Supplemento a
Hebenon
Rivista internazionale di letteratura
n.4 ottobre 1999
(Aut. Trib. di Ivrea n.195 del 22/01/1998)
Proprietà letteraria riservata: Associazione Culturale Hebenon
Direzione, Redazione, Amministrazione:
via De Gasperi 16, 10010
Burolo (Torino - Italy)
Fondatore e direttore:
Roberto Bertoldo
Corrispondenti dall'estero:
Luigi Fontanella (Stati
Uniti),
Leonardo D'Amico (Argentina),
Sioned Puw Rowlands (Galles),
Cristina Zaccanti (Romania),
Hanna Kjellberg e Antonio
Parente (Finlandia)
Coordinatore traduzioni: Marco Morello
Stampa: Tipolitografia
l'Artigiana di Grosso Sategna,
Via Torino 6, 10010 Burolo
7 Cesare Ruffato:
Scribendi licentia
di Vittoriano Esposito
12 Dal padovano
al friulano
di Giorgio Faggin
15 "El metro fondo
del dialeto" nella poesia di Cesare Ruffato
di Gio Ferri
25 Su Scribendi
licentia di Cesare Ruffato
di Paolo Frasson
30 Cesare Ruffato:
la semantica gergale e razionale dell'idioletto corporeo
e della
poesia dialettale
diacronica, il bioritmo dello stile-mama
di V. S. Gaudio
45 Il percorso poetico
di Cesare Ruffato dentro la parola in dialetto
di Gabriele Ghiandoni
50 Scribendi
licentia di Cesare Ruffato
di Nino Majellaro
65 Colloquio
di Milena Nicolini
74 "La luce buia":
il "giergo mortis" di Cesare Ruffato
di Ernestina Pellegrini
83 Cesare Ruffato,
licenzioso cercatore della verità nuda e cruda
di Germana Duca
Ruggeri
88 La poesia dubbiosa
di Cesare Ruffato
di Germana Duca
Ruggeri
90 Scivolando sulla
schiena del secolo
(Appunti sulle
poesie di Cesare Ruffato)
di Gregorio Scalise
94 Scribendi
licentia
di Delmina Sivieri
96 Breve nota biobibliografica
In un corposo ed elegante
volume (di ben 430 pagine), uscito presso Marsilio
editori, Cesare Ruffato ha raccolto quasi tutta la
sua produzione poetica in "volgare padovano", dopo
averla sottoposta ad un'accuratissima selezione e revisione.
Abbastanza singolare il titolo di copertina, Scribendi
licentia, in traduzione letterale Licenza di
scrivere, ma forse da intendere più significativamente,
nel senso riposto, con allusione all'urgenza liberatoria
della scrittura dialettale, come avremo modo di vedere
tra poco.
La raccolta antologica
comprende sillogi già edite, ed esattamente: Parola
pìrola (prefazione di L.Borsetto, 1990), El
sabo (prefazione di I.Paccagnella, 1991), I
bocete (postfazione di A.Daniele, 1992), Diaboleria
(introduzione di M.Cortelazzo, 1993); e sillogi inedite,
con qualche testo anticipato in riviste: Smanie,
Sagome sonambole, Vose striga, Giengo
mortis, appartenenti tutte al periodo 1993-1997.
Dalla cronologia delle
opere si direbbe che Ruffato si sia "convertito" al
dialetto in età matura, quando aveva alle spalle già
un trentennio di esperienza poetica in lingua italiana
(da Tempo senza nome del 1960 a Prima durante
dopo del 1989); ed invece si può ritenere nato
come poeta bilingue, poiché i suoi primi tentativi
dialettali risalgono allo stesso tempo del suo esordio
in italiano, anche se restarono come in ombra, quasi
frutto d'un esercizio privato. Rilievo importante,
questo, che ci consente di parlare di una riscoperta,
di un ritorno all'uso del dialetto, piuttosto che di
una conversione improvvisa.
Illuminante, a tale
proposito, quanto lo stesso Ruffato ebbe a dichiarare
in una intervista rilasciata a Luciano Morandini qualche
anno fa: riaffermato il ruolo etico-civile della poesia
in genere, egli si disse convinto d'aver ritrovato
nel dialetto una lingua capace di vivificargli immaginazione
e ispirazione poiché, facendolo riaccostare "alle sorgenti
della vita", gli consentiva di "penetrarne l'essenza
in un registro patosofico di rievocazioni, confronti,
riflessioni che incalzano la mente e la coscienza".
Va precisato tuttavia
che, pur assumendo "come lingua di base il dialetto
di Padova nella viva parlata quotidiana", Ruffato lo
sollecita dall'interno e lo reinventa "sulla traccia
di lacerti infantili e con volontari sbandamenti nell'italiano
e in vari linguaggi settoriali". Egli non si nasconde
il carattere "precipuamente letterario di tale operazione",
ma è parimenti persuaso che, attraverso "questa libera
messa in scrittura", si compia "un affettuoso etico
riconoscimento verso la lingua materna e un tentativo,
sfiorato da nostalgia, di corrispondere agli intimi
richiami, particolarmente sottili e inattingibili,
della sua voce".
Certo, i dialettologi
puristi avrebbero ragione di scandalizzarsi di una
operazione letteraria rivolta apparentemente a scardinare
le strutture caratterizzanti del dialetto, accusandola
di una imperdonabile arbitrarietà, se non addirittura
di rinnegamento della tradizione propriamente "volgare".
A favore di Ruffato, tuttavia, c'è la convinzione plurisecolare,
diffusa ancor oggi tra critici ed esteti, che la poesia
è soprattutto un fatto di linguaggio creativo, se non
vuole ridursi ad un prodotto di mimesi naturalistica,
duplicato amorfo dell'uso vivo, come accade di solito
nella cosiddetta poesia popolare.
Bisogna rilevare, inoltre,
che l'operazione di Ruffato riesce ad istituire una
condizione di parità, sul piano della sua forza inventiva,
tra l'italiano e il dialetto, conferendo a quest'ultimo
la capacità di ampliare e arricchire non solo un vocabolario
che molti credono in via di estinzione, ma anche la
normativa grammaticale e sintattica che rischia di
appiattirsi sui modelli esangui dell'italiano popolareggiante
di oggi.
Sorprende, infine, la
lucidità critica con cui Ruffato si avventura nell'esplorazione
della propria coscienza con gli strumenti di quella
che chiama la sua "lingua materna". In alcune pagine
di Diaboleria, egli elabora una sorta di ars
poetica in materia dialettale, densa di spunti
e intuizioni che meritano un'attenta riflessione. Premette
che si accosta al dialetto "co la fraca de lampra passion
/ dei cavalieri pal tesoro del Graal" ("con la carica
di limpida passione / dei cavalieri per il tesoro del
Graal"). Guardato dall'esterno, il dialetto "pare forse
/ 'na machineta da foto infrarossi / scalon dei colori
puntilioso" e altro ancora; ma, a pensarci bene, esso
sfugge al dominio incancrenito della lingua burocratica,
per restare "'na ecolingua / grembo o marsupio che
abita alita / riscata el sogno". Appreso da "la vose
de mama" come fantasma impensabile, presignificante,
prende poi a procedere dalle viscere alla metafora
come un tesoro "de luce fogo acqua aria / e sostanse
che ne dà vita" oppure, a volte, "tochi de carbon ne
la calsa de la striga".
Ricondotto alle prime
scaturigini dell'inconscio lallante della remota
infanzia, il dialetto riemerge nella sua prima dimensione
"corporea", importante come la prima mimica; poi, nell'età
scolare, subentra la fatica di sdipanare l'allegro
mucchio di parole storpiate, per ordinarle entro i
"paletto gendarmi di grammatica e sintassi". Ma resta
sempre vivo il bisogno di riassaporare le "cotiche
muschiose" di una parlata "che concede licenze e libertà
/ negate alla lingua rompiballe".
Linguisti e semiologi
si ostinano a ritenere che il dialetto parli fuori
della storia ufficiale e quindi crei una letteratura
minore, superata, ma è da credere che esso possa acquisire,
per salvarsi, intelletto e non solo sentimento, rivestirsi
dell'anima dei parlanti, farsi "ponte verbale porto
culla" e non lasciarsi inghiottire dal mostro del "ciacolese
fregnonese franfichese" quotidiano.
Sarà pur vero che col
dialetto si può perdere la bussola "nel polvaron de
conceti", ma è certo che esso ci restituisce una respirazione
circolare coi ritmi della ventilazione, traspirazione
di umori:
El xe pien de late fresca intiera
( ) Mente, pompa de la lengua, lievito
narciseto, buto de falsa gnoransa
giossa de tempo belo, caldo penelo
nichia de pora filosofia che se
carga el costruto de l'anema
roba o ente o conceto assoluto
siolto e mobile da no stechirse
("È pieno di latte fresco intero / ( ) Mente, sorgente della lingua, lievito / narciso, gemma di falsa ignoranza /goccia di tempo bello, caldo pennello / nicchia di povera filosofia che ci carica / delle sostanze dell'anima / cosa o ente o concetto assoluto / libero e mobile da non stecchire").
Il poeta, infine, si ritiene fortunato a riscoprire il dialetto sui sessant'anni, trovandovi un'alcova rinverdita di scrittura dell'età matura, dopo essere stato ragione di vita nell'infanzia e nella vita calante. Tenerissimi i versi conclusivi:
el me ninanana anca nel troto
roto senile, el me liga al concreto
cavandome i selegati senza sigarme
par sgorbi de acenti e ortografia
nel volerlo maritare co la lengua
matricolada. El m'intiva sempre
versendome l'eden e l'Eva fruà
de la langue. Me smissio inretoricà
senza idee ciare e co passiensa
voria riscrivare tuto, ma me lasso
parlare segnare da bon ad libitum
("mi fa la ninna nanna
anche nel trotto / rotto senile, mi lega al concreto
/ strappandomi i segreti senza sgridarmi / per errori
di accenti e d'ortografia / nel volerlo maritare con
la lingua egemone. Sempre mi indovina / aprendomi il
parafdiso e l'Eva consunta / della langue. Mi
mescolo retoricizzato / senza idee chiare e con pazienza
/ vorrei tutto riscrivere, ma mi lascio / parlare segnare
per bene ad libitum").
Chi vuol intendere,
a questo punto, esattamente il significato e il valore
dell'operazione letteraria di Cesare Ruffato, ha ragioni
sufficienti per non scambiarla con un divertissement
formalistico, sconfinante in preziosismi baroccheggianti.
Il rischio, come pur si è notato qualche volta, c'è
davvero, ma viene solitamente aggirato dall'urgenza
di questioni esistenziali, che sempre riaffiorano dal
fondo di una coscienza tormentata.
Sarà utile, a tale riguardo,
ricordare che Ruffato, solo dopo una vicenda drammatica
(la morte di una figlia giovanissima) che lo ha sommerso
di "interrogazioni" inquietanti, ha avvertito il bisogno
di risalire alle radici della sua esistenza, come per
un improvviso "risveglio bioritmico" dopo un lungo
letargo. Non a caso la morte ("la siora in nero") s'intravede
spesso, nelle sue pagine, accarezzare la falce tra
pena e contrizione ("contrita in viso de pecà") e il
poeta cerca di darsi conto del senso da attribuire
alla vita. Resta il mistero, naturalmente: "Cussì a
paro par man vien vanti / nàssita e morte eterne che
se fa / divaganti soni e sesti de bon ton. / E chi
se sbassa sarà solevà".
E chi si umilia sarà
esaltato. Ma sarà un'impresa ardua, a ben riflettere,
quella di umiliarsi per essere esaltati. Per riuscirvi,
occorre tirarsi fuori dagli imbrogli degli affari terreni,
ascoltare il pullulare della vita che sgorga dalla
stessa morte, se l'anima si dispone "co la cognission
e l'amore de Dio". Purtroppo in questo mondo, che è
come un granello di sabbia dell'universo, il mala scava
sempre il suo buco nero, dove si rischia di affogare
nella lordura. L'angoscia che ne deriva, senza dubbio,
stronca le forze e le brucia, ma infonde e suscita
anche un'ansia di libertà all'estremo, pur tra il dolore
e il pianto. Sentite:
E mi figura de 'na figura
trista trito el muto magon ti-mi
in cerca del nei tan e starte drio
aldelà striga che ocia tutto in luse
nera. S'inombra qua l'oro
de la fine e no se cape
un pelo del starghe mistero.
("Ed io figura d'una figura / triste trito il muto patema tu-io / alla ricerca della bevanda d'immortalità e di seguirti / nell'aldilà strega che sbircia tutto in luce / nera. Si adombra qua l'orlo / della fine e non si afferra / un pelo dell'esserci mistero")
Tra la nascita e la
morte corre un filo intriso di lacrime, lungo il quale
una mano segreta inserisce la spina della luce e del
buio. Conviene avere scrupoli a fronte alta e dare
il giusto calore al lutto, anche se il nulla ci perseguita
"co mente ramai molin a vento anca / su quelo che ne
dà la siensa".
La salvezza, o comunque
un rimedio illusorio, sta nel ritirarsi in solitudine
a contemplare ciami enti silensi
co oci penitenti che scola zo
caligo caròli economici
destini imperiali e ne imbelisse
eroi mimetici da sfide parsora
("a contemplare richiami enti silenzi / con occhi penitenti che scuotono giù / nebbia tarli economici / destini imperiali e ci abbellisce / eroi mimetici da sfide superiori")
Saputo ormai come vanno
le cose al mondo, mentre la mente si lacera tra il
sacro e il profano, il poeta s'avvede di gironzolare
come bendato tra le povere cose del giorno, si aggrappa
alla nostalgia d'un amore che lo rende fantasma fino
all'osso, con l'anima crucciata che pare l'abbia lasciato
già appassito e prossimo alla morte.
A questo punto, la poesia
dovrebbe cedere alla fede:
Dove parole e figure no riva
el mistero sbassa seje e sipario
la peripatetica nera mena
el gnente par sé tuto
l'estremo cao icse de ognun.
("Dove parole e figure non sono sufficienti / il mistero abbassa ciglia e sipario / la tenebrosa peripatetica conduce / il nulla per sé tutto / l'estremo limite incognito di ognuno")
La morte (la "peripatetica nera") è sentita, al modo leopardiano, come liberazione dal male di vivere, ma il poeta non sa se debba consolarsene: l'ignoto, il destino di ognuno, resta velato di mistero. L'anima, di fronte a questa certezza, pur se sconsolata, s'acquieta. Visione angosciata della storia umana, senza dubbio, ma non disperata. E, quel che più conta, divenuta materia accesa di autentica poesia.
Con Scribendi licentia, a parer nostro, Cesare Ruffato tocca uno dei vertici più alti del Parnaso italiano dell'ultimo Novecento. Ed è singolare che ciò sia avvenuto sul versante della poesia dialettale, cui ormai bisogna riconoscere il diritto di spaziare nel terreno della sperimentazione tecnico-formale, diritto che da gran tempo legittimamente, almeno per certa critica, è stato acquisito dalla poesia in italiano. È la prima volta, crediamo, che un poeta dialettale abbia osato tanto, nella misura e coi risultati di Cesare Ruffato. Nessuno potrà, da ora in poi, negargli questo merito.
La rivista udinese "La
Panarie" (la panàrie = la madia) pubblicò nel
dicembre 1996 le mie prime traduzioni friulane dei
versi ruffattiani. Altre versioni apparvero nei volumetti
Cesare Ruffato nel suo settantesimo compleanno
(La Battana, Fiume/Rijeka 1997) e Steve per Ruffato
(a cura di C.A.Sitta, edizioni del Laboratorio, Modena
1997). Purtroppo in tutte queste pubblicazioni non
mancano scorrettezze tipografiche, dovute all'irsuta
grafia friulana. È invece esente da refusi la mia operetta
Mimese: Versioni poetiche in friulano (Marsilio,
Venezia 1999), in cui ho inserito due traduzioni già
presenti in Steve per Ruffato.
In occasione del LXXV
anniversario di Cesare Ruffato, mi unisco affettuosamente
ai tanti amici ed estimatori offrendo al Poeta le versioni
friulane inedite di tre suoi componimenti inclusi nel
volume Scribendi licentia (Marsilio, Venezia
1998). Ho tradotto, nell'ordine, le poesie La xe
come l'ojo parsora (p.412), L'amor too anca
nel luto me liga (p.414), Ma gnente vodo e angossa
(p.419), che fanno parte di Giergo mortis (1997),
ultima sezione del volume.
Nel tradurre questi
componimenti ho potuto constatare ancora una volta
la forte parentela lessicale tra veneto e friulano.
Così, nel primo testo, al sintagma veneto struca
struca ("in conclusione") corrisponde il friulano
struche struche. Ho preferito tuttavia servirmi
della locuzione di daûr. Nella stessa poesia
incontriamo un verbo coniato dall'autore: ne postissa
("ci rende posticci"). Il lessema di base è l'aggettivo
postisso. Con analogo procedimento, sull'aggettivo
friulano pusti
ho costruito il
verbo pusti
â. Il sintagma
ne postissa è stato reso pertanto nus pustice.
Le inserzioni romanze allotrie sono state tradotte
in friulano (emblesmada de dor plor = svanide
di dûl, di vaît; fuelha = fuee).
Quanto alla locuzione ciuciàrte el core ("succhiarti
il cuore"), pur possedendo il friulano lo stesso verbo
hu
hâ, ho preferito
muovermi più liberamente, servendomi di una metafora
(furdu
he dal to cûr =
"succhiello del tuo cuore").
Nella seconda versione
avrei potuto tradurre sfantarme ("dissolvermi")
con sfantâmi; ho scelto invece la più complessa
e meno comune variante disfantâmi, che mi ha
permesso di costruire un endecasillabo (disfantâmi
tanche nêv tal soreli). Il composto lessicale cotradimento
è stato reso con tradiment di nô doi ("tradimento
di noi due"), mentre per l'ugualmente personale supercaligosa
ho coniato un'espressione friulano equivalente: superfumatose.
Il verso in dono d'affetto che m'intua e t'inmia
presenta due verbi parasintetici di matrice dantesca.
Non ho fatto lo sforzo di convertirli in friulano,
ma li ho risolti nelle locuzioni che mi fâs to,
ti fâs mê ("che mi fa tuo, ti fa mia").
Un paio di note, per
concludere, sulla terza traduzione. La neoformazione
verbale m'infilosofa ("mi rendono filosofo")
è stata tradotta con la locuzione mi fasin savint
("mi fanno sapiente"). L'espressione rendez-vous
non è stata lasciata nella lingua originale, ma rappresentata
da un binomio friulano caratteristico, benché non frequente:
ore pontade ("appuntamento").
Confido che queste mie
nuove interpretazioni poetiche abbiano saputo mantenere
la peculiare, inconfondibile aura ruffattiana, fatta
di costante tensione formale, di spericolata inventività
lessicale, di soffusa e vibrante sostanza lirica.
La
xe come l'ojo parsora
'na bola sguelta de possibilità che no se salta e scava el busonero in sto mondo granèo de l'universo. E struca struca angossa 'sto sogiorno isolà nel saerla spugna bromba angossà de calùsene che ne postissa par la fine nel continuo lordame che incaìcia inquercia mossiona sbrusa a gosse ma t'infonde libertà al cao anca ela emblesmada de dol plor che squasi nel languor la te darìa par ostie de la fuelha zale sfinie spirae e ciuciàrte el core. | A
jè simpri parsore tanche il vueli
bùfule imburide possent
|
L'amor
too anca nel luto me liga
a promessa de eternità, no posso sfantarme come neve al sole e fare spergiuro saria pure un cotradimento, roba tatarà. Darse a la dama supercaligosa in dono d'afeto che m'intua e t'inmia 'na sola ima sostanza virtù spirituali de salda simbolica fedeltà. Forse se s'impasta persone altre che tien no se sfrègola par un ricordo in sé che ne sostien a sanguare de pì le nostre ombrìe. |
Il
to amôr fintremai tal corot mi pee
a impromesse di eterni,
no puès
|
Ma
gnente vodo e angossa
me perseita m'infilosofa che fede smorzà, mai un amen. Se rinunsia cussì a mosche bianche par godare 'na cubia de morte se se smola in ciaroscuro che ne lampra anca le sgrìsole. So ramai partìo pal sentro del rendez-vous par ciapare man e n'altra lusinga de vita co so ben che la vira in mi solo co mi e la s'inraisa del me sito cargo de responsi mancai. |
Ma
nuje, vueit e ingôs
mi dan daûr mi fasin savint
hamât di sentencis man
|
Va data innanzitutto soddisfatta notizia del prodotto bibliografico di rara raffinatezza (malgrado la mole, oltre 420 pagine) - nella confusa invasione delle edizioni 'usa e getta' ormai, forse necessariamente, di moda - il cui merito è attribuibile alla Marsilio Editori di Venezia: uscito alla fine del '98, Scribendi licentia - poesia in volgare padovano di Cesare Ruffato, è uno di quei libri che giustamente pretendono uno spazio particolare in ogni biblioteca privata (e anche pubblica, se in Italia esistessero, per la poesia, serie biblioteche pubbliche, nazionali o meno) che si rispetti. Farà bella figura di sé per la sua elegante robustezza e sarà un punto di riferimento per chiunque intenda la poesia come oggetto vivente (cosa, nel senso modernamente scientifico di campo di energia), segno tangibile del passaggio dell'uomo ne "il gran mar dell'essere" (citazione dantesca dello stesso Ruffato). Oltre ogni babelico limite linguistico: anzi esemplare ragione dei valori della forma poetica sia nel plurilinguismo trasformativo (metamorfico), sia nella dialettalità - vale a dire nelle parlate originarie demolitrici di una lingua 'ufficiale', e antecedenti ad una nuova lingua altrettanto, infine, istituzionalizzabile - come principio, origine segnica di ogni poetica espressività.
Per quanto riguarda l'imponente opera complessiva (creativa e critica) di Cesare Ruffato, poeta innanzitutto 'italiano' fra i maggiori del secondo Novecento (in appendice il volume reca una completa documentazione), da quanto si è letto si può lecitamente presumere che, a partire da Tempo senza nome (Rebellato, Padova 1960) per giungere ad Etica declive (Manni, Lecce 1996), passando per il suo testo forse più famoso Minusgrafie (Feltrinelli, Milano 1978), i suoi estimatori abbiano considerato la produzione in "volgare padovano" (si noti quanto sintomatica sia questa definizione del sottotitolo), pur cogliendone le prolifiche valenze, come marginale rispetto alla ricerca poetica 'in lingua' (così si suol dire in maniera decisamente superficiale, proprio perché il "volgare padovano" come qualsiasi altro volgare non può essere inteso che come lingua, anche se, lo abbiamo visto, di secolare transizione). Tanto più sorprendente quindi la pubblicazione di questa 'opera omnia in volgare' (comprensiva di testi editi in raccolte e inediti) che rivela, a chi ne avesse bisogno, che il bilinguismo di Ruffato viene da lontanissimo (come uomo, ovviamente, e come scrittore dalla sua giovinezza) e da lontano pure dal punto di vista pubblicistico, cioè a partire dal 1989/1990 con il volume Parola pìrola (Biblioteca Cominiana, Padova 1990).
"Volgare padovano" quindi, propriamente, cioè linguaggio che ha subito sorte parallela, dopo che anticipatrice, a quella del 'volgare toscano', poi divenuto anche istituzionalmente 'volgare italiano': sorte di parlata comunque neolatina essenzialmente, e per ragioni geografiche con ovvie influenze celtiche, germaniche, levantine (dalla vicina Venezia e quindi dal 'vicino' Oriente...). Tuttavia il padovano venne a far parte, pur con sue specifiche peculiarità soprattutto di pronuncia, di una vera e propria genìa dialettale, quella della più vasta lingua veneta, così da potersi imporre - almeno nel luogo d'origine - anche, in passato, come lingua ufficiale (istituzionalizzata dal lungo dominio della Repubblica Veneziana). E come lingua creativa e poetica: basti nominare il Ruzzante, autore di alcuni veri e propri capolavori del rinascimento italiano. Quindi nessuna banale propensione vernacolare nel "volgare padovano" tout court e in particolare nel volgare di Ruffato: nessun vernáculum paesano, nessun incolto sparlare degli 'schiavi nati in casa', secondo l'etimologia dispregiativa più antica. Anzi, nel lavoro di Ruffato - forse primo in ciò fra i poeti di pura tradizione padovana -, grazie agli "inserti di culture poliverse e a influenze di gerghi professionali" (come sottolinea lo stesso autore), e grazie soprattutto a strutture poetiche rare e 'nobili', percorse da profonde e distillate psicologie 'moderne', si instaura un progetto di elevazione del volgare a gergo poetico alto e insieme umanamente e culturalmente profondo, per l'appunto. Ruffato insomma, e lo conclama egli stesso, va alla ricerca di una poesia dal "metro fondo": "el metro fondo del dialeto". Il volgare padovano, attraverso un lavorìo cocciuto e sapiente (e passionale) in fusioni gergali, in invenzioni neologistiche, in riscoperte semantico-dialettali, in ritmiche sonorità colte ancorché sempre volgari (a Padova e in tutto il Veneto è, nei secoli e ancora, anche la lingua quotidiana delle classi elevate, professionali e sapienziali, persino accademiche), diviene così per Ruffato uno strumento genetico-strutturale che lo conduce a cogliere il fondo, l'anima dura, ossuta, perciò sempre più oggettuale e veritiera di una ragione poetica che non può non essere ragione di vita, e considerazione sensuale della comunione fra le cose e la parola che le rende definibili, percepibili e sensibili. E vive. E prolifiche, cioè metamorfiche.
Si legga, per fare un esempio qualsiasi, ma fortemente significativo per invenzione e complessità compositiva, la terza strofe di "Parola coi busi" in Parola pìrola:
"... Anca illa polena come l'universo / xe tuta forà de trivelae miste / le più larghe in p o a / da impienare de senso, sentimenti / colori unguenti sóni / conotati fisici e morali dei significanti / co responsabilità fantasiosa radegosa. / Da tamiso co qualche buso a vista / e 'na strage drento simitero ipogeo / invito la poarina a colmarse / a viagiarse insieme / e nel sogno m'imparolo".
[Anche illa polena come l'universo / è tutta forata di trivellature d'ogni sorta / le più ampie in p o a / da riempire di senso, sentimenti / colori unguenti suoni / connotati fisici e morali dei significanti / con responsabilità fantasiosa dialettica. / Come cribro con qualche buco visibile / e una miriade in cimitero ipogeo / invito la poverina ad otturarsi / a viaggiarsi insieme / e nel sogno m'imparolo (mi faccio parola)].
Senza nulla perdere dell'ironia (i dialetti hanno questa peculiarità rispetto alle lingue ufficiali: quasi sempre riportano toni ironici se non addirittura derisori), in questa strofe di chiusura Ruffato propone considerazioni ontologiche, cosmologiche e, conseguentemente, etico-escatologiche profonde e polivalenti. In un territorio verbale che, sminuzzando, straniando, ricostruendo si situa fra una realtà profana e una avventura onirica di coinvolgente ambiguità. E per saggiare il valore autonomo e solleticante dell'eloquio volgare si colgano alcune espressioni che in italiano perdono d'efficacia formale e totalizzante. Quali: "xe tuta forà de trivelae miste", un endecasillabo dalla sintetica espressività e dalla sonorità cantabile (là dove in italiano, è tutta forata di trivellature d'ogni sorta, il discorso si fa prolisso e banale); oppure quel "fantasiosa radegosa" che s'impregna nella rima interna consecutiva di striscianti misure risolventi musicalmente, con blandizie persuasive, un discorso contradittorio di fronte alle "responsabilità" formali dei "significanti" (una condizione appunto banalmente dialettica nella versione italiana, connotati fisici e morali dei significanti / con responsabilità fantasiosa dialettica). Per finire con quel sorprendente "m'imparolo" che, nel contesto tanto (in)sensato, diviene nel sensatissimo italiano: mi faccio parola. Voglio dire che, nella indubbia difficoltà e anche durezza criptica della composizione volgare, nella costruzione sintattica e metrica disarticolata, bucata (d'altro canto l'ellissi è una modalità fondativa della poesia, e l'ellissi è più che mai esaltata nei dialetti, non solo per le frasi ma persino nei singoli motti), si rivela una profondità di propositi e significati (qui anche linguistici, come nel caso dei conotati dei significanti) che si dissolvono sovente in adusate ovvietà nella versione italiana (un universo bucato e incomprensibile che richiede d'essere riempito di senso e di sentimenti... - anche se, per la verità, l'immagine italiana del cribro sia di per sé di qualche efficacia). È la forma straniata e sonante del dialetto-lingua, rispetto alla fredda convenzione discorsiva della lingua istituzionalizzata, che rivela l'epifania poetica. Una prova in più, se ce ne fosse ancora bisogno, che la poesia (come l'arte in genere e la musica in particolare) è, nel suo specifico, innanzitutto nella forma.
Tuttavia "el metro fondo del dialeto", quel buco riempibile di sensi e di sentimenti, partecipa di una primogenitura linguistica (riferita all'infanzia di una gente e di un individuo) barbarica e terrigna, sì, ma, di conseguenza, anche sensitiva, sensuale, sessuale: sanguigna. Perciò entro il "fondo" del dettato volgare si fa strada facilmente anche la grazia - materna in quanto generatrice -, la dolcezza di una condizione perpetuamente maternale e insieme infantile, e perciò fortemente creativa, proprio per innocenza verbale. Ne danno testimonianza, fin dai titoli delle raccolte, certe poesie della stessa Parola pìrola e de I bocete. Basti qui rileggere un testo quasi programmatico da I bocete:
"I bambini ideogrammi vari / de onomatopea, alone / sluseghin torno a le parole / bocete puteleti pupeti cei / pulsini picinini ninini bei / fregolete de subieti pargoleti / trabacolini schissoti tatarete / radeghini agnelini pierini / con pipì in bilico de rose / e cacona smorfiosa, tesorini / retorici ne la bòte psichica / vien vanti pian pianin dai cavei / al museto a le man per no sofrire / del tuto e mogimogi sentire / el tufo nel corpo de càcole / a cavalin sul manego de scoa / o nel fare dispeti a incantesimi / e fole. Larve edoniste / gelsomini de luce che brusa / e vibra la vose ne le cane / del naso, uncineti de l'essere / in 'na lengua che presumo / un parlare universale proprio / par umanare el dirse. / Peluco ne la tela pensieri / a piombo su grame parole / che stracòlo sensa dissiparghe el genio"
[I bambini vari ideogrammi / di onomatopea, alone / baluginante attorno alle parole / bocete puteleti putei cei / piccini piccolini ninnini belli / bricioline di zufoli pargoletti / traballanti grumetti giocattolini / rissosetti agnellini pierini / con pipì in bilico di rose / e caccona smorfiosa, tesorini / retorici nella botte psichica / avanzano pian piano dai capelli / al visetto alle mani per non soffrire / del tutto e mogimogi sentire / il tuffo nel corpo di caccole / a cavallino sul manico della scopa / o nel fare dispetti a incantesimi e frottole. / Larve edoniste / gelsomini di luce che brucia / e vibra la voce nelle canne / dal naso (coane), uncinetti dell'essere / in una lingua che presumo / un parlare universale adatto / al fare umano il dirsi. / Pilucco nella tela pensieri / a piombo su parole povere / che distorco senza dissiparne il genio].
L'onomatopea del balbettio infantile è espressamente dichiarata, con graziosa disponibilità d'anacoluti mimetici, accumulazioni più o meno analogiche (o di analogie nascoste nei genetici, segreti e irrivelabili meandri dalla mente infantile), rime diminutive, abbondanza di allitterazioni e paronomasie. Il dialetto esprime icasticamente situazioni ludico-infantili, tuttavia talvolta solo apparentemente innocenti. Quest'ultima è una caratteristica tipica (come l'ironismo) delle modalità espressive dei dialetti: passare inavvertitamente, con sottile gioco d'ambiguità, dalla tenerezza alla malizia. Il linguaggio infantile (difficile da rendersi in italiano, ma diffuso nei modi dialettali: tatareta, pierino, cacona smorfiosa, mogiomogio..., sono lemmi che ci si attribuiscono scherzosamente, se non sarcasticamente, anche fra adulti) è disturbato da qualche cattiveria che preannuncia quello spirito astuto e utilitaristico e anche menzognero (volto ad ottenere persino l'impossibile, o comunque ad avere più di quanto ci sia dovuto) che connoterà anche, anzi proprio, la lingua matura: "... tesorini / retorici ne la bòte psichica",... "o nel fare dispeti a incantesimi / e fole. Larve edoniste...". Di conseguenza fra tenerezze e velate profetiche malizie nei "bocete" si va inconsciamente, biologicamente sviluppando l'oggetto del discorso, che Ruffato - lo dice - cerca di sfruttare creativamente per rendere umano il dire, "un parlare universale proprio / par umanare el dirse". E così anche su "grame parole" (parole povere) si fonda una poesia nuova, in comunione con la realtà ma disposta, anche distorcendone la prima innocenza antifrastica, a mantenere la genialità di un atomismo verbale che nel discorso comune, infine, malgrado i residui di cui si è detto, tende a scomparire a beneficio della ufficialità discorsivo-utilitaristica. Ad osservare attentamente, sia sul piano formale, sia a livello semantico, questa poesia sembra voler fornire giustificazione critica della rivoluzione dissipatrice ma fortemente 'ingenua' e sensitiva auspicata dalle avanguardie storiche: il Da-da innanzitutto, ovviamente, che alla promozione del balbettio infantile affidava il rinnovamento scritturale e insieme etico (contro le menzogne della comunicazione di potere).
In Giergo mortis (1997), ultima raccolta dell'antologia, si prende atto tuttavia che la lingua così come nasce, fresca di paratassi non finalizzate e ludiche, pian piano muore, si consuma, si imbastardisce proprio là dove si voleva che si purificasse nella misura anche poetica. Poiché (sono gli ultimi cinque versi del volume):
"Dove parole e figure no riva / el mistero sbassa seje e sipario / la peripatetica nera mena / el gnente par sé tuto / l'estremo cao icse de ognun".
[Dove parole e figure non sono sufficienti / il mistero abbassa ciglia e sipario / la tenebrosa paripatetica conduce / il nulla per sé tutto / l'estremo limite incognito di ognuno].
Anche qui il bilinguismo (sostenuto da una metrica rigorosa, tre endecasillabi, un settenario, un ottonario tronco) riesce ad esprimersi in forti movenze arcaico-escatologiche. Che ancora l'italiano non sa rendere: "... el gnente par sé tuto / l'estremo cao icse de ognun" - qualcosa del mille e non più mille della paura millenaristica medioevale.
Ma poco prima, in
"Forsi 'na diapetesi universale / de vita-morte se mesta in ogni omo / sgaia de saverse e ghingararse / a sfida de cosmocianceri strologhi / bidonari de carte letare man / e sensitivi variegai. La morte latente / s'inòrgana in oci scavai serchiai / incùba in luse nera 'na parodia / seca de ombrìe tra s-ciantisi bianchi / e slisseghi pargoli a bindolare / l'ilusion de vita...".
[Forse una diapesi universale / di vita-morte si mescola in ogni uomo / curiosa di sapersi ed esibirsi / a sfida di cosmologi ed astrologi / fattucchieri di carte lettere mani / e sensitivi vari. La morte latente / si struttura in occhi infossati cerchiati / incùba in luce nera una parodia / secca di ombre tra scintille bianche / e scivoli infantili ad abbindolare / l'illusione di vita...].
secondo una richiamata immaginifica intelligenza popolare si riconosce il disvalore del vivere nell'eternale connubio "de vita-morte" che già si rivela nell'esistenza di ogni individuo. Sul suo stesso volto. Comunque, ancora una volta, va notato come questa presa d'atto, in lingua italiana si attenui in un discorso 'qualunque', mentre nel padovano volgare il suono e la rappresentazione della parola-immagine dia luogo a una beffa tragica e carnascialesca insieme, degna delle folle di maschere risibili e paurose dipinte da Ensor ("... sgaia de saverse e ghingararse...", "...La morte latente / s'inòrgana in oci scavai serciai...", "... 'na parodia / seca de ombrìe..."). È evidente che, specialmente nell'ultima raccolta Giergo mortis, il volgare padovano di Ruffato si presta a rappresentazioni e sonorità verbali energicamente espressioniste (che una gestione 'vernacola' del dialetto non saprebbe assolutamente rendere), in qualche modo, alla lontana, collegate con le beffe macabre e dissacratorie del mondo universitario medioevale, che a Padova trova, non occorre dirlo, uno dei suoi luoghi privilegiati.
E poiché mai si abbandonano certe maternali e infantili dolcezze, pure riportabili alla sensibilità popolare e dialettale - anche in Giergo mortis si scoprono versi come "... in graneli de sabia in fondo al mare / un caos siolto al scuro de sagome / sòtiche de puina gelatina / dai nomi in latinorum sicosi / o filosi come coa equina / o tressa de cavei ninoli... [... in granelli di sabbia nel fondo marino / un caos liquido al buio di sagome / esotiche di ricotta e gelatina / dai nomi latini chiccosi / o filanti come cauda equina / o treccia di capelli ninnoli...] -, fra ironia, beffa e tragedia il 'volgare padovano' di Cesare Ruffato coglie - assecondata la propria genetica propensione - l'antica saggezza di una civiltà popolare (un popolo con-fuso, e unitario quindi, di 'signori', 'sapienti' e 'plebei') che si esprime in un disteso eloquio di saggezze, anche ironiche con grazia, che ci aiutano a conoscere nel "fondo", e ad accettare perciò coscientemente, l'incombenza del nostro destino.
Quindi - la sottolineatura è importante per comprendere appieno il valore complessivo di questa opera omnia in "volgare padovano" e le valenze della stessa generale poetica di Ruffato - entro le formalizzazioni alte della scansione poetica si innestano pre-testualità di amplissima e onnicomprensiva connotazione individuale e collettiva. Pre-testualità condotte dalla maestria del poiéin al gran mare del nostro destino, per l'appunto, a "l'estremo cao icse de ognun". L'eternale parabola della vita-morte-vita evolve questa globale antologia (oltre un decennio - il decennio della piena maturità del poeta e insieme della presa di coscienza di una illusione vitale che erode inesorabilmente il tempo della quotidianità, con i suoi propositi, gli affetti, le gioie, le sofferenze) in 'canti' epocali che, nell'insieme, danno vita a una sorta di interminabile poema. Un viaggio, una misura, una dismisura nella contingenza e oltre ogni contingenza che - fuor da ogni banale paragone giudiziale - rimanda ad altre peregrinazioni proprie della mitopoiesi della nostra civiltà, da Ulisse (Omero e Joyce), a Enea (Virgilio), a Dante (...Dante)... a Poliphili (Colonna)... Fra la vita e il sogno, fra la prassi della sopravvivenza e l'oltreconfine, "l'estremo cao" dove "el gnente [è] par sé tuto". Il percorso ripetuto, e anche stanco infine, fra l'andare e il riandare de "la peripatetica nera": il percorso labirintico e oscuro di ognuno. [Una disposizione alta, va detto anche qui, che l'uso vernacolare del dialetto non saprebbe rendere, a fronte, invece, della potenza espressiva di una lingua volgare dalla storia antica e dalla metamorfica costante polivalenza].
E ogni tappa, ogni 'cantica' ha i suoi protagonisti: figure, maschere o cose che siano. Parola pìrola, per esempio, risente per buona parte del respiro (e talvolta, ironicamente, anche della amorevole petulanza) della femminilità:
"...Dona xe indovinelo enigma / sorpresa el peso del deto / insaorìo de brame e segreti / combrìcola el senso imperterito / scotàndolo co la febre del sapere. / Davanti a 'sta pratica de parole / femene, a 'sti arzigogoli soranatura / me trovo labirinto imbranà / come scaltrìo da l'orlo del sublime / co ti e l'altro doto pandoli / e ne imbarassa anca el silensio / che sta drento 'na casatela stonà."
[... Donna è indovinello enigma / sorpresa il peggio del suo dire / condito di desideri e segreti / combriccola il senso imperterrito / ustionandolo con la sete del sapere. / Davanti a questa pratica di parole / femmine, a questi arzigogoli extranaturali / mi trovo labirinto imbranato / come smaliziato dall'orlo del sublime / con te e l'altro dotto pupazzi / e ci imbarazza anche il silenzio / intimo d'un formaggino casereccio stonato].
Eva, il "concetto Eva" (più volte ripetuti nei versi precedenti): fatti linguistici fortemente abbarbicati alle cose, eppure, nel loro dinamismo epigrammatico, sommovitori. Richiamano quell'ipotesi dei biolinguisti secondo i quali il processo di comunicazione si sarebbe sviluppato per via femminile (cioè trasferito dal mitocondrio, dna esclusivamente materno) dall'Eva Nera dell'Africa Orientale: origine del discorso e delle sue mutazioni. Una incostante, metamorfica disposizione femminile verso le cose minime e le loro ambigue definizioni, quali segni esemplari, "segno-come-cosa": cosicché la parola mostrerà come trottola, annebbiate dal vorticare della vita, le sue mille indefinibili facce, la sua imprendibile verità, fresca, coinvolgente, ironica e tragica: sarà la "parola polena" e la "parola malà", la "parola matita" (dalla scrittura cancellabile e desiosa d'inchiostri per durare), la "parola coi busi" (in attesa di un senso), la "parola morbin" (che "schissinosa la trema / i oci lusori come stele"), la "parola denaro" (che "se scortega anca in donare"), la "parola sigà" (urlata), la "parola sguardo" (che s'intriga nel rapporto, e i suoi manierismi, fra parola e immagine), la "parola fiaba" (ormai lontana l'innocenza antica dei bambini).... Fino al dramma della "parola droga" (che "vis-ciosa calamita stracopa l'anema" - un verso forte che racchiude paura, rabbia, impotenza, dolore). La parola, infine, come segno di verità e di menzogna, di facezia e di tragedia. La parola origine e fine delle cose, delle storie. Risorsa e condanna. Misura e dismisura. Canto e grido.
Di ciò è fatta la natura de El sabo (il sabato), giorno del riposo e della rimeditazione, ma "ramai remoto lunario" (ormai remoto lunario):
"El sabo ramai remoto lunario / scritura weekend a mesasta / co mile robe co merto e falimento / xe cambià / la neve dei balochi se sfanta prima de rivar..."
[Il sabato ormai remoto lunario / scrittura weekend a mezz'asta / con mille cose di merito o fallimento / è mutato / la neve dei balocchi si dissolve / prima di giungere...].
La parodia del "sabato del villaggio" che investe la nullità del consumistico weekend contemporaneo. L'innocenza fatta consumo, appunto. Eppure, ancora, in
"'Sto sabo caldo in Alto Adige / sonà da nuvole de riguardo / nei boschi abeti longigotici / solenni, ricordi de le carte / parlarole che ga qua partorìa / la nave per Atene..."
[Questo sabato caldo in Alto Adige / suonato da nuvole cortesi / nei boschi abeti longigotici / solenni, ricordi delle carte / loquaci che hanno qui data alla luce / la nave per Atene...]
non si sperdono del tutto le memorie dei sabati giovanili, dalle avventure scrittorie sollecitate dai paesaggi, dalle "cose", ancora: reminiscenze benefiche e vitali, tuttavia occultate nelle discrepanze del vivere d'oggi e delle ironie amare che ne ridono e ne piangono.
De I bocete, delle loro innocenze e malizie, pur esse venute da sabati, da vacanze lontane, già si è detto: le loro epifanie, le loro crescite da lattonzoli a protagonisti inconsci de "'Sto storto mondo". Su di loro si abbatte l'insipienza del presente, e in loro tuttavia si rivela il principio dell'essere. Ma fedi e violenze si scatenano sulla purezza del verbo che inesorabilmente si nega all'infanzia e alla giovinezza, slabbrando la vita che si disfà in un dramma individuale ed epocale:
"... I nostri, lindi stirai in soasa, / campioni de versi e malusai / congelai con superoto i primi / passi in bala; sofegai de robe / sensa dire bai al fastidio, / - ma la colpa - siga la mare / - xe del pare massa fiapo - / tuti do parsora come l'ojo. / 'Na matina la siora in nero / nel so iride caressava la falsa / contrita in viso de pecà, / stravanivo par cavarla via / scaldarla col fià / la ghe sta drio pnotisà".
[... I nostri, lindi stirati in cornice, / campioni di gesti e viziati / cinematografati con camera superotto i primi / passi traballanti; soffocati di cose / senza dire bai al fastidio, / - ma la colpa - grida la madre / - è del padre troppo debole - / tutti e due al di sopra come l'olio. / Una mattina la morte / nella sua iride accarezzava la falce / con volto contrito di pena, / impallidivo per sottrargliela / riscaldarla col fiato / lei la seguiva ipnotizzata].
Niente s'arresta: dalle favelas a Bagdad, all'egoismo del nostro benessere, la strage degli innocenti si perpetua. Anche con il supporto dei mass-media rivolti all'annichilimento delle coscienze. In I bocete, il testo, la cantica forse più materica e universalizzabile, il dramma individuale si fa illimitata coscienza storica. Dalla felicità del balbettio tanto inconscio quanto vivace e favolistico, alla caduta delle speranze per quell'avvenire che è la gioventù. E l'opaca memoria della propria infanzia rimane l'ultimo illusorio incanto:
"... Me cato dosso 'sti singaneti / tribolando gropo a gropo / nel su e zo de la campanela / che me scatava come l'Amelia / nostra balia suta che me cavava / dal castigo del papà. / Drento 'sta vita rugolava el triciclo / sensa gome... / ... / Nel sogno somejavo a la mama / menà da bulo cavalin / bianco sauro infiochetà".
[... Mi trovo accanto questi zingarelli / tribolando nodo a nodo / nel su e giù della campanella / che mi faceva scattare come l'Amelia / nostra balia asciutta che mi sottraeva / al castigo di papà. / Dentro questa vita rotolavano il triciclo / senza gomme... / .../ Nel sogno assomigliavo alla mamma / trasportata dal cavallino galante / bianco sauro infiocchettato].
Diaboleria molto si scandisce nella speranza in una capacità, almeno, del dire. Di costruirsi un mondo ad immagine del proprio segno, materico, profondo, biologico. Alla ricerca di un riscatto linguistico, che è la volontà di una vita finalmente prolifica di cose come idee, e di ideali semplici, puri, come ragioni per essere e per viverne l'avventura:
"El dialeto. Se prova sensa convenevoli / e co umiltà 'na capatina pèpola / sul dialeto no par delucidare / ma co la fraca de lampra passion / dei cavalieri pal tesoro del Graal...".
[Il dialetto. Si tenta senza convenevoli / e con umiltà una capatina piccola / sul dialetto non per delucidare / ma con la carica di limpida passione / dei cavalieri per il tesoro del Graal...].
Alla scoperta persino della propria corporeità, del proprio passaggio tangibile nella teoria dell'universo:
"El dialeto corporeo xe par mi / importante come la prima mimica / le statuete posturali, el rispeto / de come comportarse par fare / 'na peca virtuale a la parola / cioè el ghe entra nel pensiero / de la scritura raisa geroglifica / de la materia che crea vita / da no tocare mai...".
[Il dialetto corporeo è per me / importante come la prima mimica / gli atteggiamenti posturali, il rispetto / del comportamento per fare / uno stampo virtuale alla parola / cioè penetra nel pensiero / della scrittura radice geroglifica / della materia che crea la vita / da non toccare mai...].
Fino alla necessità di riprendere, riconquistare, attraverso la 'lengua antica e nova' la propria salda poeticità, un poco svanita nel tempo e nelle diverse ragioni dei tempi, delle famose Minusgrafie, in cui l'originaria coscienza ideologica recupera freschezze e attualità, verità d'accenti. Così dalla convinzione poetante secondo la quale: Il pensiero filosofico smanioso / guida sopra il manicomio / sul gioco rogo soffice del demonio / il pensiero camuffato dell'ultima / rivoluzione industriale, non quella / verde azzurra di campi e mari / cielo e fiumi rivolta seriamente / ad un migliore benessere dei vivi sulla terra..., si riaccende nella forma del "dialeto corporeo", e nella tragicamente immutata nozione del vivere quel
"... pensiero filosofico smanioso / [che] timona parsora el manicomio / sul zogo rogo software del demonio / el cognito camufà de l'ultima / rivoluzione industriale, no quela / verde azura de campi e mari / cielo e fiumi volta dasbòn / a un mejo stare dei vivi su la tera".
Ed espressamente in Smanie l'impegno (per usare un abusato lemma) si rivolge ai motivi di più incombente attualità:
"Do tre canali spurgai / da rogna liquami. Sità de le acque / su arzari marsi s'insùnia fonti. / Un giorno imbarca pessi morti / draga boade de fogne impongae".
Anche qui si può 'gustare' quanto il dialetto, anzi il volgare padovano, sia di ben forte espressività - anche nauseabonda! - rispetto alla dizione in lingua:
[Due tre canali puliti / da rogna liquami. Città delle acque / su argini marci sogna le fonti. / Un giorno imbarca pesci morti / draga ventate di fogne intasate].
La preoccupazione ambientale diviene occasione di una nostalgica visione della sua Padua, che sgorga in vertigini, fantasmi, sogni e sofferenze:
"... Padua spapolà / in mestieri orbi sgnaca fora / vertigini genuine, fantasmi / in biciclete, bavesèle sensi / el Parnaso qua trasvolà, vecio / parlare pedalà da la mente".
[... Padua spappolata / in problemi ciechi (emana) sgorga / vertigini originali, fantasmi / in biciclette, zeffiri sensi / il Parnaso trasvolato qui, vecchio / parlare pedalato dalla mente].
Così, di passo in passo, lungo il fiume limpido della fede nella poesia, e nella sua profonda ragione primigenia, che è la fede stessa della vita, malgrado tutto, il pellegrino si avvicina a un luogo mitico di voci e di ascolti che per l'appunto s'infiora di lingua quotidiana:
"Delirio sigàla. La voce camina su e zo parole / nunsie de poesia vestigiale / 'na ontofania precisa fantasia / leta all'indrìo ravien eco l'universo / xe un buto lesiero del corpo / che struca fora sóni e respiro / de sensi, el cuore dei fiori".
[Delirio cicala. La voce cammina su e giù parole / annunciatrici di poesia vestigiale / una ontofania precisa fantasia / letta a ritroso rinviene eco universo / è una gemma leggera del corpo / che esprime suoni e respiro / di sensi, il cuore dei fiori].
Ma dal quotidiano e oltre si articola una palingenesi forse favolistica e illusoria: tuttavia icastica nella presa di possesso della nostra presenza nel mistero fascinoso e paradossalmente tangibile e visibile - per chi lo voglia - dell'universo che ci comprende e si dona. Per chi lo voglia:
"Vose perizoma de un posso lassà / tabù vanti a snìvia scala / d'un castelo drito su scarpà / simile a balaustra dela bassa. / La vàmpola vigne, sari e colori / zonche de bambù, sagome de Dodi / supi de balene, doje de mare. / La contralto in betel sui corali, / co telo candido in vita, catapulta / spirto de pronomi e strofe a la deriva / dove ogni roba trama, se ciama / se perde da sé e ognuno / in etica empatìa se specia".
[Voce perizoma di un pozzo deserto / tabù davanti a serica scala / d'un castello eretto su scarpata / simile a balaustra di pianoro. / Lei germoglia vigne, sari a colori / giunche di bambù, sagome di Dodi / soffioni di balene, doglie del mare. / Il contralto in betel sui coralli, / con telo candido avvolto in vita, catapulta / spirito di pronomi e strofe alla deriva / dove ogni cosa trama, si chiama / si perde da sé e ognuno / in etica empatia si specchia].
Chi lo voglia, comunque, non può mai dimenticare che dovrà scoprire la luce sotto il pesante incubo, naturalissimo d'altronde, di un'ombra. Perché "Nassita e morte parole insupae / de pianto che taca e destaca / la spina del ciaro e del scuro... [Nascita e morte sono parole (inzuppate) intrise / di pianto che inseriscono e disinseriscono / la spina della luce e del buio...], cosicché ci "Perséita un nihil note che intriga / le savie vie e s'intragedia in un mondo / perso... [Persèguita un nulla notte che intriga / le sagge vie e si fa tragedia di un mondo / perduto...].
Chi voglia, perciò (per ritornare su una constatazione essenziale in questo poema del primo volgare e delle sue metamorfosi biologiche), deve prendere coscienza che la parola poetica non è uno strumento di sdilinquite nostalgie e illusioni evasive e consolatorie, bensì un'arma da affilare per un duello inevitabile fra il nulla e la volontà innata di vita. Per la conquista di quel Graal che non è poi così lontano e inaccessibile: basta cercarlo fra le cose che ci circondano nella quotidianità di un gesto, di una voce che può anche venire, e forse più facilmente viene, dal fondo del dialeto.
Col titolo Scribendi
licentia, Cesare Ruffato ha da poco raccolto in
un unico volume, pubblicato da Marsilio, le diverse
raccolte di poesia «in volgare padovano» che ha scritto
fino ad oggi: dalle prime Parola pìrola (1990),
El sabo (1991), alle più recenti Vose striga
(1990-1997) e Giergo mortis (1997). Come si
vede dalle date, quasi un decennio di lavoro dedicato,
se non esclusivamente certo in modo costante, alla
reinvenzione del «volgare». A dimostrare che tale reinvenzione
è fatta con slancio e sapienza degni dellinteresse
del lettore è sufficiente la mole stessa del volume
(più di 400 pagine) e la varietà di temi e motivi che
vi si possono individuare anche con una rapida scorsa.
Interessante, poi, in calce ad ogni pagina, è anche
la versione in italiano dei testi, eseguita dallo stesso
autore con accurata scelta lessicale (che, tra laltro,
rispetta lordine delle parole), per cui come accade
sempre in questi casi un lettore bilingue può rendersi
immediatamente conto della diversa forza con cui le
stesse immagini o gli stessi concetti possono essere
espressi a seconda della lingua usata. E, per anticipare
brevemente un giudizio complessivo, bisogna riconoscere
che Ruffato riesce a richiamare alla memoria una tale
varietà e ricchezza lessicale da rendere la sua poesia
quanto meno una preziosa testimonianza di quella parlata
dialettale che, dopo essere andata lentamente scomparendo,
è oggi da più autori ricercata e recuperata.
Entriamo allora nel merito
del volume seguendo proprio questordine di problemi,
che possiamo rendere più espliciti con alcune domande.
Per esempio: di che natura è la lingua usata da Cesare
Ruffato in queste sue costruzioni cicliche, tendenzialmente
poematiche, che compongono Scribendi licentia?
Oppure: di che natura è loperazione linguistica compiuta
dal poeta? I poeti che scrivono in dialetto coniugano,
verosimilmente, lamore per questa lingua col desiderio
(o limpegno) di ridarle vita e renderla in qualche
modo nuovamente attuale, se non altro per il tesoro
di forme che essa custodisce. Partono dal presupposto
che, a fronte di un italiano ormai frusto e stiracchiato,
il dialetto conservi nelle sue radici una forza poetante.
Apparentemente in modo non diverso, Ruffato scorge
nel dialetto «'na religion da ereditare» (p. 168) e,
tuttavia, già questa espressione ci schiude un orizzonte
affatto nuovo di pensiero. Infatti, nella prospettiva
indicata da questo verso, non si tratta tanto di restaurare
un vernacolo, o una lingua popolare: nella prospettiva
del restauro ogni tentativo dialettale ha già perduto
la sua scommessa. Non di recupero, dunque, parla Ruffato,
ma di eredità: non si tratta di recuperare il dialetto,
ma di ereditare la lingua dei nostri padri che è quel
complesso processo linguistico che dal latino ha prodotto
i vari dialetti, con le loro infinite varietà locali.
È vero quel che scrive
il poeta: «La prima fiata che me son catà / nel dialeto
xe sta la vose de mama», e nella prospettiva di una
religione da ereditare, il dialetto diventa un frutto
spirituale che può essere strappato dalloblio e dalla
caduta soltanto a partire da unelezione. Richiede
che una persona, un poeta, sia in grado di elevarlo
a oggetto del proprio piacere e coltivarlo come proprio
beneficio. Richiede, insomma, che un artista, ritrovandovisi,
sappia elevarlo alla dignità di lingua. Ne deriva che
donarsi alle sorti del dialetto non è soltanto unesperienza
tra tante, ma unesperienza di vita. Forse proprio
per indicare unesperienza di questo tipo troviamo
come sottotitolo al volume di Ruffato: «Poesia in volgare
padovano». Luso della parola «volgare» al posto di
«dialetto» (oggi infatti si parla per lo più di poesia
«in dialetto») è significativo, se non altro perché
rimanda alle origini dellitaliano e, appunto, ai «padri»
di questa lingua. E tra tutti, in Diaboleria
(1993), poco dopo il passo riportato (ma anche altrove),
viene citato proprio Dante, con queste parole:
El finfa proprio in sercio streto
endofasia de na perla sfinia
el se frua spiera per endofagia.
Sta passion tien vivo el conceto
vocale famoso a u (v) i e o de Dante.
"Frigna proprio in cerchio stretto / endofasia di una perla sfinita / si consuma lama di luce per endofagia. / Questa passione mantiene vivo il concetto / vocale famoso a u (v) i e o di Dante".
Par di capire, allora,
che lottica nella quale lavora Cesare Ruffato è quella
di guardare al dialetto (ai dialetti) come ad una lingua
che, conservatasi (forse proprio in quanto dimenticata)
ancora sostanzialmente integra, diventa il punto di
partenza non tanto per riformare litaliano, ma per
forgiare un nuovo volgare, la lingua del prossimo evo.
Rigorosamente coerente
con questo assunto, il volgare di Ruffato non è il
dialetto che evoca, con un misto di malinconia e di
fatalismo, una civiltà ormai trascorsa (la civiltà
contadina), i suoi paesaggi e i suoi valori. Niente
di tutto questo in Scribendi licentia, neppure
là dove sembrano affiorare personaggi o luoghi di quel
mondo. Il volgare di Ruffato è piuttosto un impasto
primordiale chiamato a cantare gli aspetti più diversi
della vita; è una lingua, in cui confluiscono diverse
lingue (il latino e il greco; litaliano anche nei
più arditi neologismi; il francese e altro ancora),
chiamata a confrontarsi con tutti i temi possibili
e ad uscirne vincitrice. Valga, come esempio, un brano
poetico tratto dalla stessa raccolta:
Sto dialeto da sora pare forse
na machineta da foto infrarossi
scalon dei colori puntilioso
permaloso ciak dei atimi de polpa
de paca dresfai, spumantina danseuse
sui sòcoli trampoli savatele
recioto un tantin agrodolse, forse
na janua coeli o ciara stela
vose panoramica universale
de salmi, togarìa sgrisolona
de la materia primobùto, forse
na lengua materna che viaja
da le vissere a la metafora
un tesoro de luce fogo acqua aria
e sostanse che ne dà vita. O tochi
de carbon ne la calsa de la striga.
"Questo dialetto dallalto sembra forse / una machinetta da foto a raggi infrarossi / scalone dei colori puntiglioso / permaloso ciak di istantanee di sostanza / rapidamente disfatte, effervescente danzatrice / sugli zoccoli, trampoli, ciabattine / recioto un pochino agrodolce, forse / una janua coeli o chiara stella / voce panoramica universale / di salmi, attrazione brividante / della materia primigenia, forse / una lingua materna che viaggia / dalle viscere alla metafora / un tesoro di luce fuoco acqua aria / e sostanze che ci danno vita. O pezzi / di carbone nella calza della strega".
Sembra quasi che sia proprio
per mettere alla prova questo suo nuovo strumento che
il poeta tocca i motivi più diversi, dalla rappresentazione
del paesaggio primaverile alla meditazione filosofica;
dalla descrizione scientifica allevocazione degli
affetti familiari. Non mancano neppure poesie in cui
la lingua viene mobilitata a cimentarsi con temi desunti
da discipline moderne come la psicanalisi, la sociologia
o la linguistica. E bisogna ammettere una cosa che
alla fine desta un poco di stupore: sembra che il volgare
di Ruffato non si trovi mai in difficoltà ad esprimersi
in registri così differenti. Una lingua, il dialetto,
che a causa delle condizioni storiche in cui si è sviluppata
sembra pronta a muoversi in un ristretto orizzonte
di temi e registri, si rivela invece duttile e versatile
in questa nuova combinazione che abbatte ogni preconcetta
divisione linguistica. Il dialetto padovano diventa
«volgare padovano» proprio grazie allopera del poeta
che riesce a creare nuovi vocaboli, forgiare nuove
forme, suggerire possibilità inaspettate; il volgare
padovano assume in questo modo la dignità di lingua.
Alcuni sostengono che il
dialetto restituisce una riserva inestimabile e preziosa
per dare nuovo vigore alla lingua nazionale. Ma poi,
a ben guardare, non molto è stato fatto in questa direzione
dagli scrittori, che preferiscono per lo più inserire
nei loro testi espressioni tratte dal parlato piuttosto
che italianizzare vere e proprie espressioni dialettali.
Altri guardano al dialetto come a un valore in sé,
da custodire e difendere. Ma così i poeti dialettali
si sono diretti, in genere, verso unimprobabile operazione
archeologica: il recupero duna lingua che ormai esiste
soltanto come lacerto o frammento. Il risultato è che
poesia in italiano e poesia in dialetto procedono come
due filoni espressivi ben separati luno dallaltro.
Come si capisce, Ruffato ribalta questa impostazione:
il suo «volgare» ha il potere duna calamita. Attrae
nella sua orbita non soltanto, come si è detto, altre
lingue, ma prima di tutto la lingua italiana. Numerose
sono le parole italiane dialettizzate, e non soltanto
quelle specifiche di alcuni linguaggi tecnici e che,
quindi, non possono avere alcun corrispondente nel
dialetto. Insomma, capita che il poeta si avvalga della
stessa tecnica che usa il parlante, quella cioè di
ridurre e plasmare nelle forme del suo particolare
linguaggio ogni nuovo termine, ogni nuova parola. Ecco
allora perché, come scrive giustamente lautore, la
lingua di queste poesie non è dialetto se per dialetto
intendiamo una lingua di cui oggi è possibile soltanto
il recupero , ma, appunto, volgare, cioè una lingua
che ha forti legami col parlato ed è quindi capace
di trasformarsi e rinnovarsi di continuo, benché si
fondi su una tessitura dialettale che sicuramente recupera
molti termini oggi dimenticati.
Succede a volte, nella
lettura, di provare una sorta di straniamento. Ci troviamo
daccordo nellapprezzare lefficacia di tante parole
dialettali, ma poiché il dialetto è stato declassato
a seconda lingua, i suoi termini non mancano dapparirci
espressione dun sermo humilis. Ora, questi
stessi termini quando sono usati dal poeta per esprimere
riflessioni filosofiche o morali, rimandano al lettore
una sensazione curiosa: ci si chiede se non irrompa
improvvisamente nel testo una sfumatura ironica o comica.
Ecco, per esempio, un brano tratto dai Bocete
(1992):
Se i magna poco cicin o male
i se storpia, stue intasae
no i tira più, boficini sbassai
panseta da rana pele seca
oci in fora sbiadii
infame documento dei lager.
I nostri, lindi stirai in soasa,
campioni de versi e malusai
congelai co superoto i primi
passi in bala; sofegai de robe
sensa dire bai al fastidio,
- ma la colpa - siga la mare
- xe del pare massa fiapo
tuti do parsora come lojo.
Na matina la siora in nero
nel so iride caressava la falsa
contrita in viso de pecà,
stravanivo par cavarla via
scaldarla col fià
la ghe stava drio pnotisà.
"Se mangiano poca carne o male / si storpiano, stufe intasate / non tirano più, culetti abbassati / pancina batraciana pelle secca / occhi sporgenti sbiaditi / infame documento lager. / I nostri, lindi stirati in cornice, / campioni di gesti e viziati / cinematografati con camera superotto i primi / passi traballanti; soffocati di cose / senza dire bai al fastidio, / ma la colpa grida la madre / è del padre troppo debole / tutti e due al di sopra come lolio. / Una mattina la morte / nella sua iride accarezzava la falce / con volto contrito di pena, / impallidivo per sottrargliela / riscaldarla col fiato / lei la seguiva ipnotizzata".
Ad un lettore che conosca
il dialetto usato dal poeta, ma parli di solito litaliano
(riservando quella lingua ad un contesto espressivo
o confidenziale), termini quali «cicin» (tratto dal
linguaggio petèl) o similitudini del tipo «panseta
de rana» (ma si possono trovare nel testo altri esempi
simili) non mancheranno di far pensare lì per lì ad
un registro «comico». Eppure levocazione dei lager
(o in unaltra poesia laccenno alla strage degli innocenti,
allidea dei quarantamila bambini che muoiono di fame
ogni giorno) oppure limmagine della morte che accarezza
la falce non lasciano dubbi sul fatto che il poeta
parla seriamente. Non cè comicità o scherzo nelle
sue parole. E che sia proprio così, lo dimostra non
soltanto tutta la versione in italiano, ma, in particolare
per esempio, la scelta di riportare «panseta da rana»
in termini tecnico-scientifici: «pancina batraciana».
Allora, se qui uso il termine
«comico» non lo faccio a caso: con esso faccio riferimento
alla Commedia dantesca. Questa deriva il suo
nome proprio dalla scelta programmatica di usare un
sermo humilis, che, nellepoca in cui veniva
scritta, era appunto il volgare. Ora non è escluso
che nei lettori medioevali colti e abituati al latino,
luso del volgare per esprimere concetti filosofici
o teologici non finisse per suscitare quegli effetti
di straniamento di cui ho parlato e che per noi lettori
moderni sono sicuramente superati, perché le parole
usate da Dante hanno perso la loro valenza «comica»
di derivazione humilis. Questo riferimento ad
un testo delle origini della lingua italiana risulta
assai importante per capire come debba allora essere
inteso e percepito il linguaggio di Scribendi licentia:
nel leggere il libro è necessario far riferimento ad
una sorta di grado zero della scrittura, e cercare
di interpretare le parole usate dal poeta per il loro
più schietto valore referenziale. In altri termini,
se si vuole capire fino in fondo la natura e il valore
dellopera di Ruffato, le parole che egli usa non devono
essere sovraccaricate di quel valore supplementare,
allusivo ed evocativo, che ci deriva per lo più dalluso
che facciamo del dialetto come lingua dellimmediatezza
espressiva, con la quale talvolta vogliamo manifestare
di proposito una certa grossolanità e rozzezza.
Poiché, dunque, nella scrittura
di Ruffato intervengono istanze tali da costituire
una trama e un ordito assai complessi, non è strano
che lopera di questo poeta abbia già suscitato linteresse
dei linguisti: proprio per studiarla è stato recentemente
promosso un convegno dal Dipartimento di Italianistica
dellUniversità di Padova. Un motivo ulteriore, questo,
per leggere con più attenzione il volume appena pubblicato
e guardare con curiosità alle prossime opere del poeta.
1. Le variabili morfo-lessicali e gli Indicatori Globali del Codice Elaborato di Ruffato
Se dovessimo verificare
le caratteristiche sociolinguistiche del Codice
Elaborato del Ruffato poeta dialettale non potremmo
che segnalarle in questi sei punti:
1) la frase è breve, ma
la sua semplicità è soggetta a un accurato ordine grammaticale;
2) l'uso delle congiunzioni
è semplice e ripetuto, ma c'è anche un frequente uso
di proposizioni che indicano relazioni più complesse;
3) c'è un uso ripetuto
di pronomi impersonali;
4) una selezione discriminativa
tra una serie di aggettivi e avverbi;
5) il simbolismo espressivo,
nel fornire un supporto affettivo a ciò che si dice,
ha un ordine di astrazione piuttosto alto;
6) l'uso linguistico punta
alle possibilità inerenti ad una complessa gerarchia
concettuale.
Che sono una sintesi
delle 18 caratteristiche di cui riferiva il sociolinguista
inglese Basil Bernstein nel saggio A public language:
some sociological implications of a linguistic form:
dieci punti attengono alle caratteristiche del cosiddetto
Codice Ristretto, il "linguaggio pubblico" in
uso presso la working class e otto punti attengono
alle caratteristiche del Codice Elaborato, il
"linguaggio formale" in uso presso la middle class.
Ora, io voglio ricordare
che, a un certo punto della biografia di Cesare Ruffato,
la forma soggettiva del poeta si è fatta meno ermeneutica,
tanto che, di pari passo, l'immaginario, fattosi meno
rigido e meno formalizzato, divenne più corto:
quando l'immaginario si fa più corto vuol dire che
ha perso un po' del ditematico, e significa
anche che quella vertigine, a cui il lettore sospende
la sua alea, è meno ambigua, al punto che il senso
sembra che non si sposti ma che scivoli, o voli via.
Se è il Tu che
si fa misura del soggetto ermeneutico, quando la forma
soggettiva comincia a contemplare gli altri,
grosso modo a partire da Prima durante dopo,
l'espressione lessicale del linguaggio tecnico del
corpo muta registro, allora "la connotazione tocca
il sintagma e il sintagma è più felice, come se corresse
sulla pista di un sistema verbale a corta distanza".
Questo è il 2° Stile
di Ruffato, lo Stile B: che si differenzia dal
1° Stile di Ruffato, lo Stile A, quello
di Caro ibrido amore, Minusgrafie,
Parola bambola, quando la sensorialità del poeta
non era gestita dal tempo del proprio habitat ma dal
tempo dell'habitat dell'altro, ragione per cuio
lo spostamento continuo dell'ossessione del Codice
Elaborato, con un sintagma dietro l'altro, caricava
di affettività sociale la scrittura.
Se si va ad analizzare
quello che sto chiamando Stile A, mettiamo,
con qualcuna delle 90 variabili linguistiche che alcuni
sociolinguisti, basandosi sulla Grammatica italiana
descrittiva di Regula e Jernej, scelsero come indici
per verificare la differenza tra "Codice Ristretto"
e "Codice Elaborato", si possono usare molte delle
32 variabili morfo-lessicali, ad esempio il Totale
Sostantivi, i Sostantivi Differenti, il Totale Aggettivi,
gli Aggettivi Differenti, gli Aggettivi Qualificativi,
gli Aggettivi Qualificativi Differenti, il Totale Avverbi,
gli Avverbi Differenti, il Totale Verbi, i Verbi Differenti,
il Rapporto Verbi/Aggettivi, il Rapporto Verbi/Sostantivi,
il Type token (che è il rapporto tipo/ricorrenza applicato
alla somma di sostantivi, aggettivi, verbi ed avverbi
differenti, divisa per la somma dei rispettivi totali),
i Modi della realtà Semplici, i Modi Infiniti, la Diatesi
Attiva, la Diatesi Passiva, il Rapporto Verbi Passivi/Totale
Verbi, le Congiunzioni Coordinative, le Congiunzioni
Subordinative, il Totale Congiunzioni, le Preposizioni
Improprie, gli Elementi Radicali (Lessemi), gli Elementi
radicali più Elementi Flessionali, i Sostantivi Derivati.
Lo Stile A di
Cesare Ruffato, in poche parole, ricco di molte di
queste variabili, si correla positivamente con lo status
alto e, quindi, con le caratteristiche del "Codice
Elaborato" descritto da Basil Bernstein: che non vi
venga in mente di pensare all'esame delle variabili
sintattiche (Proposizioni principali, coordinate, subordinate
di 1°, 2° e 3° ordine, Indice di Loban, Indice di Lawton,
Proposizioni esplicite, temporali, consecutive), e
che, invece, vi venga l'uzzolo di sostituire le variabili
del 3° gruppo, indicate dai sociolinguisti bernsteniani
come Indici delle incertezze e degli errori nell'uso
della lingua, con gli Indicatori Globali che Abraham
A. Moles usa per analizzare l'immagine e/o lo schema
e che caratterizzano anche la morfologia e la connessa
retorica del testo poetico: il tasso di Iconicità,
dell'immagine, corrisponde al tasso di Intellegibilità
del testo; il tasso della Complessità è identico; la
Pregnanza dell'immagine corrisponde all'entimema e
al ruolo delle ellissi; alla combinatoria i procedimenti
retorici; al tasso di Polisemia il tasso di Ambiguità;
alla carica connotativa il rapporto denotativo/connotativo.
2. Lo Stile A e lo Stile B: codici di Bernstein e Indicatori Globali di Moles
Lo Stile B di
Cesare Ruffato comincia a correlarsi positivamente
con lo status del "Codice Ristretto" descritto da Basil
Bernstein: questo 2° Stile perde "complementi
e ombre, è più immediato", l'esserci, ritrovando
la connessione primaria tra Identità di Percezione
e Identità di Pensiero, si avventura nell'altro
e, come tocca l'identico e l'impossibile, conosce,
vive e narra; insomma, registra informazioni e misura.
Questo Stile B nasce come Prima durante dopo
e corrisponde a quello che ho chiamato testo-punctum:
"ha una certa instabilità visiva, come se cercasse
di costituire una Paarung accarezzando l'altro.
Carezza il mondo che c'è e si allontana, carezza il,reale
che è il Dasein di chi scrive, carezza l'immaginario
ditematico del suo esserci".
Prima dello Stile
B c'era lo Stile A, che dura fino a Parola
bambola, e che è quello del sintagma vestito,
quello che ancor prima ho chiamato testo ditematico:
"ed è questo linguaggio ditematico che sospende l'alea
del lettore a una vertigine da sostituire solo con
il silenzio o il bianco della pagina. Il testo di Ruffato
è fatto di un linguaggio misto che lo pervade di ambiguità
sistematica".
Prima di svelarvi il
mistero del perché mi sia riferito alla sociolinguistica
di Bernstein, che è della fine degli anni cinquanta
e dell'inizio degli anni sessanta ma che è anche elaborata
da altri studiosi per tutti gli anni settanta, differenziamo
i due stili di Cesare Ruffato, non con le 32 variabili
morfo-lessicali né con le 35 variabili sintattiche,
ma, semplicemente, con gli Indicatori Globali di Abraham
A. Moles, che è un modo per rendere più iconica la
poesia, che, essendo così astratta e contrapponendo
il valore letterario al valore estetico dell'immagine
e dello schema, avrebbe bisogno di essere analizzata
con strumenti usati di solito per l'altro medium al
fine di ottenere almeno un terzo del potenziale di
fascinazione dell'immagine ad alto valore estetico.
TAVOLA A Gli Indicatori Globali nello Stile A e nello Stile B di Cesare Ruffato
Stile |
Testo |
Iconicità
|
Complessità
|
Polisemìa
| Pregnanza | Rapporto denotativo
connotativo |
Bernstein |
1°
STILE:
Stile
A | TESTO-DITEMATICO
1974-1983
|
-= | + | X | -= | = | Codice Elaborato: =+ |
2°
STILE:
Stile
B | TESTO-PUNCTUM
1989
|
=+ | = | = | =+ | + | Codice Ristretto: =+ |
-= TASSO NEGATIVO. Il tasso evidente dell'Indicatore è insufficiente perché nello stile adottato non conta. Ma è insufficiente anche perché è ALTO, o EVIDENTE, il tasso dell'Indicatore complementare; per esempio: -= in Iconicità ! X in Polisemìa; -= in Pregnanza ! + in Complessità.
= TASSO SUFFICIENTE, POSITIVO.
=+ TASSO PIÙ CHE POSITIVO.
+ TASSO ALTO.
x TASSO ALTISSIMO. Da solo questo Indicatore, in presenza di almeno due effetti insufficienti in altri Indicatori, può essere la chiave dello stile del poeta.
Nello Stile A,
il campo simbolico, occupato dall'autore in quanto
attore della performance, allunga sintagmi e sensi,
tanto che non si riesce a capire se è il corpo, ispezionato
da se stesso, che parla o parla con il suo occhio particolare.
Il Codice Elaborato
non contiene l'inesprimibile, e perciò questo non può
farsi pensosità. Piuttosto con questo Codice
Elaborato il poeta scrive il ditematico che,
non essendo più orale, affronta il senso del paradosso.
Le variabili morfo-lessicali
correlano positivamente la non-univocità che
curva ogni enunciato: l'alto tasso di Polisemia, parallelo
al buon tasso di Complessità, dà valore letterario
al testo, anche in presenza di un rapporto denotativo/connotativo
non tanto esplosivo, proprio in ragione della specificità
del Codice Elaborato.
Nello Stile B,
il testo-punctum effettua una collusione tra
percezione e durata, si dà misura inventando un tema
che viene svolto rendendo complici o reversibili l'altro
e il narcisismo cosmico.
Tra la parabola dell'ego
e l'iperbole dell'altro, la forma soggettiva
del poeta verifica, da questo momento, le pertinenze
dell'immaginario per costruirsi un equilibrio che gli
permetta di riconoscere nella verticalità dell'infinito
le ossessioni della propria biografia.
Il Codice ristretto
comincia ad assottigliare la ridondanza e fa intravedere
una certa stabilità: difatti, la Complessità si "normalizza",
l'Iconicità si innalza, l'ambiguità sistematica si
rarefà, il rapporto tra denotazione e connotazione
è più intellegibile come se la scrittura fosse più
attiva e potente: "la connotazione tocca il
sintagma e il sintagma è più felice, come se corresse
sulla pista di un sistema verbale a corta distanza".
Diminuisce il rapporto
Verbi/Sostantivi e Verbi/Aggettivi: l'Identità di Percezione,
avendo meno tempo a disposizione, non insiste con gli
accumuli nominali e la metafora più dolce e docile,
cullando l'oralità del poeta, ne allontana inquietudini
e ansie.
3. Lo stile della prosperità, lo stile della contemplazione e l'idioletto del corpo.
Se il tasso degli Indicatori
Denotativi (= Intelligibilità e Pregnanza) dello Stile
B è più alto del tasso degli Indicatori Denotativi
dello Stile A, vuol dire che, nel Codice Ristretto,
la correlazione positiva nel settore morfo-lessicale
interessa più che altro il rapporto Verbi/Aggettivi,
le Congiunzioni Coordinative e Subordinative, e le
Preposizioni Improprie.
Specularmente, il tasso
degli Indicatori Connotativi (= Complessità e Ambiguità)
subisce una riduzione non indifferente rispetto al
tasso degli Indicatori Connotativi funzionale nello
Stile A.
"Nei testi di Prima
durante dopo e di Trasparenze luminose,
il tempo non ha più l'esplosione luminosa dell'infinito,
ma la serenità del vento che soffia sulla terra,
che è l'immagine della contemplazione nell'esagramma
KUANN dell'I Ching: adesso il vento giunge dappertutto
e mostra tutto, il 'nove all'ultimo posto' significa
proprio: contemplare gli altri".
Il Vento sulla Terra
dell'esegramma 20
ha, in alto, il 9 al sesto
posto e, in basso, il 6 al primo posto: l'intelligibilità
del verso, riducendo l'ermeneutica della forma soggettiva,
facilita la contemplazione del corso della propria
vita, che è il 9 al quinto posto e che, nella Tavola
A, è il tasso = della Complessità; il Codice Ristretto
=+, che è il 6 al primo posto, permette di osservare
le cose alla maniera dell'Identità di Percezione del
poeta-ragazzo, ma con tutta la potenzialità dell'Identità
di Pensiero radicata dal 6 al quarto posto (che è =
in Ambiguità), dal 6 al terzo posto (=+ in Pregnanza)
e dal 6 al secondo posto (+ in Carica Connotativa):
dallo studio del Dasein alla contemplazione
della propria vita come se spiasse dal battente socchiuso
della porta dell'Identità di Pensiero.
V
E
6° %%%%% Intelligibilità
N
5° %%%%% Complessità
T
4° %% %% Ambiguità
O T
3° %% %% Pregnanza
E
2° %% %% Carica connotativa
R
1° %% %% Codice Ristretto
R
A
Nel testo-ditematico,
l'esagramma dell'I Ching è il 55, FONG, l'immagine
dell'abbondante prosperità, il Tuono sul Fuoco in cui,
al primo posto, c'è il 9 che serve a far risaltare
la prosperità dello stile, specchio del 6 all'ultimo
posto, quando lo stile ditematico con cui guarda dall'alto
della sua superba Polisemia coglie il silenzio del
Dasein: come se l'esserci così prospero scoprisse,
nell'iperbole dell'ego, l'assenza dell'altro, il contatto
impossibile con il tu.
T
U
6° %% %% Intelligibilità
O
5° %% %% Complessità
N
4° %%%%% Ambiguità
O F
3° %%%%% Pregnanza
U
2° %% %% Carica connotativa
O
1° %%%%% Codice elaborato
C
O
Il Tuono sul Fuoco ha
uno stile poco iconico e intelligibile al 6° posto,
le metafore complesse al 5° posto, l'ambiguità sistematica
al 4° posto, tutti elementi connotativi eccitanti illuminati
dal fuoco della Pregnanza insufficiente al 3° posto,
del rapporto denotazione/connotazione positivo al 2°
posto e dell'elevato Codice Elaborato al 1° posto.
L'esagramma della grande
abbondanza: il trigramma che rappresenta movimento
(il Tuono) è unito a quello che rappresenta splendore
(il Fuoco). Quindi il poeta raggiunge tale stadio delle
forme in modo che lo splendore illumini tutte le cose
sotto il cielo. Quando il sole raggiunge lo zenit comincia
a declinare, così il poeta, dapprima, ha lo stile vigoroso
e abbondante (lo Stile A), poi, se non vuole che sia
lento e scarso o che dalla dilatazione non passi alla
contrazione, lascia l'abbondanza e sceglie la contemplazione,
dai trigrammi del Tuono e del Fuoco passa ai trigrammi
del Vento e della Terra, della docilità e della flessibilità,
così che, dall'alto della sua Identità di Pensiero,
possa contemplare tutto ciò che accade nel mondo sottostante:
adotta, perciò, lo stile della contemplazione (lo Stile
B) in attesa che la docilità e la passività della Terra
e del Vento, riesumando il Dasein della crescita,
non ne rammentino la permanenza adottando lo
Stile C, quello dell'idioletto del corpo. "La
'lingua del corpo' non esiste più, diventa l' idioletto
del corpo perché il tempo non è più verticale ma
ha l'orizzonte di un Dasein riconoscibile, non
più sistematicamente ambiguo (la differenza dell'economia
dell'altro è il reale impossibile) ma sistematicamente
discorsivo":
El dialeto corporeo xe par mi
importante come la prima mimica
le statuete posturali, el rispeto
de come comportarse par fare
'na peca virtuale a la parola
cioè el ghe entra nel pensiero
de la scritura raisa geroglifica
de la materia che crea vita
da no tocare mai. Me ricordo
co go detà mama i oh toh beh
e brassi sclamativi gheto sentio
e ninin nel specio de la lengua
invento d'imamarme ( )
4. Lo stile del narcisismo cosmico, la serenità e le figure dell'espressione
Così Ruffato si fa poeta dialettale perché, finalmente, scoprendo la presenza del tu, può, in un certo senso, abbandonare la finzione che ha penetrato la coscienza e il corpo, anche se
'Sto dialeto da sora pare forse
'na machineta da foto infrarossi
scalon dei colori puntilioso
permaloso ciak dei atimi de polpa
de paca dresfai, spumantina danseuse
sui sòcoli trampoli savatele
recioto un tantin agrodolse, forse
'na jauna coeli o ciara stela
vose panoramica universale
de salmi, togarìa sgrisolona
de la materia primobùto, forse
'na lengua materna che viaja
da le vissere a la metafora ( )
Con lo Stile C, Ruffato, dopo aver progressivamente svestito il sintagma, accorciato il senso e addolcito la metafora con lo Stile B, adesso parla e scrive la stessa lingua di prima, "la prima fiata che me so catà nel dialeto xe sta la vose de mama", cercando, nel narcisismo cosmico del proprio Dasein, il contatto impossibile: lo specchio, in cui l'io e l'altro, pur vedendosi, non possono toccare la rispettiva parabola e iperbole.
TAVOLA B I tre stili di Cesare Ruffato: Codice, Paarung, Immagine e Identità di Percezione
Stile |
Testo | Paarung | Immagine |
Identità
di percezione (=S)
vs
|
STILE
A | TESTO-
DITEMATICO
Codice Elaborato
| L'ABBONDANTE PROSPERITÀ | P )" S |
STILE
B | TESTO-PUNCTUM
Codice Ristretto
| Denudato come Parabola dell'Ego/Palpeggiato come Iperbole dell'Altro | LA CONTEMPLAZIONE | S U P |
STILE
C | IDIOLETTO
CORPOREO
Codice Elaborato Ristretto
| L'Iperbole dell'Ego riconosce, nella distanza e nel silenzio, la Parabola dell'Altro | L'IMMOBILITÀ
vs
| Narcisismo Cosmico |
U = connette
)" = sconnette
TAVOLA C L'idioletto corporeo, gli Indicatori Globali e l'I Ching per il lettore dello stesso Dasein del Poeta e per il lettore nazionale
Per
il lettore del proprio Dasein | Per il lettore nazionale | I Ching per l'autore |
I Ching per il lettore |
Iconicità + | Iconicità + | |
|
Complessità -= | Complessità =+ |
| |
Polisemia - | Polisemia =+ |
| |
Pregnanza + | Pregnanza =+ |
| |
Denotativo/Connotativo X | Denotativo/Connotativo = |
| |
Bernstein
Codice Ristretto X | Bernstein
Codice Elaborato Ristretto +X |
| |
23.PO
L'Immobilità |
58.TUI
La gioia |
5. La poesia dialettale connessa al Dasein e la diacronìa del 3° stile di Ruffato
Ho scritto che la poesia
dialettale ha una proprietà specifica: produrre discorsi,
in quanto, come dice Robert Escarpit, è il linguaggio
orale che produce discorsi mentre la scrittura produce
testi: "Limitato al canale orale, il discorso è un
flusso di significati con un ordine cronologico irreversibile:
ha una durata ma non ha una permanenza, che costituisce,
invece, il carattere principale del testo. Il testo
della poesia dialettale manca di permanenza, ma non
di stabilità anche perché quest'ultima le è disposta
dalla memoria: e grazie alla memoria è possibile che
la poesia in dialetto perda un'altra delle caratteristiche
del linguaggio orale, la ridondanza. La ridodanza,
dice Robert Escarpit, è una caratteristica del linguaggio
orale e del discorso, il quale non consente di tornare
indietro né di verificare a posteriori e perciò deve
ripetere più volte il messaggio per evitare errori".
La poesia dialettale,
che io intendo connessa al Dasein del poeta
con un Codice Ristretto sempre in uso, sembra che si
strutturi come una novella in versi: ballata
moderna o romanza, che narra o documenta vicende patetico-eroiche
ma con un contenuto eminentemente morale o religioso.
Novella in versi che è ballata moderna ma che è anche
cantica: in essa la funzione discorsiva
pone una concatenazione cronologica irreversibile;
mentre la funzione documentaria toglie schiuma
alla ridondanza semantica.
Come ho già scritto,
c'è una correlazione tra la scrittura della poesia
dialettale e quella del racconto: una sorta di macro-struttura
narrativa che contiene, per motore, le cinque funzioni
di Isenberg: 1) SITUAZIONE INIZIALE 2) COMPLICAZIONE
3) AZIONE O VALUTAZIONE 4) RISOLUZIONE 5) MORALE O
CONCLUSIONE.
La poesia dialettale
contemporanea, non essendo connessa naturalmente al
Dasein del poeta o all'habitat del locutore,
perché non parla più quel Codice Ristretto che è il
dialetto di una comunità (o, perlomeno, non lo ha usato
per il suo farsi poeta), non è mai una novella in versi,
né una romanza, né una cantica e, perciò, non è soggetta
alle costrizioni logiche e pragmatiche della Macro-Struttura
Narrativa di Isenberg.
Non avendo più predicati
narrativi, proposizioni che combinino il paradigma
con un attante, sequenze come suite di proposizioni,
il testo della poesia in dialetto non è una combinazione
di sequenze.
È un testo che combina
la situazione del poeta con la morale della sua biografia:
è un testo che è sempre specchio della sua metafora
che conclude la situazione iniziale della sua biografia.
Sembra che non essendoci
più oralità, o testo che eventualmente riproduca un
discorso orale, l'oralità, non potendo recuperare il
proprio linguaggio orale la prima fiata che me
so catà nel dialeto riassume la vose de mama
"no par delucidare ma co la fraca de lampra passion
dei cavalieri pal tesoro del Graal: 'sta raisa etimologica
dia-legomai xe maniera de parlare d'ogni omo
co termini afiliai sgarugiai nei bocabolari invita
a nosse per analogie e metafore".
D'altra parte: "co penso
al dialeto a fortiori me pìgola in mente un castelo
coi merli ponte alsatoio el gran corteo servitosùo
de dame e tortorele che pìssega i balconi de bele morose
co giugiola nel servèlo del principe azuro".
L'oralità, al centro
della dialettica degli oggetti "buoni" e "cattivi",
fa sempre intendere che, essendoci la scissione dell'oggetto,
pulsi all'infinito, col suo carattere irriducibile
dall'origine dell'esistenza dell'individuo, l'ambivalenza.
L'oggetto reale, su
cui la poesia dialettale sincronica sembra che non
investa alcuna pulsione e che, pertanto, non lo alieni
con nessuna istanza immaginaria o, quanto meno, fantasmatica,
non viene scisso nel discorso orale.
L'oggetto reale (il
seno) è, però e sempre, il primo oggetto che viene
scisso (se è "buono", esterno e interno, diventa il
prototipo di tutti gli oggetti benefici e soddisfacitori;
se "cattivo" è il prototipo di tutti gli oggetti persecutori
esterni e interni, dice Melanie Klein, in Alcune
conclusioni teoriche sulla vita emotiva del bambino
,
in Scritti 1921-1958, trad.it. Boringhieri,
Torino, 1978), nella poesia dialettale diacronica,
essendo fantasmaticamente dotato di poteri simili a
quelli di una persona, è sempre dinanzi all'immagine
del bambino (o del poeta) nello specchio: l'oralità,
in quanto verbalizzazione contestuale sull'oggetto
reale, buono o cattivo che sia, diventa, per l'oralità
del poeta, l'oggetto totale, prima che sia scisso per
difendersi contro l'angoscia. La relazione speculare,
che sottende l'esagramma della Gioia con il Lust
(cfr.nota 30), per far sì che possa essere operativa,
richiede, in ogni caso, un ripiegamento sull'Io della
libido, che, va da sé, o: 1) deve essere sottratta
ai suoi investimenti oggettuali o: 2) deve reinvestire
gli oggetti con tutta l'oralità del Lust-Ich
(= Io-piacere). Come vedete, quando la Biografia ha
un ingorgo della libido, per uscirne la potenzia, non
solo perché la Libido ha più una potenzialità quantitativa
che qualitativa ma anche perché, quando è ferito
il narcisismo primario, ci si rivede allo specchio
e la libido che fa sul poeta è narcisismo primario
e il reinvestimento del Lust-Ich è narcisismo
secondario.
TAVOLA D Poesia dialettale sincronica e Poesia dialettale diacronica: macrostruttura, linguaggio, procedimenti metaforici, immagine, uso situazionale
Funzioni e regole | POESIA DIALETTALE connessa al Dasein del Poeta |
POESIA DIALETTALE non connessa sincronicamente al Dasein del Poeta |
Codice | CODICE RISTRETTO = dialetto in uso | CODICE ELABORATO (o Lingua) che viene sostituito ma che connette, con la sua morfo-sintassi, la riassunzione del Codice Ristretto (o Dialetto in uso) |
Macrostruttura Narrativa | LE 5 FUNZIONI DI ISENBERG | NO |
Identità
di Percezione
vs Identità di Pensiero |
Identità di Pensiero che narra, comunica o descrive con i tempi della realtà: imperfetto, passato e passato prossimo. | Narcisismo Cosmico che contiene la soluzione biografica tra Identità di Percezione e Identità di Pensiero del Poeta. |
Linguaggio
di crescita
vs Linguaggio scritto dialettale |
LINGUAGGIO DI CRESCITA | LINGUAGGIO
SCRITTO DIALETTALE che produce discorsi, è stabile
e ha ridondanza controllata
RUFFATO 3° STILE che riassume Linguaggio di crescita mediando da 1° e 2° Stile |
Procedimenti metaforici | Il
termine di partenza (P) diventa quello di arrivo (A)
con la proprietà comune che permette la metaora (I):
1) attuando una traduzione
più o meno letterale;
|
Immagine | Immagine acustica = Concetto Identificante | L'Immagine Acustica, se non si conosce il Concetto Identificante, va prima specchiata nel Concetto Identificato. |
Uso
corrente, contestuale
o situazionale | La sincronia della poesia dialettale fa sì che la coincidenza tra le parole selezionate e le proprietà che definiscono i lessemi, dandosi come referenza al Dasein, non produca una particolare polisemia. | La diacronia della poesia dialettale di Ruffato (come si è detto in altri termini per il processo di selezione operato dalla Biografia con Stile A e Stile B) fa sì che i versi abbiano una doppia semantica gergale, in cui il Codice Ristretto del Linguaggio di Crescita, riassunto dopo l'uso del Codice Elaborato del linguaggio settoriale (professionale), non ha più i semplici dati situati sincronicamente sull'asse del Locutore-Ragazzo. |
6. Il Lust de la vose de la mama xe el discorso sòtico
L'inconscio è come il
dialetto, "è piuttosto qualcosa di prossimo alla vescica,
e questa vescica, si tratta di farsi vedere che, a
condizione di metterci un lume dentro, può servire
da lanterna". Per effetto della parola, il poeta si
realizza sempre più nell'Altro, ma qui non persegue
già più che una metà di se stesso. Non troverà il suo
desiderio che sempre più diviso, polverizzato, nella
metonimia, isolabile, della parola. Come dire che,
posto che vi sia un fuori, non sia che indifferenza
a meno che non trovi il Lust che aveva lasciato
e che, avendolo ritrovato, è diventato Unlust.
Dico questo perché l'esagramma
23 dell'I Ching, essendo l'immobilità dello spargere,
è come la vera vose de la mama che ci si inventa
nello specchio della lingua: "ogni volta che avete
a che fare con un oggetto di bene, noi lo designiamo
è una questione di terminologia, ma una terminologia
giustificata come oggetto d'amore", che è come segnare
l'effetto di senso che produce nella metafora, tra
significante e significato, una formula a quattro piani
che, applicata alla Biografia, dà le posizioni soggettive
dell'esistenza:
in C, ninin nel
specio de la lengua, inventa d'imamarse, che è come
la tecnica del reperimento del transfert: Socrate che
risponde ad Alcibiade: Occupati del tuo desiderio,
inventate d'imamarte!
Solo che "po co prove
vegnevo fora spiera funambola de ilusion" se la
mama xe vera vose nel campo del miraggio della
funzione narcisistica del desiderio, come l'oggetto
in-ghiottibile, crea solo ne la voja de fare un
ceo, imamarse così che, "co go detà mama
i oh toh beh e brassi sclamativi", essendo anteriore
alla vista non può cogliere il fascino della macchia,
una volta che l'ha vista, essendo l'oggetto a,
come dice Lacan, identico allo sguardo, o, se l'inconscio
è stato sentito nel dialetto, il significante del desiderio,
essendo l'oggetto in-ghiottibile "come 'na sorta de
logos impelagà foratempo" xe 'na respirazione serciosa
coi ritmi de la ventilazione: l'avete capita bene:
il significante del desiderio xe el discorso sòtico
che se mastega la coa: la coda mastegata
è la circolarità della Biografia, la distanza che c'è
tra il Lust e l'oggetto a.
7. La teoria delle preposizioni di Viggo Brøndal e il bioritmo dello Stile-Mama; il farsi sbafare del testo-imamarse
Il sei punti del Codice
Elaborato del Ruffato poeta dialettale rendono diversa
la sua poesia da quella di Calzavara o di Zanzotto
non solo per la sostanziale differenziazione operata
dagli Indicatori Globali: ad esempio, tra le varianti
morfo-lessicali, certi aggettivi qualificativi o il
rapporto tra verbi infiniti e il totale dei verbi,
per non parlare dei modi della realtà semplici e i
modi infiniti e le congiunzioni coordinative che sembrano
proporre subordinazioni impossibili; tutto questo produce,
e ancor di più nella struttura fonematica del dialetto,
gradi di complessità e di tensione.
Le unità semantiche,
per esempio le preposizioni o l'infinito usato come
deissi temporale, hanno un grado di complessità e di
tensione qualitativa e formale: come dice Viggo Brøndal
"qualitativamente una preposizione è determinata
come posta su un piano più o meno elevato dal
numero di specie di relazioni o dimensioni che entrano
nella sua definizione (
) tridimensionali le parole
che indicano 'su'/'sotto' (
) complesse-polari sono
per es. italiano tra:fra (che dividono la nozione
di 'inter': variabilità complessa) (
) formalmente
la tensione è misurata dalla distanza tra le forme
di relazioni. Questa distanza è maggiore tra le forme
polari, e diminuisce a misura che le forme si avvicinano
sia alla forma neutra, sia alla forma complessa. Una
tensione formale ridotta ci viene offerta (
) dall'italiano
a e con (
). Una grande tensione formale
caratterizza al contrario l'italiano su e di".
Come dire che, studiando
il rapporto formale e qualitativo delle
preposizioni in una poesia, è possibile determinare
un centro di gravità che funziona come una sorta
di bioritmo, i cui cicli di armonia, simmetria, asimmetria,
transitività, intransitività, determinano l'andatura,
lo stile, di quel fare poesia.
Per esempio, applicando,
per la poesia El dialeto, il sistema di relazioni
astratte (simmetria, transitività), elaborato da Brøndal
per le preposizioni, avremmo questo andamento, questo
bioritmo tra simmetria, transitività, asimmetria, intransitività:
El dialeto corporeo xe PAR mi
intr-tr [asim-sim]importante COME la prima mimica
intr [asim-sim]le statuete posturali, el rispeto
DE COME comportarse PAR fare
intr [sim intr/asim-sim] intr-tr [asim]'na peca virtuale A LA parola
intr [asim]cioè el ghe entra NEL pensiero
tran [asim-sim]DE LA scritura raisa geroglifica
intr [sim]DE LA materia che crea vita
intr [sim]DA no tocare mai. Me ricordo
intr-tr [sim]co go detà mama i oh toh beh
e brassi sclamativi gheto sentio
e ninin NEL specio DE LA lengua
trans [asim-sim] intr. [sim]invento D'imamarme. Po CO prove
intr[sim] trans [sim]vegnevo FORA spiera funambola
intr-tr [asim-sim]DE ilusion. Forse la mama xe vera vose
intr [sim]crea solo NE LA voja DE fare un ceo.
trans [asim-sim] intr [sim]
Per permettere a chi ne ha voglia di cullarsi con "la prima voce bioritmica" (che sottende una implicita armonia tra sintassi e morfologia) del volgare padovano di Ruffato, ecco la tavola con cui la vose oscillerà da sinistra a destra, dall'INTRANSITIVO al TRANSITIVO, e da su a giù, dall'ASIMMETRIA alla SIMMETRIA, creando una composizione fonica tra volgare padovano e codice ristretto elaborato dal 3° stile di Ruffato:
TAVOLA E Le preposizioni del volgare padovano secondo la teoria di Viggo Brøndal
QUALITÀ | INTRANSITIVA | INTRANSITIVA-TRANSITIVA |
TRANSITIVA |
ASIMMETRICA | A AL A LA | PAR
PER PEI
PAL | SU SUL SU LA SUI SU 'STA SOTO SORA |
ASIMMETRICA-SIMMETRICA | DRIO DEDRIO
VANTI CONTRA
| TRA
FRA
DRENTO FORA |
IN NEI
NE LA
NEL NE LO |
SIMMETRICA | DE DEL
DE LA
| DA DA LA | CO
COL
COI CO LE |
Tipi astratti
Il tipo ASIMMETRICO indica
la direzione, lo scopo, per esempio, di un movimento.
Il tipo INTRANSITIVO indica
una condizione, una ragione.
Il tipo DISCONTINUO, cioè
ASIMMETRICO-SIMMETRICO, indica un salto, un'opposizione,
una concessione.
Tipi concreti
Il tipo ASIMMETRICO-INTRANSITIVO
indica la direzione e la condizione, ovvero lo scopo,
la destinazione, un fine, una determinazione.
Il tipo ASIMMETRICO-DISCONTINUO
(cioè: che oscilla tra Intransitivo e Transitivo) indica
la direzione e l'esclusione, ossia la sostituzione,
l'equivalenza.
Il tipo INTRANSITIVO-DISCONTINUO
indica la condizione e il salto, ossia la causa, il
destino.
Tipo complesso
Indica contemporaneamente
la direzione, la condizione, il salto, come pure la
sintesi dello scopo, della sostituzione e della causa.
Tipo neutro
Indica un salto condizionato
in una direzione determinata, ossia l'iniziativa.
Nell'esempio, abbiamo
un elevato tasso di preposizioni intransitive e simmetriche:
"la relazione simmetrica ha sempre proprietà opposte:
bilateralità, reversibilità, riflessività; essa si
usa perciò parlando del punto di partenza di un movimento
nello spazio o nel tempo, della base di una tendenza,
di un equilibrio o di un'armonia; (
) la relazione
intransitiva (
) indica costantemente un punto non
oltrepassato e dato una volta per tutte; ecco perché
è usata a proposito dei punti nello spazio, nel tempo
o in una serie, a proposito di una possibilità o di
una potenzialità, di una perfettività, tra l'altro
in una certa forma di futuro: il futuro previsto o
atteso".
Questa reversibilità
dell'attesa, che c'è, in sostanza, nel bioritmo
del 3° Stile di Ruffato è come se, in qualche
modo, togliesse sostanza ai semi della Durata o della
Permanenza, che sono connessi in ogni forma di poesia
dialettale: nel motore morfo-lessicale del 3° Stile
di Ruffato c'è un movimento verso un punto non oltrepassato,
che sembra avere strane corrispondenze con quella sensorialità
gestita dal tempo che appartiene all'habitat dell'altro,
misura del 1° Stile ruffattiano, in cui la voluptas
sembra connettersi, e lo abbiamo scritto nel 1985,
con gli strappi che il testo subisce dalle preposizioni.
Insomma, non è mica
lo stesso, anche se, a ben guardare, è sempre l'economico
dell'altro che la fa da padrone: l'attività della
pulsione del Poeta si concentra nel farsi: 1) farsi
vedere, nel 1° Stile; 2) farsi sentire,
nel 3° Stile.
"Il farsi vedere
è indicato da una freccia che veramente ritorna verso
il soggetto, il farsi sentire va verso l'altro": dal
narcisismo primario del 1° Stile al narcisismo secondario
del 3° Stile: e "dato che ci riferiamo al poppante
e al seno, e dato che l'allattamento è il ciucciare,
diciamo che la pulsione orale è il farsi ciucciare
(
): il che ci illumina su ciò che è quell'oggetto
singolare che mi sforzo di scollare nella vostra
mente dalla metafora nutrimento il seno. Il seno
è anche qualcosa di applicato su, che succhia, che
cosa? l'organismo della madre".
Lo Stile-Mama,
in questo farsi sentire della terza modalità
di Ruffato e in quel farsi vedere della prima
modalità, preannuncia il farsi sbafare, che
sarà l'imamarse di un motore stilistico:
a) a relazione asimmetrica
(in cui il movimento nello spazio e il rapporto nel
tempo è irreversibile);
b) a relazione intransitiva-transitiva
(in cui il punto è in connessione con la linea e la
possibilità con la realizzazione);
c) a relazione inconnessa
(che indica la liberazione o l'isolamento, l'indipendenza
o la esclusione; applicata al tempo, indica il passato,
da cui il sentimento è definitivamente escluso).
Che è "la lengua materna
che viaja da le vissere a la metafora, un tesoro de
luce fogo acqua aria e sostanse che ne dà vita o tochi
de carbon ne la calsa de la striga": una striscia poetica,
in cui il motore preposizionale è tutto concentrato
sul farsi sentire simmetrico e transitivo.
Per correlare il farsi
sbafare, che sarà il testo-imamarse, la
striscia andrebbe più o meno riscritta così:
DENTRO LA lengua materna che viaja
FORA da le vissere DE la metafora
un tesoro COME luce fogo acqua aria
e sostanse che ne dà vita. O tochi
de carbon A LA striga CHE I SE MANDA
E REMEDIA A LENGUA BASSA
DRENTO 'STO BRODO-ENTROPIA
INSUCÀ DE gomitaure
malòrseghe tecnologiche gas ( )
in cui l'asimmetria delle relazioni non transitive inconnette un luogo in cui il poeta, col suo narcisismo secondario, trasforma definitivamente la "contemplazione" del 2° Stile e l'immobilità narcisistica del 3° Stile in rapporto con l'emmerdeur eterno del 4° Stile: nel campo linguistico ristretto e costretto del 4° Stile, l'oggetto non è molto lontano dal campo che è detto dell'anima. Dalla Schaulust, che è lo sguardo, al farsi sentire, fino a questo farsi sbafare, purché capiate bene che, se "l'inconscio xe lalante, corente letrica bianca de vocali sparpajae", "il soggetto è quel sorgere che, appena apparso, si fissa come significante": lu se la gode ne la cola che sta ancor prima dei sesti, parvense, fine sielte del soma: se lassa parlare, segnare da bon ad libitum, incrucà ne la bola psichica, in bala tira moragia pramosa.
La regola aurea nella scrittura
di una poesia è quella - antica ma ancora attuale -
dettata da Umberto Saba con lo scritto Quel che resta
da fare ai poeti (1911):
Ai poeti resta da fare
la poesia onesta; si intende parlare di onestà intellettuale
e letteraria, che è prima un non sforzare mai lispirazione,
poi non tentare, per meschini motivi di ambizione e
di successo, di farla parere più vasta e trascendente
di quanto per avventura essa sia.
Allora seguendo questa
regola (e gli insegnamenti contenuti nel laboratorio
di poesia di Ezra Pound: evitare il lirismo di maniera,
lenfasi retorica, la sovrabbondanza di aggettivi e
avverbi; inventare immagini metafore allegorie parole
dense, piene di pensiero) diventa del tutto indifferente,
nel fare poesia, limpiego dellitaliano
o del dialetto; o addirittura lalternanza delluna
e laltra lingua, come nel caso di Cesare Ruffato che
nellarco di circa quarantanni (dal 1960 al 1998)
ha pubblicato venti libri di poesia.
Solo un pregiudizio pigro
può far considerare un poeta in dialetto minore rispetto
allanalogo poeta in italiano. A questo pregiudizio
Ruffato si ribella con il poemetto El dialeto,
contenuto nel libro-pamphlet Diaboleria (1993):
Linguisti e semiologi culti dise
chel dialeto parla forastoria
na leteratura minore passà
"Linguisti e semiologi colti dicono / che il dialetto parla fuori storia/ una letteratura minore superata ".
In Ruffato invece non è
presente lintenzione di usare il dialetto come lingua
estranea, morta; per lui il dialetto è una delle chiavi
di lettura - non lunica - di una vicenda rappresentata
da una città: Padova diletta.
Per capire sino in fondo
il rapporto lingua-dialetto bisogna prendere atto che
esiste una questione non risolta sul tema letteratura:
La letteratura è unattività spirituale che mira alla
realizzazione di prodotti esteticamente edificanti
oppure la portata sociale del fare letterario è una
delle forme principali di elaborazione teorica? (Edoardo
Sanguineti, LUnità, 30/12/1991). Il poeta in
dialetto sembra propendere per la seconda parte del
problema; anche come atteggiamento di opposizione al
potere che ha cercato e cerca di imporre i propri linguaggi
consunti.
Considerando però il dialetto
come unica lingua della poesia si corre un rischio:
quello di stabilire un legame stretto con la strategia
dellimmediatezza, con la presunzione di attingere
a una facile saggezza, e lincapacità di confrontarsi
con la negatività della storia..
Esistono anche seri motivi
per individuare alcuni pericoli e limiti delle poetiche
dialettali (come rileva al riguardo Gian Mario Villalta
su Tratti, 44, primavera 1997, sotto il titolo
Ragioni e limiti delle poetiche neodialettali); cioè:
1. Laccentuazione
del fenomeno endoletterario, ovvero una circolazione
della poesia limitata ai poeti, ai critici e ai cultori
della materia.
2. Lautocompiacimento
della emarginazione: il poeta, fiero della sua diversità
e della particolarità della sua scelta, tende a sviluppare
un discorso che non ha altre ragioni se non la diversità
stessa e la stessa particolarità della propria scelta
di campo. Dopo larcadia della neoavanguardia e dello
sperimentalismo, ecco affacciarsi lipotesi di una
arcadia neodialettale.
3. Lassunzione in poesia
di un dialetto non passato attraverso lesperienza
profonda del vissuto.
È necessario quindi che
il poeta in dialetto, per evitare di trovarsi a proprio
agio nel ghetto della bella ricordanza, eviti di essere
il testimone di una realtà demodé, con un insulso
elogio dei tempi passati che non esistono più. Anche
perché il dialetto, come la storia-mondo, non è mai
statico ma in continuo movimento e mutazione, con
miscele e alternanze di codici: è una lingua macchiata,
straziata.
Lo ha ben capito Ruffato
che, nel licenziare il suo intero corpus di poeta in
dialetto, Scribendi licentia (Marsilio, 1998)
scrive nella sintetica presentazione: Questo volume
raccoglie la maggioranza dei testi poetici in dialetto
padovano - mio ideale idioma da genuino diglotta ma
sottoposto a filtri di cultura poliversa e ad influenze
di gerghi professionali - affiorati in privato ad iniziare
dal 1960 e con processualità bioritmica divenuti impegno
creativo editoriale nel decennio 1989-1998. Il titolo,
esplicitato in lingua dotta e con ambiguità ironica,
precisa che si tratta di poesia in volgare padovano;
e sembra voler far entrare in scena lautore - professore
coltissimo e scienziato - in forma sommessa.
In realtà il poeta suggerisce
al lettore lopportunità di rintracciare nella Parola
pìrola (1990) una microstoria familiare, una cronaca
cittadina della sua città. Con il suo dialetto memoriale,
una scrittura irta, ardua, una poesia ispida, ruspia/ruvida,
intenta ad aggredire idee e parole più che fatti
e cose - sempre per altro presenti come cifra nel
tappeto - Ruffato sembra voler individuare, in maniera
esplicita, una koiné limitata di lettori;
lautore,
conscio del rischio di operazione di leggibilità limitata,
intende questa sua libera messa in scrittura un tentativo
di corrispondere ai misteriosi richiami della voce
(così nella Avvertenza a Parola pìrola).
La sua intera opera in
dialetto - uno dei colori, forse il più splendente,
della ricca, ampia tavolozza del poeta - mostra linteresse
rigoroso dellautore per la ricerca-scavo sulla parola:
Parola malà/Parola ammalata:
el rumore fato dal gargato
le vocali prime le consonanti strane
p inisiale de padre pié pan ponte
a de albero amore anema
r de rima religio roba rumore
o de ora origine opera orifissio
l de linea letera lume limite
"il rumore prodotto dallugola/ le vocali prime le consonanti strane/ p iniziale di padre piede pane ponte/ a di albero amore anima/ r di rima religio roba rumore/ o di ora origine opera orifizio/ l di linea lettera lume limite".
Parola matita:
Busiéte de la ponta matita
che no intinge el paero, el legneto
scortegà o massa uà se spaca
Parola coi busi/Parola
coi buchi. Parola morbin/Parola eccitata. Parola
denaro. Parola droga: Parola pìrola pàrola nel scuro
/ doping scorpion sbate sul muro / specioso colabrodo
la sfibra
La parola sofferta drogata
sbattuta contro il muro (oppure è la parola che sbatte
contro il muro cosa?) sale sui trampoli, viene urlata
(la parola ga alsà la vose ossessa), diventa
parola sguardo, fiaba, affabulazione, poesia-scavo.
Senza però lasciarsi trasportare dal fascino dellinnamoramento
della stessa e cadere nel castello incantato della
lingua parlata solo in alcune riservate enclaves,
con il suo sottinteso potere orfico: per Ruffato la
parola ha un senso solo se contiene un pensiero denso,
forte. La sua genialità nella scelta della lingua-dialetto
pare risiedere nella capacità che essa ha di avvolgersi
su se stessa e non essere però più sufficiente per
dire altro; quindi è continua linterrogazione che
egli fa del mondo fenomenico che lo circonda, teso
a una impossibile scientifica interpretazione complessiva.
Allora la poesia-parola diventa unallegoria della
condizione contemporanea.
Ruffato assume il dialetto
come lingua della parola; e costruisce quasi unopera
astratta con uno strumento linguistico autonomo e,
forse, incomunicabile. La scommessa della comunicazione
per altri così importante, sembra in lui essere messa
sotto tono, per limportanza primaria attribuita alla
parola-scrittura, alla poesia-espressione che dà voce
al senso delle cose.
Il mito del viaggio dentro
la parola attraversa per intero la sua opera poetica;
una parola equivoca-ambigua-ambivalente piena di sottintesi
nelle sue varianti classiche e moderne: parola parabola
(latino), paraula (volgare); comunque sempre parola-protagonista.
Come è stato da altri notato,
in Ruffato la parola nasce da una tensione non solo
linguistica ma anche morale (Mauro Marè): la scelta
è sofferta, meditata, messa a confronto. La intuizione
è quella giusta, essenziale per dire ciò che interessa
al poeta in quel preciso momento (in dialetto o in
lingua). Perché lambiguità semantica della parola
(specie quella in dialetto) è il dono dato al
poeta, che solo così può comunicare. In R la poesia
procede la forma e lartista cerca - e trova - le forme-formatrici
che preesistono alloggetto darte. La scrittura poetica
è piena di fermenti di ricerca, giochi linguistici
di rime, assonanze, aggiornamento del linguaggio:
Vose de sità trapèla bai, russèi
de soni neri, mòcoli morali, sguardi
fonfegai dun poema cuerto come coa
de funerale. Zornali ramai piàtole
la sòfega de pancatastrofe.
"Voce di città trapela tarli, ruscelli/ di suoni neri, moccoli morali, sguardi / spiegazzati dun poema ipocrita come coda/ di funerale. Giornali ormai noiosi (blatte)/ la soffocano di pancatastrofi".
Il poeta canta il suo poema - originale e acuto - contro quello ipocrita, simile alla coda distratta e annoiata di un funerale -; come distratti e annoiati sono i canti di tanti flebili cantori, soffocati nelle vane pancatastrofi - queste immense catastrofi che stanno a indicare la precarietà della vicenda-mondo: la flebile voce del cantore, sperduto nel villaggio globale, è incapace di chiudersi nella dimensione della sua piccola patria, dalla quale può invece trovare nuova linfa creativa.
E ancora:
Nel mal de mare del plafon imbarcà
increspo leliosiesta, anca le stele
sincolpa in salisi crianti
che spuffa giosse de luse
a caena anemele, salutz e versi
che me descolpa squasi rialsa i tolti
el futile par finire la morte.
"Nel mal di mare del plafond dissestato/ raggrinzo leliosiesta, anche le stelle/ si colpevolizzano in salici piangenti/ che spruzzano gocce di luce/ a catena animelle, saluti e versi/ che mi discolpano quasi risollevano gli scomparsi / il futile per finire la morte".
La curiosità del Ruffato
scienziato fa capolino in questo Vose striga/Voce
strega, articolato nei tre movimenti: Ciao vose/Ciao
voce, Vose sìngana/Voce gitana, Vose striga/Voce
strega.
Nel sentire le voci che
si rincorrono viene alla mente il lavoro di un sofisticato
zoologo, Il dialetto degli animali di Wolfang Wickler
(Bollati Boringhieri, 1988). Lo scienziato afferma:
gli uccelli sono specialisti di comunicazione a distanza
in biotopi chiusi che non consentono sufficiente visibilità
(boschi o foreste), e conseguentemente essi si sono
perfezionati nella comunicazione acustica. È la stessa
comunicazione che la voce del poeta riesce a realizzare
in un microcosmo ormai chiuso e isolato, di visibilità
insufficiente: la città.
Ma la poesia di Ruffato
non è solo suono e ritmo, perché forte è la sua presenza
e il radicamento nella realtà che circonda, opprime
e ferisce il poeta (come la morte prematura della figlia).
Nel descrivere fatti, eventi, accadimenti egli rifiuta
la lingua pura della poesia: il suo dialetto padovano
rappresenta una sorta di contenitore reale, corrispondente
a una concreta esperienza comunicativa, di quella sperimentazione
plurilinguistica (Francesco Zambon) da lui condotta
nellarco della lunga produzione poetica.
Lo sguardo al margine
accompagna il lettore attento ad attraversare le microstorie
oblique, i cui versi hanno un andamento centripeto:
nel caos della scrittura - segni criptici, fantastici,
dispersi sulla volubile sabbia; o geroglifici incisi
sullacerbo e orgoglioso ebano; come gravures
secche e sapienti che traspaiono dal fondo - lintenzione
del poeta è quella di conseguire un ordine (non lOrdine)
seguendo un percorso a spirale rovesciata: dal margine
al centro. Il colloquio con i testi di Ruffato è difficile:
una poesia insofferente delle regole della buona,
piana, piacevole lettura. Questo perché lautore sembra
rivendicare con forza il diritto di essere oscuro;
senza però che loscurità diventi un banale gioco a
nascondersi dietro fumose cortine di Nulla. Per altro
il lettore non deve desistere di fronte alla oscurità:
deve penetrarla sino in fondo e comprenderla nelle
sue sfolgoranti forme.
È già stato indicato il
rischio che si corre facendo ricorso al dialetto come
unica e squisita lingua della poesia: quello di una
afasica circolazione della stessa tra pochi (una poesia
come cult). Inoltre lo spericolato sperimentalismo
di Ruffato può lasciare intendere come il poeta desideri
giocare con la parola come si gioca con una bambola.
Così non è, perché il rischio della sperimentazione
viene fugato in quanto dentro il verso trovi la realtà
della prosa, ai livelli dellimpoetico contemporaneo
- la contaminazione con ciò che non è poetico-. Nel
risvolto di copertina di Scribendi licentia si
legge: I testi hanno come lingua di base il dialetto
di Padova nella viva parlata quotidiana, ma frequentemente
sollecitato e reinventato dal sogno sulla traccia di
lacerti infantili e con volontari sbandamenti nellitaliano
e in vari linguaggi settoriali. Comunque è sempre sottesa
la ricerca di intensità espressiva con svariati registri
di senso e intenti di ri-creazione. Nella scrittura
poetica di Ruffato lopposizione non è tra passato
e presente (la nostalgia di una Padova dantan,
tra lIo che ricorda e la società attuale che lo circonda);
perché il poeta ha sempre coscienza del pericolo di
essere costretto nellisolamento di una minoranza linguistica.
E se ciò non accade come nel caso di chi chiede,
con ironica umiltà, licenza di scrivere allora
si raggiunge (al di là e al di sopra di giochi funambolici
con le parole) il livello alto della poesia.
Il primo contatto con la
poesia di Cesare Ruffato risale al 1978 con Minusgrafie,
testo che recensii sulla rivista "Nuova Corrente".
Tra l'altro scrivevo che vi trovavo "i due momenti
limite della sperimentazione linguistica: la regressione
sintattica e la parola come centro di ogni rapporto
col reale". Riavvicinandomi a distanza di anni alle
raccolte successive trovo (il presente è d'obbligo)
che la sua poesia si è tolta "dalla regressione sintattica"
che aveva il suo termine di paragone nell'affollata
e spesso caotica esperienza della neoavanguardia e
della sperimentazione linguistica che ne era seguita.
La parola, invece è diventata il centro (mantengo questo
termine) di una ricerca sul linguaggio che ha trovato
altri sbocchi che non sono più quelli della sola trasgressione
linguistica ma di un viaggio nella coscienza che travalica
i limiti del sentimento e della nostalgia e sale sull'albero
della poesia nella piena libertà verticale del dialetto:
'na lengua materna che viaja
da le vissere a la metafora
un tesoro de luce fogo acqua aria
e sostanse che ne dà vita...
Il dialetto di Ruffato,
che non è lingua di comunicazione facile e immediata,
viene dalla lunga stagione che da Minusgrafie
(preceduta da testi come Il vanitoso pianeta
e Cuorema tanto per citarne qualcuno) si è andata
sviluppando attraverso le raccolte tra gli anni ottanta
e novanta, mantenendo sempre la connotazione di una
poesia in continuo sviluppo e mai conclusa in una cifra
stilistica ripetitiva e appagata. Cesare Ruffato ha
cercato nel dialetto ciò che nella lingua italiana
non poteva trovare, cioè la continuità "bioritmica"
dell'esistenza e dei sentimenti attraverso un parlato
che viene da lontano in cui sofferenza ed ironia trovano
il loro linguaggio.
Confesso che non mi è stato
facile interpretare il dialetto patavino di Ruffato
perché vi convivono influenze di "gerghi professionali",
di distorsioni linguistiche infantili, di giochi ricreativi
letterari anche se si ripercorre per lunghi tratti
il viaggio che il poeta ha dovuto fare con una scrittura
che forse, già all'inizio, aveva come meta il dialetto.
Esserci arrivato con un'assillante lavoro di scrittura
e di riscrittura e con esiti del tutto nuovi e imprevedibili
propone uno studio su una cifra stilistica che esce
dai canoni elegiaci e ripetitivi della poesia attuale.
È su questa cifra stilistica
che, in particolare, ci si deve soffermare per comprendere
le varie stagioni in cui la poesia di Ruffato è andata
via via modulando i suoi registri "vocali" e scrittorii.
Parlo di vocalità e non soltanto di scrittura in quanto
la poesia in dialetto di Ruffato diventa a volte colloquiale,
a volte cantata, a volte ironica e parodistica. In
ogni caso si connota per la sua apparente mancanza
di sintassi per un verso e per l'altro per la ricerca
ossessiva di comunicare una realtà quotidiana fatta
di lacerti di parole in continua formazione. Una realtà
esibita con le parole e nello stesso tempo negata dalla
sintassi letteraria: un dato in cui si configura anche
il suo mestiere di medico radiologo. Guardare dentro,
cercare; ancora guardare dentro e di nuovo cercare.
La poesia è un corpo con gli infiniti misteri del corpo,
ogni volta diverso ma sempre rapportato alla sua forma.
Oltre alla professione
medica di Ruffato bisogna tener conto della città in
cui è nato e in cui ha quasi sempre vissuto. Padova
ha avuto un'influenza determinante su tutta la sua
vita ed è stata il luogo in cui sono avvenute tutte
le scoperte del suo lungo lavoro di poeta. Bisogna
aggiungere, poi, che a Padova egli ha esercitato la
professione di radiologo e a Padova sono nati i suoi
affetti e le sue sofferenze. Una città che ha raccolto
la sua "esperienza esistenziale" e ha dato radici alla
sua poesia in dialetto.
Scriveva, fra l'altro,
Aldo Rossi nel lontano 1978 e nella sua prefazione
a Minusgrafie che "Ruffato è un poeta con molte
qualità ma senza stile, al pari di molti poeti d'oggi.
Che cosa vuol dire essere un poeta senza stile? Vuol
dire non riconoscersi in un malloppo prefissato e precostituito,
ma cercare di volta in volta attraverso la finzione
linguistica di ricreare un mondo autonomo che ha degli
agganci molto disastrati con la referenzialità, dal
momento che questi agganci sono stati interrotti, lacerati
prima che il poeta si mettesse a scrivere".
Io, nella mia recensione
di allora, contraddicendo e nello stesso tempo allargando
la prefazione di Aldo Rossi scrivevo che bisognava
riconoscere nella poesia di Ruffato "una ricerca non
soltanto circoscritta a rompere il duro involucro delle
parole d'uso ma anche impegnata in un faticoso confronto
con il dettato poetico delle avanguardie che si pensava
fosse arrivato a un limite dietro il quale non vi può
essere che non significanza".
Bisogna ritornare al clima
di quegli anni per capire il senso degli scritti che
ho citato che riflettono in minima parte ciò che è
cambiato e ciò che è sopravvissuto nella poesia italiana.
Non scriverei oggi ciò che scrissi allora perché la
sua poesia, pur mantenendo una direzione costante nella
ricerca, si è metabolizzata nel dialetto arando in
profondità un terreno saccheggiato dalla continue incursioni
sperimentali con la speranza di ridare aria e vigore
alle radici dialettali che erano già emerse nel plurilinguismo
delle raccolte degli anni settanta. Lo sforzo di Ruffato
è stato quello di frenare l'irruenza del periodare
asintattico per ridare trasparenza alla poesia. Il
luogo non è cambiato, è cambiato il paesaggio col mutare
delle stagioni, con il "parnaso de supioni su l'anemone"
con la memoria del morire e del vivere che ogni parola
ha dentro di sé, "rami in libertà" che hanno colore
e respiro:
Illa sin da putina poeta palatina
i la rima de pufeti canti e coccoloni
sul corpesin co tanti rami in libertà
Un parnaso de supioni su l'anemone
che se spena streto a cardiaca giovinezza
al criare de la mente
che indelebilmente sente.
Il paesaggio poetico di
Ruffato si configura per un insieme di passaggi che
pure esplorando le parole disegnano un "dire" che non
è sempre suggerito dall'atto linguistico e dai significati
connessi alla sintassi del periodo. Vi è tra parola
e parola, cosa che si avverte specialmente nella poesia
in dialetto, una foresta di suoni in cui il lettore
è intento a percepire più che a capire un insieme di
meccanismi isotopici che fanno da intertesto più che
da testo. Vi è un continuo cambiamento dei codici letterari
tradizionali che rovesciano il senso del verso per
poi ripristinarlo in un canto parodico in cui sofferenza
ed ironia non si fanno racconto ma innestano una serie
di rappresentazioni svincolate da ogni intento retorico.
La retorica del dire, che è uno dei segni distintivi
della poesia attuale, è assente in Ruffato e viene
affidata in maggior parte alla libertà lessicale, a
un fonosimbolismo che lo avvicina per certi versi alle
avanguardie storiche del primo novecento. Ma la sua
produzione testuale mentre tende a isolare la parola
dal contesto sintattico, riesce a produrre altri significati,
altre libere combinazioni di senso, che avverto specialmente
nella poesia in dialetto folta di sonorità e di metafore
e dove il lirismo è solo un accenno che appare e dispare
tra gli interstizi delle parole: un lirismo della memoria
che è come la luce del primo mattino che dura qualche
attimo e trascende dalla realtà delle ore sempre uguali
dell'esistenza.
Nelle sue raccolte di poesie
degli anni sessanta Ruffato aveva trovato una consonanza
lirica con i poeti di allora, una consonanza molto
marcata nella sua raccolta di poesie di Tempo senza
nome in cui l'influenza del simbolismo si specchiava
nella rappresentazione del paesaggio che aveva ancora
accenti crepuscolari e dove l'Io vi si confrontava
con toni di ricordo e di memoria. Ma già allora l'uso
di termini scientifici e dialettali era presente nei
suoi versi, un uso evidente che creava scarti ed effetti
stranianti nel contesto in cui veniva immesso. Ne Il
vanitoso pianeta gli scarti si facevano più netti
evidenziando un paesaggio urbano pieno di scorie e
di detriti in luogo di quello campestre in cui luce
e ombra, quiete e vento si alternavano col variare
delle stagioni. Dall'intimità lirica delle raccolte
che si situano nella prima metà degli anni sessanta,
con Cuorema pubblicata quasi alla fine del decennio,
c'è un vuoto di quattro anni ed è in quel vuoto apparente
che la poesia di Ruffato si riempie di tutte le utopie
nate in quella stagione come se la realtà esterna abbia
rotto il guscio chiuso del suo Io e l'abbia
obbligato ad affacciarsi su un mondo squassato dai
rivolgimenti ideologici e politici. In verità dentro
Cuorema e nel successivo Caro ibrido amore
prevalgono più le immagini della realtà esterna che
le rivolte interiori contro l'ordine costituito della
società di allora. La realtà esterna si presenta sfilacciata,
disordinata e confusa per cui la sua rappresentazione
è rimandata ad una versificazione che si nutre di un
impianto di parole gridate come titoli di comunicazione
giornalistica più che di ribellione personale contro
lo sterminio fatto dai "bulldozer" del consumismo nostrano.
La frantumazione del mondo più che sofferta viene mimata
dai versi per cui anche le frasi che fanno da palinsesto
risentono di quella frantumazione e si dispongono in
un disordine che il Poeta non riesce più a controllare
con gli strumenti della sintassi. Ma proprio da questo
funambulismo verbale portato ad eccedere più che a
dire Cesare Ruffato esce liberato dalle strettoie della
sperimentalizzazione del suo tempo trovando nella scienza
l'unità biologico-poetica che sarà lo strumento e il
meccanismo delle sua poesia e lo porterà con la raccolta
Minusgrafie, che ho citato all'inizio di questo
scritto, alla elaborazione di un suo progetto poetico
unitario per tutto il lavoro successivo.
Intorno e nell'anno in
cui veniva pubblicata Minusgrafie dall'editore
Feltrinelli, usciva con lo stesso editore l'antologia
La parola innamorata sottotitolata I poeti
nuovi 1976-1978 e sempre con lo stesso editore
nel 1979 l'antologia Poesia degli anni settanta
curata da Antonio Porta. Ma se quest'ultima antologia
che assumeva come data di partenza il 1968 con tutte
le connotazioni di ordine ideologico evidenziate dall'introduzione
dello stesso Porta che, però, non avevano poco o nulla
a che fare con la poesia scritta e pubblicata in quel
decennio, La parola innamorata poneva, almeno
nelle intenzioni dei curatori, problemi di altro ordine
che andavano da "una nuova maniera di leggere il testo"
alla "durata eterna e infinita del testo meraviglioso
e inarrestabile". Dopo la parola poetica - innamorata
- colorata - rapinosa: vi era quella amorosa.
In questa antologia non
compare Cesare Ruffato mentre un suo testo "Caso due"
compare in quella di Porta stretto tra due autori come
Dacia Mariani e Carlo Betocchi, con la data 1974, anteriore
di quattro anni a Minusgrafie. Se la data, la
sistemazione, il luogo è del tutto incomprensibile
per lui non lo è per il curatore che tende a enfatizzare
il proprio lavoro come una "colossale fenomenologia"
(citando Jung) e "carnevalizzazione del discorso":
(il citato Bachtin). Cesare Ruffato ne esce fuori come
un nomade in cerca di altro territorio, di altri strumenti
linguistici, e sempre più lontano da quella antologizzazione
strumentale in nome o contro il '68 portato come bandiera
di un incontro o scontro ideologico in cui si voleva
costringere la poesia, e non soltanto la poesia, ad
adeguarvisi.
nella organizzazione sintattica evasive assonanze
riverbano i trapassati ablativando espedienti
in tono minore quasi vergante confricazione
pendule fragranze di populistica amenità
passita crociata fittizia
scommessa categoriale di una divergenza esclamativa;
Sin da prima de nascere la moveva
i orti de l'anema perleta ex voto
in lago de clorofilla tarmà
che ga grotesco el nome balbetà
la fronte da cavei invasa
laetitia impirà come vita eterna.
Partoria la criava sconta sigala
snonolava bava esoterica intanto
i cavalieri in sofita sfilsava
galete de moraro su le grisole.
Ab ovo avatara
la ga la so materia prima
la verte el mare aurora
da sgnacare su le idee saori
siere de foreste, sfese de parole
Dalla fessura delle parole
si aprono spazi in cui la componente lirica, presente
già in Minusgrafie e che si farà più evidente
in I bocete, affiora in versi cantati in contrapposizione
alla "clorofilla tarmata", a quel senso di disfacimento
("ninnolava bava esoterica") che è presente in certe
sue poesie in dialetto e in lingua.
Su questo panorama poetico
percorso come in un'alba primordiale da infinite e
ossessive forme che diventano immagini e pensieri a
seconda della collocazione delle parole, Cesare Ruffato
compone la sua irrequieta biografia, che è tutta pensata
cronologicamente in rapporto agli accadimenti della
sua esistenza e alla realtà della storia che anno per
anno ha scandito la sua memoria poetica. Ed è strano
che in una poesia difficile e così lacerata, grammaticalmente
e sintatticamente, si possa seguire un percorso che
porta alla luce tracce visibili e per alcuni versi
immagini di un'esistenza vissuta e sofferta in grande
solitudine. Dal frastuono delle parole, dalla spericolata
ricerca di materiali che irrompono da ogni settore
dello scibile, siano essi materiali provenienti dalla
scienza, dalla medicina, dalla filologia, dalla filosofia,
dalle usanze domestiche, da banali conversazioni o
da tutto ciò che avviene nella vita di ogni giorno,
la figura del poeta si proietta in una fragranza spirituale
sempre tesa alla ricerca di un senso compiuto della
propria vita. Mi pare che il suo modo di sconfiggere
la realtà risenta del magma pittorico di alcuni pittori
americani (Pollock, Tobey?) che forse ha influenzato
la sua sintassi poetica. Le parole di Ruffato si affollano
in un cosmo che ha perso ogni equilibrio gravitazionale
e sono diventate dei frammenti alla ricerca di un
punto di attrazione che possa ricreare un pianeta
visibile. A tale processo di assemblaggio di un pianeta
visibile è teso lo sforzo di "riscrittura" di una poesia
visibile sul piano della conoscenza; egli pur aggirandosi
in una terra smarrita sente che la parola vive di là
di ogni sintassi e contro la stessa sintassi che la
vuole chiudere in una logica di senso. E, nella mia
interpretazione, si affaccia infine su un orizzonte
di palloni frenati che è come un balcone, orlo bellezza
sul vuoto affilato per esplorare poi su specchi neri
un aldilà rovesciato:
La verità da tacà
siglese mistico che scancela
gelatina di fiori amor fatui
tu et illa litote tarantola
ieri e doman che no se ciapa
orlo bellezza sul vodo uà
orizonte de baloni frenà
nomi esplorandi dà dà
che vani dindola paeri su speci neri
un aldelà roversà
Il dialetto di Ruffato
è una lingua? La domanda si è affacciata continuamente
nella mia mente da quando ho cominciato a leggere le
sue poesie in questa summa del dialetto che pur mantenendo,
all'inizio, il disegno prestato dalla lingua italiana
si espande in un lessico torrenziale che a volte si
stacca dalla matrice-pensiero che ha dato avvio alla
scrittura di una poesia. Il suo dialetto è una lingua
giocata con l'apporto di neologismi dissacranti che
escono fuori da una tradizione letteraria classica
e dalla convenzione romantica di cui è intrisa ancora
la nostra letteratura. Sono i neologismi a costruire
i nuovi registri della lingua ruffatiana, neologismi
già presenti nei diversi codici e nei diversi registri
delle precedenti raccolte che immessi nel dialetto
padovano sono serviti a crearne altri: una ricchezza
lessicale in cui suono e senso si alternano fraseggiando
una gamma musicale di "parole" del tutto imprevedibili:
Nata da parolo sior spenotà
e da 'na parolezza squinzi
in ex lege goliardese
parolante sul paion, squasi rivelà
da l'antichità piena de sotintesi
voltà ai passi del senso e del gesto
per dirghese qualcuna: paràola
parolla parora paruola
sin dal tardo latin parona parabola
e in volgare paraula...
È la "parola polena", la
parola che attraversa il grande mare della lingua con
la punta della polèna, figura scolpita sull'estremità
del tagliamare, la "poulanne" che indica la direzione
dell'andar per mare e dà il titolo a tutta la raccolta
e che si metaforizza poi nei diversi significati: Parola
matita, Parola coi busi, Parola morbin, Parola denaro
e attraversando ulteriori enunciazioni si conclude
con Parola fiaba che evoca un mondo di personaggi e
di memorie, un mondo de "putei infabulai" che inventano
degli io narranti e che il poeta maturo conclude con
- adesso te la conto mi la fiaba.
Il dialetto di Cesare Ruffato
è una lingua giocata su un'ossessiva colonna sonora
ma nello stesso tempo "co responsabilità fantasiosa
radegosa" che nel sogno s'imparola.
In quasi tutti i versi
di Parola pirola la "parola" domina sovrana
come una droga "scuro doping" che spegne l'istinto
di vita: qui la parola nelle sue svariate torsioni
commenta e trasmette una sofferenza che oltrepassa
tutti i giochi linguistici:
filastroca ancora più granda
su passoni de legno a ritmo novo.
In ritardo la se incorse de l'aria
rarefata che sbaca el cogito e la solitudine
rimbomba l'eco del cuore in boca
La raccolta successiva El sabo dell'anno dopo inizia con una poesia che ha una curiosa ed ironica citazione a Giacomo Leopardi e, all'inizio della raccolta, il rimando al "Sabato" leopardiano è costante, pieno di variazioni esistenziali ed è percorso dall'infanzia ma anche dall'attuale realtà fatta de "galerie stagne de auto / bai al cloroformio, siami spiritai" e in cui dominano:
Quele violente, ruspie gropolose
lontane da l'erba le torna sempre su
co l'incidente, i rotami l'inquirente
le fulmina la megola...
La poesia de El sabo più che di parole è fatta di invettive dolorose, di una stanchezza del vivere in una società attraversata dai miti del consumismo in cui "Morsego el pomo co tache marse" ma con richiami nostalgici a:
El rosa del tramonto portava
la croda in premio su le prove
de versione, su le giacone
de coton egissian
Una definizione del suo dialetto Cesare Ruffato la dà nella prima poesia di Diaboleria, raccolta che è del 1993:
Se prova sensa convenevoli
e co umiltà 'na capatina pèpola
sul dialeto no par delucidare
ma co la fraca de lampra passion
dei cavalieri pal tesoro del Graal
Il poeta dice di entrare
nel dialetto con umiltà e solo per una piccola capatina
non per spiegare un discorso ma per una limpida passione
dei cavalieri per il tesoro del Graal. Egli dunque
nega l'impegno filologico ma evidenzia la passione
che è fatta d'amore (e di memoria) o di qualcosa di
svanito "come desso se fa pal mondo stranio / da la
stratosfera co satelite".
Molte volte nelle sue poesie
in dialetto egli prende le distanze dal dialetto che
"dall'alto gli pare una macchinetta da foto a raggi
infrarossi" come per dire che quella lingua materna
è qualcosa che non si distingue con gli occhi ma che
"viaggia dalle viscere alla metafora" come un oggetto
che si vede attraverso un altro; qualcosa che viene
dal profondo come materiale primigenio di cui è difficile
fissare la provenienza né spiegare il motivo per cui
questo materiale ha preso il posto di quello letterario.
Il dialetto di Ruffato sfugge a qualsiasi codificazione,
lievita come il buon pane di cucina dell'adolescenza
di cui si sente ancora il profumo (quanto vi è di proustiano
in certe sue poesie?) che non si può raccontare come
in un diario dei bei tempi andati.
Nella sua poesia sono dominanti
i luoghi mentali più che quelli sentimentali, ma quando
il luogo mentale tende a ripetersi nei versi con quel
sovraccarico di parole che a volte si perdono nel buio
dell'incomprensibile, la trama oscura si sfilaccia,
mostra improvvisi cedimenti di luce e balugina il sentimento
che seppur negato dalla struttura esplorativa della
lingua rimane il filo tenace del suo fare poesia. A
volte il sopra corre come controcanto del sotto, a
volte ne escono degli stridori, degli incomprensibili
balbettamenti, dei gorgoglii d'annegati mentre da
sotto ne esce il respiro dell'anima che è come il liquido
azzurro sulla tela grigia spremuto dal tubetto del
pittore. Un colore che al momento resta fermo e poi
comincia a respirare in rivoli che scivolano dentro
gli interstizi della dura forma letteraria. Parlo di
pittura che per me è lo specchio-eco della sua poesia,
ma potrei anche parlare di musica accennando ai ricercari
cinquecenteschi e secenteschi che fra organo e liuto
sono ancora la base di tutta la musica moderna. L'insistente
ripetitività unita alle improvvise fughe senza respiro
tra citazioni e parole, tra consonanze e assonanze,
tra metastasi e grumi di frasi, hanno nella poesia
di Ruffato l'intento preciso di dare al lettore la
visione di una nuova carta cosmologica della letteratura
liberata da quei confini che si potrebbero chiamare
tolemaici. La nostra poesia attuale si è attestata
su quei confini rispettando la retorica e lo stile
senza i quali rischierebbe di non essere capita ricoprendo
le sue parole con una vernice fissa per farle sembrare
eterne.
Ma Cesare Ruffato rifugge
la supposta eternità della forma composita, finge di
mischiare tutto ciò che conosce in un amalgama di forzature
barocche lasciando ai pochi lettori che la intendono
la poesia del calendario quotidiano:
Na sbrassà de volte a luce albasia
go fruà el calendario, robe robe
sempre miele fiele
de le varie lengue, go tentà enigmi
simulacri date nel to sillabario,
imbragà sbaco
interdeto a starte drio
sento forte cortei e mutansa
mia hermosa, mia edera effatà
Questa poesia tratta dalla
raccolta I bocete disvela l'altra faccia del
fare poetico di Ruffato. Le opere in dialetto, raccolte
in questo bel volume, danno l'impressione di un susseguirsi
diacronico della sua ricerca. "Sono queste il suo personale
fiume eracliteo la cui corrente non è mai la stessa,
le cui acque nel loro defluire cercano nuovi meandri
e gorghi e rive e laghi" scrive Andrea Csillaghy a
proposito della sua poesia dialettale.
La raccolta I bocete
è quella in cui le invadenze metalinguistiche sono
meno evidenti così che il dialetto ha maggior spazio
per disporsi in sequenze più vicine al parlato. Intendiamoci,
il dialetto di Ruffato non è un dialetto che si rapporta
alla tradizione; è continuamente attraversato da altri
linguaggi che si rifanno alla lingua colta di origine
latina e provenzale, da una terminologia tecnica e
scientifica e da una "rottamazione" di linguaggi diversi
che si inseriscono in un parlato che a volte somiglia
al parlato dei fumetti. L'intento satirico e ironico
è evidente come è evidente la carica eversiva che trascina
lo stesso dialetto ad azzopparsi in un plurilinguismo
che mescola intenzioni dialettali alla comunicazione
e informazione sperimentate coi mezzi del parlare quotidiano
ripetitivo e distratto. Come dicevo, il testo I
bocete è meno frequentato dalla citazione e dal
travestimento sperimentale e si dispone verticalmente
secondo frequenze del cantato dialettale: insomma è
il meno complesso tra i testi in dialetto di Ruffato
ed è quello in cui i sentimenti e le emozioni sono
più percepibili alla prima lettura:
Aria pineta, coline zale,
apanae, tortorele e sarmenti
odore ateo del mare,...
Con questi versi si apre la prima poesia della raccolta, poesia che si chiude
el caldo de San Martin in spadina
co bucole de sole in man
E chiudendo e aprendo il testo m'imbatto in "Fiamele de speransa / sui confini" poesia scritta alla fine degli anni ottanta che conserva intatte, a questo fine secolo, le immagini dei dieci anni precedenti:
in certi paesi richi ga fato
pocheto per milioni de puteleti
che sbrindola tambara in pocie
e robe che non se pole avere.
La Pasqua bassa ga anda piata
el fredo sfersa, la guerra sorda
del Golfo xe nafta che sbassa
la borsa e schifa el calmiere de l'omo
Mi sono soffermato su questi
versi anche perché, mentre sto scrivendo, provengono
notizie di nuove bombe su Bagdad come alcuni anni fa,
e Ruffato li leggeva per "milioni de puteleti / che
sbrindola tambara in pocie / e robe che no se pole
avere".
Mi sono chiesto allora
se la sua poesia al di là dei brandelli di parole,
al di là dei punti estremi della ricerca, al di là
dei neologismi tecnico-scientifici, offra anche un'altra
lettura, quella di una indagine profonda sui mali di
questo fine secolo, mali che stanno sotto cumuli di
rifiuti di cui la società "opulenta " si sbarazza ogni
giorno per costruire la "disneybabele", una città artificiale
che si trasforma in una realtà disgregata e corrotta.
In I bocete, a differenza
delle altre raccolte, l'infanzia è il tema dominante.
E una poesia tutta affidata all'invenzioni che sembrano
prodursi nei giochi de "i puteleti " che vengono guardati
dal poeta con un'ineffabile tenerezza ma anche con
profonda sofferenza, un tema su cui la ricerca critica
nei suoi vari e molteplici studi non si è soffermata
abbastanza. L'infanzia si porta dietro felicità e sofferenza
e nella vita che "lagrema sconsolà / no cavemoghe
la carioleta dei sogni".
Al sillabario della lingua
che per secoli è stato uno strumento per costruire
un ordine logico di concetti trasmissibile ai diversi
livelli di scrittura, Ruffato oppone il dialetto intriso
della ricchezza lessicale che era propria della sua
precedente poesia in lingua. È la dimostrazione che
il dialetto può diventare una lingua se non lo si costringe
nei limiti poveri in cui sono confinati quasi tutti
i dialetti. I motivi per cui la cultura consumistica
considera il dialetto un prodotto in estinzione sono
di varia natura, in parte riconducibili alla storia
stessa della società borghese e in parte alla scomparsa
del mondo agricolo che, nelle diverse "marche" in cui
operava, fondava i suoi rapporti di comunità e di lavoro
con l'uso proprio del dialetto. Dialetto che opera
su un altro versante che è del solo lessico in cui
immette liberamente, come del resto aveva già fatto
con la sua poesia in lingua, tutto ciò che è patrimonio
e ricchezza della sua cultura superando la supposta
povertà glottologica e morfologica che è tipica della
parlata dialettale con le acrobazie dei suoi giochi
neologici che attingono alla tecnologia, alla scienza,
alla filosofia, alla politica, all'ideologia, in fondo
recuperando tutto ciò che aveva già sperimentato sino
dai tempi di Minusgrafie.
Con la sua operazione ha
spezzato il luogo comune di considerare il dialetto
come strumento di comunicazione tra le classi povere,
ultimo strumento per semianalfabeti e per gente stretta
tra confini limitati. Certo che personalmente considero
la sua operazione piena di insidie, ma se mi attengo
solo alla lettura delle sue poesie la mia esperienza
di poeta e di letterato non vede le insidie e si lascia
trasportare in quel suo mondo che:
El xe proprio fora dal spòtico
incancrenio de la lengua buro-
cratica de lege, 'na ecolingua
grembo e marsupio che abita alita
riscata el sogno, el scrive disinvolto
robe stracote e scontae, el s'indrenta
de più ne le robe vere a priori
Da Diaboleria, già pubblicata in volume, fino alle successive raccolte in cui figurano poesie pubblicate su riviste e poesie inedite, il dialetto di Ruffato si è andato evolvendo e semplificando pur rimanendo fedele a quella spinta interiore che l'aveva portato a ritrovare una "lingua" che veniva da lontano e che, non mi stancherò di ripetere, veniva dalle viscere più che dalla coscienza:
La prima fiata che me so catà
nel dialeto xe sta la vose de mama
fantasma chisachi, scartosso de pana...
È anche vero che mano mano
che il dialetto si affina la voce tende a prendere
il posto della parola per cui il discorso sulle cose
si fa più diretto, più colloquiale e rinuncia, ma non
sempre, all'uso festoso e infantile della "respirazione
serciosa" per ritrovare di nuovo lo "sbùssolo nel polvaron
de conceti". Il cambio di direzione è più apparente
che reale ma quando c'è si comprende come la sua poesia
stia seguendo un percorso circolare che la sta riportando
alla lingua letteraria depurata, attraverso il dialetto,
di alcune pesantezze strutturali e che sfocerà nella
raccolta Etica declive su cui parecchi critici
si sono soffermati ampiamente e di cui, per ovvie ragioni,
non rievocherò in questo mio intervento centrato più
che altro sul robusto "corpus testuale" di Scribendi
licentia.
Analizzando tutte le diverse
raccolte che compongono il testo ultimo di Cesare Ruffato
ho cercato di leggere le sue poesie più con gli occhi
del poeta che con quelli del critico e ho fatto un
viaggio dell'anima invece di un percorso di ricerca
letteraria, anche se fra i due momenti vi sono rapporti
che non possono essere scissi in quanto la scrittura
poetica è sempre un scoperta estetica e non può essere
goduta stando su un solo versante.
Lo stesso Ruffato scrive:
«Parlare del dialetto per un sentire oltre implica
un ritorno, un rientro in sé nella cripta dell'inconscio,
una comunione fra corpo e spirito, un rivelarsi nel
gioco del sottrarsi e riproporre il velo, di "trovare"
un trobar nou e prim; aprire nuovi passi all'esserci.
Un simile conflitto interiore abbisogna di maturità,
di autocoscienza critica per condiscenderne la confluenza
tra clima d'ombra e di luce, la plastica permessività
estetica non gradita dalla lingua egemone».
È nella "permessività estetica"
che il dialetto di Ruffato ha la sua maggior forza:
tra progettazione e intuizione la sua poesia in dialetto,
e non soltanto in dialetto, trova il suo equilibrio
in parte dovuto alla sperimentazione sul linguaggio
e in parte alla ricerca filologica con l'immissione
di materiali di diversa estrazione attraverso associazioni
verbali e tonali che sono proprie della parlata dialettale.
Ed ecco allora apparire, o meglio sentire, "la voce",
fatta di parole ma anche di interrogazioni, di silenzi,
di rimandi alla tradizione, di antichi misteri, di
pause fatte di "sóni perlai"
La so vose tema amigo de sempre
maraveja psicosomatica
che guada uranio da luna
peòcia in caodano me porta
el logo de la verità, el sole
coi penoti, el plesso de la megòla
spinale, el pletro altro che sconde
ogni virtù
Ritorno alla "vose", "a
la grammatica ben ligà a la vose", verso che chiude
la prima poesia di Smanie, raccolta che porta
la data del 1995 e che era quasi del tutto inedita
in volume. Seppure il verso che ho citato all'inizio
di questo periodo abbia un sottofondo ironico, la raccolta
nel suo complesso inizia un altro momento della poesia
di Cesare Ruffato che, attraverso Sagome sonambole
(1993-1997), Vose striga (1990-1997) e Giergo
mortis (1997) si conclude per ora in Etica declive
raccolta pubblicata nel 1996. Non parlerò di questa
raccolta che, con le raccolte inedite pubblicate in
Scribendi licentia, sottolinea un'ulteriore
e forse contrastata ricerca poetica. Altri ne hanno
parlato, inoltre la raccolta non compare nel testo
pubblicato dall'Editore Marsilio e pertanto esula dalle
intenzioni di questo mio scritto. Faccio una sola osservazione:
il dialetto in Etica declive ha perso in parte
la sua forza deterrente, ha determinato un percorso
di sintassi più legato alla voce in lingua che a quella
in dialetto, per cui "la metrica è costante: versi
liberi costruiti su tre, massimo quattro accenti forti,
e di lunghezza variabile tra le nove e le dodici sillabe".
Lo scrive Romano Luperini nella sua presentazione che
vuole essere una summa di tutta l'avventura poetica
di Cesare Ruffato; presentazione che condivido in parte
perché la raccolta è per me una pausa, un riposo dopo
l'affollato paesaggio delle raccolte precedenti. E
a proposito Vincenzo Guarracino puntualizza che «l'ordine
ossessivo, che omogenizza e aggioga il senso alla metrica,
altrove triturando le parole per ridurle a pari suoni
qui disponendo un sapiente gioco consonantico, al fine
di orchestrare una mimetica rappresentazione del "grottesco"
della vita sotto specie oniricamente verbale».
Con Giergo mortis,
che dovrebbe essere successiva ad Etica declive,
Cesare Ruffato ritrova la poesia in dialetto. Quale
sarà l'uso che ne farà è forse contenuto in questi
versi:
Voria scavalcare qualunque greto
e riva per cascare in poesia
idroponica solo mia sardonica
fatua spiera. Dormi cussì
resta ispirassion. 'n'araba fenice
e mi eterno lupus in fabula
Poesia come ispirazione,
come araba fenice che muore e risorge; e ancora "caronte
tuo mulo che mai si ferma"; e ancora "la mania de suicidio
leterario / ne fa imaginare 'na morte squasi/ sielta
per intimo destin caressà / e tirà de fin". Insomma
la morte della vita che coincide con la morte della
poesia, "rechie de morte e vita in balansa".
In queste sue ultime raccolte
Cesare Ruffato ha apparentemente messo da parte il
torrenziale vocabolario dei neologismi per distillare
versi di intima necessità, di antica sofferenza, di
universale dolore: il "giergo" e non più "el dialeto"
parlato dei vagabondi che camminano e gironzolano bendati,
vagabondo anche il poeta senza una meta "squasi che
l'anema me gabia saludà za fiapo e prossimo a catarmela"
una continua evocazione della morte. Ma la morte viene
vista come "na drita dama Alcahueta tròtula / che
trame imbastisse da qua aldelà"; una creatura, una
parola di Dio, un angelo speciale che assume peso e
sembianza in cadavere, ma che nello stesso tempo è
essere umano e strega mezzana. In questa rappresentazione
mi pare di vedere illustrate incisioni di origine medievale
che traevano ispirazione da un Dio punitivo e crudele
durante le grandi epidemie. Ma sotto questi disegni
di morte punitiva serpeggia l'ilare e ironico discorso
di un poeta che vede anche nella morte la fonte di
un gioco letterario che chiama intorno a sé "curiosi
e sissienti de salvassion" come per assistere ad una
rappresentazione da giudizio universale. In Giergo
mortis pare che la figura della morte si allontani
e si avvicini secondo un alternarsi di isotopie, o
meglio ancora di pluri-isotopie, e per dirla con Lotman
riguardo a un testo «in cui gli stessi segni servono,
a diversi livelli strutturali e di senso, all'espressione
di un diverso contenuto».
A questo punto sarebbe
interessante rivedere e rileggere le poesie in dialetto
che hanno trattato a diversi livelli, secondo un ritmo
cronologico, avvenimenti politici e storie private
situati nel tempo e nel ricordo e che hanno scandito
l'avventura poetica e umana di Cesare Ruffato.
E per finire vorrei citare
un brano tratto dal saggio che Francesco Muzzioli ha
dedicato alla poesia di Cesare Ruffato, saggio che
giudico tra i migliori a lui e per lui scritti, che
oltre ad essere uno studio sulla poesia ruffatiana
è anche una rievocazione degli anni, più tempestosi
della nostra storia recente, in cui quella poesia si
è andata costruendo confrontandosi con la realtà.
La citazione si riferisce
alla raccolta El sabo ma potrebbe riferirsi
a molte delle poesie di Ruffato e particolarmente a
questa Giergo mortis che per ora conclude tutto
il suo ciclo dialettale.
«La distanza temporale
è pur sempre un abisso che la parola colma con un salto
avventuroso e precario (si parla a un certo punto di
un "ponte di paglia", "un ponte/ de paia sul tempo
del tempo"), di cui si avverte tutta la difficoltà
e il pericolo: la riemersione del lontano, infatti,
pur agevolata dal suono ben noto e primario della voce
dialettale, deve fare i conti con la "differenza" ineliminabile
del presente. La discontinuità storica e sociale che
marca l'antitesi tra il "na volta" e l"adesso" deve
constatare la radicalità del cambiamento ("ormai...xe
cambià") e - ribadita anche dall'incisione del trauma
personale che (perno ne è un sabato di sciagura) torna
a far sentire la feroce frattura tra "prima" e "dopo"
- non lascia di rivolgersi all'indietro, "indrioculo",
verso il passato».
Il "cambiamento" scandisce
anno per anno la voce di Cesare Ruffato, il cambiamento
della sua e della nostra vita, e il passato torna insistente
commentando l'infanzia e la tragica morte della figlia.
Ma il cambiamento, il ricordo, il passato, perfino
il quotidiano appartengono a tutti noi che siamo vissuti
nella storia comune di questa seconda metà del secolo,
ed ora che siamo alla fine e ci guardiamo alle spalle
vediamo che l'opera poetica di Cesare Ruffato non è
invecchiata, come tante altre che hanno seguito l'esplosione
della neoavanguardia. La sua opera ha seguito un percorso
lessicale ed esistenziale dentro una rete di strutture
semantiche e apporti filologici, a volte di difficile
decifrazione ma anche di godibile lettura. Debbo confessare
che l'attraversamento di questo vasto universo antologico
della sua poesia dialettale, non è stato per me impresa
facile, ma una volta tentato, l'attraversamento è risultato
una scoperta di una poesia che giudico come "unica":
da qui l'impossibilità di un confronto con la poesia
altra che riempie tutti gli spazi disponibili degli
spettacoli letterari.
Scrive il poeta alla fine:
Non so se me consolo d'un buso
da studente ad hoc al Verdi in logion
lusinghe ociae da londi sbecae d'ilusion
anfosa. Desso "est ma vie trop pesande
a porter...
mors, de ma vie me delivre" delusion.
Dove parole e figure no riva
el mistero sbassa seje e sipario
la peripatetica nera mena
el gnente par sé tuto
l'estremo cao icse de ognun
Per un poeta la morte evocata è sempre lontana, perché la poesia non trasmigra tra le "deserte nuvole su la luna" ma "Na luna legnosa levantina / combina galerie stagne de auto / bai al cloroformio, siami spiritai. Cesare Ruffato si sforza di rimanere dentro la realtà e dentro le poesie che la vivono, un poeta che alla distruzione e alla morte può opporre soltanto la parola "sitadina del mondo / de stansa nei vocabolari".
Premessa.
Ben altri lettori, eccellenti
lettori, hanno indagato la poesia in dialetto di Cesare
Ruffato e basti qui per tutti ricordare Sperimentalismo
dialettale, in La poesia di Cesare Ruffato,
Ravenna 1998, di Francesco Muzzioli, o i saggi di Remo
Cesarani, Pietro Civitareale, Gualtiero De Santi, Giuliano
Gramigna, Francesco Muzzioli, Michel Prandi, tra gli
altri, in Poetica di Cesare Ruffato, Testuale
23/24, Verona 1997/8, senza dimenticare le analisi
di Luciano Caniato, in Locchio mitridatico,
Ravenna 1995 e i saggi presenti in Steve per Ruffato,
Modena 1997, e in Cesare Ruffato, testimonianze
critiche, La Battana n.s.3, Fiume 1997.
Emerge da queste analisi
attente ed approfondite la qualità alta della poesia
e della ricerca linguistica che il poeta compie allinterno
di una lingua sentita e voluta viva e vivificabile,
come strumento per comunicare in modo originale e nuovo
perché incessantemente indagata e ricreata dal di dentro,
in quanto medium di personale e collettiva esperienzalità,
e dal di fuori con gli apporti, gli stravolgimenti
delle necessariamente sconfinanti esperienze linguistiche
e culturali adiacenti: dallitaliano dei media o dei
linguaggi specialistici, alle lingue delle culture
passate o limitrofe; e infine interrogata e mutata
nella specifica operatività del fare-poetico. Questi
interventi, operando dal vivo di una realtà sempre
più complessa e globale sul vivo di una lingua-assunta,
quindi, come polimorfico mezzo di testimonianza attuale
e partecipante, come strumento capace di elaborare
pensiero critico auto/etero-referenziale, come voce
di poesia- rispondono oggettivamente ad eventuali
domande sul senso della scelta di una lingua marginale
(ma verrebbe da chiedersi, oggi, quale lingua non è
marginale nel sempre più caotico proporsi del rapporto
uomo-mondo), e ancor meglio fugano dubbi di ripiegamento
nostalgico o senile su una coniugazione del mondo
al passato o al perduto.
Se queste, di cui appunto
sono debitrice ai tanti che hanno lavorato sulla poesia
in dialetto di Cesare Ruffato, sono le premesse, io,
qui, ho soltanto tentato un colloquio con
alcuni dei testi raccolti in Scribendi licentia;
e già chiamarlo colloquio è improprio, perché le
mie movenze, che sono e restano indubbiamente soggettive
-quando addirittura non apodittiche-, piegano e modificano
anche gli interlocutori. A mio discapito accampo solo
un desiderio di pensare intorno a certe cose
che è nato incontrando questi testi di Cesare Ruffato.
Colloquio.
Il nichilismo del nostro
tempo è il prodotto di una cultura che ha operato una
quasi totale astrazione dallessere-mondo. E la nostra
lingua è diventata la lingua della nientificazione
della cosa-mondo, in una soggettività separata e disperata.
Perplessa sul mondo ramai
mondi / sul gnente impossibile e sui dubi / del parolare
le robe, la prova / serciarle e no lassarle morire.
/ ... / La sa ben da organo sientifico / che nessun
mondo parla e solo noaltri / se machina inventa dise
fa / ela intona e inverba co speciale / imaginassion
metaforica de echi / peli de oca, bocabolario birignao
/ fora papéta e descrission eterne / che ognuno se
monta e conta / fin che siensa sensàla verità / e rigore
co siamana parlantina. / Ela spia in robe e omini /
a capire sesti, segni coradela / adatarghe tuta la
corente / shokin de la so essensa. Nel logo / dove
saere la parola scampà / al lenguagio, specio spotico
/ de solitudo de la boca che la dise.
La lingua e la cultura
in sè parrebbero necessariamente portare a questo.
Solo la specie umana ...
ha labitudine di raccogliere, produrre ... oggetti
che hanno ununica funzione, quella di significare...
A differenza delle cose, questi oggetti portatori
di significato, o semiofori ... hanno la prerogativa
di mettere in comunicazione il visibile con linvisibile,
ossia con eventi o persone lontani nello spazio e nel
tempo, se non addirittura con esseri situati al di
fuori di entrambi... La capacità di oltrepassare lambito
dellesperienza sensibile immediata è del resto il
tratto che contraddistingue il linguaggio, e più in
generale la cultura umana. Essa nasce dallelaborazione
dellassenza.
La lingua nasce come sostituzione
delle cose: al posto del mondo sono messi pezzi di
fiato. Ma allorigine cè ancora un rapporto stretto,
come testimonia il pensiero-linguaggio magico-mitico:
i pezzi di fiato, i nomi, richiamano la cosa, sono
ancora la cosa, perché da essa emanati e provenienti,
perché qualità essi stessi della cosa; e la cosa cè
anche se non cè.
Il selvaggio non sa distinguere
chiaramente tra le parole e le cose e crede ... che
la relazione tra il nome e la persona o la cosa denominata
non sia unassociazione puramente arbitraria e ideale,
ma un legame reale e sostanziale che li unisce....
Si pensi per tutti alla potenza terribile del nome
di Jahvé nella Bibbia, sottoposto a uno dei più duri
ed osservati tabù religiosi.
La perdita viene dopo.
Con la fine del sacro,
del magico, del mitico, con la fine dellessere manifestativo,
la parola veggente, la parola sibillina via via si
svuota, taglia le relazioni col mondo, sostituendo
i concetti alle cose e le relazioni tra i concetti
ai rapporti tra le cose. Queste nuove relazioni vengono
inquadrate rigidamente in una logica razionalistica
immobile e ripetitiva che, a partire da Parmenide,
fissa lessere in ununità staticamente solo positiva
che dice ingannevole e falso il mondo dei molti
e delle mutazioni, costituito infatti solo di nomi
vuoti. Nel suo sviluppo sempre più rigido e
formale la nuova concezione logica del mondo ignora
la realtà manifestativa e le sue aperture, limitandosi
tuttal più a relegarla nel ruolo di un non-essere,
esorcizzato come non-significativo ed illusorio, fino
ad annullarla come inutile, non pertinente al sapere,
alla conoscenza, o, più sottilmente, come irraggiungibile,
kantianamente, comunque estranea e altrove dalluomo,
indicibile. E la lingua si è fatta normativa, necessitativa,
convenzionalmente vuota ed autoritaria. udite udite
umane genti la parola / mitraica a distanza da credere
/ sensa tocare... / Tanto mirà la podaria essere comprà
/ sul banco perdendo integrità / el mastice che la
taca a la so roba.
Una lingua che sostituisce
le cose senza mettere più nulla al loro posto. Nemmeno
il fiato.
Parlare xe un debole congresso
/ no darghe rispeto al sito / che masena perfin le
imagini / de la natura infarinae de simboli / e metafore.,
...maniera de parlare dogni omo / co termini afiliai
sgarugiai / nei bocabolari invita a nosse / per analogie
e metafore, ma xe / squasi mejo starghense fora par
no / imbatariarse de sofismi filo- / logici batoloni
che tingiassa., el mondo / tuto na lengua-po dobermana.;
La verità da tacà / siglese mistico che scancela
/ gelatina de fiori amor fatui / tu et illa litote
tarantola / ... / nomi esplorandi dà dà / che vani
dindola paeri su speci neri / un aldelà roversà.
Nemmeno il fiato.
Con il suo procedere la
scrittura non solo ha sostituito, ma ha riplasmato
loralità stessa, distruggendone in gran parte i
caratteri primigeni, decisamente connessi con lesperire
corporeo del mondo, con lalterità diversa, con la
irriducibile mutevolezza del vivere.
Oralità co nostalgica
spiera / de falso gran bataria, calieron / graspia
che sbrusa squasi sempre / sul piatèlo de la scritura.
La parola ha perso la sua
matericità (nacquà sgagnà spanìo sdolcinà / el ga
perso lanema minerale), anche specifica, si è staccata
dal mondo, dai sensi e dal corpo -dallintero-, per
diventare pensiero astratto, silenzio, pensiero di
morte, perché lessere che viene pensato e detto come
luogo della verità è il termine più vuoto, povero
e indeterminato, essendo negate con esso le qualità
della vita.
Anche quando sono rese
nominabili nel platonico genere del diverso
le cose del mondo, però la loro realtà -il loro luogo
di significazione sta altrove e la derealizzazione
del mondo... continua ad agire.
La memoria de la vose
pardelà / xe sensa oblio vanti de rivare qua / dove
tuto ghe pole capitare, / nacquà torno parole eiacule
in ore.
È la morte. Come segno
di una dicotomia che si fa sempre più profondamente
segno di una perdita, di unassenza: solo questa di
fatto dicibile, perché delle cose del mondo è rimasta
dicibile solo la negazione.
la scaìna a na roba
che sèita / a scominsiare appo nihil ex nihilo / in
fieri da no dirse, gossa de zefiro / sensa fi
na volta idea peca de mi / in serca de carne e peso.
È questo indicibile da
superare. Lineffabilità di un linguaggio che si è
autocostituito incapace di dire ciò che è, separandosi
dal mondo, rendendosi autonomo da esso e padrone del
proprio senso staccato.
Un lenguagio co drento
el so senso / che sapia dire donde el riva e capirse
/ pare chel manca... Imagarse / nel silensio, tempio
del tempo / e de lessere che dà conotati. / Distante
dal bestiario beato / che imbàrbara sbocando se podaria
/ proprio sbàtare ne la parola de Dio / che vien vanti
muta genuina / poesia incantà. Anca el cocepìo / de
sti momenti xe sempre un also / de la qualità umana
e de lamore / co segreti speciali che impissa i corpi.
Lindicibile mi potrà
essere dato solo attraverso il fallimento del mio linguaggio
Voria darte... lanema
de la parola / che sta per rivare o rùmega / e quando
la se dà la la xe za / plagià,... e de chiunque essere
la podaria / magari na ciave che anunsia verse / ...
/ No piansere pei fantasmi stereotipi / per i doni
beli che xe svanii, / nel darse la man credemo de scursare
/ la distansa, ma el ris-cio de voler / massa, de pertegare
labisso / de incorporarse in esodo erbario / o in
na lengua estuaria a toni / alti quasi vocalese che
se perde / nei boschi de la nostra vera sostansa /
xe tanto grande e scuro / na note che mai se supera
/ e tuto rimete in discussion. / ... / La cacia scursa
lambiente in tute / le cadense, spaca el cuore profondo
/ no se termina mai de conosserse / a lombra del logos
Eva milegusti / sburatà che ne imbarca più / a la morte
che a la sopravivensa / in na giostra crudele tiratera
/ che gnente cava ilusa de significare., I busi...
busini buseti busoni / problema ostico sararli. / I
podaria starghe da prima / o a compenso del fracà /
in modo che la materia sfiata / vegna penetrà ne le
maniere più strambote / ris-ciose de impiastri vari
/ che strissa impegola petrolia / fistola pastissa
de rabalton / un desio de oci falsi / macabri operculi
orifissi osculi., Nel slancio verticale ghe preme
/ sgrinfiare un tempo perso o dissipà / ... / In alto
un poco de silensio bersalia / na porta su na zona
no conossua / forse quela che sgrafa e spense i desideri
/ ... / Nel tentare el tuto par tuto / se staca i
poli da la parola / per invosarse in cresta / spacando
el silensio / perdendo el ben di Dio guadagnà, / lorisonte
che la gaveva alsà / a dirse e scriverse lanema.
Lo scacco del linguaggio
non è condanna al mutismo, perché ti racconterò come
sono entrata nellinespressivo... come sono entrata
in quello che esiste fra il numero uno e il numero
due, come ho visto la linea di mistero e di fuoco e
che è la linea clandestina., perché si sperimenta
la gioia di perdersi, il fuoco delle cose, la
tessitura di cui sono fatte le cose.
fa pensare a un papiro
scoperto / coi conotati mistici secreti de Eva / che
miracola e bala el lessico., Sta vista diversa
particolare / mena a inventare na sintesi savarià
/ la luce del mare, la sapiensa maga / del vodo, la
cometa de Giulieta / le piasse tramortie de sangue
/ carri armati e iene, sepolture / scoverte al cospeto
del cielo.
È il ritrovamento del contatto,
di quellessere pieno, vitale, indistinto, che non
conosce il negativo perché è tutto ciò che si manifesta
così come si manifesta, di quellessere che ci è venuto
dalla madre, quando con il suo corpo-parola ci ha mediato
e dato il mondo. Il suo linguaggio non era di astratte
categorie, non era separato dalle cose, non era immateriale,
perché era linguaggio di tutto il suo corpo: un corpo
che dava ed era vita, dava ed era realtà. In questo
linguaggio si è sperimentata lappartenenza allintero,
nellunione col corpo materno: è infatti un linguaggio-corpo
del tutto convissuto e compartecipato, dallinterno,
matericamente, fin dalla prima percezione nel ventre
materno del bioritmo con cui il mondo si è manifestato
attraverso la madre, per diventare poi, sempre attraverso
la madre e in comunione con essa, lingua-esperienza
che dice il mondo e lo crea.
noi impariamo a parlare
dalla madre... non oltre o extra ma come parte essenziale
della comunicazione vitale che abbiamo con lei, in
quanto matrice della vita lei e soggetto distinguibile
dalla matrice ma non dalla sua relazione con essa
noi .
'na lengua materna che
viaja / da le vissere a la metafora / un tesoro de
luce fogo acqua aria / e sostanse che ne dà vita. ...
na ecolingua / grembo o marsupio, Un tempo sta
parola sana ironia / de oci bocia sbarai / farinosa
perla permalosa de senno / la dansava su le boche spetando
/ che tuto la diga, un mondo / de personagi ombre e
robe incantae, / ... / al punto che i putei infabulai
/ sdrissa le monae, inventa / prima dei io naranti
/ -adesso te la conto mi la fiaba. / ... / Taiussà
da semiologi ... la ga sbandonà lovile omerico / ...
/ lasèo del labirinto sempre manco / navegà da la
vose del dialeto / ... / Te rifiabo sul cilà:
locio destro / che ga rabia del sinistro, la boca
/ che rampega su la fronte, el naseto / che se spartisse
co le recete / un museto pastrocio in serca de catarse
/ strigà che destrigo co leterno bocon / ahum del
lupo manaro. / Fabulava tute le sostanse, el nostro
/ ovoduro, la to ovomaltina / el saverte dono ogni
matina. / ... / El latin la solidifica fabula / che
rimanda più antico / leco de la vose materna / rinsaldà
de fede e emossion., La prima fiata che me so catà
/ nel dialeto xe sta la vose de mama / fantasma chisachi,
scartosso de pana / presignificante dove mignògnola
/ speriense, ombrìe afetive in buso / nero de distinguo,
de na masena / simbolica che me limegava al so corpo
dolse impiocà / -te sì un bel bambin el me pansin-
/ parsora el papà Edipo sacagnà / -sito vero el me
bravo ometo- / come na sorta de logos impelagà / foratempo,
do lustre pronunsie / diverse una de scarga placentare
/ beata, laltra de pretesa autorità
Lantica relazione con
la madre ci dà sul reale un punto di vista duraturo
e vero, vero non secondo la verità-corrispondenza ma
secondo la verità metaforica che non separa essere
e pensiero e si alimenta dellinteresse scambievole
fra lessere e il linguaggio.
Ste parole prime parentali
/ ne loro de la vita ciama / linconscio lalante,
corente / letrica bianca de vocali sparpajae / sui
corpi de mama e papà putini / anca lori distanti e
vissini / e mi me godo ne la cola che sta / ancora
prima dei sesti, parvense / fine sielte del soma.
La mama solo oci / damore intivava parfin intension
/ ditava tuto pelesin e bon.
Per poter trovare o ritrovare
la parola, che lo scacco sia tutto intrasoggettivo
o che sia provocato da circostanze sociali (Fadiga
boia destegolare / la parola materna nel talian / uficiale,
impirare bocaboli / da festa patentai de lusso, /...
/ Un disastro / el senso sorvolante), occorre per
cominciare rinunciare alla propria indipendenza simbolica
... e contentarsi di poter dire qualcosa ... si tratta
... non di rinunciare alla parola ma di accettarne
la perdita interpretandola come ritrovamento del punto
di vista delle origini, quando eravamo nella dipendenza
della madre. Ciò non equivale a regredire alla condizione
infantile... Si tratta di un cambiamento di epistemologia.
Si tratta di pensare che lorigine della vita non è
separabile dallorigine del linguaggio, nè il corpo
dalla mente, e pensarlo da un punto di vista in cui
il loro legame non è loggetto di una dimostrazione
ma un modo di essere, un abito.
El dialeto corporeo xe
par mi / importante come la prima mimica / le statuete
posturali, el rispeto / de come comportarse par fare
/ na peca virtuale a la parola / cioè el ghe entra
nel pensiero / de la scritura raisa geroglifica / de
la materia che crea vita / da no tocare mai. Me ricordo
/ co go detà mama i oh toh beh / e brassi sclamativi
-gheto sentio- / e ninin nel specio de la lengua /
invento dimamarme. Po co prove / vegnevo fora spiera
funambola / de ilusion. Forse la mama xe vera vose
/ crea solo ne la voja de fare un ceo, Ne le venéte
de la teta spiero / canalete del dialeto, no rivo /
a scalumare la vose coralìo / de raisa, late cajà,
un gropo / rabalta in deserto na vita / de lengua
sistemà, Desmentegarse fra le righe / còeghe mus-ciose
del dialeto / che concede license e libertà / negae
a la lengua rompibale, Come primo computer el sincola
/ al mondo foresto coi segnali / e soni prearticolai
del sogeto. / Mente, pompa de la lengua, lievito /
narciseto, buto de falsa gnoransa / giossa de tempo
belo, caldo penelo / nichia de pora filosofia che se
/ carga el costruto de lanema / roba o ente o conceto
assoluto / siolto e mobile da no stechirse, i diglottici...
ga da supiarghe / inteleto no solo sentimento / parchel
sòna de cristalo sperma / sangue fiora, el sia bengodi
del corpo, / parlante nuo vestio de lanema / o psiche,
ponte verbale porto cuna.
Un punto di vista delle
origini. Per approdare ad una lingua che riporti indietro
lindicibile, ma lindicibile della separazione, di
quando eravamo uomini tagliati via. E allora:
Saremo inumani - come
la più alta conquista delluomo. Essere è essere oltre
lumano. Essere uomo non è un successo, essere uomo
è stata una costrizione. Lignoto ci attende... Non
è uno stato di felicità, è uno stato di contatto.
Una lingua che ci permetta di dire: Il mondo non
dipendeva da me ... il mondo indipendeva da me, e non
capisco ciò che vado dicendo... La vita mi è, e non
capisco ciò che dico. E allora adoro....................
E penso a la parola opaca
deldelà / carga de futuro smissià col passà /... /
riva a palponi da distanse e posti / impensabili...
/ ... / o che discore el sguardo astrato / robando
el più possibile la vose del silensio, Lio vodo
scuro de luniverso / buto de saere, cossiensa / e
sostansia lessere, Vardo la verità farse ponto
cao / silensio e luce discorare su la palù / sul stisso
che se xe. / Vose me porta in anda co moto / sermone
de ati forti, i echi / de la comparsa de luniverso,
Vose solo specià nel vodo tròtola / novas motas co
flaustels falseti / sgaja el divino el blu, 'Sto
dialeto... 'na janua coeli o ciara stela / vose panoramica
universale / de salmi, togarìa sgrisolona / de la materia
primobùto... / ... / el scrive disinvolto / robe stracote
e scontae, el sindentra / de più ne le robe vere a
priori.
Ma anche tornare a un
pensiero che ha la sua risorsa e il suo termine in
ciò che mi è presente... in forza del quale lesperienza
bisognosa di essere spiegata, e la sua spiegazione,
siano fra loro in un rapporto circolare che ... mostra
come esse abbiano uno stesso principio, facendo così
intuire alla mente che il pensiero e lessere sono
consanguinei
e bloco / el conceto
Eva che ne scaraventa / a la realtà e consa gusto epigramatico
/ le parole devien aria de famegia / e le se frise
nel certamen / del segno-come-cosa
Una lingua con cui puoi
dire il tutto che ti è presente, perché tu passi attraverso
qualcosa che è presente anche ad altre o altri.
Ritrovare la parola concreta,
che la parla coi oci rabaltai per goderse / el gargato
la pronunsia la boca / originali de la so vose, la
parola gesto, quel gesto puro / de semenare rifilare
na paneta / che pande da lorlo del piato / e sparpagia
quelo che no ghe xe, che move e rivede / el silensio
che te ghe pensà / el ghe giusta i dani, quel gesto
che J. F. Lyotard dice immettere nel linguaggio una
traccia venuta dal sensibile: Anca illa ... xe tuta
forà de trivelae miste /... / da impienare de senso,
sentimenti / colori unguenti soni /... / invito la
poarina a colmarse / a viagiarse insieme / e nel sogno
mimparolo.
Ritrovare la parola passione,
co la fraca de lampra passion / dei cavalieri pal
tesoro del Graal, roba stagna curiosa, bolero / de
passion, la parola poetica primitiva di Vico, che
non è tecnica retorico-immaginifica astratta, ma necessario
modo di spiegarsi che viene dallesperire concreto,
con cui luomo di sè fa esse cose, e, col trasformandovisi,
lo diventa; la parola densa del realismo segnico
di cui parla Conci, dove i nomi sono legati alle cose,
par incugnare pensieri e robe / co vose fressa, dove
non cè distinzione tra corpo e pensiero, tra pensante
e pensato, tra essere uno e essere molti.
Nata da parolo sior spenotà
/ e da na parolezza squinzi / ... / ... paràola /
parola parora paruola / sin dal tardo latin parona
parabola / e in volgare paraula / ... / ... parolozzo
/ paro:leta - lina - lucia - lona - lassa /... / leta
soto roversà la deventa / laparo /... /... e rimirandose
/ le letere per drito e roverso / ... la le vede /
adate a le robe che fa laria / dove la vose se destira
e sfalda /... / p inissiale de padre pié pan
ponte / a de albero amore anema / r
de rima religio roba rumore / o de ora origine
opera orifissio / l de linea letera lume limite
/ ... / Ma da qualsiasi roba stimi, dal so corpo /
arlechin vien sempre su la vose / chel silensio invida
a le letere.
La parola magico-mitica,
la parola buto, che pole / da le vissare snosare
vero e falso / e sgorgarse più in là bianco el mito
/ ramai sonà rosegà, che relaziona per simpatia analogica,
per similarità, per contiguità, per contagio, per promiscuità
di umano, animale, vegetale, minerale.
Zali i tabàri de la sciensa
smissà / nel palco de la mente de casada / ... / Tèrici
lovo cosmico, lomo / fàvaro, bocaboli de rabion /
... / Zali prime foje dalbari strani / infansia intelà
in computer tivù / ... / Zali piovra canaja scoramenta
/ fin el vodo / ... / Zali droghe draghi, bessi onti
/ carità fintòna, sen de passion / ... / Zali plaie,
lagreme, fradei rùseni / sangue da Aids, sgueltine,
spore virus / ... / Zali versi dei poeti / ... / Zali
vose e vento che ne impiena / de voli e buti......
La parola bambola, pìrola,
che trasgredisce il linguaggio comune, logico, separato,
la lengua rompibale, perché viene da un fuori,
da un prima del linguaggio e dice sul
confine tra io e mondo, non più confine ma luogo dincontro.
Mi par la verità canto
più ben tra / le done i tropi e le dissonanse, Davanti
a sta pratica de parole / femene, ... / me trovo labirinto
imbranà / come scaltrìo da lorlo del sublime / ...
/ e ne imbarassa anca el silensio / che sta drento
na casatela stonà.
La parola polisemica, caleidoscopica,
che è per similarità la molteplicità, il metamorfismo
del reale.
Intanto che me darento
le robe / cambia, darente la metafora che zonta tanti
/ consieri ne la sostansa del mondo.
La parola che dà voce al
selvaggio urlante di Jung, che abita ancora -pur
represso- in noi e che un tempo era artista e sacerdote:
Sighi pal silensio gravoso de Dio / mai sparìo, muto
ventriloquo eccelso / de soni e parole bianche.
Se linconscio è il luogo
del contatto tra corpo e psiche, tra mondo e soggetto,
bisogna dargli voce con i mezzi creativi ed espressivi
dellarte: la coscienza può diventare luogo di incontro
tra lio e il mondo, se accetta, accoglie dellinconscio
la capacità del contatto, del contagio.
El me costato tutomoto
la esclama / illa giravolta adorabile infans / flatus,
Beato el sunio / endolengua del mondo intimo / poesia
speciale del stato puro / de la mente che serca linfinito
/ in lemma infante passà via / o desmentegà. No manca
chel sunio / sia na religion che liga smissiae /
le robe de emossion più forti. / Sta vose bronsa dona
frégole / diamante de memoria./... / La cueva del libro
universale dove / le parole torna, impèca i echi /
e se ricarga de fin stetica / se pitura roverso sortilegio.
/ Vose parsora me pana el specio / me respira el pensiero
meditabondo.
Per tornare alla vita,
alla zona pre-categoriale dellesperienza, al luogo
senza pensiero dove nasce il pensiero.
Per Ruffato questo luogo
è, non solo ma specialmente, il volgare padovano della
sua poesia.
Negli ultimi anni la
già imponente bibliografia critica sull'opera poetica
di Cesare Ruffato ha avuto un'impennata. Sono uscite
due monografie (quella di Luciano Caniato nel 1995
e quella di Francesco Muzzioli nel 1996) e varie riviste
hanno dedicato dei numeri unici alla definizione della
sua poetica, con numerosi interventi di noti e ignoti
personaggi del mondo letterario. Critici, poeti, saggisti,
filosofi e giornalisti di ogni ordine e grado hanno
scritto pagine e pagine, dicendo tutto e il contrario
di tutto, citandosi l'un l'altro o ignorandosi a vicenda.
Si tratta molto spesso di interventi densi, non sono
semplici impressioni di lettura. Alcuni di questi sono
saggi veramente pregevoli ed esaustivi. Confesso di
non padroneggiare questa babele critica in crescita
esponenziale, della quale non riuscirei del resto a
tenere il passo. Soltanto pochi giorni fa mi è giunto
per posta un corposo plico, inviatomi da Ruffato stesso,
che conteneva le fotocopie di due nuovi saggi (uno
di Pier Aldo Rovatti), le fotocopie di alcune traduzioni
di poesie probabilmente inedite in tedesco, e il bel
volume In forma di parole, come numero del terzo
trimestre del 1998 della rivista "Poetare e Pensare",
in cui compaiono cinque poeti in dialetto veneto (Zanzotto,
Ruffato, Caniato, Cecchinel e Villalta). Di fronte
all'irruzione di altro materiale di indagine mi sono
davvero sconfortata. Ho deciso così di ritagliarmi
un argomento molto circoscritto per questa mia relazione
che dovrei utilizzare in due occasioni diverse (a Firenze,
al Caffè "Giubbe Rosse", il 17 febbraio; e a Padova,
all'Università, l'11 marzo), scegliendo di parlare
delle immagini della morte che compaiono nella sezione
a titolo Giergo mortis della raccolta Scribendi
licentia del 1998. Naturalmente cercherò di arricchire
il campionario con qualche incursione nei testi limitrofi
che caratterizzano questa più recente produzione poetica
in dialetto e in lingua, da Diaboleria in poi.
Dico fra parentesi che il fatto che una delle due poesie
di Cesare Ruffato tradotta da Giorgio Faggin in Mimese
(versioni poetiche in friulano di alcuni grandi poeti
europei dell'Otto e del Novecento), per la collana
Lingue di poesie diretta da Ruffato stesso per
l'editore Marsilio, porta il titolo Nassita e morte
e può stare a rivelare forse la centralità del tema
nella sua produzione letteraria, almeno in quella dell'ultimo
decennio.
Nei miei studi precedenti,
usciti anni fa sulle riviste "Galleria" e "Otto/Novecento",
avevo fatto il punto sulla poetica del poeta padovano
dagli esordi letterari fino alla raccolta I Bocete.
Avevo aggiunto poi una voce di dizionario, nel 1997,
per un volume curato da Enrico Ghidetti e Giorgio Luti
per gli Editori Riuniti. Sono, insomma, rimasta indietro
di almeno due anni rispetto alla costruzione di un
ritratto critico che si avvia ad essere quasi monumentale.
Mi è piaciuta, quindi, l'idea di tentare di colmare
la lacuna di un quinquennio seguendo le tracce di un
motivo in fondo marginale (come la morte) nella pur
vasta produzione di versi 1995-1999, correndo il rischio
dell'ingorgo concettuale, di trovarmi cioè a far passare
da una buia cruna d'ago una valanga di parole e di
pensieri di questo scrittore torrentizio (lui stesso
si definisce da qualche parte "acrobata d'arte mimetica")
che tutt'a un tratto, imprevedibilmente, in data 1997,
si è messo addirittura a scrivere Il cantico del
silenzio, dove però - va detto - non si celebrano
gli elogi del silenzio, ma si cerca di trovare i modi
di una "dicibilità del silenzio". Ruffato - che già
Folena, durante una presentazione di Parola pirola
a Padova nel 1990 - definiva "affetto da bulimia poetica"
ovvero da "fame morbosa di parole" - vuol arrivare
a far parlare perfino il silenzio, vedendolo come un
tessuto seminale nel quale "si costituisce il senso
della parola e la sua comprensione". Così, per analogia
si può fare l'ipotesi preliminare che con Giergo
Mortis il poeta voglia far parlare la morte, dargli
voce, facendo sì che anch'essa diventi un orizzonte
di senso all'interno del quale però far risaltare le
ragioni della vita. Sul fondo di tutta la sua scrittura,
che è una scrittura che si guarda costantemente allo
specchio, che riflette su di sé decostruendosi e trasformandosi
all'infinito, c'è - ne sono sicura - una ricerca di
base sui nessi che possono stabilirsi fra una fenomenomenologia
del "divenire" e una fenomenologia del "dissolvimento".
Ne è, in questo senso, prova d'artista eccezionale
la raccolta recente di poesie in lingua Etica declive,
edita dall'editore Manni nel 1996, in cui compare il
canto insieme disperato e tenero di un referto clinico-sentimentale,
quello di un medico che si trova di fronte alla propria
compagna, anche lei medico, condannata da un male terminale:
Lui argonauta lontano, lei sgomitola
rare parole di vita sulla resistenza
del filo. Nulla più da scoprire
nei referti offuscati, le piastrine
mollano, scansioni ansiose scrivono
l'impegno del tronco cerebrale
l'edema dilaga il sembiante nel giorno
più breve. Tengo la mano lalica
indovino in vomito anemico il segreto
del vuoto, un paese liquido che cede
una turbolenza cupa del polso
tramonta l'indecisione della luce2bis.
Prima di cominciare il mio breve itinerario al nero, vorrei riprendere alcune osservazioni molto generali che facevo nel 1993, perché mi sembra che possano ancora presentare motivi di interesse, preparando il terreno ad una analisi inevitabilmente specifica e settoriale. Dicevo che Ruffato appartiene alla folta e particolare genealogia dei medici-scrittori, e dunque, si può aggiungere oggi, anche nella sua rappresentazione letteraria della morte gioca un ruolo importante il suo sguardo tecnico-scientifico. Lo sguardo del medico e quello del poeta, anzi, si intrecciano e si contrappongono: c'è il medico che registra con tutto il suo bagaglio di cultura clinica gli errori fisiopatologici del corpo, le sue micidiali devianze, e c'è il poeta che tenta una se pur imperfetta sublimazione del dolore e sogna "tesori pulviscolari" di spazi alternativi, di silenzi assoluti e pacificanti:
Mi sento come un cieco sorpreso
da un tesoro pulviscolare più
vicino ai silenzi d'altrove
che a quelli quattr'occhi sfiniti" (ED, p.12).
È ciò che lo scrittore
stesso chiama "l'orlo attivo del nulla", e ancora,
sempre sulle pagine di Etica declive, l'ingresso
perfetto "al mondo ascendente" (ED, p.53). È il momento
in cui perfino "la morte / si rilassa innocente" (ED,
p.23), aprendo in quel flusso marasmatico di parole,
di idiomi, di gerghi, di immagini, il varco verso l'invisibile,
che è uno dei semi principali della ricerca di Cesare
Ruffato, di quest'uomo generoso che ha scelto per professione
prima quella del radiologo, per penetrare attraverso
il suo accanito endosguardo nelle oscurità cellulari,
per indagare i collassi della materia e giocare così,
in un'osmosi continua fra vita e letteratura, fino
allo spasimo il conflitto subito di visione e cecità.
In questa operazione di straordinaria alchimia verbale
è il dialetto, l'urlingua, a fornire il mezzo per entrare
- come suggerisce Manlio Cortelazzo in un bel saggio
La voce mentale del dialetto - "nella parte
più oscura della caverna psichica, ma anche come abitatore
in quelle tenebre"2tris. Il dialetto, insomma, è qui
soggetto, strumento e oggetto della ricerca.
Dicevo, nel 1993, che
ciò che interessa questo medico-poeta è eminentemente
ciò "di cui l'opera è fatta", la sua natura di deposito
di giacimenti sparsi e fluttuanti, in cui si distinguono
gli inganni della natura, il patologico, le dissonanze,
l'arcana geometria del disfacimento e della metamorfosi
(O/N, p.163). È da lì, infatti, che proverrebbero anche
i materiali che colorano la serie di versi comparsi
col titolo Otobre de zali sul numero 14 della
rivista "Steve" del 1996, in cui incontriamo per esempio
una "nautila nostalgia da perdonare / che preme da
lapidi tombe per terra / da alberi dissanguati relitti
fossi / buchi e plicature d'ozono prati diserbati /
di polvere e cenere rancide". Non è la nostalgia del
passato che prevale (ed è semmai "da perdonare") ma
la rabbia, la denuncia di una realtà presente storica
e sociale sempre più degradata e invivibile. Perché
Ruffato - mi sembra giusto sottolinearlo - è anche
un poeta civile.
Ciò che si denuncia,
sulle sue pagine, insieme alla degradazione della vita
moderna, non è la morte ma è "la morte dell'immortalità".
Cito da uno scritto molto importante Per dire qualcosa
sul dialetto del 1996, in cui si legge: "(Il dialetto)
È un cono d'ombra-penombra di ur-luce che ripara una
verità insita; (...) Genevoce inestinguibile della
complessità, ur-placenta d'ogni fuoco. Non è la lingua
del potere purulento, ma una ecolingua-grembo-amnios
collegata ad alfabeti naturali nascosti, colmi di oligominerali
d'anima in pena che deve tollerarne la morte paradossa
dell'immortalità". Il dialetto, come lingua recisa
e ormai in via d'estinzione, trova grazie al virtuosismo
lacerante di questo "narciso derealizzante", che è
il poeta intento a giocare con la propria voce, la
possibilità di essere contemporaneamente "litania delle
radici" e "plasmazione del vuoto". Le parole in dialetto
di questo "poeta con la febbre", di questo poeta alterato
o "dinamitardo (come lo chiamava Aldo Rossi nella prefazione
a Minusgrafie), si fanno - per sua stessa dichiarazione
- "caucciù delle meraviglie", sfondano o si allontanano
dalla squallida ribalta del "tritume sociale di protagonismo
e look", e rivelano "il fuoco bianco della trasparenza",
uno spazio neutro interstiziale, non necessariamente
metafisico, ma certamente intramateriale, annidato
nelle fessure, nelle crepe, negli strappi della natura
e del cosmo, dove arde un fuoco latente, intriso di
"realtà e di enigma". Si può aggiungere che anche le
rappresentazioni della morte, dunque, rispondono a
questa doppia logica di realtà e di enigma.
È stato detto da molti
studiosi, in vario modo, che Ruffato non ha mai fatto
sfoggio di "ontologie negative", "non ha mai abusato
della negazione e dell'assenza come di modelli up to
date", che anzi il suo immaginario, ferito da lutti
spaventosi e irrimediabili (la morte dell'unica figlia
Francesca nel 1989 e recentemente della sua giovane
compagna Liliana), riesce ad incalzare "anche la morte
e la riduce, moltiplicandola". Gio Ferri ha parlato
perfino di "crisi come resistenza" (LB, pp.64-68).
Ruffato, nonostante le grandi tragedie che lo hanno
colpito negli ultimi dieci anni, non si è abbandonato
al dolore, non si è narcotizzato in poesia con la litania
funebre, con la nenia stordente del pianto rituale,
piuttosto si è avventurato nel continente oscuro dell'assenza
come un tenace uomo di scienza, si è fatto colonizzatore
del nulla, ha sfidato la grande nemica predatrice e
ha cercato - come si legge in una bella immagine de
I Bocete - "la lanterna de la morte, la pompa
/ del pensiero" che sola può essere "requie ne lo spirito
/ del tormento".
Sin dai tempi della
raccolta Prima durante dopo, uscita per Marsilio
nel 1989, il colloquio fra il padre e la figlia è continuato,
si è anzi dilatato e rasserenato in un dialogo ininterrotto
che vince qualsiasi sciarada malinconica, gli
strappi della separazione, per diventare - come ha
intuito Franco Pignatti - "slancio ottimistico verso
la dicibilità delle cose, anche se nelle forme poliedriche,
contraddittorie, labirintiche, ossimoriche" che al
poeta sono congeniali. E vien da aggiungere che il
dominio della morte nell'opera di Ruffato ha colorazioni
precise che spingono le sue tracce nell'aldiqua, le
incavicchia nella terra, in una metamorfosi naturalistica
che è garanzia dell'incessante divenire di tutta la
materia organica. Tutto ciò serve anche come ridimensionamento
di un individualismo narcisistico che pone l'essere
umano al di sopra di tutti gli altri esseri viventi.
A questo riguardo si potrebbe ricordare un verso di
Tommaso Landolfi che in Viola di morte (1972),
dicendosi "mezzomorto di crepuscolo", accetta il cupio
dissolvi in un desiderio di integrazione naturalistica
e di ridimensionamento narcisistico: "Ma forse questa
mia morte / non è cosa egregia e rara / Non è cosa
importante / più che lo sfiorire nella corte, / dei
fiori di dicembre, delle giunchiglie bianche".
Nella tavolozza cromatica
di Cesare Ruffato che raffigura la morte c'è il colore
"giallo" del dolore abbacinante, che permea una realtà
desolata e irreale alla Van Gogh, e c'è il blu della
non-vita, della "lontananza inattingibile, dell'oscurità
e della nekuia", e infine c'è la "luce d'alabastro"
di trasparenze infinite in cui si reincontrano i cari
fantasmi, dove si percepisce la loro "voce benedetta",
quasi fosse "coda del soffio della luce/ pura superna
dell'assoluta Perfezione o della Trasmigrazione", dove
il poeta è convinto di intravedere e scoprire la "ragnatela
dell'eterno" (naturalmente sto citando nella trascrizione
in lingua ciò che andrebbe invece ascoltato nella voce
tenera, musicalmente liquida del dialetto). Cito solo
un attacco, che ha per me che capisco e non capisco,
valenza quasi magica: "Magoni burane matine corpi /
sfissiosi ori slusenti xe passai / el pan nel cantonale
dona rose / sfiorie, bocon de festa secreta, lume /
sabatico me porta la pena / de la morte smonà...".
Ecco, una Morte smonà, che pare improprio tradurre
come "morte schifata" (ma è questa la traduzione dell'autore
stesso) e che a me parrebbe giusto indicare, invece,
nel contrapposto privativo di mona e del verbo
derivato monare.
Quest'ultimo registro
del Giergo mortis, ritrovato o inventato nel
"muco notturno" di "fonemi aerei / d'una animula che
mai finisce", è un registro trattenuto, ostacolato,
oltraggiato, è un timbro lirico sempre pronto ad autodistruggersi
o almeno a autopariodarsi, ed è, in fin dei conti,
una delle corde più commoventi dell'intera tastiera
ritmica e vertiginosa del poeta padovano, proprio perché
si tratta di una vena sentimentale che lotta con se
stessa, che si sovraccarica di pudore e di rabbia,
portavoce di un amore che sopravvive alla perdita e
di una contemplazione lucida del vuoto, dei tanti buchi
che la scomparsa delle persone care lasciano sempre
dentro di noi. La morte diviene così per Ruffato la
ladra per eccellenza, colei che ci svuota, portandoci
via pezzo a pezzo insieme agli affetti più cari. È
a lei che la rabbia del poeta lancia la sfida più grande
e definitiva, ironizzando sull'ipotesi di una fine
volontaria:
Questa morte mia proprio bene trattabile
nel rispetto dell'arbitrio supremo
diviene quasi una coppa davis del mondo
un nostro tête à tête che posso
con piacere orologiare (controllare con orologio) affilando
persino la mia cronometria o attendendola (...)13bis.
La ruffatiana cognizione
del dolore, sulla scia del celebre ingegnere prestato
alla letteratura, diventa un'operazione dell'intelligenza
condotta sull"orlo attivo del nulla" - come suggerisce
Gian Franco Frigo in un saggio recente (T, pp. 58-9)
- registrando l'itinerario eroico, tenace, non arreso
di un poeta che scrive, come vorrebbe anche Sergio
Givone, "come dall'al di là di un'immane catastrofe"
(T, p.64).
Il poeta "guastatore"
di un tempo se ne sta ora solo, in data 1999, ad aspettare
i fantasmi (certo non fa solo questo), ne registra
le presenze: "Nel silenzio / magico sono qui ad attenderti
/ con fili asole per annodarti / alle mie essenze e
del tutto inalbarti (farti alba)". Ruffato sa di rischiare
di cadere nell"epigrafe" o - come dice ironicamente
- di sprofondare nella "via del marmo", avviando un
fumo di figure "che sostiene la possibile verità /
di rifare con le parole anche la salma", ma accetta
questo imperfetto compromesso letterario pur di capire
il mistero di un'alterità totale che sola può permettergli
di conoscere di più se stesso. Lo specchio macabro
è denudato di ogni maschera cosmetica, viene affrontato
in tutta la desolazione materialistica della vita organica
che si corrompe, degenera e finisce, ma poi il poeta
accende un controcanto che impropriamente si può definire
elegiaco, certo vagamente consolatorio, con l'immagine
di una morte vista come estremo viaggio per acqua,
come simbolo materno di un sogno di reinfetamento e
di pace. È la configurazione di uno spazio neutro dove
forse è possibile ritrovarsi per sempre, e dove è consentito
un foscoliano sonno dei giusti:
Che una pietra col nome distingua
e riposi fuori mura le mie ossa
già carenti di midollo e porotiche
che si versino pernacchi e balzelli
io animella aerea mi escludo
ed esperimento alla maniera nuova
di osannare sottovoce cogli occhi
senza pavoni cherubini e serafini
lontano dal monumentale memento homo
di papiro e vanagloria a lettere
cubitali (in grassetto) e racconti di deliri professionali.
Questo look di suffragio passerella
fumetti ciocche pompe funebri
bocche e lagrime di cordoglio
requie di morte e vita in equilibrio.
L'ironia si fa tagliente
e mette alla berlina ogni orpello della parata del
lutto. Davanti al muro della fine i trucchi della finzione
diventano osceni, le parole contrite di "un dies irae
macaronico" smascherano l"astuta dama mezzana trotula",
la "cortigiana attempata / rattoppata d'unguenti cere
aggiunte", colei che quasi alla fine del lungo poema
in più stazioni è chiamata "la tenebrosa peripatetica
che conduce il nulla". Qualsiasi figura di "suicidio
letterario", allora, qualsiasi rappresentazione di
una morte raffinata e accarezzata da epigoni decadenti,
scolora e impallidisce davanti al pensiero di una morte
in serie, spersonalizzante, davanti alla fine inconcepibile
eppur banale di una piccola "Ofelia / cittadina", che
incarna la morte giovanile più brutale, quella stroncata
dalla droga.
Lo spettacolo della
morte non è visto nella chiave della pietas
e del vanitas vanitatum, ma nella più realistica
chiave denudata dalla psicoanalisi di "sguardo egoistico"
del sopravvissuto che coglie primitivamente nella morte
dell'altro una garanzia della propria salvezza:
In vita si dispensano
occhiate egoistiche sulla fine degli altri
più o meno stecchiti satolli o in calore.
Proprio nulla si sa di questo mancare
che marcia invece a testa bassa (...).
Ma anche questa immagine di una lotta per la vita che permea ogni angolo della realtà sociale e diventa pure una guerriglia fra chi vive e chi muore, rompendo così ogni ipocrita sovrastruttura della retorica dei buoni sentimenti, riserva a sorpresa, sempre sulle pagine di Ruffato, dei micromotivi musicali antagonistici che mettono in risalto, invece, il desiderio di vedere nella morte la possibilità di un "beato ascolto / del pullulare d'una vita sgorgata" in purezza e finalmente la realizzazione di una giustizia (come si legge, con toni evangelici, "e chi si umilia sarà esaltato"), nonché il raggiungimento di una "libertà all'estremo". Forse si potrebbe anzi leggere alcuni versi di Smanie, raccolti nel volume miscellaneo In forma di parole, in questa luce che vede nella morte la porta della vita vera, dell"anima dell'anima" al di là di "spazi e tele sbrindellate":
Non so proprio dove fermarla forse
in fotografia mescidiata con protoni sparati
acqua cristallina che scricchiola via,
maschere che cadono una dopo l'altra
il silenzio nelle cortecce. L'anima
dell'anima affievolisce la morte,
nel belato venga pure vera
vita a raccogliere qualcosa
da spazi e tele sbrindellati (p.71).
La morte, in questo progressivo e totale viaggio del poeta nel giergo mortis, diventa anche storia di un umile asservimento al mistero, fino alla bellissima poesia centrale del dialogo col fantasma della donna amata, di contatto con l'ombra della amica strega che nell'adilà "sbircia tutto in luce / nera", aiutando il poeta nella ricerca della "bevanda d'immortalità". E vorrei finire questo resoconto critico con due citazioni di poesie composte su questa nota di speranza. Vorrei dedicare queste mie pagine, per quel poco che valgono, alla mia amica Liliana che non è più fra noi, scommettendo sul fatto che da qualche parte nel cosmo lei riesca a sentirle:
Ed io figura d'una figura
triste trito il muto patema tu-io
alla ricerca della bevanda d'immortalità e di seguirti
nell'aldilà strega che sbircia tutto in luce
nera. Si adombra qua l'orlo
della fine e non si afferra
un pelo dell'esserci mistero.Il tuo amore anche nel lutto mi lega
a promessa d'eternità, non posso
dissolvermi come neve al sole
e fare spergiuro sarebbe pure
un cotradimento, cosa raffazzonata.
Darsi alla dama supercaligosa
in dono d'affetto che m'intui e t'inmii
una sola profonda sostanza virtù
spirituali di solida simbolica
fedeltà. Forse ci si impasta
persone altre (diverse) che reggono (resistono) non si sbriciolano
per un ricordo in sé che ci sostiene
per arricchire di sangue le nostre ombre.
Vorrei però aggiungere un'ultima postilla, perché credo che a Cesare Ruffato non piaccia una fine su toni alti, visto che più volte lui stesso fa la satira degli "eroi mimetici di sfide superiori", di chi fa il lutto "con cravatte e velette" sporcando il cadavere o di chi si esercita con "perbenismo e cordoglio posticcio" nella "morfologia del nulla", tanto che a un certo punto scrive: "In casa mi vizio con il sacro, il sopra...". C'è poco da fare, lui è "un poeta in fuga" - come diceva con bella immagine Armando Balduino nel 1990 - è un "poeta mascherato". E allora, proprio alla fine, ecco la postilla, che ritrae il poeta chino coi suoi bisturi metalinguistici e metapoetici a sezionare, scomporre e ricomporre la parola morte: "(...) / E inoltre la morte si anagramma / tremo temor metro (paura) timore misura / maschera sfocata dello spirito infuocato".
A scorrere la piccola
prosa, posta da Cesare Ruffato a introduzione del suo
Scribendi licentia (Marsilio, Venezia, 1998;
pp.427), si attingono informazioni preziosissime; utili
soprattutto se si sceglie di affrontare la lettura
analitica e intera (lingua pavana e versione italiana
in calce) di un tale voluminoso corpus poeticum.
Proprio di corpus testuale
più filtrato e più aderente a motivazioni estetiche
e di poetica, rispetto al passato, parla difatti lautore
a proposito della nuova pubblicazione che raccoglie
i frutti, alcuni già editi, di una lunga e prolifica
stagione scriptoria (1990 1997). Nel contempo, egli
ci suggerisce una lettura che si confaccia allintentio
operis; che tenga conto, cioè, tanto del rovello del
dire e del comunicare, quanto dellassillante revisione
e selezione, a cui ha sottoposto i suoi testi, animato
da intenti opposti e complementari: inabissarsi nel
mare magnum della poetica, dellestetica, delletica
e intanto riaffiorare in cresta allonda espressiva
per restituire, ricreandoli, i lasciti della favella
maternale, memoria linguistica e vivente cuore abissale.
Scribendi licentia
è la risultante di tali immersioni / emersioni tenacemente
provate e riprovate da Cesare Ruffato per otto leghe
- Parola pìrola, El sabo, I bocete, Diaboleria,
Smanie, Sagome sonambole, Vose striga, Giergo
mortis -, senza mai perdere di vista un alto orizzonte
intenzionale, fondato sia sulla ricerca di una radicale
congruenza tra significato interiore e significato
esteriore, sia sulla coincidenza di opposti apparentemente
inconciliabili quali lattualità e la memoria.
Di fatto questargonauta
con licenza di scrivere, mentre aggira le secche del
presente e scruta il futuro, guarda al passato: in
primis, a Eva e Adamo, presenze reiterate, filo genetico
tanto delliter creativo quanto dellorigine peccaminale
della genealogia umana, doppiata in ognuno di noi:
Adamo
però xe laltro mi e lombra Ma Adamo
è laltro me e lombra
mi
lo vardo e lu me varda, mi taso
io lo guardo e lui mi guarda, io taccio
(
) lu dise
desso sì che semo do (
) lui
dice ora sì che siamo in due
a controlare
Eva e i pecati. a controllare
Eva e i peccati.
Ma dal passato riaffiora
anche Dante, variamente evocato, pensato e agito come
imprescindibile faro:
(
) El
discorso
(
)Il discorso
sòtico
se màstega la coa par
volgare si mastica la coda per
slissegare
su la scia che ga cressuo scivolare
sulla scia che ha alimentato
la Divina
Comedia e torno co Dante la Divina
Commedia e ritorno con Dante
che sona
participio presente
che suona participio presente
de darne
de continuo spirito di
darci continuamente spirito
e forme.(
)
e
forme.(
)
Chiedo
venia a Dante per la licensa Chiedo
perdono a Dante per la licenza
de parafrasi
e co tuto rispeto di
parafrasi e con tutto il rispetto
vose de
desso tosto simioto:
subito imito voce attuale:
ahi serva
Italia de dolore basòta ahi
serva Italia di dolore cotta
barca sensa
timon in gran casoto barca
senza timone in gran casino
no siora
de provinse ma mignota. non
signora di province ma mignotta.
Come Boccaccio, del resto:
Luniverso
se specia nel creatore Luniverso
si specchia nel creatore
ben parsora
mente robe cuore. molto al
di sopra di mente cose cuore.
El fin sempre
più fin de rason sbrufa Il sottile sempre
più sottile di ragione esorbita
altro specio
de na robità che tira da altro
specchio di una realtà che attinge
anca Dio traverso
scarpie de segni anche a Dio attraverso
ragnatele di segni
co bola de
Bocacio la teologia con criterio
di Boccaccio la teologia
niuna altra
roba xe che na poesia non è niente
altro che poesia
di Dio simiabile
solo dal poeta. di Dio imitabile
solo dal poeta.
Guarda al passato, il poeta padovano, ma è così proteso verso lattuazione quihic et oranunc della perfetta coincidenza tra il dire e il pensare che Scribendi licentia diventa quasi un modernissimo campo di applicazione della logica combinatoria. Con calcolata sincronia, egli vi profonde materia e spirito, rivelandosi capace di collegare dentro e fuori, recente e remoto, vicino e lontano:
Na frana da
diluvio Una frana
da diluvio
un buso nero
tra cei europei un buco nero
tra bambini europei
e quei del
mondo poareto e quelli
del mondo povero
co quarantamila
morti al dì, con quarantamila
morti al giorno,
prima del
domila sentosinquanta prima del duemila
centocinquanta
milioni ris-ciarà
la fine per fame milioni rischieranno
la fine per fame
da sterminio
evitabile co pochi schei. da sterminio
evitabile con pochi soldi.
Più de meso
milion a lano Oltre mezzo
milione allanno
orbo, più de
diese milioni cieco, più
di dieci milioni
miniprofughi
e un milion xe orfani miniprofughi e
un milione sono orfani
nati da mare
col virus de lAids. nati da madri
col virus dellAids.
La strage famosa
dei inosenti La famosa strage
degli innocenti
se scancela
al cospeto de sta qua sparisce di
fronte a questa
genìa ruinosa
de erodi masnada rovinosa
di erodi
in grana bravae
e petrolio. con soldi bravate
e petrolio
La forza del libro sta
tanto in questo vertiginoso incrocio di calcoli, quanto
nel ritmo serrato e pieno di sorprese, che asseconda
una scrittura ora da grand savant, ora da enfant prodige,
ora da enfant terrible, ora da enfant tout court
Una
scrittura eterogenea come lumanità sopravvissuta a
se stessa che, coagulandosi attorno al medium di una
parlata patavina ricca di apporti e mescidanze, prova
a reinventarsi la vita, fondandola non sullo scambio
di beni, bensì sullo scambio di abilità e conoscenze.
Ovvero sul Bene, dato da una appartenenza culturale
che sappia essere municipale e universale al tempo
stesso, che voglia ri-trovare le ragioni della solitudine
e della societas:
(
) Mah!
(
)Mah!
Se vaga un
fià co sen in convento ci si ritiri
un poco con sete in convento
a contemplare
ciami enti silensi a contemplare
richiami enti silenzi
co oci penitenti
che scorla zo con occhi penitenti
che scuotono giù
calìgo caròli
conomici nebbia tarli
economici
destini imperialiene
imbelisse destini imperiali e ci
abbellisce
eroi mimetici
da sfide parsora. eroi mimetici da
sfide superiori.
Nel suo avviso ai naviganti,
redatto in giergo mortis e posto a suggello dellopera,
pur additando la solitudine socievole del convento
come ideale approdo della breve e avventurosa traversata
chiamata vita, Ruffato non rinuncia a sogguardare ancora
una volta la mappa nella quale sta fedelmente riprodotto
il reale, fissato tra lalfa e lomega. E ce lo squaderna
senza eufemismi:
Nassita e
morte parole insupae Nascita
e morte parole inzuppate
de pianto che
taca e destaca di pianto
che inseriscono e disinseriscono
la spina del
ciaro e del scuro la spina
della luce e del buio
el resto tuto
na papa in balansa. il resto è
tutto una pappa in bilancia.
E non rinuncia nemmeno a marcare i limiti della ragione umana e della stessa poesia:
Dove parole
e figure no riva Dove parole
e figure non sono sufficienti
el mistero sbassa
seie e sipario il mistero abbassa
ciglia e sipario
la peripatetica
nera mena la tenebrosa
peripatetica conduce
el gnente par
sé tuto il nulla
per sé tutto
lestremo cao
icse de ognun. lestremo
limite incognito di ognuno.
Nulla è sufficiente
a sottrarre lindividuo al confronto tragico con il
Limite. Con il Male. Con il Dolore. Che resta allora
agli umani?
Inibire il grido e declinare
la parola, dispiegando la voce: per riconoscere la
naturalità della morte e stendere, usando il suo gergo,
il poema della vita senza fine della mente.
Della mente-anima da aprire, infine, allascolto del
silenzio; nel quale consiste la parola di Dio.
Sono queste le sartìe
e gli alberi maestri del poliedrico vascello governato
dal nostro poeta: sulla prora sta emblematica la Parola
polena, ornamento pluriforme, pronto a mutarsi
in parola ammalata, parola matita, bucata, eccitata,
parola denaro, droga, sui trampoli, urlata, parola
sguardo, parola fiaba
Parole: parole che
infoibano la natura; o per essere più esatti,
un pozzo di linfe infantili a braccetto con la
natura; parole mammarie e mammifere:
Squasi rilabio
prà damore Quasi ridico
in labiale prato damore
la mm
preludio de la so raisa la
mm preludio della sua radice
tiro ritiro
el capessolo e fora tiro
ritiro il capezzolo e fuori
anca pal naso
vien tuta loralità. anche per
il naso esce tutta loralità.
Parole succhiate; orali, appunto; e intramate dalla Voce. Vose striga: voce spirito, voce pantagruelica, voce bilancia morale e ironica Vose singana: voce pia cicalina, voce perizoma, voce strage di etnie, voce orfana, voce mi porta gli echi dellorigine delluniverso: voce invasata, voce cosmica, voce sangue Voce umana, che trasforma lesperienza del dolore primario (ur-dolore) in occasione di prova, senso e giudizio dellintera esistenza:
No ghè figura
che co la vose Non cè figura
che con la voce
tirà longa o
curta, de peca di durata lunga
o corta, di timbro
dura o mola o
mejo co lalfabeto duro o molle
o meglio con lalfabeto
del silensio,
no conta el magon del silenzio,
non racconti il dispiacere
de pasta umana
(
) della materia umana
(
)
Dolore, dunque, come
ponte tra individuale e universale; strumento unico
ed esclusivo dato in dote agli umani per attraversare
labisso esistente tra la promessa dimmortalità e
levidenza della totale precarietà: Eritis sicut
dii / sumus invesse ombrìa flente.
Tale constatazione tuttavia
non produce in Cesare Ruffato un rapporto depressivo
con lesistenza, ma al contrario attivo e propulsivo,
che lo spinge a concepire una poetica concorde sia
con letica, sia con lestetica: è con questa fune
a tre capi che egli annoda, di fatto, la necessità
di trattenere e preservare la memoria allobbligo
morale di trasmetterla in forme conformi.
È così, per scagliuzze
di verità, che il poeta può stare allàncora nella
contingenza, la quale è illuminata solo dal silenzio
di Dio. Un silenzio di vigilia che, mentre incentiva
lascolto e acuisce la tensione, dispone allattesa
e allo scatto, nel tentativo mai esausto di carpire
lintenzione divina. Perfino di anticiparla. È in
ciò che consiste la virtus poetica, ci lascia intendere
tra le righe Ruffato; e intanto prova a rimettersi
in gioco: a misurarsi, cioè, con linvenzione. Che
non è solo riproduzione, ma anche anticipazione e creazione.
La sua ricerca quindi,
pur avendo preso le mosse dalla logica combinatoria,
punta contemporaneamente a scandagliare la logica dellimmaginazione
artistica, la sola capace di spezzare le catene modali
e di aprirsi alla licentia scribendi. Ossia a una loica
libera - e libertina - nella quale fisica e metafisica,
limite e perfezione, tempo ed eternità, istinto e volontà
non sono più struttura binaria, ma struttura unica
del reale: quasi uovo eretto a covare.
Si tratta di un itinerario
che conduce lanima di chi scrive e di chi legge
a incontrare cose e parole al loro oriente, in intrigante
coabitazione con una nostalgia che non è rimpianto,
ma intimo raccoglimento. Luogo del raccoglimento è
la memoria; anzitutto la memoria linguistica, che sincarna
in quel dialetto che concede licenze e libertà
/ negate alla lingua rompiballe, ossia nel padovano,
il vecchio parlare pedalato dalla mente, grazie
al quale sfogòna lagudeza delo spirito. Queste
vecchie parole, che immettono su sentieri dissueti
e disertati dal linguaggio abituale, paradossalmente
diventano linguaggio nuovo, diretto allorigine, al
radicamento.
Ma neppure qui lanima
trova certezze: può solo scrutare inquieta in un ultimo
abbrivio - e dire - lirraggiungibilità dei suoi stessi
confini. In questo vuoto, tra ciò che pare definitivamente
perduto e ciò che deve essere ogni volta conquistato,
si avventura tra una pìrola e laltra Cesare Ruffato,
ora come etico trovatore del verbo volante,
ora come cercatore licenzioso. Pronto, cioè, ad affrontare
qualsiasi prova; anche quella - estrema - di andare
a cercare la fonte / della verità nuda e cruda
E chissà che non consista
proprio in questa cerca perigliosa ed esaltante la
sua più umana e salutare vocazione?
Il cercare infatti,
rispetto al male di vivere, ha una valenza sia anamnestica
sia diagnostica in quanto individua non solo i danni
genealogici originari e pregressi ma anche le tensioni
del presente e le aporie del futuro; al tempo stesso,
questa pratica non manca di effetti terapeutici: dilatare
gli orizzonti del dolore per meglio auscultare il suo
respiro universale non può, alfine, che favorire lacquisizione
di una giusta distanza con la quale tener testa al
proprio individuale patire.
Il succo di quel grumo
di Natura e Soprannatura, Malattia e Salute, Attualità
e Memoria, Corpo e Anima che Scribendi licentia
racchiude non potrebbe, forse, consistere in questo?
Anamnesi, diagnosi,
terapia, del resto, sono termini più che noti a Cesare
Ruffato, medico diventato poeta per poter medicare
poetando.
Non è facile misurarsi
con lo straniamento e le plurime dissoluzioni dette
dalla lingua dissoluta (dis-soluta) e plurima di Cesare
Ruffato in Etica declive (Presentazione di Romano
Luperini, Lecce, Manni, 1996), eppure se ne esce corroborati,
in quanto essa, mentre nega lassolutezza della parola,
di cui vede il vilipendio, non si deprime, ma si fa
temeraria e afferma che è questa la sola fragile forza
alla quale, nonostante tutto, è dato affidare la nostra
avventura umana.
Magari per far sapere
che qualche oggetto celeste ancora / aggrega distanze
colme di presenze / accorda fughe di luci discordi.
Cosa non da poco, specie quando i tempi risultano niente
affatto proclivi allEthos: La cometa brilla
meno del previsto / tangenta a valle il registro etico
/ larancia meccanica civile; e al Logos: Troppo
si bara nel gorgo afasico / il giorno è sconcio, non
si crede / in ciò che si vede.
È proprio da questo dualismo
che si generano le cifre stilistiche e retoriche più
frequenti nelle lasse dei quattordici lunghi testi
che compongono la silloge: la scansione metrica e lenjambement,
la sinestesia e lossimoro, rintracciabile questultimo
sia nel contesto versale, sia in quello strofico e
poematico.
Concordiamo quindi con
Luperini quando dice che, fra i libri di Ruffato, questo
è uno dei più costruiti; e ci piace soprattutto sottolinearne
lordito ossimorico, che emerge pure da certi versi
come questi, autoreferenziali: anagramma di strofe
nascoste / che addossa la morte alla vita; Nella
camera oscura il visibile / parlare può donare stanze
chiare / sguardo di sapiente differenza.
Va da sé che, in obbedienza
alla matrice ossimorica, Etica declive potrebbe
essere letto anche come il canzoniere generato dal
rapporto tra lio poetico e la scrittura da un lato,
e tra la scrittura e il reale dallaltro. Fino a pervenire
a una poetica da inscriversi nella ricerca accanita
- ma mai cinica, semmai ironica - sul linguaggio poetico,
inteso non tanto come discorso, cioè oggetto di scambio
tra un emittente e un destinatario sul piano della
realtà, bensì come pratica simbolica in se stessa significante.
Cesare Ruffato infatti, siccome avverte limpossibilità
di trascendere il reale, si danna e si diverte a recuperarlo
attraverso la parola - vuoi laida, impoetica, ignota,
schizofrenica; vuoi materna, letteraria, scientifica,
erudita - ; parola comunque ricercata e trovata.
Spesso negli uffici lost and found dellanima, dove
cultura alta e bassa hanno affastellato i loro leggeri,
pesanti bagagli.
Nessuna meraviglia pertanto
se la parola diviene il soggetto assoluto del discorso
poetico e se lattenzione del trovatore si rivolge,
tra gli altri, anche al problema ontologico del linguaggio.
A noi pare che egli guardi, in particolare, tanto al
rapporto necessariamente distanziato tra il simbolico
e il reale, quanto allaccettazione di questa distanza,
oscillando fra il desiderio di abbandonare la parola
poesia come sapienza del silenzio e la
lucida coscienza di non poter vivere se non nel simbolico:
Lu sa ben de paraulas com van / e al pensiero della
parola centrale / vera sa farsi piccolo condiscendente
/ ricco nella sua rovina / e una porta umile lo introduce
/ nella mente del vissuto puerile / ideale.
Arrivare alla conciliazione
degli estremi, vorrebbe Ruffato, attraverso il coraggio
di opporre al silenzio come risposta dellEssere
colpito che, tacendo, piomba in se stesso la speranza
di trasformare in sentimento esprimibile, e perfino
soave, ciò che di insondabile e atroce è stato destinato
al genere umano; e a lui stesso, sopravvissuto alla
propria figlia Francesca. Tale speranza sembra quasi
la risultante di una terapia mirata, di una prescrizione
medica molto simile a quella consigliata da Anna
Maria Ortese in Corpo celeste: Luomo colpito
prenda uno strumento musicale in questo caso il verso
e cominci a trarne alcuni suoni calmi a sorridenti:
in questa calma e in questo sorriso soltanto egli potrà
imprigionare lorrore che ha subito. (
) Se una volta
almeno, in tutto questo monotono farsi e disfarsi di
stati e modi di vivere, una nuova immagine delluomo
si facesse avanti, si facesse cultura nuova, nuovo
uomo, allora noi avremmo davvero un nuovo inizio, una
nuova porta del mondo.
Stando a queste premesse,
diviene etico ogni giusto, e quindi umile, rapporto
con gli altri e con la natura, specie con il cielo
e con ciò che è intorno e prima di noi.
Ruffato è daccordo;
e lo dice così: Ciò che si perde intorno oltrepassa
/ di certo quanto si coglie, mentre riaffiorano
le sue medievali voci venerande della mente
a opporre a codesta contemporanea etica declive tutte
le virtù cortesi, vale a dire finamor contro
smarrimenti e falsamor.
Questi echi della tradizione
romanza che si dilatano di pagina in pagina, fino a
condensarsi nelle ultime, ci sembrano deputati a richiamare
una migrazione dalla Contemporaneità verso la cattedrale
del cuore, in cui si officia il rito consapevole della
frattura, della divisione, dellinganno,
dellentrata stessa nella coscienza. Entrata che è,
insieme, rogo e accensione: Ti prego / portami
fuoco e lenti più veloci
,
lacume del fuoco
quasi provenzale, ovvero recupero mortifero di
ciò che può essere colto ripenetrando nel silenzio:
la membrana senescente fruga / le cadenze degli assoluti,
scommette / sui defunti, i soli realmente esistenti.
Così la morte diventa
sinonimo di salvezza, luogo in cui realmente
il dolore del poeta per la distanza che lo mantiene
separato dal cosmo può trovare la quiete, mentre nel
vuoto chiostro dellio la poesia dubbiosa
resiste simbolicamente allinutile attesa
di risposte assolute.
Non si può passare la vita
a leggere Cesare Ruffato (né lui né altri, del resto)
e così dalla sua quasi sterminata bibliografia occorrerà
scegliere: tagliando magari con laccetta e compiendo
qualche azione sgradevole. Daltra parte la critica
la si compie in stato di perfetto nervosismo e non
in serenità. Si tratta di dire cose, almeno qualcosa.
Minusgrafie (Feltrinelli,
1978) e Prima durante dopo (Marsilio, 1989)
sembrano i libri migliori. Prima dellacquisizione
del dialetto e durante la fase sperimentale dellautore.
Non si sa se davvero Ruffato
abbia coniugato Lacan, Jung e Freud (oltre a numerosi
altri pensatori) come vuole qualche suo critico e non
lo si può sapere anche perché le indicazioni sul linguaggio
riguardano soprattutto luso della comunicazione fra
parlanti e raramente luso della parola in poesia.
Inoltre, come a suo tempo
il marxismo, anche Freud è in certa misura irrefutabile
e non contestabile. E occorre ritornare a questioni
che sono superate solo perché oggi se ne parla di meno.
In sostanza non ci troviamo di fronte a scienze esatte,
ma a sistemi pratici. Ma guarigione della persona e
felicità della società vengono rinviate sine die per
definizione. Oggi il mondo o ha smesso di crederci
o ha chiesto una pausa-vacanza.
Con Eros e civiltà (Stati
Uniti 1955, Europa 1963) Marcuse dice che le nostre
società sono arrivate a un punto di sazietà tecnica
e tecnologica. Contro questo (ed altro) si sono scagliate
le avanguardie politiche e letterarie elaborando teorie
e minusgrafie, verrebbe da dire. Ma la società nel
suo corso ha emarginato sempre di più la rivolta (sconfitta
anche politicamente, ma questo punto era scontato)
passando dalletica del sacrificio a quella della permissività.
Ogni civiltà è fondata sulla sublimazione degli istinti,
diceva Freud, e quindi sinché il freudismo è durato
come punto di riferimento (diretto e implicito) era
lecito costruire macchine logico-linguistiche per la
messa in crisi delle obiezioni: mistificazione e illusione
venivano colpite come prassi difensive e bigotte. Ma
una volta che questa sublimazione è divenuta altra
cosa (quasi nessuna città al mondo assomiglia alla
Vienna di fine secolo) non si capisce bene queste macchine
cosa macinino e contro chi si dirigano.
Con tutto il rispetto per
un genio come Lacan, ancora oggi è difficile discernere
nel suo lavoro lintelligenza del testo dallimpostura.
Nei suoi corti circuiti diretti dentro larghe fasce
di sapere si può solo ricordare con chiarezza la frase
che dice: Il soggetto è costituito dal linguaggio
e non viceversa. Intuizione splendida e da poeta,
non ci sono dubbi; dove finalmente linconscio viene
elaborato non come un ripostiglio per barattoli e scope,
ma come una struttura linguistica e da dove è possibile
ascoltare una seconda frase folgorante: Io penso dove
non sono, dunque non sono dove penso. Frase che tuttavia
fa ritornare in mente la massima celebre degli stoici
(se cè la morte non ci sono io, se ci sono io non
cè la morte). E in sostanza: se non sono né prima
né dopo, dove sono? Sono dove si costruisce loggetto
desiderato; persino latto sessuale è una propaggine
del desiderio sicché forse neppure latto sessuale
esiste. E se anche il linguaggio fosse desiderio, macchina
desiderante subordinata allemergere del desiderio,
così che né lingua né alingua esisterebbero? Siamo
agli sgoccioli di questo secolo, facciamoci pure qualche
domanda.
Il soggetto per Lacan ex-iste
fuori di esso; ci si manca, sicché tutti i guai per
noi derivano dal fatto che stupidamente vogliamo esistere
e per questo ci aggrappiamo (se siamo poeti) alla lingua
che scorre dentro di noi. Ma questa lingua se non è
tradotta nella lingua che cosa è?
Chiudendo la prefazione
a Minusgrafie, Aldo Rossi dice che la prosopopea
di Ruffato, il suo gesto, non può essere inteso dai
destinatari (oppressi e subalterni). Ma, come si vede,
questa obiezione è di carattere generale, cioè erga
omnes.
E difatti Rossi parla dellasintattismo
come nozione non verificabile. Lassenza di sintassi
sfocia per forza di cose (e non ci si può qui richiamare
alle regole o a Chomsky) in una sintassi autre. Onirismo
verbale? Rossi parla di perdita della fiducia nel mondo,
ma il mondo, sia pure malamente, continua a girare.
Dunque, i brandelli da ricomporre con storica pietas
a quale mondo (o più esattamente: a quale stadio di
civiltà) si riferiscono?
Quel linguaggio staccatosi
dalla riva nuota fra significati autonomi, ma la domanda
resta: autonomi da che cosa?
Se negli anni settanta
si poteva parlare di autonomia dal mondo capitalista
e borghese, negli anni novanta la tendenziosità di
questo assunto e la sua radicalizzazione sono venuti
alla luce mostrando i loro inevitabili limiti, mentre
(per colmo di ironia) borghesia e capitalismo esistono
ancora (toujours linstant fatale viendra pour nous
distraire, viene da dire, citando il Ruffato di un
testo di Minusgrafie).
Il significante come
si sa (soprattutto in ambito accademico) organizza
e fonda lesperienza; se dunque questo è vero, si deve
anche pensare che il grammaticalismo (di Ruffato ma
anche di Zanzotto) dà limmotivazione del segno come
motivazione. Ma ancora una volta la domanda insorge:
chi è il garante di questa nuova motivazione, dove
è il luogo (e come si chiama) in cui larbitrarietà
traduce e postula le onomatopee (per esempio) in lingua
della poesia? Perché delle due luna: o il sublime
ha il volto dellestasi o quello de quotidiano; o lalingua
è il portavoce dellinconscio oppure è una sottospecie
della parola. Ma quale differenza (e dunque scarto
estetico) si inaugura a partire da una alingua che
si medusizza davanti al quotidiano?
Sono sicuramente questioni
di fine secolo in cui cambiamenti di varia natura hanno
spostato sia lasse dellinconscio che quello della
sua produzione linguistica: dunque, quello che si può
dire, è che la tecnica, forse, è ancora buona, ma che
il soggetto, dovunque esso sia, non è più epocalmente
lì.
Così la forma inconscia
priva di parola, incarnazione della sorgente della
poesia, tramite (addirittura) fra lio e il sé del
mondo, deve rimettere alla verifica di un banco di
prova (sconosciuto) tutto il suo tirocinio dislalico.
E lilleggibilità del mondo, tradotto nellilleggibilità
della parola, raggiunge il suo apice che in questo
caso è la tautologia, ovvero lannullamento dei significanti
in negativo.
Questa lunga introduzione
era necessaria proprio perché di fronte ad una lavoro
serio come quello di Ruffato (si va dagli anni sessanta
ai giorni nostri, in un ininterrotto flusso verbale)
qualche precisazione non guasta.
Questo secolo non è stato
avaro di idola e di difficili punti che carichi di
fascino erano anche sentieri verso il nulla. In qualche
bolla di sapone / limmagine urla abbastanza. / Nel
caos ti assicuro la rilettura / del libro che avrei
voluto scrivere / o farti abitare. / Se lo scriverai
potresti ingigantire / la ricostruzione della soggettività
/ attraverso gli influssi negativi delleffimero.
Se si cita questo testo da Prima durante dopo
è anche per mettere in evidenza che molto più probabilmente
la lingua che oscilla tra convenzionalità e inconscio,
è quella che ha più possibilità di cogliere lambiguità
e il non detto della poesia, mentre i viaggi, quasi
alla Verne, dentro la parola ci riportano micromondi
che appartengono certo allonirismo ma che hanno molto
margine sordo.
Francamente non è convincente
il Ruffato, secondo alcune lezioni dei suoi critici,
che scende nel profondo e imploso corpo materno per
incontrare la sonorità del dialetto. Un Ruffato provvisto
di tali sonar sembra appartenere più alla fantascienza
che alla realtà di un uomo del Novecento. Beve strani
intrugli, gioca a rubamazzo con le streghe, pratica
lalchimia, sa usare un micro-vocabolario che traduce
i suoni del corpo materno? Non pare credibile. Tutte
queste discese, dagli inferi ai punti ciechi dellessere-uomo,
sembrano appartenere ad una sorta di apologia del fare
poetico che confondono le già confuse acque della poesia,
relegando il poeta fra le categorie dei mostri più
che degli esseri umani.
Certo, la mostruosità,
per il poeta che voglia essere nella luce della storia,
è dobbligo. Eppure questo discutibile sciamanesimo
sembra davvero un residuo a fronte di un mondo che
certo semplifica un po troppo ma che anche sia allontana
dalle incerte matrici della sua storia; un po come
il misterioso ed allucinante attaccamento al suolo
dei popoli balcanici. Contro dunque la balcanizzazione
della poesia e come voce della critica e come addomesticamento
al mistero del poeta, conviene riportare alla luce
i semplici misteri delluso della lingua come il gioco
della ragione che sia nella sintassi che nella sintassi
autre non può non seguire il ritmo delle versificazioni.
Laumento esorbitante delle
scelte lessicali amplia e raddoppia almeno la questione
e così ci si deve affidare alle neoinformazioni che
debbono dar conto degli sconvolgimenti contemporanei.
In Cuorema per esempio queste neoinformazioni
abbondano; il fatto è che come un vaso di Pandora una
volta aperta la famosa parola-baule (ne parlava Sartre
in una sua biografia) lo scivolamento incessante del
significato sotto il significante diventa praticamente
infinito. È il pozzo immenso di Joyce, ultima maniera.
In Viaggio al termine della parola, Renato Barilli,
con quel suo affascinante mix di semplicismo e genialità,
se ne veniva fuori dicendo: Se la cultura postmoderna
grazie alla tecnologia elettronica ci consente di attestarci
a livelli di rimozione relativamente esigui,
è possibile che tutti siano autorizzati ad accedere
alle omofonie, ai paragrammi, ai motti di spirito.
Ma questa terra santa della omofonia universale (viene
in mente una polemica di Fortini, Nietzsche di tutti)
dovrà pur essere dotata di una scelta e certamente
linfralità (sempre Barilli) dovrebbe portarci verso
nuovi significati. Ma davvero la rimozione diventa
debole? (e questo molto prima di Vattimo). E inoltre
la rimozione stessa, punto focale della bibliografia
psicoanalitica, è davvero accertabile e non si tratterà
piuttosto di una tecnica altra dove il rimosso altro
non è che uno stadio di coscienza diverso?
La questione rischia di
allargarsi perché il ricordare come il rimuovere
restano aspetti misteriosi della mente, e la poesia
ha sempre giocato su questo mistero e su questo incanto.
Forse era Merleau Ponty
che parlava della ragione del 900 come di una teologia
secolarizzata. La nostra situazione si troverebbe allestremo
opposto, in poche parole, di quella in cui il grande
razionalismo imperava. Irrompono in questa crisi le
filosofie immanentistiche (idealismo, marxismo) e il
loro successo sino ai margini del presente contesto
e anche dovuto alla conversione di una scelta volontaria;
un atto di scelta, appunto. Con le filosofie di cui
sopra luomo non sembrerebbe solo nelluniverso, come
si è detto, e neppure avvolto da energie misteriose.
La razionalizzazione forzata delle dottrine immanenti
relega fascino ed estasi a momenti minori quando non
decadenti.
Tocca per forza di cose,
a proposito di Ruffato, ripercorrere sia pure a passi
grossi, la storia delle idee proprio perché la sua
poesia si pone sul limite balenante di una parola scissa
che di volta in volta può dire due volte oppure niente.
Linfralità di Barilli
diventa dunque problema. Data negli anni e nei decenni
scorsi come scommessa bisognerà pur decidersi a dire
qualcosa a quelli che si presentano con lo scontrino
in mano.
E forse questi versi di
Ruffato (da Caro ibrido amore) possono essere
scelti come una degna chiusa per questo intervento,
dal momento che oltre che esempio di dissidenza linguistica
possono anche proporsi come luogo di riflessione: E
sempre a lavare panni sporchi / dentro il fenomeno,
innesti sperimentali / duna parlata atomica / forcipe
tornante / in ideologia ipersociale.
Dai tempi del Beolco
la città di Padova non conosceva un'operazione nella
lingua materna paragonabile a quella del poeta Cesare
Ruffato.
Il titolo latino della
sua ultima pubblicazione, Scribendi licentia
(Marsilio, 1998), che contiene la maggioranza dei testi
poetici in dialetto padovano, frutto di un lavoro iniziato
nel 1960 ed edito nel decennio 1989/1998, vuole affermare
il valore classicamente esemplare del dialetto, quando
esso sia sottratto al semplice uso strumentale quotidiano
e venga assunto a strumento di creazione poetica, anche
con l'opportuno inserimento di schegge in italiano,
di lingue straniere o di vocaboli settoriali. In questo
caso il dialetto diviene vera e propria lingua della
poesia, da usare con tutti i riguardi. È significativo
a tal proposito l'esempio di Virgilio Giotti, che tanto
pregiava il suo dialetto come lingua della poesia,
da usare nella vita quotidiana l'italiano come lingua
di minor pregio.
Il panorama novecentesco
italiano comprende diversi poeti che hanno elaborato
a fini creativi la parlata materna. Prevale la rappresentazione
di affetti e paesaggi domestici più o meno pervasi
da sentimento intimo, come nel caso del veneziano Giacomo
Noventa, del triestino Giotti, del gradese Biagio Marin,
del genovese Edoardo Firpo, del lucano Albino Pierro,
del romagnolo Tonino Guerra. Non di rado il dialetto
viene arcaizzato di proposito, per conferirgli maggior
risonanza sentimentale con l'effetto di allontanamento.
Non manca chi raccoglie l'eredità del cantastorie,
come dimostra l'esempio del siciliano Ignazio Buttitta.
Anche a Rovigo nel Polesine si trova questo filone.
Negli anni Trenta con le Cante d'Adese e Po
il poeta Gino Piva ha indossato i panni di Torototela,
tipico rappresentante della poesia popolare. Dopo di
lui Eugenio Ferdinando Palmieri ancora assume questa
maschera, per evocare antiche tradizioni.
Attualmente un caso
anomalo è rappresentato dal poeta milanese Franco Loi,
nato a Genova da padre sardo e da madre emiliana, venuto
a cimentarsi con un dialetto che non rappresenta le
sue radici, né paterne né materne. Comunque nessuno,
fra i poeti fin qui citati e nemmeno fra quelli citabili,
si serve del dialetto nella misura di Cesare Ruffato
per fare poesia sulla poesia, per intrecciare un discorso
metalinguistico che ingloba tutti gli altri referenti,
del privato e del sociale, in modo totalizzante. Tutta
la materia poetica viene plasmata da una lingua a forte
prevalenza vocalica, avendo come base il dialetto di
Padova nella viva parlata quotidiana, quindi sonoramente
duttile, bulimata da un procedere fortemente asindetico.
L'invenzione linguistica
e metalinguistica va a rotta di collo, eversiva, irrisoria,
straziante, allegra, pietosa, senza dar tregua un attimo
al lettore. La sorpresa inventiva comincia con la prima
sezione del volume, quella Parola pìrola che
già nel titolo la dice lunga, per concludersi nell'ultima,
in quel Giergo mortis che per forza disperata
e innovativa richiama l'espressionismo europeo e, nell'area
lombarda, Delio Tessa con L'è el dì di mort, alegher!
Quindi nel panorama
di questo secolo già alla fine, Scribendi licentia
di Cesare Ruffato si pone come un monumento poetico-linguistico
unico ed esemplare.
Breve nota biobibliografica
Cesare Ruffato, padovano, ha frequentato gli studi classici e universitari conseguendo la laurea in Medicina (1958) e la libera docenza in radiologia e in Radiobiologia (1964). Ha pubblicato, oltre ad opere scientifiche specifiche delle suddette discipline (fra le quali, particolare per l'impronta prevalentemente letteraria, La medicina in Roma antica. Il "liber medicinalis" di Q. Sereno Sammonico, UTET, Torino 1996), i seguenti testi di poesia: Tempo senza nome, Rebellato, Padova 1960; La nave per Atene, Scheiwiller, Milano 1962; Il vanitoso pianeta, Sciascia, Caltanisetta 1965; Cuorema, Rebellato, Padova 1969; Caro ibrido amore, Lacaita, Manduria 1974; Minusgrafie, Feltrinelli, Milano 1978; Poesia Transfigura, Campanotto, Udine 1982; Parola bambola, Marsilio, Venezia 1983; Trasparenze luminose, Società di poesia, Milano 1987; Padova diletta, Panda, Padova 1988; Prima durante dopo, Marsilio, Venezia 1989; Parola Pìrola, Biblioteca Cominiana, Padova 1990; El sabo, Biblioteca Cominiana, Padova 1991; I bocete, Campanotto, Udine 1992; Diaboleria, Longo, Ravenna 1993; Lo sguardo sul testo, Campanotto, Udine 1995; Etica declive, Manni, Lecce 1996; Scribendi licentia, Marsilio, Venezia 1998; e i seguenti testi di critica: By Logos Espo-Esproprio transpoetico (con S. Ramat e L. Troisio), Lacaita, Manduria 1979; Folia sine nomine. Il nome taciuto (con L. Troisio), Seledizioni, Bologna 1981; La trasparenza dello Scriba (con L. Troisio), Vallardi, Milano 1982. Suoi testi sono stati pubblicati nell'Almanacco dello Specchio, Mondadori, Milano 1974. Di Ruffato sono state tradotte e pubblicate raccolte antologiche in croato (Odabrane Pjesme, con testo a fronte a cura e traduzione di R. Blagoni, Istituto italiano di cultura, Zagabria 1996), inglese (Selected Poems of Cesare Ruffato, con testo a fronte a cura e traduzione di S. Centa, Gradiva, New York 1996), portoghese (Poesias escolhidas, con testo a fronte a cura e traduzione di V.X. Provenzano, Panozzo, Rimini 1997), svedese (Dikter, traduzione e saggio introduttivo di Gertrud Olers-Galli, Zindermans, Göteborg 1999), e testi singoli in spagnolo, tedesco, francese, friulano e in qualche altro dialetto. Molti sono ormai gli interventi critici sulla sua produzione, tra i quali: Luciano Caniato, L'occhio midriatico. L'«interpoesia» di Cesare Ruffato da Parola bambola a Diaboleria, Longo, Ravenna 1995; Francesco Muzzioli, La poesia di Cesare Ruffato, Longo, Ravenna 1998; Massimo Pamio, Parola etica. La poesia di Cesare Ruffato, Edizioni NOUBS, Chieti 1999; AA.VV., Cesare Ruffato, Testimonianze critiche, «La Battana», Fiume, 3 (num. speciale 1997); Maria Lenti, Cesare Ruffato: La parola e il labirinto, in «Studi Novecenteschi», XXIV, 53 (giugno 1997), pp.7-38; AA.VV., Steve per Ruffato, a cura di Carlo Alberto Sitta, supplemento al n.15 di «Steve» (dicembre 1997), Modena, Edizioni del Laboratorio; AA.VV., Poetica di Cesare Ruffato, Quaderno n.5, suppl. a «Testuale», 23-24 (1997-1998); Cesare Ruffato, poesie (con un saggio di Daniela Forni, Cesare Ruffato e l'invenzione della lingua), in «Avanguardia», Anno IV, n.10, 1999, pp.3-32.