realtà manifestativa e le sue aperture, limitandosi tutt’al più a relegarla nel ruolo di un non-essere, esorcizzato come non-significativo ed illusorio, fino ad annullarla come inutile, non pertinente al sapere, alla conoscenza, o, più sottilmente, come irraggiungibile, kantianamente, comunque estranea e altrove dall’uomo, indicibile. E la lingua si è fatta normativa, necessitativa, convenzionalmente vuota ed autoritaria. “udite udite umane genti la parola / mitraica a distanza da credere / sensa tocare... / Tanto mirà la podaria essere comprà / sul banco perdendo integrità / el mastice che la taca a la so roba”.
Una lingua che sostituisce le cose senza mettere più nulla al loro posto. Nemmeno il fiato.
“Parlare xe un debole congresso / no darghe rispeto al sito / che masena perfin le imagini / de la natura infarinae de simboli / e metafore.”, “...maniera de parlare d’ogni omo / co termini afiliai sgarugiai / nei bocabolari invita a nosse / per analogie e metafore, ma xe / squasi mejo starghense fora par no / imbatariarse de sofismi filo- / logici batoloni che t’ingiassa.”, “el mondo / tuto ‘na lengua-po dobermana.”; “ La verità da tacà / siglese mistico che scancela / gelatina de fiori amor fatui / tu et illa litote tarantola / ... / nomi esplorandi dà dà / che vani dindola paeri su speci neri / un aldelà roversà.”
Nemmeno il fiato.
Con il suo procedere la scrittura non solo ha sostituito, ma ha riplasmato l’oralità stessa, distruggendone in gran parte i caratteri primigeni, decisamente connessi con l’esperire corporeo del mondo, con l’alterità diversa, con la irriducibile mutevolezza del vivere.
“Oralità co nostalgica spiera / de falso gran bataria, calieron / graspia che sbrusa squasi sempre / sul piatèlo de la scritura”.
La parola ha perso la sua matericità (“nacquà sgagnà spanìo sdolcinà / el ga perso l’anema minerale”), anche specifica, si è staccata dal mondo, dai sensi e dal corpo -dall’intero-, per diventare pensiero astratto, silenzio, pensiero di morte, perché l’essere che viene pensato e detto come “luogo della verità” è il “termine più vuoto, povero e indeterminato”, essendo negate con esso le qualità della vita.
Anche quando sono rese “nominabili” nel “platonico genere del diverso” le cose del mondo, però la “loro realtà -il loro luogo di significazione” sta “altrove” e la “derealizzazione del mondo... continua ad agire”.
“La memoria de la vose pardelà / xe sensa oblio vanti de rivare qua / dove tuto ghe pole capitare, / nacquà torno parole eiacule in ore”.
È la morte. Come segno di una dicotomia che si fa sempre più profondamente segno di una perdita, di un’assenza: solo questa di fatto dicibile, perché delle cose del mondo è rimasta dicibile solo la negazione.
“la scaìna a ‘na roba che sèita / a scominsiare appo nihil ex nihilo / in fieri da no dirse, gossa de zefiro / sensa fi ‘na volta idea peca de mi / in serca de carne e peso.”
È questo indicibile da superare. L’ineffabilità di un linguaggio che si è autocostituito incapace di dire ciò che è, separandosi dal mondo, rendendosi autonomo da esso e padrone del proprio senso staccato.
“Un lenguagio co drento el so senso / che sapia dire donde el riva e capirse / pare ch’el manca... Imagarse / nel silensio, tempio del tempo / e de l’essere che dà conotati. / Distante dal bestiario beato / che imbàrbara sbocando se podaria / proprio sbàtare ne la parola de Dio / che vien vanti muta genuina / poesia incantà. Anca el cocepìo / de ‘sti momenti xe sempre un also / de la qualità umana e de l’amore / co segreti speciali che impissa i corpi”.
“L’indicibile mi potrà essere dato solo attraverso il fallimento del mio linguaggio”
“Voria darte... l’anema de la parola / che sta per rivare o rùmega / e quando la se dà la la xe za / plagià,... e de chiunque essere la podaria / magari ‘na ciave che anunsia verse / ... / No piansere pei fantasmi stereotipi / per i doni beli che xe svanii, / nel darse la man credemo de scursare / la distansa, ma el ris-cio de voler / massa, de pertegare l’abisso / de incorporarse in esodo erbario / o in ‘na lengua estuaria a toni / alti quasi vocalese che se perde / nei boschi de la nostra vera sostansa / xe tanto grande e scuro / ‘na note che mai se supera / e tuto rimete in discussion. / ... / La cacia scursa l’ambiente in tute / le cadense, spaca el cuore profondo / no se termina mai de conosserse / a l’ombra del logos Eva milegusti / sburatà che ne imbarca più / a la morte che a la sopravivensa / in ‘na giostra crudele tiratera / che gnente cava ilusa de significare.”, “I busi... busini buseti busoni / problema ostico sararli. / I podaria starghe da prima / o a compenso del fracà / in modo che la materia sfiata / vegna penetrà ne le maniere più strambote / ris-ciose de impiastri vari / che strissa impegola petrolia / fistola pastissa de rabalton / un desio de oci falsi / macabri operculi orifissi osculi.”, “Nel slancio verticale ghe preme / sgrinfiare un tempo perso o dissipà / ... / In alto un poco de silensio bersalia / ‘na porta su ‘na zona no conossua / forse quela che sgrafa e spense i desideri / ... / Nel tentare el tuto par tuto / se staca i poli da la parola / per invosarse in cresta / spacando el silensio / perdendo el ben di Dio guadagnà, / l’orisonte che la gaveva alsà / a dirse e scriverse l’anema”.
Lo scacco del linguaggio non è condanna al mutismo, perché “ti racconterò come sono entrata nell’inespressivo... come sono entrata in quello che esiste fra il numero uno e il numero due, come ho visto la linea di mistero e di fuoco e che è la linea clandestina.”, perché si sperimenta “la gioia di perdersi”, “il fuoco delle cose”, la “tessitura di cui sono fatte le cose”.
“fa pensare a un papiro scoperto / coi conotati mistici secreti de Eva / che miracola e bala el lessico.”, “‘Sta vista diversa particolare / mena a inventare ‘na sintesi savarià / la luce del mare, la sapiensa maga / del vodo, la cometa de Giulieta / le piasse tramortie de sangue / carri armati e iene, sepolture / scoverte al cospeto del cielo”.
È il ritrovamento del contatto, di quell’essere pieno, vitale, indistinto, che non conosce il negativo perché è tutto ciò che si manifesta così come si manifesta, di quell’essere che ci è venuto dalla madre, quando con il suo corpo-parola ci ha mediato e dato il mondo. Il suo linguaggio non era di astratte categorie, non era separato dalle cose, non era immateriale, perché era linguaggio di tutto il suo corpo: un corpo che dava ed era vita, dava ed era realtà. In questo linguaggio si è sperimentata l’appartenenza all’intero, nell’unione col corpo materno: è infatti un linguaggio-corpo del tutto convissuto e compartecipato, dall’interno, matericamente, fin dalla prima percezione nel ventre materno del “bioritmo” con cui il mondo si è manifestato attraverso la madre, per diventare poi, sempre attraverso la madre e in comunione con essa, lingua-esperienza che dice il mondo e lo crea.
“noi impariamo a parlare dalla madre... non oltre o extra ma come parte essenziale della comunicazione vitale che abbiamo con lei”, in quanto “matrice della vita” – lei – e “soggetto distinguibile dalla matrice ma non dalla sua relazione con essa” – noi –.
“'na lengua materna che viaja / da le vissere a la metafora / un tesoro de luce fogo acqua aria / e sostanse che ne dà vita. ... ‘na ecolingua / grembo o marsupio”, “Un tempo ‘sta parola sana ironia / de oci bocia sbarai / farinosa perla permalosa de senno / la dansava su le boche spetando / che tuto la diga, un mondo / de personagi ombre e robe incantae, / ... / al punto che i putei infabulai / sdrissa le monae, inventa / prima dei io naranti / -adesso te la conto mi la fiaba. / ... / Taiussà da semiologi ... la ga sbandonà l’ovile omerico / ... / l’asèo del labirinto sempre manco / navegà da la vose del dialeto / ... / Te rifiabo sul cilà: l’ocio destro / che ga rabia del sinistro, la boca / che rampega su la fronte, el naseto / che se spartisse co le recete / un museto pastrocio in serca de catarse / strigà che destrigo co l’eterno bocon / ahum del lupo manaro. / Fabulava tute le sostanse, el nostro / ovoduro, la to ovomaltina / el saverte dono ogni matina. / ... / El latin la solidifica fabula / che rimanda più antico / l’eco de la vose materna / rinsaldà de fede e emossion.”, “La prima fiata che me so catà / nel dialeto xe sta la vose de mama / fantasma chisachi, scartosso de pana / presignificante dove mignògnola / speriense, ombrìe afetive in buso / nero de distinguo, de ‘na masena / simbolica che me limegava al so corpo dolse impiocà / -te sì un bel bambin el me pansin- / parsora el papà Edipo sacagnà / -sito vero el me bravo ometo- / come ‘na sorta de logos impelagà / foratempo, do lustre pronunsie / diverse una de scarga placentare / beata, l’altra de pretesa autorità”
“L’antica relazione con la madre ci dà sul reale un punto di vista duraturo e vero, vero non secondo la verità-corrispondenza ma secondo la verità metaforica che non separa essere e pensiero e si alimenta dell’interesse scambievole fra l’essere e il linguaggio”.
“‘Ste parole prime parentali / ne l’oro de la vita ciama / l’inconscio lalante, corente / letrica bianca de vocali sparpajae / sui corpi de mama e papà putini / anca lori distanti e vissini / e mi me godo ne la cola che sta / ancora prima dei sesti, parvense / fine sielte del soma”. “La mama solo oci / d’amore intivava parfin intension / ditava tuto pelesin e bon”.
“Per poter trovare o ritrovare la parola, che lo scacco sia tutto intrasoggettivo o che sia provocato da circostanze sociali (“Fadiga boia destegolare / la parola materna nel talian / uficiale, impirare bocaboli / da festa patentai de lusso, /... / Un disastro / el senso sorvolante”), occorre per cominciare rinunciare alla propria indipendenza simbolica ... e contentarsi di poter dire qualcosa ... si tratta ... non di rinunciare alla parola ma di accettarne la perdita interpretandola come ritrovamento del punto di vista delle origini, quando eravamo nella dipendenza della madre. Ciò non equivale a regredire alla condizione infantile... Si tratta di un cambiamento di epistemologia. Si tratta di pensare che l’origine della vita non è separabile dall’origine del linguaggio, nè il corpo dalla mente, e pensarlo da un punto di vista in cui il loro legame non è l’oggetto di una dimostrazione ma un modo di essere, un abito”.
“El dialeto corporeo xe par mi / importante come la prima mimica / le statuete posturali, el rispeto / de come comportarse par fare / ‘na peca virtuale a la parola / cioè el ghe entra nel pensiero / de la scritura raisa geroglifica / de la materia che crea vita / da no tocare mai. Me ricordo / co go detà mama i oh toh beh / e brassi sclamativi -gheto sentio- / e ninin nel specio de la lengua / invento d’imamarme. Po co prove / vegnevo fora spiera funambola / de ilusion. Forse la mama xe vera vose / crea solo ne la voja de fare un ceo”, “Ne le venéte de la teta spiero / canalete del dialeto, no rivo / a scalumare la vose coralìo / de raisa, late cajà, un gropo / rabalta in deserto ‘na vita / de lengua sistemà”, “Desmentegarse fra le righe / còeghe mus-ciose del dialeto / che concede license e libertà / negae a la lengua rompibale”, “Come primo computer el s’incola / al mondo foresto coi segnali / e soni prearticolai del sogeto. / Mente, pompa de la lengua, lievito / narciseto, buto de falsa gnoransa / giossa de tempo belo, caldo penelo / nichia de pora filosofia che se / carga el costruto de l’anema / roba o ente o conceto assoluto / siolto e mobile da no stechirse”, “i diglottici... ga da supiarghe / inteleto no solo sentimento / parch’el sòna de cristalo sperma / sangue fiora, el sia bengodi del corpo, / parlante nuo vestio de l’anema / o psiche, ponte verbale porto cuna”.
Un punto di vista delle origini. Per approdare ad una lingua che riporti indietro l’indicibile, ma l’indicibile della separazione, di quando eravamo uomini tagliati via. E allora:
“Saremo inumani - come la più alta conquista dell’uomo. Essere è essere oltre l’umano. Essere uomo non è un successo, essere uomo è stata una costrizione. L’ignoto ci attende... Non è uno stato di felicità, è uno stato di contatto.” Una lingua che ci permetta di dire: “Il mondo non dipendeva da me ... il mondo indipendeva da me, e non capisco ciò che vado dicendo... La vita mi è, e non capisco ciò che dico. E allora adoro....................”
“E penso a la parola opaca deldelà / carga de futuro smissià col passà /... / riva a palponi da distanse e posti / impensabili... / ... / o che discore el sguardo astrato / robando el più possibile la vose del silensio”, “L’io vodo scuro de l’universo / buto de saere, cossiensa / e sostansia l’essere”, “Vardo la verità farse ponto cao / silensio e luce discorare su la palù / sul stisso che se xe. / Vose me porta in anda co moto / sermone de ati forti, i echi / de la comparsa de l’universo”, “Vose solo specià nel vodo tròtola / novas motas co flaustels falseti / sgaja el divino el blu”, “'Sto dialeto... 'na janua coeli o ciara stela / vose panoramica universale / de salmi, togarìa sgrisolona / de la materia primobùto... / ... / el scrive disinvolto / robe stracote e scontae, el s’indentra / de più ne le robe vere a priori”.
Ma anche tornare a un pensiero “che ha la sua risorsa e il suo termine in ciò che mi è presente... in forza del quale l’esperienza bisognosa di essere spiegata, e la sua spiegazione, siano fra loro in un rapporto circolare che ... mostra come esse abbiano uno stesso principio, facendo così intuire alla mente che il pensiero e l’essere sono consanguinei”
“ e bloco / el conceto Eva che ne scaraventa / a la realtà e consa gusto epigramatico / le parole devien aria de famegia / e le se frise nel certamen / del segno-come-cosa”
Una lingua con cui “puoi dire il tutto che ti è presente, perché tu passi attraverso qualcosa che è presente anche ad altre o altri”.
Ritrovare la parola concreta, che “la parla coi oci rabaltai per goderse / el gargato la pronunsia la boca / originali de la so vose”, la parola gesto, quel “gesto puro / de semenare rifilare ‘na paneta / che pande da l’orlo del piato / e sparpagia quelo che no ghe xe”, che “move e rivede / el silensio che te ghe pensà / el ghe giusta i dani”, quel gesto che J. F. Lyotard dice immettere nel linguaggio una traccia venuta dal sensibile: “Anca illa ... xe tuta forà de trivelae miste /... / da impienare de senso, sentimenti / colori unguenti soni /... / invito la poarina a colmarse / a viagiarse insieme / e nel sogno m’imparolo”.
Ritrovare la parola passione, “co la fraca de lampra passion / dei cavalieri pal tesoro del Graal”, “roba stagna curiosa, bolero / de passion”, la parola poetica primitiva di Vico, che non è tecnica retorico-immaginifica astratta, ma necessario modo di spiegarsi che viene dall’esperire concreto, con cui l’uomo “di sè fa esse cose, e, col trasformandovisi, lo diventa”; la parola densa del “realismo segnico” di cui parla Conci, dove i nomi sono legati alle cose, “par incugnare pensieri e robe / co vose fressa”, dove non c’è distinzione tra corpo e pensiero, tra pensante e pensato, tra essere uno e essere molti.
“Nata da parolo sior spenotà / e da ‘na parolezza squinzi / ... / ... paràola / parola parora paruola / sin dal tardo latin parona parabola / e in volgare paraula / ... / ... parolozzo / paro:leta - lina - lucia - lona - lassa /... / leta soto roversà la deventa / laparo /... /... e rimirandose / le letere per drito e roverso / ... la le vede / adate a le robe che fa l’aria / dove la vose se destira e sfalda /... / p inissiale de padre pié pan ponte / a de albero amore anema / r de rima religio roba rumore / o de ora origine opera orifissio / l de linea letera lume limite / ... / Ma da qualsiasi roba stimi, dal so corpo / arlechin vien sempre su la vose / ch’el silensio invida a le letere”.
La parola magico-mitica, “la parola buto, che pole / da le vissare snosare vero e falso / e sgorgarse più in là bianco el mito / ramai sonà rosegà”, che relaziona per simpatia analogica, per similarità, per contiguità, per contagio, per promiscuità di umano, animale, vegetale, minerale.
“Zali i tabàri de la sciensa smissà / nel palco de la mente de casada / ... / Tèrici l’ovo cosmico, l’omo / fàvaro, bocaboli de rabion / ... / Zali prime foje d’albari strani / infansia intelà in computer tivù / ... / Zali piovra canaja scoramenta / fin el vodo / ... / Zali droghe draghi, bessi onti / carità fintòna, sen de passion / ... / Zali plaie, lagreme, fradei rùseni / sangue da Aids, sgueltine, spore virus / ... / Zali versi dei poeti / ... / Zali vose e vento che ne impiena / de voli e buti......”
La parola “bambola”, “pìrola”, che trasgredisce il linguaggio comune, logico, separato, la “lengua rompibale”, perché viene da un fuori, da un prima del linguaggio e dice sul confine tra io e mondo, non più confine ma luogo d’incontro.
“Mi par la verità canto più ben tra / le done i tropi e le dissonanse”, “Davanti a ‘sta pratica de parole / femene, ... / me trovo labirinto imbranà / come scaltrìo da l’orlo del sublime / ... / e ne imbarassa anca el silensio / che sta drento ‘na casatela stonà”.
La parola polisemica, caleidoscopica, che è per similarità la molteplicità, il metamorfismo del reale.
“Intanto che me darento le robe / cambia”, “darente la metafora che zonta tanti / consieri ne la sostansa del mondo”.
La parola che dà voce al “selvaggio urlante” di Jung, che abita ancora -pur represso- in noi e che un tempo era artista e sacerdote: “Sighi pal silensio gravoso de Dio / mai sparìo, muto ventriloquo eccelso / de soni e parole bianche”.
Se l’inconscio è il luogo del contatto tra corpo e psiche, tra mondo e soggetto, bisogna dargli voce con i mezzi creativi ed espressivi dell’arte: la coscienza può diventare luogo di incontro tra l’io e il mondo, se accetta, accoglie dell’inconscio la capacità del contatto, del contagio.
“El me costato tutomoto la esclama / illa giravolta adorabile infans / flatus”, “Beato el sunio / endolengua del mondo intimo / poesia speciale del stato puro / de la mente che serca l’infinito / in lemma infante passà via / o desmentegà. No manca ch’el sunio / sia ‘na religion che liga smissiae / le robe de emossion più forti. / ‘Sta vose bronsa dona frégole / diamante de memoria./... / La cueva del libro universale dove / le parole torna, impèca i echi / e se ricarga de fin stetica / se pitura roverso sortilegio. / Vose parsora me pana el specio / me respira el pensiero meditabondo”.
Per tornare alla vita, alla zona pre-categoriale dell’esperienza, al luogo senza pensiero dove nasce il pensiero.
Per Ruffato questo luogo è, non solo ma specialmente, il volgare padovano della sua poesia.


"La luce buia": il "giergo mortis" di Cesare Ruffato

di Ernestina Pellegrini

Negli ultimi anni la già imponente bibliografia critica sull'opera poetica di Cesare Ruffato ha avuto un'impennata. Sono uscite due monografie (quella di Luciano Caniato nel 1995 e quella di Francesco Muzzioli nel 1996) e varie riviste hanno dedicato dei numeri unici alla definizione della sua poetica, con numerosi interventi di noti e ignoti personaggi del mondo letterario. Critici, poeti, saggisti, filosofi e giornalisti di ogni ordine e grado hanno scritto pagine e pagine, dicendo tutto e il contrario di tutto, citandosi l'un l'altro o ignorandosi a vicenda. Si tratta molto spesso di interventi densi, non sono semplici impressioni di lettura. Alcuni di questi sono saggi veramente pregevoli ed esaustivi. Confesso di non padroneggiare questa babele critica in crescita esponenziale, della quale non riuscirei del resto a tenere il passo. Soltanto pochi giorni fa mi è giunto per posta un corposo plico, inviatomi da Ruffato stesso, che conteneva le fotocopie di due nuovi saggi (uno di Pier Aldo Rovatti), le fotocopie di alcune traduzioni di poesie probabilmente inedite in tedesco, e il bel volume In forma di parole, come numero del terzo trimestre del 1998 della rivista "Poetare e Pensare", in cui compaiono cinque poeti in dialetto veneto (Zanzotto, Ruffato, Caniato, Cecchinel e Villalta). Di fronte all'irruzione di altro materiale di indagine mi sono davvero sconfortata. Ho deciso così di ritagliarmi un argomento molto circoscritto per questa mia relazione che dovrei utilizzare in due occasioni diverse (a Firenze, al Caffè "Giubbe Rosse", il 17 febbraio; e a Padova, all'Università, l'11 marzo), scegliendo di parlare delle immagini della morte che compaiono nella sezione a titolo Giergo mortis della raccolta Scribendi licentia del 1998. Naturalmente cercherò di arricchire il campionario con qualche incursione nei testi limitrofi che caratterizzano questa più recente produzione poetica in dialetto e in lingua, da Diaboleria in poi. Dico fra parentesi che il fatto che una delle due poesie di Cesare Ruffato tradotta da Giorgio Faggin in Mimese (versioni poetiche in friulano di alcuni grandi poeti europei dell'Otto e del Novecento), per la collana Lingue di poesie diretta da Ruffato stesso per l'editore Marsilio, porta il titolo Nassita e morte e può stare a rivelare forse la centralità del tema nella sua produzione letteraria, almeno in quella dell'ultimo decennio.
Nei miei studi precedenti, usciti anni fa sulle riviste "Galleria" e "Otto/Novecento", avevo fatto il punto sulla poetica del poeta padovano dagli esordi letterari fino alla raccolta I Bocete. Avevo aggiunto poi una voce di dizionario, nel 1997, per un volume curato da Enrico Ghidetti e Giorgio Luti per gli Editori Riuniti. Sono, insomma, rimasta indietro di almeno due anni rispetto alla costruzione di un ritratto critico che si avvia ad essere quasi monumentale. Mi è piaciuta, quindi, l'idea di tentare di colmare la lacuna di un quinquennio seguendo le tracce di un motivo in fondo marginale (come la morte) nella pur vasta produzione di versi 1995-1999, correndo il rischio dell'ingorgo concettuale, di trovarmi cioè a far passare da una buia cruna d'ago una valanga di parole e di pensieri di questo scrittore torrentizio (lui stesso si definisce da qualche parte "acrobata d'arte mimetica") che tutt'a un tratto, imprevedibilmente, in data 1997, si è messo addirittura a scrivere Il cantico del silenzio, dove però - va detto - non si celebrano gli elogi del silenzio, ma si cerca di trovare i modi di una "dicibilità del silenzio". Ruffato - che già Folena, durante una presentazione di Parola pirola a Padova nel 1990 - definiva "affetto da bulimia poetica" ovvero da "fame morbosa di parole" - vuol arrivare a far parlare perfino il silenzio, vedendolo come un tessuto seminale nel quale "si costituisce il senso della parola e la sua comprensione". Così, per analogia si può fare l'ipotesi preliminare che con Giergo Mortis il poeta voglia far parlare la morte, dargli voce, facendo sì che anch'essa diventi un orizzonte di senso all'interno del quale però far risaltare le ragioni della vita. Sul fondo di tutta la sua scrittura, che è una scrittura che si guarda costantemente allo specchio, che riflette su di sé‚ decostruendosi e trasformandosi all'infinito, c'è - ne sono sicura - una ricerca di base sui nessi che possono stabilirsi fra una fenomenomenologia del "divenire" e una fenomenologia del "dissolvimento". Ne è, in questo senso, prova d'artista eccezionale la raccolta recente di poesie in lingua Etica declive, edita dall'editore Manni nel 1996, in cui compare il canto insieme disperato e tenero di un referto clinico-sentimentale, quello di un medico che si trova di fronte alla propria compagna, anche lei medico, condannata da un male terminale:

Lui argonauta lontano, lei sgomitola
rare parole di vita sulla resistenza
del filo. Nulla più da scoprire
nei referti offuscati, le piastrine
mollano, scansioni ansiose scrivono
l'impegno del tronco cerebrale
l'edema dilaga il sembiante nel giorno
più breve. Tengo la mano lalica
indovino in vomito anemico il segreto
del vuoto, un paese liquido che cede
una turbolenza cupa del polso
tramonta l'indecisione della luce2bis.

Prima di cominciare il mio breve itinerario al nero, vorrei riprendere alcune osservazioni molto generali che facevo nel 1993, perché‚ mi sembra che possano ancora presentare motivi di interesse, preparando il terreno ad una analisi inevitabilmente specifica e settoriale. Dicevo che Ruffato appartiene alla folta e particolare genealogia dei medici-scrittori, e dunque, si può aggiungere oggi, anche nella sua rappresentazione letteraria della morte gioca un ruolo importante il suo sguardo tecnico-scientifico. Lo sguardo del medico e quello del poeta, anzi, si intrecciano e si contrappongono: c'è il medico che registra con tutto il suo bagaglio di cultura clinica gli errori fisiopatologici del corpo, le sue micidiali devianze, e c'è il poeta che tenta una se pur imperfetta sublimazione del dolore e sogna "tesori pulviscolari" di spazi alternativi, di silenzi assoluti e pacificanti:

Mi sento come un cieco sorpreso
da un tesoro pulviscolare più
vicino ai silenzi d'altrove
che a quelli quattr'occhi sfiniti" (ED, p.12).

È ciò che lo scrittore stesso chiama "l'orlo attivo del nulla", e ancora, sempre sulle pagine di Etica declive, l'ingresso perfetto "al mondo ascendente" (ED, p.53). È il momento in cui perfino "la morte / si rilassa innocente" (ED, p.23), aprendo in quel flusso marasmatico di parole, di idiomi, di gerghi, di immagini, il varco verso l'invisibile, che è uno dei semi principali della ricerca di Cesare Ruffato, di quest'uomo generoso che ha scelto per professione prima quella del radiologo, per penetrare attraverso il suo accanito endosguardo nelle oscurità cellulari, per indagare i collassi della materia e giocare così, in un'osmosi continua fra vita e letteratura, fino allo spasimo il conflitto subito di visione e cecità. In questa operazione di straordinaria alchimia verbale è il dialetto, l'urlingua, a fornire il mezzo per entrare - come suggerisce Manlio Cortelazzo in un bel saggio La voce mentale del dialetto - "nella parte più oscura della caverna psichica, ma anche come abitatore in quelle tenebre"2tris. Il dialetto, insomma, è qui soggetto, strumento e oggetto della ricerca.
Dicevo, nel 1993, che ciò che interessa questo medico-poeta è eminentemente ciò "di cui l'opera è fatta", la sua natura di deposito di giacimenti sparsi e fluttuanti, in cui si distinguono gli inganni della natura, il patologico, le dissonanze, l'arcana geometria del disfacimento e della metamorfosi (O/N, p.163). È da lì, infatti, che proverrebbero anche i materiali che colorano la serie di versi comparsi col titolo Otobre de zali sul numero 14 della rivista "Steve" del 1996, in cui incontriamo per esempio una "nautila nostalgia da perdonare / che preme da lapidi tombe per terra / da alberi dissanguati relitti fossi / buchi e plicature d'ozono prati diserbati / di polvere e cenere rancide". Non è la nostalgia del passato che prevale (ed è semmai "da perdonare") ma la rabbia, la denuncia di una realtà presente storica e sociale sempre più degradata e invivibile. Perché‚ Ruffato - mi sembra giusto sottolinearlo - è anche un poeta civile.
Ciò che si denuncia, sulle sue pagine, insieme alla degradazione della vita moderna, non è la morte ma è "la morte dell'immortalità". Cito da uno scritto molto importante Per dire qualcosa sul dialetto del 1996, in cui si legge: "(Il dialetto) È un cono d'ombra-penombra di ur-luce che ripara una verità insita; (...) Genevoce inestinguibile della complessità, ur-placenta d'ogni fuoco. Non è la lingua del potere purulento, ma una ecolingua-grembo-amnios collegata ad alfabeti naturali nascosti, colmi di oligominerali d'anima in pena che deve tollerarne la morte paradossa dell'immortalità". Il dialetto, come lingua recisa e ormai in via d'estinzione, trova grazie al virtuosismo lacerante di questo "narciso derealizzante", che è il poeta intento a giocare con la propria voce, la possibilità di essere contemporaneamente "litania delle radici" e "plasmazione del vuoto". Le parole in dialetto di questo "poeta con la febbre", di questo poeta alterato o "dinamitardo (come lo chiamava Aldo Rossi nella prefazione a Minusgrafie), si fanno - per sua stessa dichiarazione - "caucciù delle meraviglie", sfondano o si allontanano dalla squallida ribalta del "tritume sociale di protagonismo e look", e rivelano "il fuoco bianco della trasparenza", uno spazio neutro interstiziale, non necessariamente metafisico, ma certamente intramateriale, annidato nelle fessure, nelle crepe, negli strappi della natura e del cosmo, dove arde un fuoco latente, intriso di "realtà e di enigma". Si può aggiungere che anche le rappresentazioni della morte, dunque, rispondono a questa doppia logica di realtà e di enigma.
È stato detto da molti studiosi, in vario modo, che Ruffato non ha mai fatto sfoggio di "ontologie negative", "non ha mai abusato della negazione e dell'assenza come di modelli up to date", che anzi il suo immaginario, ferito da lutti spaventosi e irrimediabili (la morte dell'unica figlia Francesca nel 1989 e recentemente della sua giovane compagna Liliana), riesce ad incalzare "anche la morte e la riduce, moltiplicandola". Gio Ferri ha parlato perfino di "crisi come resistenza" (LB, pp.64-68). Ruffato, nonostante le grandi tragedie che lo hanno colpito negli ultimi dieci anni, non si è abbandonato al dolore, non si è narcotizzato in poesia con la litania funebre, con la nenia stordente del pianto rituale, piuttosto si è avventurato nel continente oscuro dell'assenza come un tenace uomo di scienza, si è fatto colonizzatore del nulla, ha sfidato la grande nemica predatrice e ha cercato - come si legge in una bella immagine de I Bocete - "la lanterna de la morte, la pompa / del pensiero" che sola può essere "requie ne lo spirito / del tormento".
Sin dai tempi della raccolta Prima durante dopo, uscita per Marsilio nel 1989, il colloquio fra il padre e la figlia è continuato, si è anzi dilatato e rasserenato in un dialogo ininterrotto che vince qualsiasi sciarada malinconica, gli strappi della separazione, per diventare - come ha intuito Franco Pignatti - "slancio ottimistico verso la dicibilità delle cose, anche se nelle forme poliedriche, contraddittorie, labirintiche, ossimoriche" che al poeta sono congeniali. E vien da aggiungere che il dominio della morte nell'opera di Ruffato ha colorazioni precise che spingono le sue tracce nell'aldiqua, le incavicchia nella terra, in una metamorfosi naturalistica che è garanzia dell'incessante divenire di tutta la materia organica. Tutto ciò serve anche come ridimensionamento di un individualismo narcisistico che pone l'essere umano al di sopra di tutti gli altri esseri viventi. A questo riguardo si potrebbe ricordare un verso di Tommaso Landolfi che in Viola di morte (1972), dicendosi "mezzomorto di crepuscolo", accetta il cupio dissolvi in un desiderio di integrazione naturalistica e di ridimensionamento narcisistico: "Ma forse questa mia morte / non è cosa egregia e rara / Non è cosa importante / più che lo sfiorire nella corte, / dei fiori di dicembre, delle giunchiglie bianche".
Nella tavolozza cromatica di Cesare Ruffato che raffigura la morte c'è il colore "giallo" del dolore abbacinante, che permea una realtà desolata e irreale alla Van Gogh, e c'è il blu della non-vita, della "lontananza inattingibile, dell'oscurità e della nekuia", e infine c'è la "luce d'alabastro" di trasparenze infinite in cui si reincontrano i cari fantasmi, dove si percepisce la loro "voce benedetta", quasi fosse "coda del soffio della luce/ pura superna dell'assoluta Perfezione o della Trasmigrazione", dove il poeta è convinto di intravedere e scoprire la "ragnatela dell'eterno" (naturalmente sto citando nella trascrizione in lingua ciò che andrebbe invece ascoltato nella voce tenera, musicalmente liquida del dialetto). Cito solo un attacco, che ha per me che capisco e non capisco, valenza quasi magica: "Magoni burane matine corpi / sfissiosi ori slusenti xe passai / el pan nel cantonale dona rose / sfiorie, bocon de festa secreta, lume / sabatico me porta la pena / de la morte smonà...". Ecco, una Morte smonà, che pare improprio tradurre come "morte schifata" (ma è questa la traduzione dell'autore stesso) e che a me parrebbe giusto indicare, invece, nel contrapposto privativo di mona e del verbo derivato monare.
Quest'ultimo registro del Giergo mortis, ritrovato o inventato nel "muco notturno" di "fonemi aerei / d'una animula che mai finisce", è un registro trattenuto, ostacolato, oltraggiato, è un timbro lirico sempre pronto ad autodistruggersi o almeno a autopariodarsi, ed è, in fin dei conti, una delle corde più commoventi dell'intera tastiera ritmica e vertiginosa del poeta padovano, proprio perché si tratta di una vena sentimentale che lotta con se stessa, che si sovraccarica di pudore e di rabbia, portavoce di un amore che sopravvive alla perdita e di una contemplazione lucida del vuoto, dei tanti buchi che la scomparsa delle persone care lasciano sempre dentro di noi. La morte diviene così per Ruffato la ladra per eccellenza, colei che ci svuota, portandoci via pezzo a pezzo insieme agli affetti più cari. È a lei che la rabbia del poeta lancia la sfida più grande e definitiva, ironizzando sull'ipotesi di una fine volontaria:

Questa morte mia proprio bene trattabile
nel rispetto dell'arbitrio supremo
diviene quasi una coppa davis del mondo
un nostro tête à tête che posso
con piacere orologiare (controllare con orologio) affilando
persino la mia cronometria o attendendola (...)13bis.

La ruffatiana cognizione del dolore, sulla scia del celebre ingegnere prestato alla letteratura, diventa un'operazione dell'intelligenza condotta sull’"orlo attivo del nulla" - come suggerisce Gian Franco Frigo in un saggio recente (T, pp. 58-9) - registrando l'itinerario eroico, tenace, non arreso di un poeta che scrive, come vorrebbe anche Sergio Givone, "come dall'al di là di un'immane catastrofe" (T, p.64).
Il poeta "guastatore" di un tempo se ne sta ora solo, in data 1999, ad aspettare i fantasmi (certo non fa solo questo), ne registra le presenze: "Nel silenzio / magico sono qui ad attenderti / con fili asole per annodarti / alle mie essenze e del tutto inalbarti (farti alba)". Ruffato sa di rischiare di cadere nell’"epigrafe" o - come dice ironicamente - di sprofondare nella "via del marmo", avviando un fumo di figure "che sostiene la possibile verità / di rifare con le parole anche la salma", ma accetta questo imperfetto compromesso letterario pur di capire il mistero di un'alterità totale che sola può permettergli di conoscere di più se stesso. Lo specchio macabro è denudato di ogni maschera cosmetica, viene affrontato in tutta la desolazione materialistica della vita organica che si corrompe, degenera e finisce, ma poi il poeta accende un controcanto che impropriamente si può definire elegiaco, certo vagamente consolatorio, con l'immagine di una morte vista come estremo viaggio per acqua, come simbolo materno di un sogno di reinfetamento e di pace. È la configurazione di uno spazio neutro dove forse è possibile ritrovarsi per sempre, e dove è consentito un foscoliano sonno dei giusti:

Che una pietra col nome distingua
e riposi fuori mura le mie ossa
già carenti di midollo e porotiche
che si versino pernacchi e balzelli
io animella aerea mi escludo
ed esperimento alla maniera nuova
di osannare sottovoce cogli occhi
senza pavoni cherubini e serafini
lontano dal monumentale memento homo
di papiro e vanagloria a lettere
cubitali (in grassetto) e racconti di deliri professionali.
Questo look di suffragio passerella
fumetti ciocche pompe funebri
bocche e lagrime di cordoglio
requie di morte e vita in equilibrio.

L'ironia si fa tagliente e mette alla berlina ogni orpello della parata del lutto. Davanti al muro della fine i trucchi della finzione diventano osceni, le parole contrite di "un dies irae macaronico" smascherano l’"astuta dama mezzana trotula", la "cortigiana attempata / rattoppata d'unguenti cere aggiunte", colei che quasi alla fine del lungo poema in più stazioni è chiamata "la tenebrosa peripatetica che conduce il nulla". Qualsiasi figura di "suicidio letterario", allora, qualsiasi rappresentazione di una morte raffinata e accarezzata da epigoni decadenti, scolora e impallidisce davanti al pensiero di una morte in serie, spersonalizzante, davanti alla fine inconcepibile eppur banale di una piccola "Ofelia / cittadina", che incarna la morte giovanile più brutale, quella stroncata dalla droga.
Lo spettacolo della morte non è visto nella chiave della pietas e del vanitas vanitatum, ma nella più realistica chiave denudata dalla psicoanalisi di "sguardo egoistico" del sopravvissuto che coglie primitivamente nella morte dell'altro una garanzia della propria salvezza:

In vita si dispensano
occhiate egoistiche sulla fine degli altri
più o meno stecchiti satolli o in calore.
Proprio nulla si sa di questo mancare
che marcia invece a testa bassa (...).

Ma anche questa immagine di una lotta per la vita che permea ogni angolo della realtà sociale e diventa pure una guerriglia fra chi vive e chi muore, rompendo così ogni ipocrita sovrastruttura della retorica dei buoni sentimenti, riserva a sorpresa, sempre sulle pagine di Ruffato, dei micromotivi musicali antagonistici che mettono in risalto, invece, il desiderio di vedere nella morte la possibilità di un "beato ascolto / del pullulare d'una vita sgorgata" in purezza e finalmente la realizzazione di una giustizia (come si legge, con toni evangelici, "e chi si umilia sarà esaltato"), nonché‚ il raggiungimento di una "libertà all'estremo". Forse si potrebbe anzi leggere alcuni versi di Smanie, raccolti nel volume miscellaneo In forma di parole, in questa luce che vede nella morte la porta della vita vera, dell’"anima dell'anima" al di là di "spazi e tele sbrindellate":

Non so proprio dove fermarla forse
in fotografia mescidiata con protoni sparati
acqua cristallina che scricchiola via,
maschere che cadono una dopo l'altra
il silenzio nelle cortecce. L'anima
dell'anima affievolisce la morte,
nel belato venga pure vera
vita a raccogliere qualcosa
da spazi e tele sbrindellati (p.71).

La morte, in questo progressivo e totale viaggio del poeta nel giergo mortis, diventa anche storia di un umile asservimento al mistero, fino alla bellissima poesia centrale del dialogo col fantasma della donna amata, di contatto con l'ombra della amica strega che nell'adilà "sbircia tutto in luce / nera", aiutando il poeta nella ricerca della "bevanda d'immortalità". E vorrei finire questo resoconto critico con due citazioni di poesie composte su questa nota di speranza. Vorrei dedicare queste mie pagine, per quel poco che valgono, alla mia amica Liliana che non è più fra noi, scommettendo sul fatto che da qualche parte nel cosmo lei riesca a sentirle:

Ed io figura d'una figura
triste trito il muto patema tu-io
alla ricerca della bevanda d'immortalità e di seguirti
nell'aldilà strega che sbircia tutto in luce
nera. Si adombra qua l'orlo
della fine e non si afferra
un pelo dell'esserci mistero.

Il tuo amore anche nel lutto mi lega
a promessa d'eternità, non posso
dissolvermi come neve al sole
e fare spergiuro sarebbe pure
un cotradimento, cosa raffazzonata.
Darsi alla dama supercaligosa
in dono d'affetto che m'intui e t'inmii
una sola profonda sostanza virtù
spirituali di solida simbolica
fedeltà. Forse ci si impasta
persone altre (diverse) che reggono (resistono) non si sbriciolano
per un ricordo in sé‚ che ci sostiene
per arricchire di sangue le nostre ombre.

Vorrei però aggiungere un'ultima postilla, perché credo che a Cesare Ruffato non piaccia una fine su toni alti, visto che più volte lui stesso fa la satira degli "eroi mimetici di sfide superiori", di chi fa il lutto "con cravatte e velette" sporcando il cadavere o di chi si esercita con "perbenismo e cordoglio posticcio" nella "morfologia del nulla", tanto che a un certo punto scrive: "In casa mi vizio con il sacro, il sopra...". C'è poco da fare, lui è "un poeta in fuga" - come diceva con bella immagine Armando Balduino nel 1990 - è un "poeta mascherato". E allora, proprio alla fine, ecco la postilla, che ritrae il poeta chino coi suoi bisturi metalinguistici e metapoetici a sezionare, scomporre e ricomporre la parola morte: "(...) / E inoltre la morte si anagramma / tremo temor metro (paura) timore misura / maschera sfocata dello spirito infuocato".



Cesare Ruffato, “licenzioso” cercatore della verità nuda e cruda

di Germana Duca Ruggeri

A scorrere la piccola prosa, posta da Cesare Ruffato a introduzione del suo Scribendi licentia (Marsilio, Venezia, 1998; pp.427), si attingono informazioni preziosissime; utili soprattutto se si sceglie di affrontare la lettura analitica e intera (lingua pavana e versione italiana in calce) di un tale voluminoso corpus poeticum.
Proprio di “corpus testuale più filtrato e più aderente a motivazioni estetiche e di poetica”, rispetto al passato, parla difatti l’autore a proposito della nuova pubblicazione che raccoglie i frutti, alcuni già editi, di una lunga e prolifica stagione scriptoria (1990 – 1997). Nel contempo, egli ci suggerisce una lettura che si confaccia all’intentio operis; che tenga conto, cioè, tanto del “rovello del dire e del comunicare”, quanto dell’“assillante revisione e selezione”, a cui ha sottoposto i suoi testi, animato da intenti opposti e complementari: inabissarsi nel mare magnum della poetica, dell’estetica, dell’etica e intanto riaffiorare in cresta all’onda espressiva per restituire, ricreandoli, i lasciti della favella maternale, memoria linguistica e vivente cuore abissale.
Scribendi licentia è la risultante di tali immersioni / emersioni tenacemente provate e riprovate da Cesare Ruffato per otto leghe - Parola pìrola, El sabo, I bocete, Diaboleria, Smanie, Sagome sonambole, Vose striga, Giergo mortis -, senza mai perdere di vista un alto orizzonte intenzionale, fondato sia sulla ricerca di una radicale congruenza tra significato interiore e significato esteriore, sia sulla coincidenza di opposti apparentemente inconciliabili quali l’attualità e la memoria.
Di fatto quest’argonauta con licenza di scrivere, mentre aggira le secche del presente e scruta il futuro, guarda al passato: in primis, a Eva e Adamo, presenze reiterate, filo genetico tanto dell’iter creativo quanto dell’origine peccaminale della genealogia umana, doppiata in ognuno di noi:

Adamo però xe l’altro mi e l’ombra Ma Adamo è l’altro me e l’ombra
mi lo vardo e lu me varda, mi taso io lo guardo e lui mi guarda, io taccio
(…) lu dise desso sì che semo do (…) lui dice ora sì che siamo in due
a controlare Eva e i pecati. a controllare Eva e i peccati.

p.5

Ma dal passato riaffiora anche Dante, variamente evocato, pensato e agito come imprescindibile faro:

(…) El discorso (…)Il discorso
sòtico se màstega la coa par volgare si mastica la coda per
slissegare su la scia che ga cressuo scivolare sulla scia che ha alimentato
la Divina Comedia e torno co Dante la Divina Commedia e ritorno con Dante
che sona participio presente che suona participio presente
de darne de continuo spirito di darci continuamente spirito
e forme.(…) e forme.(…)

p.170

Chiedo venia a Dante per la licensa Chiedo perdono a Dante per la licenza
de parafrasi e co tuto rispeto di parafrasi e con tutto il rispetto
vose de desso tosto simioto: subito imito voce attuale:
ahi serva Italia de dolore basòta ahi serva Italia di dolore cotta
barca sensa timon in gran casoto barca senza timone in gran casino
no siora de provinse ma mignota. non signora di province ma mignotta.

p.394

Come Boccaccio, del resto:

L’universo se specia nel creatore L’universo si specchia nel creatore
ben parsora mente robe cuore. molto al di sopra di mente cose cuore.
El fin sempre più fin de rason sbrufa Il sottile sempre più sottile di ragione esorbita
altro specio de ‘na robità che tira da altro specchio di una realtà che attinge
anca Dio traverso scarpie de segni anche a Dio attraverso ragnatele di segni
co bola de Bocacio “la teologia con criterio di Boccaccio “la teologia
niuna altra roba xe che ‘na poesia non è niente altro che poesia
di Dio” simiabile solo dal poeta. di Dio” imitabile solo dal poeta.

p.376

Guarda al passato, il poeta padovano, ma è così proteso verso l’attuazione “quihic et oranunc” della perfetta coincidenza tra il dire e il pensare che Scribendi licentia diventa quasi un modernissimo campo di applicazione della logica combinatoria. Con calcolata sincronia, egli vi profonde materia e spirito, rivelandosi capace di collegare dentro e fuori, recente e remoto, vicino e lontano:

‘Na frana da diluvio Una frana da diluvio
un buso nero tra cei europei un buco nero tra bambini europei
e quei del mondo poareto e quelli del mondo povero
co quarantamila morti al dì, con quarantamila morti al giorno,
prima del domila sentosinquanta prima del duemila centocinquanta
milioni ris-ciarà la fine per fame milioni rischieranno la fine per fame
da sterminio evitabile co pochi schei. da sterminio evitabile con pochi soldi.
Più de meso milion a l’ano Oltre mezzo milione all’anno
orbo, più de diese milioni cieco, più di dieci milioni
miniprofughi e un milion xe orfani miniprofughi e un milione sono orfani
nati da mare col virus de l’Aids. nati da madri col virus dell’Aids.
La strage famosa dei inosenti La famosa strage degli innocenti
se scancela al cospeto de ‘sta qua sparisce di fronte a questa
genìa ruinosa de erodi masnada rovinosa di erodi
in grana bravae e petrolio. con soldi bravate e petrolio

p.118


La forza del libro sta tanto in questo vertiginoso incrocio di calcoli, quanto nel ritmo serrato e pieno di sorprese, che asseconda una scrittura ora da grand savant, ora da enfant prodige, ora da enfant terrible, ora da enfant tout court… Una scrittura eterogenea come l’umanità sopravvissuta a se stessa che, coagulandosi attorno al medium di una parlata patavina ricca di apporti e mescidanze, prova a reinventarsi la vita, fondandola non sullo scambio di beni, bensì sullo scambio di abilità e conoscenze. Ovvero sul Bene, dato da una appartenenza culturale che sappia essere municipale e universale al tempo stesso, che voglia ri-trovare le ragioni della solitudine e della societas:

(…) Mah! (…)Mah!
Se vaga un fià co sen in convento ci si ritiri un poco con sete in convento
a contemplare ciami enti silensi a contemplare richiami enti silenzi
co oci penitenti che scorla zo con occhi penitenti che scuotono giù
calìgo caròli conomici nebbia tarli economici
destini imperialiene imbelisse destini imperiali e ci abbellisce
eroi mimetici da sfide parsora. eroi mimetici da sfide superiori.

p.421

Nel suo avviso ai naviganti, redatto in giergo mortis e posto a suggello dell’opera, pur additando la solitudine socievole del convento come ideale approdo della breve e avventurosa traversata chiamata vita, Ruffato non rinuncia a sogguardare ancora una volta la mappa nella quale sta fedelmente riprodotto il reale, fissato tra l’alfa e l’omega. E ce lo squaderna senza eufemismi:

Nassita e morte parole insupae Nascita e morte parole inzuppate
de pianto che taca e destaca di pianto che inseriscono e disinseriscono
la spina del ciaro e del scuro la spina della luce e del buio
el resto tuto ‘na papa in balansa. il resto è tutto una pappa in bilancia.

p.420

E non rinuncia nemmeno a marcare i limiti della ragione umana e della stessa poesia:

Dove parole e figure no riva Dove parole e figure non sono sufficienti
el mistero sbassa seie e sipario il mistero abbassa ciglia e sipario
la peripatetica nera mena la tenebrosa peripatetica conduce
el gnente par sé tuto il nulla per sé tutto
l’estremo cao icse de ognun. l’estremo limite incognito di ognuno.

p. 423

Nulla è sufficiente a sottrarre l’individuo al confronto tragico con il Limite. Con il Male. Con il Dolore. Che resta allora agli umani?
Inibire il grido e declinare la parola, dispiegando la voce: per riconoscere la naturalità della morte e stendere, usando il suo gergo, il “poema della vita senza fine della mente”. Della mente-anima da aprire, infine, all’ascolto del silenzio; nel quale consiste la parola di Dio.
Sono queste le sartìe e gli alberi maestri del poliedrico vascello governato dal nostro poeta: sulla prora sta emblematica la Parola polena, ornamento pluriforme, pronto a mutarsi in parola ammalata, parola matita, bucata, eccitata, parola denaro, droga, sui trampoli, urlata, parola sguardo, parola fiaba…
Parole: “parole che infoibano la natura”; o per essere più esatti, “un pozzo di linfe infantili a braccetto con la natura”; parole mammarie e mammifere:

Squasi rilabio prà d’amore Quasi ridico in labiale prato d’amore
la mm preludio de la so raisa la mm preludio della sua radice
tiro ritiro el capessolo e fora tiro ritiro il capezzolo e fuori
anca pal naso vien tuta l’oralità. anche per il naso esce tutta l’oralità.

p.150

Parole succhiate; orali, appunto; e intramate dalla Voce. Vose striga: voce spirito, voce pantagruelica, voce bilancia morale e ironica… Vose singana: voce pia cicalina, voce perizoma, voce strage di etnie, voce orfana, “voce mi porta gli echi dell’origine dell’universo”: voce invasata, voce cosmica, voce sangue… Voce umana, che trasforma l’esperienza del dolore primario (ur-dolore) in occasione di prova, senso e giudizio dell’intera esistenza:

No gh’è figura che co la vose Non c’è figura che con la voce
tirà longa o curta, de peca di durata lunga o corta, di timbro
dura o mola o mejo co l’alfabeto duro o molle o meglio con l’alfabeto
del silensio, no conta el magon del silenzio, non racconti il dispiacere
de pasta umana (…) della materia umana (…)

p. 318

Dolore, dunque, come ponte tra individuale e universale; strumento unico ed esclusivo dato in dote agli umani per attraversare l’abisso esistente tra la promessa d’immortalità e l’evidenza della totale precarietà: “Eritis sicut dii / sumus invesse ombrìa flente.”
Tale constatazione tuttavia non produce in Cesare Ruffato un rapporto depressivo con l’esistenza, ma al contrario attivo e propulsivo, che lo spinge a concepire una poetica concorde sia con l’etica, sia con l’estetica: è con questa fune a tre capi che egli annoda, di fatto, la necessità di trattenere e preservare la memoria all’obbligo morale di trasmetterla in forme conformi.
È così, per “scagliuzze di verità”, che il poeta può stare all’àncora nella contingenza, la quale è illuminata solo dal silenzio di Dio. Un silenzio di vigilia che, mentre incentiva l’ascolto e acuisce la tensione, dispone all’attesa e allo scatto, nel tentativo mai esausto di carpire l’intenzione divina. Perfino di anticiparla. È in ciò che consiste la virtus poetica, ci lascia intendere tra le righe Ruffato; e intanto prova a rimettersi in gioco: a misurarsi, cioè, con l’invenzione. Che non è solo riproduzione, ma anche anticipazione e creazione.
La sua ricerca quindi, pur avendo preso le mosse dalla logica combinatoria, punta contemporaneamente a scandagliare la logica dell’immaginazione artistica, la sola capace di spezzare le catene modali e di aprirsi alla licentia scribendi. Ossia a una loica libera - e libertina - nella quale fisica e metafisica, limite e perfezione, tempo ed eternità, istinto e volontà non sono più struttura binaria, ma struttura unica del reale: “quasi uovo eretto a covare”.
Si tratta di un itinerario che conduce l’anima di chi scrive – e di chi legge – a incontrare cose e parole al loro oriente, in intrigante coabitazione con una nostalgia che non è rimpianto, ma intimo raccoglimento. Luogo del raccoglimento è la memoria; anzitutto la memoria linguistica, che s’incarna in quel “dialetto che concede licenze e libertà / negate alla lingua rompiballe”, ossia nel padovano, il “vecchio parlare pedalato dalla mente”, grazie al quale “sfogòna l’agudeza delo spirito”. Queste vecchie parole, che immettono su sentieri dissueti e disertati dal linguaggio abituale, paradossalmente diventano linguaggio nuovo, diretto all’origine, al radicamento.
Ma neppure qui l’anima trova certezze: può solo scrutare inquieta in un ultimo abbrivio - e dire - l’irraggiungibilità dei suoi stessi confini. In questo vuoto, tra ciò che pare definitivamente perduto e ciò che deve essere ogni volta conquistato, si avventura tra una pìrola e l’altra Cesare Ruffato, ora come etico trovatore del “verbo volante”, ora come cercatore licenzioso. Pronto, cioè, ad affrontare qualsiasi prova; anche quella - estrema - di andare “a cercare la fonte / della verità nuda e cruda”…
E chissà che non consista proprio in questa cerca perigliosa ed esaltante la sua più umana e salutare vocazione?
Il cercare infatti, rispetto al male di vivere, ha una valenza sia anamnestica sia diagnostica in quanto individua non solo i danni genealogici – originari e pregressi – ma anche le tensioni del presente e le aporie del futuro; al tempo stesso, questa pratica non manca di effetti terapeutici: dilatare gli orizzonti del dolore per meglio auscultare il suo respiro universale non può, alfine, che favorire l’acquisizione di una giusta distanza con la quale tener testa al proprio individuale patire.
Il succo di quel grumo di Natura e Soprannatura, Malattia e Salute, Attualità e Memoria, Corpo e Anima che Scribendi licentia racchiude non potrebbe, forse, consistere in questo?
Anamnesi, diagnosi, terapia, del resto, sono termini più che noti a Cesare Ruffato, medico diventato poeta per poter medicare poetando.


La poesia dubbiosa di Cesare Ruffato

di Germana Duca Ruggeri

Non è facile misurarsi con lo straniamento e le plurime dissoluzioni dette dalla lingua dissoluta (dis-soluta) e plurima di Cesare Ruffato in Etica declive (Presentazione di Romano Luperini, Lecce, Manni, 1996), eppure se ne esce corroborati, in quanto essa, mentre nega l’assolutezza della parola, di cui vede il vilipendio, non si deprime, ma si fa temeraria e afferma che è questa la sola fragile forza alla quale, nonostante tutto, è dato affidare la nostra avventura umana.
Magari per far sapere che “qualche oggetto celeste ancora / aggrega distanze colme di presenze / accorda fughe di luci discordi”. Cosa non da poco, specie quando i tempi risultano niente affatto proclivi all’Ethos: “La cometa brilla meno del previsto / tangenta a valle il registro etico / l’arancia meccanica civile”; e al Logos: “Troppo si bara nel gorgo afasico / il giorno è sconcio, non si crede / in ciò che si vede”.
È proprio da questo dualismo che si generano le cifre stilistiche e retoriche più frequenti nelle lasse dei quattordici lunghi testi che compongono la silloge: la scansione metrica e l’enjambement, la sinestesia e l’ossimoro, rintracciabile quest’ultimo sia nel contesto versale, sia in quello strofico e poematico.
Concordiamo quindi con Luperini quando dice che, fra i libri di Ruffato, questo è uno dei più costruiti; e ci piace soprattutto sottolinearne l’ordito ossimorico, che emerge pure da certi versi come questi, autoreferenziali: “anagramma di strofe nascoste / che addossa la morte alla vita”; “Nella camera oscura il visibile / parlare può donare stanze chiare / sguardo di sapiente differenza”.
Va da sé che, in obbedienza alla matrice ossimorica, Etica declive potrebbe essere letto anche come il “canzoniere” generato dal rapporto tra l’io poetico e la scrittura da un lato, e tra la scrittura e il reale dall’altro. Fino a pervenire a una poetica da inscriversi nella ricerca accanita - ma mai cinica, semmai ironica - sul linguaggio poetico, inteso non tanto come discorso, cioè oggetto di scambio tra un emittente e un destinatario sul piano della realtà, bensì come pratica simbolica in se stessa significante. Cesare Ruffato infatti, siccome avverte l’impossibilità di trascendere il reale, si danna e si diverte a recuperarlo attraverso la parola - vuoi laida, impoetica, ignota, schizofrenica; vuoi materna, letteraria, scientifica, erudita - ; parola comunque “ricercata” e “trovata”. Spesso negli uffici “lost and found” dell’anima, dove cultura alta e bassa hanno affastellato i loro leggeri, pesanti bagagli.
Nessuna meraviglia pertanto se la parola diviene il soggetto assoluto del discorso poetico e se l’attenzione del “trovatore” si rivolge, tra gli altri, anche al problema ontologico del linguaggio. A noi pare che egli guardi, in particolare, tanto al rapporto necessariamente distanziato tra il simbolico e il reale, quanto all’accettazione di questa distanza, oscillando fra il desiderio di abbandonare la parola – “poesia come sapienza del silenzio” – e la lucida coscienza di non poter vivere se non nel simbolico: “Lu sa ben de paraulas com van / e al pensiero della parola centrale / vera sa farsi piccolo condiscendente / ricco nella sua rovina / e una porta umile lo introduce / nella mente del vissuto puerile / ideale”.
Arrivare alla conciliazione degli estremi, vorrebbe Ruffato, attraverso il coraggio di opporre al silenzio – come risposta dell’Essere colpito che, tacendo, piomba in se stesso – la speranza di trasformare in sentimento esprimibile, e perfino soave, ciò che di insondabile e atroce è stato destinato al genere umano; e a lui stesso, sopravvissuto alla propria figlia Francesca. Tale speranza sembra quasi la risultante di una terapia “mirata”, di una prescrizione “medica” molto simile a quella consigliata da Anna Maria Ortese in Corpo celeste: “L’uomo colpito prenda uno strumento musicale – in questo caso il verso – e cominci a trarne alcuni suoni calmi a sorridenti: in questa calma e in questo sorriso soltanto egli potrà imprigionare l’orrore che ha subito. (…) Se una volta almeno, in tutto questo monotono farsi e disfarsi di stati e modi di vivere, una nuova immagine dell’uomo si facesse avanti, si facesse cultura nuova, nuovo uomo, allora noi avremmo davvero un nuovo inizio, una nuova porta del mondo”.
Stando a queste premesse, diviene “etico” ogni giusto, e quindi umile, rapporto con gli altri e con la natura, specie con il cielo e con ciò che è intorno e prima di noi.
Ruffato è d’accordo; e lo dice così: “Ciò che si perde intorno oltrepassa / di certo quanto si coglie”, mentre riaffiorano le sue “medievali voci venerande della mente” a opporre a codesta contemporanea etica declive “tutte le virtù cortesi”, vale a dire fin’amor contro “smarrimenti e fals’amor”.
Questi echi della tradizione romanza che si dilatano di pagina in pagina, fino a condensarsi nelle ultime, ci sembrano deputati a richiamare una migrazione dalla Contemporaneità verso la cattedrale del cuore, in cui si officia il rito consapevole della “frattura”, della divisione, dell’inganno, dell’entrata stessa nella coscienza. Entrata che è, insieme, rogo e accensione: “Ti prego / portami fuoco e lenti più veloci…”, “…l’acume del fuoco quasi provenzale”, ovvero recupero mortifero di ciò che può essere colto ripenetrando nel silenzio: “la membrana senescente fruga / le cadenze degli assoluti, scommette / sui defunti, i soli realmente esistenti”.
Così la morte diventa sinonimo di salvezza, luogo in cui realmente il dolore del poeta per la distanza che lo mantiene separato dal cosmo può trovare la quiete, mentre nel vuoto “chiostro” dell’io “la poesia dubbiosa” resiste simbolicamente all’inutile attesa di risposte assolute.


Scivolando sulla schiena del secolo

(Appunti sulle poesie di Cesare Ruffato)

di Gregorio Scalise

Non si può passare la vita a leggere Cesare Ruffato (né lui né altri, del resto) e così dalla sua quasi sterminata bibliografia occorrerà scegliere: tagliando magari con l’accetta e compiendo qualche azione sgradevole. D’altra parte la critica la si compie in stato di perfetto nervosismo e non in serenità. Si tratta di dire cose, almeno qualcosa.
Minusgrafie (Feltrinelli, 1978) e Prima durante dopo (Marsilio, 1989) sembrano i libri migliori. Prima dell’acquisizione del dialetto e durante la fase sperimentale dell’autore.
Non si sa se davvero Ruffato abbia coniugato Lacan, Jung e Freud (oltre a numerosi altri pensatori) come vuole qualche suo critico e non lo si può sapere anche perché le indicazioni sul linguaggio riguardano soprattutto l’uso della comunicazione fra parlanti e raramente l’uso della parola in poesia.
Inoltre, come a suo tempo il marxismo, anche Freud è in certa misura irrefutabile e non contestabile. E occorre ritornare a questioni che sono superate solo perché oggi se ne parla di meno. In sostanza non ci troviamo di fronte a scienze esatte, ma a sistemi pratici. Ma guarigione della persona e felicità della società vengono rinviate sine die per definizione. Oggi il mondo o ha smesso di crederci o ha chiesto una pausa-vacanza.
Con “Eros e civiltà” (Stati Uniti 1955, Europa 1963) Marcuse dice che le nostre società sono arrivate a un punto di sazietà tecnica e tecnologica. Contro questo (ed altro) si sono scagliate le avanguardie politiche e letterarie elaborando teorie e minusgrafie, verrebbe da dire. Ma la società nel suo corso ha emarginato sempre di più la rivolta (sconfitta anche politicamente, ma questo punto era scontato) passando dall’etica del sacrificio a quella della permissività. Ogni civiltà è fondata sulla sublimazione degli istinti, diceva Freud, e quindi sinché il freudismo è durato come punto di riferimento (diretto e implicito) era lecito costruire macchine logico-linguistiche per la messa in crisi delle obiezioni: mistificazione e illusione venivano colpite come prassi difensive e bigotte. Ma una volta che questa sublimazione è divenuta altra cosa (quasi nessuna città al mondo assomiglia alla Vienna di fine secolo) non si capisce bene queste macchine cosa macinino e contro chi si dirigano.
Con tutto il rispetto per un genio come Lacan, ancora oggi è difficile discernere nel suo lavoro l’intelligenza del testo dall’impostura. Nei suoi corti circuiti diretti dentro larghe fasce di sapere si può solo ricordare con chiarezza la frase che dice: “Il soggetto è costituito dal linguaggio e non viceversa”. Intuizione splendida e da poeta, non ci sono dubbi; dove finalmente l’inconscio viene elaborato non come un ripostiglio per barattoli e scope, ma come una struttura linguistica e da dove è possibile ascoltare una seconda frase folgorante: “Io penso dove non sono, dunque non sono dove penso”. Frase che tuttavia fa ritornare in mente la massima celebre degli stoici (se c’è la morte non ci sono io, se ci sono io non c’è la morte). E in sostanza: se non sono né prima né dopo, dove sono? Sono dove si costruisce l’oggetto desiderato; persino l’atto sessuale è una propaggine del desiderio sicché forse neppure l’atto sessuale esiste. E se anche il linguaggio fosse desiderio, macchina desiderante subordinata all’emergere del desiderio, così che né lingua né alingua esisterebbero? Siamo agli sgoccioli di questo secolo, facciamoci pure qualche domanda.
Il soggetto per Lacan “ex-iste” fuori di esso; ci si “manca”, sicché tutti i guai per noi derivano dal fatto che stupidamente vogliamo esistere e per questo ci aggrappiamo (se siamo poeti) alla lingua che scorre dentro di noi. Ma questa lingua se non è tradotta nella lingua che cosa è?
Chiudendo la prefazione a Minusgrafie, Aldo Rossi dice che la “prosopopea” di Ruffato, il suo gesto, non può essere inteso dai destinatari (oppressi e subalterni). Ma, come si vede, questa obiezione è di carattere generale, cioè erga omnes.
E difatti Rossi parla dell’asintattismo come nozione non verificabile. L’assenza di sintassi sfocia per forza di cose (e non ci si può qui richiamare alle regole o a Chomsky) in una sintassi “autre”. Onirismo verbale? Rossi parla di perdita della fiducia nel mondo, ma il mondo, sia pure malamente, continua a girare. Dunque, i brandelli da ricomporre con storica pietas a quale mondo (o più esattamente: a quale stadio di civiltà) si riferiscono?
Quel linguaggio staccatosi dalla riva nuota fra significati autonomi, ma la domanda resta: autonomi da che cosa?
Se negli anni settanta si poteva parlare di autonomia dal mondo capitalista e borghese, negli anni novanta la tendenziosità di questo assunto e la sua radicalizzazione sono venuti alla luce mostrando i loro inevitabili limiti, mentre (per colmo di ironia) borghesia e capitalismo esistono ancora (“toujours l’instant fatale viendra pour nous distraire”, viene da dire, citando il Ruffato di un testo di Minusgrafie).
Il “significante” come si sa (soprattutto in ambito accademico) organizza e fonda l’esperienza; se dunque questo è vero, si deve anche pensare che il grammaticalismo (di Ruffato ma anche di Zanzotto) dà l’immotivazione del segno come motivazione. Ma ancora una volta la domanda insorge: chi è il garante di questa nuova motivazione, dove è il luogo (e come si chiama) in cui l’arbitrarietà traduce e postula le onomatopee (per esempio) in lingua della poesia? Perché delle due l’una: o il sublime ha il volto dell’estasi o quello de quotidiano; o l’“alingua” è il portavoce dell’inconscio oppure è una sottospecie della parola. Ma quale differenza (e dunque scarto estetico) si inaugura a partire da una alingua che si medusizza davanti al quotidiano?
Sono sicuramente questioni di fine secolo in cui cambiamenti di varia natura hanno spostato sia l’asse dell’inconscio che quello della sua produzione linguistica: dunque, quello che si può dire, è che la tecnica, forse, è ancora buona, ma che il soggetto, dovunque esso sia, non è più “epocalmente” lì.
Così la forma inconscia priva di parola, incarnazione della sorgente della poesia, tramite (addirittura) fra l’io e il sé del mondo, deve rimettere alla verifica di un banco di prova (sconosciuto) tutto il suo tirocinio dislalico. E l’illeggibilità del mondo, tradotto nell’illeggibilità della parola, raggiunge il suo apice che in questo caso è la tautologia, ovvero l’annullamento dei significanti in negativo.
Questa lunga introduzione era necessaria proprio perché di fronte ad una lavoro serio come quello di Ruffato (si va dagli anni sessanta ai giorni nostri, in un ininterrotto flusso verbale) qualche precisazione non guasta.
Questo secolo non è stato avaro di idola e di difficili punti che carichi di fascino erano anche sentieri verso il nulla. “In qualche bolla di sapone / l’immagine urla abbastanza. / Nel caos ti assicuro la rilettura / del libro che avrei voluto scrivere / o farti abitare. / Se lo scriverai potresti ingigantire / la ricostruzione della soggettività / attraverso gli influssi negativi dell’effimero”. Se si cita questo testo da Prima durante dopo è anche per mettere in evidenza che molto più probabilmente la lingua che oscilla tra convenzionalità e inconscio, è quella che ha più possibilità di cogliere l’ambiguità e il non detto della poesia, mentre i viaggi, quasi alla Verne, dentro la parola ci riportano micromondi che appartengono certo all’onirismo ma che hanno molto margine sordo.
Francamente non è convincente il Ruffato, secondo alcune lezioni dei suoi critici, che scende nel profondo e imploso corpo materno per incontrare la sonorità del dialetto. Un Ruffato provvisto di tali sonar sembra appartenere più alla fantascienza che alla realtà di un uomo del Novecento. Beve strani intrugli, gioca a rubamazzo con le streghe, pratica l’alchimia, sa usare un micro-vocabolario che traduce i suoni del corpo materno? Non pare credibile. Tutte queste discese, dagli inferi ai punti ciechi dell’essere-uomo, sembrano appartenere ad una sorta di apologia del fare poetico che confondono le già confuse acque della poesia, relegando il poeta fra le categorie dei mostri più che degli esseri umani.
Certo, la mostruosità, per il poeta che voglia essere nella luce della storia, è d’obbligo. Eppure questo discutibile sciamanesimo sembra davvero un residuo a fronte di un mondo che certo semplifica un po’ troppo ma che anche sia allontana dalle incerte matrici della sua storia; un po’ come il misterioso ed allucinante attaccamento al suolo dei popoli balcanici. Contro dunque la balcanizzazione della poesia e come voce della critica e come addomesticamento al mistero del poeta, conviene riportare alla luce i semplici misteri dell’uso della lingua come il gioco della ragione che sia nella sintassi che nella sintassi autre non può non seguire il ritmo delle versificazioni.
L’aumento esorbitante delle scelte lessicali amplia e raddoppia almeno la questione e così ci si deve affidare alle “neoinformazioni” che debbono dar conto degli sconvolgimenti contemporanei. In Cuorema per esempio queste neoinformazioni abbondano; il fatto è che come un vaso di Pandora una volta aperta la famosa “parola-baule” (ne parlava Sartre in una sua biografia) lo scivolamento incessante del significato sotto il significante diventa praticamente infinito. È il pozzo immenso di Joyce, ultima maniera. In “Viaggio al termine della parola”, Renato Barilli, con quel suo affascinante mix di semplicismo e genialità, se ne veniva fuori dicendo: “Se la cultura postmoderna grazie alla tecnologia elettronica ci consente di attestarci a livelli di rimozione relativamente esigui, è possibile che tutti siano autorizzati ad accedere alle omofonie, ai paragrammi, ai motti di spirito”. Ma questa terra santa della omofonia universale (viene in mente una polemica di Fortini, Nietzsche di tutti) dovrà pur essere dotata di una scelta e certamente l’“infralità” (sempre Barilli) dovrebbe portarci verso nuovi significati. Ma davvero la rimozione diventa debole? (e questo molto prima di Vattimo). E inoltre la rimozione stessa, punto focale della bibliografia psicoanalitica, è davvero accertabile e non si tratterà piuttosto di una tecnica altra dove il rimosso altro non è che uno stadio di coscienza diverso?
La questione rischia di allargarsi perché il “ricordare” come il “rimuovere” restano aspetti misteriosi della mente, e la poesia ha sempre giocato su questo mistero e su questo incanto.
Forse era Merleau Ponty che parlava della ragione del ’900 come di una teologia secolarizzata. La nostra situazione si troverebbe all’estremo opposto, in poche parole, di quella in cui il grande razionalismo imperava. Irrompono in questa crisi le filosofie immanentistiche (idealismo, marxismo) e il loro successo sino ai margini del presente contesto e anche dovuto alla conversione di una scelta volontaria; un atto di scelta, appunto. Con le filosofie di cui sopra l’uomo non sembrerebbe solo nell’universo, come si è detto, e neppure avvolto da energie misteriose. La razionalizzazione forzata delle dottrine immanenti relega fascino ed estasi a momenti minori quando non “decadenti”.
Tocca per forza di cose, a proposito di Ruffato, ripercorrere sia pure a passi grossi, la storia delle idee proprio perché la sua poesia si pone sul limite balenante di una parola scissa che di volta in volta può dire “due volte” oppure niente.
L’“infralità” di Barilli diventa dunque problema. Data negli anni e nei decenni scorsi come scommessa bisognerà pur decidersi a dire qualcosa a quelli che si presentano con lo scontrino in mano.
E forse questi versi di Ruffato (da Caro ibrido amore) possono essere scelti come una degna chiusa per questo intervento, dal momento che oltre che esempio di dissidenza linguistica possono anche proporsi come luogo di riflessione: “E sempre a lavare panni sporchi / dentro il fenomeno, innesti sperimentali / d’una parlata atomica / forcipe tornante / in ideologia ipersociale”.


Scribendi licentia

di Delmina Sivieri

Dai tempi del Beolco la città di Padova non conosceva un'operazione nella lingua materna paragonabile a quella del poeta Cesare Ruffato.
Il titolo latino della sua ultima pubblicazione, Scribendi licentia (Marsilio, 1998), che contiene la maggioranza dei testi poetici in dialetto padovano, frutto di un lavoro iniziato nel 1960 ed edito nel decennio 1989/1998, vuole affermare il valore classicamente esemplare del dialetto, quando esso sia sottratto al semplice uso strumentale quotidiano e venga assunto a strumento di creazione poetica, anche con l'opportuno inserimento di schegge in italiano, di lingue straniere o di vocaboli settoriali. In questo caso il dialetto diviene vera e propria lingua della poesia, da usare con tutti i riguardi. È significativo a tal proposito l'esempio di Virgilio Giotti, che tanto pregiava il suo dialetto come lingua della poesia, da usare nella vita quotidiana l'italiano come lingua di minor pregio.
Il panorama novecentesco italiano comprende diversi poeti che hanno elaborato a fini creativi la parlata materna. Prevale la rappresentazione di affetti e paesaggi domestici più o meno pervasi da sentimento intimo, come nel caso del veneziano Giacomo Noventa, del triestino Giotti, del gradese Biagio Marin, del genovese Edoardo Firpo, del lucano Albino Pierro, del romagnolo Tonino Guerra. Non di rado il dialetto viene arcaizzato di proposito, per conferirgli maggior risonanza sentimentale con l'effetto di allontanamento. Non manca chi raccoglie l'eredità del cantastorie, come dimostra l'esempio del siciliano Ignazio Buttitta. Anche a Rovigo nel Polesine si trova questo filone. Negli anni Trenta con le Cante d'Adese e Po il poeta Gino Piva ha indossato i panni di Torototela, tipico rappresentante della poesia popolare. Dopo di lui Eugenio Ferdinando Palmieri ancora assume questa maschera, per evocare antiche tradizioni.
Attualmente un caso anomalo è rappresentato dal poeta milanese Franco Loi, nato a Genova da padre sardo e da madre emiliana, venuto a cimentarsi con un dialetto che non rappresenta le sue radici, né paterne né materne. Comunque nessuno, fra i poeti fin qui citati e nemmeno fra quelli citabili, si serve del dialetto nella misura di Cesare Ruffato per fare poesia sulla poesia, per intrecciare un discorso metalinguistico che ingloba tutti gli altri referenti, del privato e del sociale, in modo totalizzante. Tutta la materia poetica viene plasmata da una lingua a forte prevalenza vocalica, avendo come base il dialetto di Padova nella viva parlata quotidiana, quindi sonoramente duttile, bulimata da un procedere fortemente asindetico.
L'invenzione linguistica e metalinguistica va a rotta di collo, eversiva, irrisoria, straziante, allegra, pietosa, senza dar tregua un attimo al lettore. La sorpresa inventiva comincia con la prima sezione del volume, quella Parola pìrola che già nel titolo la dice lunga, per concludersi nell'ultima, in quel Giergo mortis che per forza disperata e innovativa richiama l'espressionismo europeo e, nell'area lombarda, Delio Tessa con L'è el dì di mort, alegher!
Quindi nel panorama di questo secolo già alla fine, Scribendi licentia di Cesare Ruffato si pone come un monumento poetico-linguistico unico ed esemplare.


Breve nota biobibliografica

Cesare Ruffato, padovano, ha frequentato gli studi classici e universitari conseguendo la laurea in Medicina (1958) e la libera docenza in radiologia e in Radiobiologia (1964). Ha pubblicato, oltre ad opere scientifiche specifiche delle suddette discipline (fra le quali, particolare per l'impronta prevalentemente letteraria, La medicina in Roma antica. Il "liber medicinalis" di Q. Sereno Sammonico, UTET, Torino 1996), i seguenti testi di poesia: Tempo senza nome, Rebellato, Padova 1960; La nave per Atene, Scheiwiller, Milano 1962; Il vanitoso pianeta, Sciascia, Caltanisetta 1965; Cuorema, Rebellato, Padova 1969; Caro ibrido amore, Lacaita, Manduria 1974; Minusgrafie, Feltrinelli, Milano 1978; Poesia Transfigura, Campanotto, Udine 1982; Parola bambola, Marsilio, Venezia 1983; Trasparenze luminose, Società di poesia, Milano 1987; Padova diletta, Panda, Padova 1988; Prima durante dopo, Marsilio, Venezia 1989; Parola Pìrola, Biblioteca Cominiana, Padova 1990; El sabo, Biblioteca Cominiana, Padova 1991; I bocete, Campanotto, Udine 1992; Diaboleria, Longo, Ravenna 1993; Lo sguardo sul testo, Campanotto, Udine 1995; Etica declive, Manni, Lecce 1996; Scribendi licentia, Marsilio, Venezia 1998; e i seguenti testi di critica: By Logos Espo-Esproprio transpoetico (con S. Ramat e L. Troisio), Lacaita, Manduria 1979; Folia sine nomine. Il nome taciuto (con L. Troisio), Seledizioni, Bologna 1981; La trasparenza dello Scriba (con L. Troisio), Vallardi, Milano 1982. Suoi testi sono stati pubblicati nell'“Almanacco dello Specchio”, Mondadori, Milano 1974. Di Ruffato sono state tradotte e pubblicate raccolte antologiche in croato (Odabrane Pjesme, con testo a fronte a cura e traduzione di R. Blagoni, Istituto italiano di cultura, Zagabria 1996), inglese (Selected Poems of Cesare Ruffato, con testo a fronte a cura e traduzione di S. Centa, Gradiva, New York 1996), portoghese (Poesias escolhidas, con testo a fronte a cura e traduzione di V.X. Provenzano, Panozzo, Rimini 1997), svedese (Dikter, traduzione e saggio introduttivo di Gertrud Olers-Galli, Zindermans, Göteborg 1999), e testi singoli in spagnolo, tedesco, francese, friulano e in qualche altro dialetto. Molti sono ormai gli interventi critici sulla sua produzione, tra i quali: Luciano Caniato, L'occhio midriatico. L'«interpoesia» di Cesare Ruffato da Parola bambola a Diaboleria, Longo, Ravenna 1995; Francesco Muzzioli, La poesia di Cesare Ruffato, Longo, Ravenna 1998; Massimo Pamio, Parola etica. La poesia di Cesare Ruffato, Edizioni NOUBS, Chieti 1999; AA.VV., Cesare Ruffato, Testimonianze critiche, «La Battana», Fiume, 3 (num. speciale 1997); Maria Lenti, Cesare Ruffato: La parola e il labirinto, in «Studi Novecenteschi», XXIV, 53 (giugno 1997), pp.7-38; AA.VV., Steve per Ruffato, a cura di Carlo Alberto Sitta, supplemento al n.15 di «Steve» (dicembre 1997), Modena, Edizioni del Laboratorio; AA.VV., Poetica di Cesare Ruffato, Quaderno n.5, suppl. a «Testuale», 23-24 (1997-1998); Cesare Ruffato, poesie (con un saggio di Daniela Forni, Cesare Ruffato e l'invenzione della lingua), in «Avanguardia», Anno IV, n.10, 1999, pp.3-32.



1 Pubblicato in: "British Journal of Sociology" n.10, 1959, pp.311-326. Cfr. anche D.Lawton, Social Class, Language and Education, Routledge & Kegan Paul, London 1968.
2 Cesare Ruffato, Prima durante dopo, Marsilio, Venezia 1989.
3 V.S.Gaudio, Il testo-punctum, l'esserci ditematico e l'idioletto del corpo, in "Rendiconti" n.33, Pendragon edizioni, Bologna, settembre 1993.
4 Cesare Ruffato, Caro ibrido amore, Lacaita, Taranto 1974.
5 Cesare Ruffato, Minusgrafie, Feltrinelli, Milano 1978.
6 Cesare Ruffato, Parola bambola, Marsilio, Venezia 1983.
7 M.Regula; J.Jerney, Grammatica italiana descrittiva su basi psicologiche, Francke Verlag, Bern 1965. Cfr. anche P.L.Baldi, Fattori sociali dell'abilità linguistica e F.Elemento, Fattori intellettuali nella produzione linguistica…, in "Studi italiani di linguistica teorica e applicata" n.3, Liviana Editrice, Padova 1972.
8 Abraham A.Moles, L'image et le texte, in "Communication et langages" n.38, Retz, Paris 2e trimestre 1978.
9 V.S.Gaudio, Il testo-punctum, l'esserci ditematico e l'idioletto del corpo, op.cit., p.56
10 "L'identità di pensiero ha una duplice relazione con l'identità di percezione: 1) Essa ne costituisce una modificazione in quanto tende a liberare i processi psichici dalla regolazione esclusiva da parte del principio di piacere (…). In tal senso questa modificazione apre la strada a ciò che la logica chiama principio di identità. 2) Essa resta al servizio dell'identità di percezione: tutta la complessa attività di pensiero, che si svolge dall'immagine mnestica fino alla produzione dell'identità di percezione attraverso il mondo esterno, non rappresenta che una via indiretta, resa necessaria dall'esperienza, per giungere all'appagamento di desiderio": Jean Laplanche; Jean-Bertrand Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, trad.it: Laterza, Bari 1993.
11 V.S.Gaudio, Il testo-punctum, l'esserci ditematico e l'idioletto del corpo, op.cit., p.57
12 V.S.Gaudio, La poesia come ambiguità sistematica, in Cesare Ruffato, Proposizione ellittica, L'Arzana, Torino 1982.
13 Cfr.V.S.Gaudio, Ibidem
14 Cfr. V.S.Gaudio, Il testo-punctum, l'esserci ditematico e l'idioletto del corpo, op.cit., p.57
15 Op.cit., p.55
16 Op.cit., p.56
17 V.S.Gaudio, op.cit., p.57
18 Cesare Ruffato, Scribendi licentia, poesia in volgare padovano, Marsilio, Venezia 1998, p.165.
19 Ruffato, op.cit., p.161.
20 Ibidem.
21 Cfr. V.S.Gaudio, Il testo-punctum, l'esserci ditematico e l'idioletto del corpo, cit., p.59.
22 "Le bonheur porrait ainsi être considéré comme l'inverse, l'envers du deuil primitif, la retrouvaille du premier objet perdu, et de tous les autre perdus ensuite, y compris pour finir de l'objet oedipien. Le deuil, la perte la plus cruelle, sont des événements qui suscitent la défense régrédiente, ainsi s'expliquerait que, si souvent, le deuil prépare le lit de l'amour ou de la foi, ce qui revient sensiblement au même": C.J.Parat, Essai sur le bonheur, in "Revue Français de Psychanalyse" n.4, Presses Universitaires de France, Paris 1974.
23 L.Hjelmslev, I fondamenti della teoria del linguaggio, trad.it. Einaudi, Torino 1968.
24 Cfr. Robert Escarpit, Scrittura e comunicazione, trad.it. Garzanti, Milano 1976.
25 V.S.Gaudio, Macro-struttura narrativa e tempo verbale nella poesia in dialetto calabrese del primo Novecento, in "Ipotesi 80" n.7, Cosenza 1983.
26 Lo è in qualche modo la canzone dei novelli cantastorie, ed è piuttosto una ballata moderna, come l'operazione dialettale di un certo De André, il famoso cantautore scomparso nel gennaio 1999: ad esempio Monti di Mola ha una macro-struttura narrativa in cui la situazione iniziale è narrata con l'imperfetto della romanza, mentre la valutazione ha il presente della cantica. Questa ambivalenza della prospettiva è usata, anche nella poesia dialettale connessa all'habitat del poeta, come passaggio dalla funzione referenziale alla funzione conativa affinché si attui la circolarità semica o l'interazione effettiva tra l'ego che narra e l'altro di cui si narra. Nella canzone di De André, il presente della valutazione è il ritornello in cui la funzione conativa porta nell'episodio la presenza dell'altro e il godimento impossibile: la scena, in cui, più che l'invidia del pene, c'è il Wunsch (desiderio) del pene. Cfr. Fabrizio de André, Le nuvole, Ed.Jubal Fonit Cetra, Lp 1990.
27 Cesare Ruffato, Scribendi licentia, p.159, 162: abusi, sottolineature, neretti sono nostri.
28 Ibidem, p.162.
29 Jacques Lacan, Il seminario, Libro XI, trad.it. Einaudi, Torino 1979, p.190.
30 Il Lust (prinzip) è "uno dei due principi che regolano, secondo Freud, il funzionamento mentale: l'insieme dell'attività psichica ha per scopo di evitare il dispiacere (= Unlust) e di procurare il piacere (= Lust). In quanto il dispiacere è legato all'aumento delle quantità di eccitazione e il piacere alla loro riduzione, il principio di piacere è un principio economico": Jean Laplanche; Jean-Bertrand Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, op.cit.
31 Jacques Lacan, Il seminario, op.cit., p.247.
32 Cesare Ruffato, Scribendi licentia, p.165.
33 Cfr. quanto scrive Ivano Paccagnella: "La scelta dialettale di Ruffato è esente da ogni spontaneità o “naturalezza”; e basterebbe a dimostrarlo la riflessione metalinguistica espressa in forma di poemetto in El dialeto di Diaboleria, quasi un programma delle potenzialità d'uso del dialetto nella poesia odierna": in Cesare Ruffato, El sabo, Biblioteca Cominiana, Padova 1991.
34 Viggo Brøndal, Teoria delle preposizioni, Introduzione a una semantica razionale, trad.it. Silva editore, Milano, 1967, pp.75-77.
35 Viggo Brøndal, Op.cit., pp.117-118.
36 Cfr. V.S.Gaudio, Cesare Ruffato: l'ibrido socius dell'identità, in Lunarionuovo" n.37, Catania 1985.
37 Jacques Lacan, Il seminario, op.cit., p.198
38 Ibidem
39 Cesare Ruffato, Scribendi licentia, p.161
40 "Béla Grunberger définit la complétude narcissique comme la reconstitution de l'unité du contenu et du contenant (vècu primitivement selon lui par l'enfant dans la sein de sa mère)": tanto riferisce C.J.Parat nel suo Essai sur le bonheur, op.cit.: naturalmente Parat si riferisce a Le narcissisme. De l'image phallique, di Grunberger.
41 Cesare Ruffato, Scribendi licentia, p.164. Gli estratti finali, che uso "da bon ad libitum" riguardano le pp.164, 172, 282
42 Jacques Lacan, Il seminario, op.cit., p.202
43 Cesare Ruffato, Minusgrafie, Feltrinelli, 1978
44 Nino Majellaro, Minusgrafie in "Nuova Corrente" 1980 n.81
45 Cesare Ruffato, Scribendi licentia, Marsilio, 1998, p.161
46 Cesare Ruffato, Il vanitoso pianeta, Sciascia, 1965
47 Cesare Ruffato, Cuorema, Rebellato, 1969
48 Cesare Ruffato, Minusgrafie, cit.
49 Minusgrafie in "Nuova corrente", cit.
50 Scribendi licentia, cit., p.41
51 Tempo senza nome, Rebellato, 1960
52 Cesare Ruffato, Cuorema, cit.
53 Cesare Ruffato, Caro ibrido amore, Lacaita, 1974
54 La parola innamorata – I poeti nuovi 1976-1978, Feltrinelli, 1978
55 Poesia degli anni sessanta, Feltrinelli, 1979
56 Cesare Ruffato, Minusgrafie, cit.
57 Cesare Ruffato, Etica declive, Manni, 1996
58 Cesare Ruffato, Scribendi licentia, cit., p.IX
59 Poesia dialettale del novecento, Guanda, 1952
60 Cesare Ruffato, Scribendi licentia, cit., p.13
61 ivi, p.15
62 ivi, p.25
63 ivi, p.47
64 ivi, p.37
65 ivi, p.67
66 ivi, p.70
67 ivi, p.82
68 ivi, p.159
69 ibidem
70 ivi, p.105
71 Andrea Csillaghy, Sulla poesia dialettale di Cesare Ruffato in "Steve per Ruffato", p.91
72 Cesare Ruffato, Scribendi licentia, cit., p.103
73 ivi, p.103
74 ivi, p.109
75 ibidem
76 ibidem
77 ivi, p.120
78 ivi, p.162
79 ivi, p.163
80 Cesare Ruffato, Per dire qualcosa sul dialetto, "Steve", n.14, p.34
81 Cesare Ruffato, Scribendi licentia, cit., p.261
82 ivi, p.221
83 Cesare Ruffato, Etica declive, cit.
84 ivi, p.7
85 Vincenzo Guarracino, Un'ansia lucreziana… in Poetica di Cesare Ruffato, "Testuale", nn.23-24, p.67
86 Cesare Ruffato, Scribendi licentia, cit., p.403
87 ivi, p.403
88 ivi, p.404
89 ivi, p.422
90 ivi, p.407
91 ivi, p.415
92 Francesco Muzzioli, La poesia di Cesare Ruffato, Longo, p.80
93 Cesare Ruffato, Scribendi licentia, cit., p.423
94 ivi, p.417
95 ivi, p.67
96 ivi, p.25
97 Cesare Ruffato, Ciao vose, in Vose striga, Scribendi licentia, Venezia 1998, pp.337-338
98 Carlo Ginzburg, Storia notturna, Torino 1995, p.244
99 James G. Frazer, Il ramo d’oro, Torino 1973, p. 381
100 Domenico Antonino Conci, Il matricidio filosofico occidentale: Parmenide di Elea, in Le Grandi Madri, a cura di T. Giani Gallino, Milano 1990, p. 153
101 C. Ruffato, Parola fiaba, in Parola polena, Parola pìrola, op.cit., p.51
102 C. Ruffato, Orca Eva e sorbole, in Parola pìrola, op.cit. p.10
103 C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op.cit., p.159
104 C. Ruffato, Vose sìngana, in Vose striga, op.cit., p.347
105 C. Ruffato, La monega eurialina, in Parola pìrola, op.cit., p.15
106 C. Ruffato, Delirio sigàla, in Sagome sonambole, op.cit., pp. 268-269
107 C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op.cit., p.168
108 Adriana Cavarero, La servetta di Tracia, in Nonostante Platone, Roma 1990, p.41
109 ibidem, p.45
110 C. Ruffato, Vose striga, op.cit., p.376
111 C. Ruffato, ibidem, p.385
112 C. Ruffato, Delirio sigàla, in Sagome sonambole, op.cit., p.269
113 Clarice Lispector, La passione secondo G.H., Milano 1991, p.161
114 C. Ruffato, Orca Eva e Sorbole, in Parola pìrola, op.cit., pp. 11-12
115 C. Ruffato, Parola coi busi, in Parola pìrola, op.cit., pp.30-31
116 C. Ruffato, Parola sui trampoli, in Parola polena, Parola pìrola, op.cit., pp. 37-38
117 C. Lispector, op.cit., p.90
118 C. Lispector, ibidem, p.93
119 C. Ruffato,Orca Eva e sorbole, in Parola pìrola, op.cit., pp.8-9
120 Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Roma 1991, p.42
121 L. Muraro, ibidem, p.41
122 C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op.cit., pp. 161-162
123 C. Ruffato, Parola fiaba, in Parola polena, op.cit., pp.47-49
124 C.Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op.cit., pp.163-164
125 L. Muraro, op.cit., p.46
126 C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op.cit., p.164
127 C. Ruffato, Elbane, in Smanie, op.cit., p.245
128 C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op.cit., p.167
129 L. Muraro, op.cit., pp. 47-49
130 C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op.cit., p.165
131 C. Ruffato, Ociae, in Smanie, op.cit., p.235
132 C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, p.167
133 C. Ruffato, ibidem, p.171
134 C. Ruffato, ibidem, p.169
135 C. Lispector, op.cit., p.157
136 C. Lispector, op.cit., p.164
137 C. Ruffato, Parola fiaba, in Parola polena, Parola pìrola, op.cit., pp. 54-55
138 C. Ruffato, Fumeto bianco, in Sagome sonambole, op.cit., p.285
139 C. Ruffato, Vose sìngana, in Vose striga, op.cit., p.359
140 C. Ruffato, Vose striga, op.cit., p.369
141 C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op.cit., pp. 161-162
142 L. Muraro, op.cit., p.58
143 C. Ruffato, Orca Eva e sorbole, in Parola pìrola, op.cit., p.7
144 L. Muraro, op.cit., p.63
145 C. Ruffato, Parola sigà, in Parola polena, Parola pìrola, op.cit., p.40
146 C. Ruffato, Orca Eva e sorbole, in Parola pìrola, op.cit., p.6, p.11
147 C. Ruffato, Parola coi busi, in Parola polena, Parola pìrola, op.cit., p.31
148 C. Ruffato, El dialeto, in Diaboleria, op.cit., p.159
149 C. Ruffato, Birignao del vodo, in Sagome sonambole, op.cit., p.299
150 Giambattista Vico, citazione di Giusepe Conte in Introduzione, AA. VV., Metafora, Milano 1981, p.27
151 C. Ruffato, Vose striga, op.cit., p.389
152 C. Ruffato, Parola polena, in Parola pìrola, op.cit., pp. 25-27
153 C. Ruffato, Ciao vose, in Vose striga, op.cit., p.325
154 C. Ruffato, Otobre de zali, in Sagome sonambole, op.cit., pp. 286 e sgg.
155 C. Ruffato, Orca Eva e sorbole, in Parola pìrola, op.cit., pp. 6-7
156 C. Ruffato, Smanie, in Smanie, op.cit., p.239
157 C. Ruffato, Parola fiaba, in Parola pìrola, op.cit., p.50
158 C. Ruffato, Birignao del vodo, in Sagome sonambole, op.cit., p.306
159 C. Ruffato, Parola sigà, in Parola pìrola, op.cit., p.40
160 C. Ruffato, Vose striga, op.cit., p.375, p.379
161 C. Ruffato, Nell'indugio il pensiero..., in "L'Immaginazione", n.151, novembre 1998. Penso che una pista critica da seguire sarebbe quella che cataloga e commenta le molteplici e disparate autodefinizioni offerte dal poeta nel corso di un trentennio.
162 C. Ruffato, Il cantico del silenzio, estratto da: AA.VV., Il Silenzio (antologia della VI Biennale Nazionale Letteratura / Ambiente), I libri di Steve, n.21, 1997, pp.109-136. Il saggio di G. Folena è la trascrizione orale della presentazione a Padova, nel 1990, di Parola pirola.
2bis C. Ruffato, Etica declive, Manni, Lecce, 1996. D'ora in avanti nel testo con la sigla ED, seguita dal numero della pagina.
2tris M. Cortelazzo, La voce mentale del dialetto, in AA.VV., Cesare Ruffato nel suo settantesimo compleanno. Testimonianze critiche, a cura di Nelida Milani, numero speciale di "La Battana", n.3, 1997, pp.41-2. D'ora in avanti nel testo con la sigla LB, seguita dal numero delle pagine.
165 Cfr. E. Pellegrini, Sulla poesia di Cesare Ruffato, in "Otto / Novecento", maggio-agosto 1993, pp.163-173. D'ora in avanti nel testo con la sigla O/N, seguita dal numero delle pagine.
166 C. Ruffato, Per dire qualcosa sul dialetto, in "Steve", n.14 (1996), p.35.
167 Ibidem, pp.36-7
168 Ibidem, p.37
169 Cfr. L. Curreri, L'immaginario lunare, in "La Battana", aprile-giugno 1996, p.81. Sull'argomento si veda anche l'interessante saggio di G. Scaramuzza, Il dialetto, l'infanzia, la morte nella poesia di Cesare Ruffato, in "Otto / Novecento" XVIII, 3-4, pp.267-273. Ma si veda anche il bel saggio di Giulio Ferroni, Verso l'etica declive, raccolto nel numero unico dedicato allo scrittore dalla rivista "Testuale" (nn.23-24, 1997/1998, pp.56-7), in cui compaiono interventi di V. Bagnoli, C. Bello, V. Bonito, R. Ceserani, P. Civitareale, G. De Santi, L. Detti, V. Esposito, G. Ferri, G. Ferroni, G.F. Frigo, S. Givone, G. Gramigna, V. Guarracino, R. Luperini, P. Luxardo, F. Musarra, F. Muzzioli, P. Pepe, F. Pignatti, M. Prandi, A. Prete, R. Roversi, G. Scaramuzza, S. Verdino, L. Vetri, A. Zanini. D'ora in avanti nel testo si citerà dalla rivista con la sigla T, seguita dal numero della pagina.
170 C. Ruffato, I Bocete, Campanotto, Udine, 1993, p.23.
171 Cfr. F. Pignatti, La via alla contemporaneità, in "La Battana", aprile-giugno 1996, p.107.
172 Ibidem, p.109
173 C. Ruffato, Scribendi licentia, Marsilio, Venezia, 1998.
174 Ibidem, p.399
175 Ibidem, p.397
13bis Ibidem, p.411
177 Ibidem, p.398: "...Nel sito / magico so qua a spetarte / co fili gusiere par ingroparte / ai me costruti e in toto inalbarte".
178 Ibidem, p.400
179 Ibidem, p.403: "La morte come primo iter in acqua / simbolo materno, un zugo acordà / quel cichèto de finire in pata / col catàrsela in barca insupà / che no se sa se tegna e me porta / caronte tuo mulo che mai se ferma".
180 Ibidem, p.404: "Che 'na piera col nome cernita / e impisòca extra moenia i me ossi / za scarsi de meòla e porotici / che tra lor se buta ruti e balzelli / mi animulo aereo fora me ciamo / e scaltrisso a la maniera nova / de osanare sotovose coi oci / sensa paoni cherubini e serafini / londi dal monumentale mementohomo / de papiro e vanagloria a letare / grosse e conte de deliri businessi. / 'Sto look de obito passarèla / fumeti cioche pompe funeree / boche e lagreme de condoliansa / rechie de morte e vita in balansa".
181 Ibidem, p.407
182 Ibidem, p.423
183 Ibidem, p.403
184 Ibidem, p.408
185 Ibidem, p.409
186 Ibidem, p.412
187 Ibidem, p.413: "E mi figura de 'na figura / trista trito el muto magon ti-mi / in serca del nei tan e starte drio / aldel… striga che ocia tuto in luse / nera. S'inombra qua l'oro / de la fine e no se cape / un pelo del starghe mistero".
188 Ibidem, p.414: "L'amor too anca nel luto me liga / a promessa de eternità, no posso / sfantarme come neve al sole / e fare spergiuro saria pure / un cotradimento, roba tatarà. / Darse a la dama supercaligosa / in dono d'afeto che m'intua e t'inmia / 'na sola ima sostanza virtù / spirituali de salda simbolica / fedeltà. Forse se s'impasta / persone altre che tien no se sfrègola / par un ricordo in sé che ne sostien / a sanguare de pì le nostre ombrìe".
189 Ibidem, p.421
190 Ibidem, p.420. In Etica declive si legge: "Alle porte dei morti perbenismo / rituale, cordoglio posticcio / un breviario di paura" (ED, p.13). La stessa immagine si trova in Prima durante dopo: "Alle porte dei morti il mondo svende / cordoglio posticcio perbenismo / un breviario colato" (Marsilio, Padova, 1989, p.58).
191 Ibidem, p.418
192 Ibidem, p.422
193 A. Balduino, Parabola della poesia di Cesare Ruffato, in "Il Ponte", XLVI, 3 marzo 1990, pp.137-143.
194 Ibidem, p. 415: " (...) / E par zonta la morte se anagrama / tremo temor metro paura misura / mascara sfogà de lo spirto infogà".