Col titolo Scribendi licentia, Cesare Ruffato
ha da poco raccolto in un unico volume, pubblicato
da Marsilio, le diverse raccolte di poesia «in volgare
padovano» che ha scritto fino ad oggi: dalle prime
Parola pìrola (1990), El sabo (1991), alle
più recenti Vose striga (1990-1997) e Giergo
mortis (1997). Come si vede dalle date, quasi un
decennio di lavoro dedicato, se non esclusivamente
certo in modo costante, alla reinvenzione del «volgare».
A dimostrare che tale reinvenzione è fatta con slancio
e sapienza degni dellinteresse del lettore è sufficiente
la mole stessa del volume (più di 400 pagine) e la
varietà di temi e motivi che vi si possono individuare
anche con una rapida scorsa. Interessante, poi, in
calce ad ogni pagina, è anche la versione in italiano
dei testi, eseguita dallo stesso autore con accurata
scelta lessicale (che, tra laltro, rispetta lordine
delle parole), per cui come accade sempre in questi
casi un lettore bilingue può rendersi immediatamente
conto della diversa forza con cui le stesse immagini
o gli stessi concetti possono essere espressi a seconda
della lingua usata. E, per anticipare brevemente un
giudizio complessivo, bisogna riconoscere che Ruffato
riesce a richiamare alla memoria una tale varietà e
ricchezza lessicale da rendere la sua poesia quanto
meno una preziosa testimonianza di quella parlata dialettale
che, dopo essere andata lentamente scomparendo, è oggi
da più autori ricercata e recuperata.
Entriamo allora nel merito del volume seguendo proprio
questordine di problemi, che possiamo rendere più
espliciti con alcune domande. Per esempio: di che natura
è la lingua usata da Cesare Ruffato in queste sue costruzioni
cicliche, tendenzialmente poematiche, che compongono
Scribendi licentia? Oppure: di che natura è
loperazione linguista compiuta dal poeta? I poeti
che scrivono in dialetto coniugano, verosimilmente,
lamore per questa lingua col desiderio (o limpegno)
di ridarle vita e renderla in qualche modo nuovamente
attuale, se non altro per il tesoro di forme che essa
custodisce. Partono dal presupposto che, a fronte di
un italiano ormai frusto e stiracchiato, il dialetto
conservi nelle sue radici una forza poetante. Apparentemente
in modo non diverso, Ruffato scorge nel dialetto «na
religion da ereditare» (p. 168) e, tuttavia, già questa
espressione ci schiude un orizzonte affatto nuovo di
pensiero. Infatti, nella prospettiva indicata da questo
verso, non si tratta tanto di restaurare un vernacolo,
o una lingua popolare: nella prospettiva del restauro
ogni tentativo dialettale ha già perduto la sua scommessa.
Non di recupero, dunque, parla Ruffato, ma di eredità:
non si tratta di recuperare il dialetto, ma di ereditare
la lingua dei nostri padri che è quel complesso processo
linguistico che dal latino ha prodotto i vari dialetti,
con le loro infinite varietà locali.
È vero quel che scrive il poeta: «La prima fiata che
me son catà / nel dialeto xe sta la vose de mama»,
e nella prospettiva di una religione da ereditare,
il dialetto diventa un frutto spirituale che può essere
strappato dalloblio e dalla caduta soltanto a partire
da unelezione. Richiede che una persona, un poeta,
sia in grado di elevarlo a oggetto del proprio piacere
e coltivarlo come proprio beneficio. Richiede, insomma,
che un artista, ritrovandovisi, sappia elevarlo alla
dignità di lingua. Ne deriva che donarsi alle sorti
del dialetto non è soltanto unesperienza tra tante,
ma unesperienza di vita. Forse proprio per indicare
unesperienza di questo tipo troviamo come sottotitolo
al volume di Ruffato: «Poesia in volgare padovano».
Luso della parola «volgare» al posto di «dialetto»
(oggi infatti si parla per lo più di poesia «in dialetto»)
è significativo, se non altro perché rimanda alle origini
dellitaliano e, appunto, ai «padri» di questa lingua.
E tra tutti, in Diaboleria (1993), poco dopo
il passo riportato (ma anche altrove), viene citato
proprio Dante, con queste parole:
El finfa proprio in sercio streto
endofasia de na perla sfinia
el se frua spiera per endofagia.
Sta passion tien vivo el conceto
vocale famoso a u (v) i e o de Dante.
Frigna proprio in cerchio stretto / endofasia di una perla sfinita / si consuma lama di luce per endofagia. / Questa passione mantiene vivo il concetto / vocale famoso a u (v) i e o di Dante.
Par di capire, allora, che lottica nella quale lavora
Cesare Ruffato è quella di guardare al dialetto (ai
dialetti) come ad una lingua che, conservatasi (forse
proprio in quanto dimenticata) ancora sostanzialmente
integra, diventa il punto di partenza non tanto per
riformare litaliano, ma per forgiare un nuovo volgare,
la lingua del prossimo evo.
Rigorosamente coerente con questo assunto, il volgare
di Ruffato non è il dialetto che evoca, con un misto
di malinconia e di fatalismo, una civiltà ormai trascorsa
(la civiltà contadina), i suoi paesaggi e i suoi valori.
Niente di tutto questo in Scribendi licentia,
neppure là dove sembrano affiorare personaggi o luoghi
di quel mondo. Il volgare di Ruffato è piuttosto un
impasto primordiale chiamato a cantare gli aspetti
più diversi della vita; è una lingua, in cui confluiscono
diverse lingue (il latino e il greco; litaliano anche
nei più arditi neologismi; il francese e altro ancora),
chiamata a confrontarsi con tutti i temi possibili
e ad uscirne vincitrice. Valga, come esempio, un brano
poetico tratto dalla stessa raccolta:
Sto dialeto da sora pare forse
na machineta da foto infrarossi
scalon dei colori puntilioso
permaloso ciak dei atimi de polpa
de paca dresfai, spumantina danseuse
sui sòcoli trampoli savatele
recioto un tantin agrodolse, forse
na janua coeli o ciara stela
vose panoramica universale
de salmi, togarìa sgrisolona
de la materia primobùto, forse
na lengua materna che viaja
da le vissere a la metafora
un tesoro de luce fogo acqua aria
e sostanse che ne dà vita. O tochi
de carbon ne la calsa de la striga.
Questo dialetto dallalto sembra forse / una machinetta da foto a raggi infrarossi / scalone dei colori puntiglioso / permaloso ciak di istantanee di sostanza / rapidamente disfatte, effervescente danzatrice / sugli zoccoli, trampoli, ciabattine / recioto un pochino agrodolce, forse / una janua coeli o chiara stella / voce panoramica universale / di salmi, attrazione brividante / della materia primigenia, forse / una lingua materna che viaggia / dalle viscere alla metafora / un tesoro di luce fuoco acqua aria / e sostanze che ci danno vita. O pezzi / di carbone nella calza della trega.
Sembra quasi che sia proprio per mettere alla prova
questo suo nuovo strumento che il poeta tocca i motivi
più diversi, dalla rappresentazione del paesaggio primaverile
alla meditazione filosofica; dalla descrizione scientifica
allevocazione degli affetti familiari. Non mancano
neppure poesie in cui la lingua viene mobilitata a
cimentarsi con temi desunti da discipline moderne come
la psicanalisi, la sociologia o la linguistica. E bisogna
ammettere una cosa che alla fine desta un poco di stupore:
sembra che il volgare di Ruffato non si trovi mai in
difficoltà ad esprimersi in registri così differenti.
Una lingua, il dialetto, che a causa delle condizioni
storiche in cui si è sviluppata sembra pronta a muoversi
in un ristretto orizzonte di temi e registri, si rivela
invece duttile e versatile in questa nuova combinazione
che abbatte ogni preconcetta divisione linguistica.
Il dialetto padovano diventa «volgare padovano» proprio
grazie allopera del poeta che riesce a creare nuovi
vocaboli, forgiare nuove forme, suggerire possibilità
inaspettate; il volgare padovano assume in questo modo
la dignità di lingua.
Alcuni sostengono che il dialetto restituisce una riserva
inestimabile e preziosa per dare nuovo vigore alla
lingua nazionale. Ma poi, a ben guardare, non molto
è stato fatto in questa direzione dagli scrittori,
che preferiscono per lo più inserire nei loro testi
espressioni tratte dal parlato piuttosto che italianizzare
vere e proprie espressioni dialettali. Altri guardano
al dialetto come a un valore in sé, da custodire e
difendere. Ma così i poeti dialettali si sono diretti,
in genere, verso unimprobabile operazione archeologica:
il recupero duna lingua che ormai esiste soltanto
come lacerto o frammento. Il risultato è che poesia
in italiano e poesia in dialetto procedono come due
filoni espressivi ben separati luno dallaltro. Come
si capisce, Ruffato ribalta questa impostazione: il
suo «volgare» ha il potere duna calamita. Attrae nella
sua orbita non soltanto, come si è detto, altre lingue,
ma prima di tutto la lingua italiana. Numerose sono
le parole italiane dialettizzate, e non soltanto quelle
specifiche di alcuni linguaggi tecnici e che, quindi,
non possono avere alcun corrispondente nel dialetto.
Insomma, capita che il poeta si avvalga della stessa
tecnica che usa il parlante, quella cioè di ridurre
e plasmare nelle forme del suo particolare linguaggio
ogni nuovo termine, ogni nuova parola. Ecco allora
perché, come scrive giustamente lautore, la lingua
di queste poesie non è dialetto se per dialetto intendiamo
una lingua di cui oggi è possibile soltanto il recupero
, ma, appunto, volgare, cioè una lingua che ha forti
legami col parlato ed è quindi capace di trasformarsi
e rinnovarsi di continuo, benché si fondi su una tessitura
dialettale che sicuramente recupera molti termini oggi
dimenticati.
Succede a volte, nella lettura, di provare una sorta
di straniamento. Ci troviamo daccordo nellapprezzare
lefficacia di tante parole dialettali, ma poiché il
dialetto è stato declassato a seconda lingua, i suoi
termini non mancano dapparirci espressione dun sermo
humilis. Ora, questi stessi termini quando sono
usati dal poeta per esprimere riflessioni filosofiche
o morali, rimandano al lettore una sensazione curiosa:
ci si chiede se non irrompa improvvisamente nel testo
una sfumatura ironica o comica. Ecco, per esempio,
un brano tratto dai Bocete (1992):
Se i magna poco cicin o male
i se storpia, stue intasae
no i tira più, boficini sbassai
panseta da rana pele seca
oci in fora sbiadii
infame documento dei lager.
I nostri, lindi stirai in soasa,
campioni de versi e malusai
congelai co superoto i primi
passi in bala; sofegai de robe
sensa dire bai al fastidio,
ma la colpa siga la mare
xe del pare massa fiapo
tuti do parsora come lojo.
Na matina la siora in nero
nel so iride caressava la falsa
contrita in viso de pecà,
stravanivo par cavarla via
scaldarla col fià
la ghe stava drio pnotisà.Se mangiano poca carne o male / si storpiano, stufe intasate / non tirano più, culetti abbassati / pancina batraciana pelle secca / occhi sporgenti sbiaditi / infame documento lager. / I nostri, lindi stirati in cornice, / campioni di gesti e viziati / cinematografati con camera superotto i primi / passi traballanti; soffocati di cose / senza dire bai al fastidio, / ma la colpa grida la madre / è del padre troppo debole / tutti e due al di sopra come lolio. / Una mattina la morte / nella sua iride accarezzava la falce / con volto contrito di pena, / impallidivo per sottrargliela / riscaldarla col fiato / lei la seguiva ipnotizzata.
Ad un lettore che conosca il dialetto usato dal poeta,
ma parli di solito litaliano (riservando quella lingua
ad un contesto espressivo o confidenziale), termini
quali «cicin» (tratto dal linguaggio petèl)
o similitudini del tipo «panseta de rana» (ma si possono
trovare nel testo altri esempi simili) non mancheranno
di far pensare lì per lì ad un registro «comico». Eppure
levocazione dei lager (o in unaltra poesia laccenno
alla strage degli innocenti, allidea dei quarantamila
bambini che muoiono di fame ogni giorno) oppure limmagine
della morte che accarezza la falce non lasciano dubbi
sul fatto che il poeta parla seriamente. Non cè comicità
o scherzo nelle sue parole. E che sia proprio così,
lo dimostra non soltanto tutta la ver sione in italiano,
ma, in particolare per esempio, la scelta di riportare
«panseta da rana» in termini tecnico-scientifici: «pancina
batraciana».
Allora, se qui uso il termine «comico» non lo faccio
a caso: con esso faccio riferimento alla Commedia
dantesca. Questa deriva il suo nome proprio dalla scelta
programmatica di usare un sermo humilis, che,
nellepoca in cui veniva scritta, era appunto il volgare.
Ora non è escluso che nei lettori medioevali colti
e abituati al latino, luso del volgare per esprime
concetti filosofici o teologici non finisse per suscitare
quegli effetti di straniamento di cui ho parlato e
che per noi lettori moderni sono sicuramente superati,
perché le parole usate da Dante hanno perso la loro
valenza «comica» di derivazione humilis. Questo
riferimento ad un testo delle origini della lingua
italiana risulta assai importante per capire come debba
allora essere inteso e percepito il linguaggio di Scribendi
licentia: nel leggere il libro è necessario far
riferimento ad una sorta di grado zero della scrittura,
e cercare di interpretare le parole usate dal poeta
per il loro più schietto valore referenziale. In altri
termini, se si vuole capire fino in fondo la natura
e il valore dellopera di Ruffato, le parole che egli
usa non devono essere sovraccaricate di quel valore
supplementare, allusivo ed evocativo, che ci deriva
per lo più dalluso che facciamo del dialetto come
lingua dellimmediatezza espressiva, con la quale talvolta
vogliamo manifestare di proposito una certa grossolanità
e rozzezza.
Poiché, dunque, nella scrittura di Ruffato intervengono
istanze tali da costituire una trama e un ordito assai
complessi, non è strano che lopera di questo poeta
abbia già suscitato linteresse dei linguisti: proprio
per studiarla è stato recentemente promosso un convegno
dal Dipartimento di Italianistica dellUniversità di
Padova. Un motivo ulteriore, questo, per leggere con
più attenzione il volume appena pubblicato e guardare
con curiosità alle prossime opere del poeta.
Paolo Frasson