Gio Ferri
"El metro fondo del dialeto" nella poesia di Cesare Ruffato

Va data innanzitutto soddisfatta notizia del prodotto bibliografico di rara raffinatezza (malgrado la mole, oltre 420 pagine) - nella confusa invasione delle edizioni 'usa e getta' ormai, forse necessariamente, di moda - il cui merito va alla Marsilio Editori di Venezia: uscito alla fine del '98, Scribendi licentia - poesia in volgare padovano di Cesare Ruffato, è uno di quei libri che giustamente pretendono uno spazio particolare in ogni biblioteca privata (e anche pubblica, se in Italia esistessero, per la poesia, serie biblioteche pubbliche, nazionali o meno) che si rispetti. Farà bella figura di sé per la sua elegante robustezza e sarà un punto di riferimento per chiunque intenda la poesia come oggetto vivente (cosa, nel senso modernamente scientifico di campo di energia), segno tangibile del passaggio dell'uomo ne "il gran mar dell'essere" (citazione dantesca dello stesso Ruffato). Oltre ogni babelico limite linguistico: anzi esemplare ragione dei valori della forma poetica sia nel plurilinguismo trasformativo (metamorfico), sia nella dialettalità - vale a dire nelle parlate originarie demolitrici di una lingua 'ufficiale', e antecedenti ad una nuova lingua altrettanto, infine, istituzionalizzabile - come principio, origine segnica di ogni poetica espressività.

Per quanto riguarda l'imponente opera complessiva (creativa e critica) di Cesare Ruffato, poeta innazitutto 'italiano' fra i maggiori del secondo Novecento (in appendice il volume reca una completa documentazione), da quanto si è letto si può lecitamente presumere che, a partire da Tempo senza nome (Rebellato, Padova 1960) per giungere ad Etica declive (Manni, Lecce 1996), passando per il suo testo forse più famoso Minusgrafie (Feltrinelli, Milano 1978), i suoi estimatori abbiano considerato la produzione in "volgare padovano" (si noti quanto sintomatica sia questa definizione del sottotitolo), pur cogliendone le prolifiche valenze, come marginale rispetto alla ricerca poetica 'in lingua' (così si suol dire in maniera decisamente superficiale, proprio perché il "volgare padovano" come qualsiasi altro volgare non può essere inteso che come lingua, anche se, lo abbiamo visto, di secolare transizione). Tanto più sorprendente quindi la pubblicazione di questa 'opera omnia in volgare' (comprensiva di testi editi in raccolte e inediti) che rivela, a chi ne avesse bisogno, che il bilinguismo di Ruffato viene da lontanissimo (come uomo, ovviamente, e come scrittore dalla sua giovinezza) e da lontano pure dal punto di vista pubblicistico, cioè a partire dal 1989/1990 con il volume Parola pìrola (Biblioteca Cominiana, Padova 1990).

"Volgare padovano" quindi, propriamente, cioè linguaggio che ha subito sorte parallela, dopo che anticipatrice, a quella del 'volgare toscano', poi divenuto anche istituzionalmente 'volgare italiano': sorte di parlata comunque neolatina essenzialmente, e per ragioni geografiche con ovvie influenze celtiche, germaniche, levantine (dalla vicina Venezia e quindi dal 'vicino' Oriente...). Tuttavia il padovano venne a far parte, pur con sue specifiche peculiarità soprattutto di pronuncia, di una vera e propria genìa dialettale, quella della più vasta lingua veneta, così da potersi imporre - almeno nel luogo d'origine - anche, in passato, come lingua ufficiale (istituzionalizzata dal lungo dominio della Repubblica Veneziana). E come lingua creativa e poetica: basti nominare il Ruzzante, autore di alcuni veri e propri capolavori del rinascimento italiano. Quindi nessuna banale propensione vernacolare nel "volgare padovano" tout court e in particolare nel volgare di Ruffato: nessun vernáculum paesano, nessun incolto sparlare degli 'schiavi nati in casa', secondo l'etimologia dispregiativa più antica. Anzi, nel lavoro di Ruffato - forse primo in ciò fra i poeti di pura tradizione padovana -, grazie agli "inserti di culture poliverse e a influenze di gerghi professionali" (come sottolinea lo stesso autore), e grazie soprattutto a strutture poetiche rare e 'nobili', percorse da profonde e distillate psicologie 'moderne', si instaura un progetto di elevazione del volgare a gergo poetico alto e insieme umanamente e culturalmente profondo, per l'appunto. Ruffato insomma, e lo conclama egli stesso, va alla ricerca di una poesia dal "metro fondo": "el metro fondo del dialeto". Il volgare padovano, attraverso un lavorìo cocciuto e sapiente (e passionale) in fusioni gergali, in invenzioni neologistiche, in riscoperte sematico-dialettali, in ritmiche sonorità colte ancorché sempre volgari (a Padova e in tutto il Veneto è, nei secoli e ancora, anche la lingua quotidiana delle classi elevate, professionali e sapienziali, persino accademiche), diviene così per Ruffato uno strumento genetico-strutturale che lo conduce a cogliere il fondo, l'anima dura, ossuta, perciò sempre più oggettuale e veritiera di una ragione poetica che non può non essere ragione di vita, e considerazione sensuale della comunione fra le cose e la parola che le rende definibili, percepibili e sensibili. E vive. E prolifiche, cioè metamorfiche.

Si legga, per fare un esempio qualsiasi, ma fortemente significativo per invenzione e complessità compositiva, la terza strofe di "Parola coi busi" in Parola pìrola:

"... Anca illa polena come l'universo / xe tuta forà de trivelae miste / le più larghe in p o a / da impienare de senso, sentimenti / colori unguenti sóni / conotati fisici e morali dei significanti / co responsabilità fantasiosa radegosa. / Da tamiso co qualche buso a vista / e 'na strage drento simitero ipogeo / invito la poarina a colmarse / a viagiarse insieme / e nel sogno m'imparolo".

[Anche illa polena come l'universo / è tutta forata di trivellature d'ogni sorta / le più ampie in p o a / da riempire di senso, sentimenti / colori unguenti suoni / connotati fisici e morali dei significanti / con responsabilità fantasiosa dialettica. / Come cribro con qualche buco visibile / e una miriade in cimitero ipogeo / invito la poverina ad otturarsi / a viaggiarsi insieme / e nel sogno m'imparolo (mi faccio parola)].

Senza nulla perdere dell'ironia (i dialetti hanno questa peculiarità rispetto alle lingue ufficiali: quasi sempre riportano toni ironici se non addirittura derisori), in questa strofe di chiusura Ruffato propone considerazioni ontologiche, cosmologiche e, conseguentemente, etico-escatologiche profonde e polivalenti. In un territorio verbale che, sminuzzando, straniando, ricostruendo si situa fra una realtà profana e una avventura onirica di coinvolgente ambiguità. E per saggiare il valore autonomo e solleticante dell'eloquio volgare si colgano alcune espressioni che in italiano perdono d'efficacia formale e totalizzante. Quali: "xe tuta forà de trivelae miste", un endecasillabo dalla sintetica espressività e dalla sonorità cantabile (là dove in italiano, è tutta forata di trivellature d'ogni sorta, il discorso si fa prolisso e banale); oppure quel "fantasiosa radegosa" che s'impregna nella rima interna consecutiva di striscianti misure risolventi musicalmente, con blandizie persuasive, un discorso contradittorio di fronte alle "responsabilità" formali dei "significanti" (una condizione appunto banalmente dialettica nella versione italiana, connotati fisici e morali dei significanti / con responsabilità fantasiosa dialettica). Per finire con quel sorprendente "m'imparolo" che, nel contesto tanto (in)sensato, diviene nel sensatissimo italiano: mi faccio parola. Voglio dire che, nella indubbia difficoltà e anche durezza criptica della composizione volgare, nella costruzione sintattica e metrica disarticolata, bucata (d'altro canto l'ellissi è una modalità fondativa della poesia, e l'ellissi è più che mai esaltata nei dialetti, non solo per le frasi ma persino nei singoli motti), si rivela una profondità di propositi e significati (qui anche linguistici, come nel caso dei conotati dei significanti) che si dissolvono sovente in adusate ovvietà nella versione italiana (un universo bucato e incomprensibile che richiede d'essere riempito di senso e di sentimenti... - anche se, per la verità, l'immagine italiana del cribio sia di per sé di qualche efficacia). E' la forma straniata e sonante del dialetto-lingua, rispetto alla fredda convenzione discorsiva della lingua istituzionalizzata, che rivela l'epifania poetica. Una prova in più, se ce ne fosse ancora bisogno, che la poesia (come l'arte in genere e la musica in particolare) è, nel suo specifico, innanzitutto nella forma.

Tuttavia "el metro fondo del dialeto", quel buco riempibile di sensi e di sentimenti, partecipa di una primogenitura linguistica (riferita all'infanzia di una gente e di un individuo) barbarica e terrigna, sì, ma, di conseguenza, anche sensitiva, sensuale, sessuale: sanguigna. Perciò entro il "fondo" del dettato volgare si fa strada facilmente anche la grazia - materna in quanto generatrice -, la dolcezza di una condizione perpetuamente maternale e insieme infantile, e perciò fortemente creativa, proprio per innocenza verbale. Ne danno testimonianza, fin dai titoli delle raccolte, certe poesie della stessa Parola pìrola e de I bocete. Basti qui rileggere un testo quasi programmatico da I bocete:

"I bambini ideogrammi vari / de onomatopea, alone / sluseghin torno a le parole / bocete puteleti pupeti cei / pulsini picinini ninini bei / fregolete de subieti pargoleti / trabacolini schissoti tatarete / radeghini agnelini pierini / con pipì in bilico de rose / e cacona smorfiosa, tesorini / retorici ne la bòte psichica / vien vanti pian pianin dai cavei / al museto a le man per no sofrire / del tuto e moginogi sentire / el tufo nel corpo de càcole / a cavalin sul manego de scoa / o nel fare dispeti a incantesimi / e fole. Larve edoniste / gelsomini de luce che brusa / e vibra la vose ne le cane / del naso, uncineti de l'essere / in 'na lengua che presumo / un parlare universale proprio / par umanare el dirse. / Peluco ne la tela pensieri / a piombo su grame parole / che stracòlo sensa dissiparghe el genio"

[I bambini vari ideogrammi / di onomatopea, alone / baluginante attorno alle parole / bocete puteleti putei cei / piccini piccolini ninnini belli / bricioline di zufoli pargoletti / traballanti grumetti giocattolini / rissosetti agnellini pierini / con pipì in bilico di rose / e caccona smorfiosa, tesorini / retorici nella botte psichica / avanzano pian piano dai capelli / al visetto alle mani per non soffrire / del tutto e mogimogi sentire / il tuffo nel corpo di caccole / a cavallino sul manico della scopa / o nel fare dispetti a incantesimi e frottole. / Larve edoniste / gelsomini di luce che brucia / e vibra la voce nelle canne / dal naso (coane), uncinetti dell'essere / in una lingua che presumo / un parlare universale adatto / al fare umano il dirsi. / Pilucco nella tela pensieri / a piombo su parole povere / che distorco senza dissiparne il genio"].

L'onomatopea del balbettio infantile è espressamente dichiarata, con graziosa disponibilità d'anacoluti mimetici, accumulazioni più o meno analogiche (o di analogie nascoste nei genetici, segreti e irrivelabili meandri dalla mente infantile), rime diminutive, abbondanza di alliterazioni e paronomasie. Il dialetto esprime icasticamente situazioni ludico-infantili, tuttavia talvolta solo apparentemente innocenti. Quest'ultima è una caratteristica tipica (come l'ironismo) delle modalità espressive dei dialetti: passare inavvertitamente, con sottile gioco d'ambiguità, dalla tenerezza alla malizia. Il linguaggio infantile (difficile da rendersi in italiano, ma diffuso nei modi dialettali: tatareta, pierino, cacona smorfiosa, mogiomogio..., sono lemmi che ci si attribuiscono scherzosamente, se non sarcasticamente, anche fra adulti) è disturbato da qualche cattiveria che preannuncia quello spirito astuto e utilitaristico e anche menzognero (volto ad ottenere persino l'impossibile, o comunque ad avere più di quanto ci sia dovuto) che connoterà anche, anzi proprio, la lingua matura: "... tesorini / retorici ne la bòte psichica",... "o nel fare dispeti a incantesimi / e fole. Larve edoniste...". Di conseguenza fra tenerezze e velate profetiche malizie nei "bocete" si va inconsciamente, biologicamente sviluppando l'oggetto del discorso, che Ruffato - lo dice - cerca di sfruttare creativamente per rendere umano il dire, "un parlare universale proprio / par umanare el dirse". E così anche su "grame parole" (parole povere) si fonda una poesia nuova, in comunione con la realtà ma disposta, anche distorcendone la prima innocenza antifrastica, a mantenere la genialità di un atomismo verbale che nel discorso comune, infine, malgrado i residui di cui si è detto, tende a scomparire a beneficio della ufficialità discorsivo-utilitaristica. Ad osservare attentamente, sia sul piano formale, sia a livello semantico, questa poesia sembra voler fornire giustificazione critica della rivoluzione dissipatrice ma fortemente 'ingenua' e sensitiva auspicata dalle avanguardie storiche: il Da-da innazitutto, ovviamente, che alla promozione del balbettio infantile affidava il rinnovamento scritturale e insieme etico (contro le menzogne della comunicazione di potere).

In Giergo morto (1997), ultima raccolta dell'antologia, si prende atto tuttavia che la lingua così come nasce, fresca di paratassi non finalizzate e ludiche, pian piano muore, si consuma, si imbastardisce proprio là dove si voleva che si purificasse nella misura anche poetica. Poiché (sono gli ultimi cinque versi del volume):

"Dove parole e figure no riva / el mistero sbassa seje e sipario / la peripatetica nera mena / el gnente par sé tuto / l'estremo cao icse de ognun".

[Dove parole e figure non sono sufficienti / il mistero abbassa ciglia e sipario / la tenebrosa paripatetica conduce / il nulla per sé tutto / l'estremo limite incognito di ognuno].

Anche qui il biilinguismo (sostenuto da una metrica rigorosa, tre endecasillabi, un settenario, un ottonario tronco) riesce ad esprimersi in forti movenze arcaico-escatologiche. Che ancora l'italiano non sa rendere: "... el gnente par sé tuto / l'estremo cao icse de ognun" - qualcosa del mille e non più mille della paura millenaristica medioevale.

Ma poco prima, in

" Forsi 'na diapedesi universale / de vita-morte se mesta in ogni omo / sgaia de saverse e ghingararse / a sfida de cosmocianceri strologhi / bidonari de carte letare man / e sensitivi variegai. La morte latente / s'inòrgana in oci scavai serciai / incùba in luse nera 'na parodia / seca de ombrìe tra s-ciantisi bianchi / e slisseghi pargoli a bindolare / l'ilusion de vita...".

[Forse una diapesi universale / di vita-morte si mescola in ogni uomo / curiosa di sapersi ed esibirsi / a sfida di cosmologi ed astrologi / fattucchieri di carte lettere mani / e sensitivi vari. La morte latente / si struttura in occhi infossati cerchiati / incùba in luce nera una parodia / secca di ombre tra scintille bianche / e scivoli infantili ad abbindolare / l'illusione di vita...].

secondo una richiamata immaginifica intelligenza popolare si riconosce il disvalore del vivere nell'eternale connubio "de vita-morte" che già si rivela nell'esistenza di ogni individuo. Sul suo stesso volto. Comunque, ancora una volta, va notato come questa presa d'atto, in lingua italiana si attenui in un discorso 'qualunque', mentre nel padovano volgare il suono e la rappresentazione della parola-immagine dia luogo a una beffa tragica e carnascialesca insieme, degna delle folle di maschere risibili e paurose dipinte da Ensor ("... sgaia de saverse e ghingararse...", "...La morte latente / s'inòrgana in oci scavai cercai...", "... 'na parodia / seca de ombrìe..."). E' evidente che, specialmente nell'ultima raccolta Giergo mortis, il volgare padovano di Ruffato si presta a rappresentazioni e sonorità verbali energicamente espressioniste (che una gestione 'vernacola' del dialetto non saprebbe assolutamente rendere), in qualche modo, alla lontana, collegate con le beffe macabre e dissacratorie del mondo universitario medioevale, che a Padova trova, non occore dirlo, uno dei suoi luoghi privilegiati.

E poiché mai si abbandonano certe maternali e infatili dolcezze, pure riportabili alla sensibilità popolare e dialettale - anche in Giergo mortis si scoprono versi come "... in graneli de sabia in fondo al mare / un caos siolto al scuro de sagome / sòtiche de puina gelatina / dai nomi in latinorum sicosi / o filosi come coa equina / o tressa de cavei ninoli... [... in granelli di sabbia nel fondo marino / un caos liquido al buio di sagome / esotiche di ricotta e gelatina / dai nomi latini chiccosi / o filanti come cauda equina / o treccia di capelli ninnoli...] - , fra ironia, beffa e tragedia il 'volgare padovano' di Cesare Ruffato coglie - assecondata la propria genetica propensione - l'antica saggezza di una civiltà popolare (un popolo con-fuso, e unitario quindi, di 'signori', 'sapienti' e 'plebei') che si esprime in un disteso eloquio di saggezze, anche ironiche con grazia, che ci aiutano a conoscere nel "fondo", e ad accettare perciò coscientemente, l'incombenza del nostro destino.

* * *

Quindi - la sottolineatura è importante per comprendere appieno il valore complessivo di questa opera omnia in "volgare padovano" e le valenze della stessa generale poetica di Ruffato - entro le formalizzazioni alte della scansione poetica si innestano pre-testualità di amplissima e onnicomprensiva connotazione individuale e collettiva. Pre-testualità condotte dalla maestria del poiéin al gran mare del nostro destino, per l'appunto, a "l'estremo cao icse de ognun". L'eternale parabola della vita-morte-vita evolve questa globale antologia (oltre un decennio - il decennio della piena maturità del poeta e insieme della presa di coscienza di una illusione vitale che erode inesorabilmente il tempo della quotidianità, con i suoi propositi, gli affetti, le gioie, le sofferenze) in 'canti' epocali che, nell'insieme, danno vita a una sorta di interminabile poema. Un viaggio, una misura, una dismisura nella contingenza e oltre ogni contingenza che - fuor da ogni banale paragone giudiziale - rimanda ad altre peregrinazioni proprie della mitopoiesi della nostra civiltà, da Ulisse (Omero e Joyce), a Enea (Virgilio), a Dante (...Dante)... a Poliphili (Colonna)... Fra la vita e il sogno, fra la prassi della sopravvivenza e l'oltreconfine, "l'estremo cao" dove "el gnente [è] par sé tuto". Il percorso ripetuto, e anche stanco infine, fra l'andare e il riandare de "la peripatetica nera": il percorso labirintico e oscuro di ognuno. [Una disposizione alta, va detto anche qui, che l'uso vernacolare del dialetto non saprebbe rendere, a fronte, invece, della potenza espressiva di una lingua volgare dalla storia antica e dalla metamorfica costante polivalenza].

E ogni tappa, ogni 'cantica' ha i suoi protagonisti: figure, maschere o cose che siano. Parola pìrola, per esempio, risente per buona parte del respiro (e talvolta, ironicamente, anche della amorevole petulanza) della femminilità:

"...Dona xe indovinelo enigma / sorpresa el peso del deto / inasorìo de brame e segreti / combrìcola el senso imperterito / scotàndolo co la febre del sapere. / Davanti a 'sta pratica de parole / femene, a 'sti arzigogoli soranatura / me trovo labirinto imbranà / come scaltrìo da l'orlo del sublime / co ti e l'altro doto pandoli / e ne imbarassa anca el silensio / che sta drento 'na cascatela stonà."

[... Donna è indovinello enigma / sorpresa il peggio del suo dire / condito di desideri e segreti / combriccola il senso imperterrito / ustionandolo con la sete del sapere. / Davanti a questa pratica di parole / femmine, a questi arzigogoli extranaturali / mi trovo labirinto imbranato / come smaliziato dall'orlo del sublime / con te e l'altro dotto pupazzi / e ci imbarazza anche il silenzio / intimo d'un formaggino casereccio stonato].

Eva, il "concetto Eva" (più volte ripetuti nei versi precedenti): fatti linguistici fortemente abbarbicati alle cose, eppure, nel loro dinamismo epigrammatico, sommovitori. Richiamano quell'ipotesi dei biolinguisti secondo i quali il processo di comunicazione si sarebbe sviluppato per via femminile (cioè trasferito dal mitocondrio, dna esclusivamente materno) dall'Eva Nera dell'Africa Orientale: origine del discorso e delle sue mutazioni. Una incostante, metamorfica disposizione femminile verso le cose minime e le loro ambigue definizioni, quali segni esemplari, "segno-come-cosa": cosicché la parola mostrerà come trottola, annebbiate dal vorticare della vita, le sue mille indefinibili facce, la sua imprendibile verità, fresca, coinvolgente, ironica e tragica: sarà la "parola polena" e la "parola malà", la "parola matita" (dalla scrittura cancellabile e desiosa d'inchiostri per durare), la "parola coi busi" (in attesa di un senso), la "parola morbin" (che "schissinosa la trema / i oci lusori come stele"), la "parola denaro" (che "se scortega anca in donare"), la "parola sigà" (urlata), la "parola sguardo" (che s'intriga nel rapporto, e i suoi manierismi, fra parola e immagine), la "parola fiaba" (ormai lontana l'innocenza antica dei bambini).... Fino al dramma della "parola droga" (che "vis-ciosa calamita stracopa l'anema" - un verso forte che racchiude paura, rabbia, impotenza, dolore). La parola, infine, come segno di verità e di menzogna, di facezia e di tragedia. La parola origine e fine delle cose, delle storie. Risorsa e condanna. Misura e dismisura. Canto e grido.

Di ciò è fatta la natura de El sabo (il sabato), giorno del riposo e della rimeditazione, ma "ramai remoto lunario" (ormai remoto lunario):

"El sabo ramai remoto lunario / scrittura weekend a mesasta / co mile robeco merto e falimento / xe cambià / la neve dei balochi se sfanta prima de rivare..."

[Il sabato ormai remoto lunario / scrittura weekende a mezz'asta / con mille cose di merito o fallimento / è mutato / la neve dei balocchi si dissolve / prima di giungere...].

La parodia del "sabato del villaggio" che investe la nullità del consumistico weekend contemporaneo. L'innocenza fatta consumo, appunto. Eppure, ancora, in

"'Sto sabo caldo in Alto Adige / sonà da nuvole de riguardo / nei boschi abeti longigotici / solenni, ricordi de le carte / parlarole che ga qua partorìa / la nave de Atene..."

[Questo sabato caldo in Alto Adige / suonato da nuvole cortesi / nei boschi abeti longigotici / solenni, ricordi delle carte / loquaci che hanno qui data alla luce / la nave di Atene...]

non si sperdono del tutto le memorie dei sabati giovanili, dalle avventure scrittorie sollecitate dai paesaggi, dalle "cose", ancora: reminiscenze benefiche e vitali, tuttavia occultate nelle discrepanze del vivere d'oggi e delle ironie amare che ne ridono e ne piangono.

De I bocete, delle loro innocenze e malizie, pur esse venute da sabati, da vacanze lontane, già si è detto: le loro epifanie, le loro crescite da lattonzoli a protagonisti inconsci de "'Sto storto mondo". Su di loro si abbatte l'insipienza del presente, e in loro tuttavia si rivela il principio dell'essere. Ma fedi e violenze si scatenano sulla purezza del verbo che inesorabilmente si nega all'infanzia e alla giovinezza, slabbrando la vita che si disfà in un dramma individuale ed epocale:

"... I nostri, lindi stirai in soasa, / campioni de versi e malusai / congelai con superoto i primi / passi in bala; sofegai de robe / sensa dire bai al fastidio, / - ma la colpa - siga la mare / - xe del pare massa fiapo - / tuti do parsora come l'ojo. / 'Na matina la siora in nero / nel so iride caressava la falsa / contrita in viso de pecà, / stravanivo par cavarla via / scaldarla col fià / la ghe sta drio pnotisà".

[... I nostri, lindi stirati in cornice, / campioni di gesti e viziati / cinematografati con camera superotto i primi / passi traballanti; soffocati di cose / senza dire bai al fastidio, / - ma la colpa - grida la madre / - è del padre troppo debole - / tutti e due al di sopra come l'olio. / Una mattina la morte / nella sua iride accarezzava la falce / con volto contrito di pena, / impallidivo per sottrargliela / riscaldarla col fiato / lei la seguiva ipnotizzata].

Niente s'arresta: dalle favelas a Bagdad, all'egoismo del nostro benessere, la strage degli innocenti si perpetua. Anche con il supporto dei mass-media rivolti all'annichilimento delle coscienze. In I bocete, il testo, la cantica forse più materica e universalizzabile, il dramma individuale si fa illimitata coscienza storica. Dalla felicità del balbettio tanto inconscio quanto vivace e favolistico, alla caduta delle speranze per quell'avvenire che è la gioventù. E l'opaca memoria della propria infanzia rimane l'ultimo illusorio incanto:

"... Me cato dosso 'sti singaneti / tribolando gropo a gropo / nel su e zo de la campanela / che me scatava come l'Amelia / nostra balia suta che me cavava / dal castigo del papà. / Drento 'sta vita rugolava el triciclo / sensa gome... / ... / Nel sogno somejavo a la mama / menà da bulo cavalin / bianco sauro infiochetà".

[... Mi trovo accanto questi zingarelli / tribolando nodo a nodo / nel su e giù della campanella / che mi faceva scattare come l'Amelia / nostra balia asciutta che mi sottraeva / al castigo di papà. / Dentro questa vita rotolavano il triciclo / senza gomme... / .../ Nel sogno assomigliavo alla mammma / trasportata dal cavallino galante / bianco sauro infiocchettato].

Diaboleria molto si scandisce nella speranza in una capacità, almeno, del dire. Di costruirsi un mondo ad immagine del proprio segno, materico, profondo, biologico. Alla ricerca di un riscatto linguistico, che è la volontà di una vita finalmente prolifica di cose come idee, e di ideali semplici, puri, come ragioni per essere e per viverne l'avventura:

"El dialeto. Se prova sensa convenevoli / e co umiltà 'na capatina pèpola / sul dialeto no par delucidare / ma co la fraca de lampra passion / dei cavalieri pal tesoro del Graal...".

[Il dialetto. Si tenta senza convenevoli / e con umiltà una capatina piccola / sul dialetto non per delucidare / ma con la carica di limpida passione / dei cavalieri per il tesoro del Graal...].

Alla scoperta persino della propria corporeità, del proprio passaggio tangibile nella teoria dell'universo:

"El dialeto corporeo xe par mi / importante come la prima mimica / le statute posturali, el rispeto / de come comportarse pa fare / 'na peca virtuale a la parola / cioè el ghe entra nel pensiero / de la scritura raisa geroglifica / de la materia che crea vita / da no tocare mai...".

[Il dialetto corporeo è per me / importante come la prima mimica / gli atteggiamenti posturali, il rispetto / del comportamento per fare / uno stampo virtuale alla parola / cioè penetra nel pensiero / della scrittura radice geroglifica / della materia che crea la vita / da non toccare mai...].

Fino alla necessità di riprendere, riconquistare, attraverso la 'lengua antica e nova' la propria salda poeticità, un poco svanita nel tempo e nelle diverse ragioni dei tempi, delle famose Minusgrafie, in cui l'originaria coscienza ideologica recupera freschezze e attualità, verità d'accenti. Così dalla convinzione poetante secondo la quale: Il pensiero filosofico smanioso / guida sopra il manicomio / sul gioco rogo soffice del demonio / il pensiero camuffato dell'ultima / rivoluzione industriale, non quella / verde azzurra di campi e mari / cielo e fiumi rivolta seriamente / ad un migliore benessere dei vivi sulla terra..., si riaccende nella forma del "dialeto corporeo", e nella tragicamente immutata nozione del vivere quel

"... pensiero filosofico smanioso / [che] timona parsora el manicomio / sul zogo rogo software del demonio / el cognito camufà de l'ultima / rivoluzione industriale, no quela / verde azura de campi e mari / cielo e fiumi volta dasbòn / a un mejo stare dei vivi su la tera".

Ed espressamente in Smanie l'impeggno (per usare un abusato lemma) si rivolge ai motivi di più incombente attualità:

"Do tre canali spurgai / da rogna liquami. Sità de le acque / su arzari marsi s'insùnia fonti. / Un giorno imbarca pessi morti / draga boade de fogne impongae".

Anche qui si può 'gustare' quanto il dialetto, anzi il volgare padovano, sia di ben forte espressività - anche nauseabonda! - rispetto alla dizione in lingua:

[Due tre canali puliti / da rogna liquami. Città delle acque / su argini marci sogna le fonti. / Un giorno imbarca pesci morti / draga ventate di fogne intasate].

La preoccupazione ambientale diviene occasione di una nostalgica visione della sua Padua, che sgorga in vertigini, fantasmi, sogni e sofferenze:

"... Padua spapolà / in mestieri orbi sgnaca fora / vertigini genuine, fantasmi / in biciclete, bavesèle sensi / el Parnaso qua trasvolà, vecio / parlare pedalà da la mente".

[... Padua spappolata / in problemi ciechi (emana) sgorga / vertigini originali, fantasmi / in biciclette, zeffiri sensi / il Parnaso trasvolato qui, vecchio / parlare pedalato dalla mente].

Così, di passo in passo, lungo il fiume limpido della fede nella poesia, e nella sua profonda ragione primigenia, che è la fede stessa della vita, malgrado tutto, il pellegrino si avvicina a un luogo mitico di voci e di ascolti che per l'appunto s'infiora di lingua quotidiana:

"Delirio sigàla. La voce camina su e zo parole / nunsie de poesia vestigiale / 'na ontofania precisa fantasia / leta all'indrìo ravie eco l'universo / xe un buto lesiero del corpo / che struca fora sóni e respiro / de sensi, el cuore dei fiori".

[Delirio cicala. La voce cammina su e giù parole / annunciatrici di poesia vestigiale / una ontofania precisa fantasia / letta a ritroso rinviene eco universo / è una gemma leggera del corpo / che esprime suoni e respiro / di sensi, il cuore dei fiori].

Ma dal quotidiano e oltre si articola una palingenesi forse favolistica e illusoria: tuttavia icastica nella presa di possesso della nostra presenza nel mistero fascinoso e paradossalmente tangibile e visibile - per chi lo voglia - dell'universo che ci comprende e si dona. Per chi lo voglia:

"Vose perizoma de un posso lassà / tabù vanti a snìvia scala / d'un castelo drito su scarpà / simile a balaustra dela bassa. / La vàmpola vigne, sari e colori / zonche de bambù, sagome de Dodi / suopi de balene, doje de mare. / La contralto in betel sui corali, / co telo candido in vita, catapulta / spirto de pronomi e strofe a la deriva / dove ogni roba trama, se ciama / se perde da sé e ognuno / in etica empatìa se specia".

[Voce perizoma di un pozzo deserto / tabù davanti a serica scala / d'un castello eretto su scarpata / simile a balaustra di pianoro. / Lei germoglia vigne, sari a colori / giunche di bambù, sagome di Dodi / soffioni di balene, doglie del mare. / Il contralto in betel sui coralli, / con telo candido avvolto in vita, catapulta / spirito di pronomi e strofe alla deriva / dove ogni cosa trama, si chiama / si perde da sé e ognuno / in etica empatìa si specchia].

Chi lo voglia, comunque, non può mai dimenticare che dovrà scoprire la luce sotto il pesante incubo, naturalissimo d'altronde, di un'ombra. Perché "Nassita e morte parole insupae / de pianto che taca e destaca / la spina del ciaro e del scuro... [Nascita e morte sono parole (inzuppate) intrise / di pianto che inseriscono e disinseriscono / la spina della luce e del buio...], cosicché ci "Perséita un nihil note che intriga / le savie vie e s'intragedia in un mondo / perso... [Persèguita un nulla notte che intriga / le sagge vie e si fa tragedia di un mondo / perduto...].

Chi voglia, perciò (per ritornare su una costatazione essenziale in questo poema del primo volgare e delle sue metamorfosi biologiche), deve prendere coscienza che la parola poetica non è uno strumento di sdilinquite nostalgie e illusioni evasive e consolatorie, bensì un'arma da affilare per un duello inevitabile fra il nulla e la volontà innata di vita. Per la conquista di quel Graal che non è poi così lontano e inaccessibile: basta cercarlo fra le cose che ci circondano nella quotidianità di un gesto, di una voce che può anche venire, e forse più facilmente viene, dal fondo del dialeto.