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Traditori in provincia
Appunti sulla traduzione dal dialetto.
Luigi Bonaffini
La poesia dialettale, certamente per motivi che riguardano la sua condizione tradizionale di
presunta subalternità e di limitata diffusione, ma anche per via di difficoltà oggettive inerenti alla
traduzione stessa, data la scarsa conoscenza dei dialetti da parte dei traduttori anglofoni, si è trovata
egregiamente trascurata dagli addetti, cosicché essa, ed in particolar modo quella più recente, rimane
ancora quasi tutta da tradurre. Nel presente saggio si cerca non tanto di formulare una base teorica
del problema della traduzione dal dialetto, ma di vedere in che modo esso viene affrontato
concretamente da alcuni traduttori, non molti in verità, che si sono effettivamente cimentati nella
traduzione dal dialetto.
Intanto bisogna osservare che il problema del dialetto non riguarda soltanto l'Italia, anche se
in Italia il fenomeno è senz'altro molto più vistoso che in qualsiasi altro paese occidentale, e questo
ci spinge, visto che poi ci occuperemo principalmente della traduzione dal dialetto in inglese, a citare
come uno dei punti di riferimento sovranazionali uno scrittore americano, Mark Twain, espertissimo
di vernacoli, che premette la seguente spiegazione al suo capolavoro Huckleberry Finn:
In this book a number of dialects are used, to wit: The Missouri Negro dialect,
the extremest form of the backwoods Southwestern dialect, the ordinary "Pike
County" dialect, and four modified varieties of this last. The shadings have not been
done in an haphazard fashion or by guesswork, but painstakingly and with the
trustworthy guidance and support of personal familiarity with the several forms of
speech.
I make this distinction for the reason that without it many readers would
suppose that all these characters were trying to talk alike and not succeeding.(1)
John Du Val, che ha tradotto dal romanesco sia Trilussa sia Pascarella, in un articolo in cui discute
la traduzione dei sonetti di Belli da parte di Miller Williams(2) e che inizia appunto con questa citazione
da Mark Twain, consiglia a qualsiasi ipotetico traduttore di Huckleberry Finn di non tradurre affatto
la spiegazione dell'autore; ciò naturalmente non risolverebbe il problema della traduzione di tutte le
varietà dialettali di cui parla l'autore, che non servono soltanto a rappresentare il colore locale, ma
soprattutto a caratterizzare e distinguere i vari personaggi. L'uso del dialetto in Huckleberry Finn è
in effetti abbastanza più complesso di quanto possa trasparire dalla premessa dell'autore stesso, anche
perché la dialettalità dei personaggi è dinamica, non statica, tendente quindi ad adeguarsi alle diverse
situazioni, ed è inoltre complicata da una moralizzazione dell'atto linguistico, che privilegia alcune
varietà a scapito di altre. L'ipotetico traduttore italiano o spagnolo di Huckleberry Finn che volesse
riprodurre la molteplicità delle forme linguistiche locali sarebbe costretto a far parlare il Negro del
Missouri in napoletano o siciliano o catalano o gallego, con tutti i problemi di incongruità che ne
conseguirebbero. Non c'è quindi da stupirsi se poi la complessità e lo spessore semantico del
linguaggio subiscano un forte ridimensionamento nelle traduzioni italiane, dove le varietà locali ed
individuali vengono in effetti azzerate, e sostituite da un linguaggio genericamente colloquiale ed
idiomatico. Scegliendo a caso un discorso di Jim (capitolo VII), con a fronte la recente traduzione
di Huckleberry Finn di Giovanni Baldi(3):
I tuck out en shin down de hill, en 'spec to steal a skift 'long de sho' som'ers 'bove de
town, but dey wuz people a-stirring yit, so I hid in de ole tumbledown cooper shop
on de bank to wait for everybody to go away.
Mi sbatto giù dalla collina e penso di sgraffignare una barca lungo la riva sopra la città, ma
c'era ancora in giro della gente, e allora mi nascondo nel vecchio negozio del bottaio, quello
tutto a pezzi che sta sulla sponda del fiume, per aspettare che se ne vanno.
Il dialetto negro di Jim, fortemente caratterizzante e molto diverso dalla parlata degli altri personaggi,
nella traduzione subisce un processo di livellamento, che in effetti ne elimina le punte più
marcatamente idiomatiche e gergali, consegnandolo invece ad una zona di incerto colloquialismo.
L'idiomatismo "sgraffignare" traduce poi, quasi incongruamente, una delle poche parole standard del
brano, "steal," mentre tutte le vere peculiarità linguistiche, che sono di ordine fonetico, oltre che
sintattico e grammaticale, scompaiono completamente nel testo italiano.
Mark Twain stesso critica duramente il traduttore francese del suo famoso racconto "The
Jumping Frog" per aver usato il francese standard, non avendo capito affatto l'importanza e le
implicazioni dell'uso del vernacolo: "Benzon has not translated the story at all: he has simply mixed
it all up; it is no more like the Jumping Frog when he gets through with it than I am like a meridian
of longitude."(4) Cioè, traducendo in un linguaggio standard, il traduttore non può cogliere
l'eccentricità della parlata vernacolare, il suo porsi come alternativa, deviazione non normativa da una
norma. Nell'affrontare questo concetto di deviazione, imprescindibile da qualsiasi discussione sulla
letteratura dialettale, bisogna comunque tener conto del notevole scarto a cui è sottoposto lo stesso
termine 'dialetto' nell'area anglosassone, dove acquista in effetti il significato di anormalità, di
allontanamento da uno standard linguistico ben definito, per cui persino una pronuncia locale o
regionale può essere considerata una forma dialettale. Lo stile 'vernacolare' è quindi contrassegnato
dalla deviazione da uno standard, laddove non esista una molteplicità di parlate autonome come in
Italia:
Vernacular style may, of course, be defined in a number of ways, but in the following
I shall take it to mean a special category of "substandard" or "common" usage that
serves as a marker of class, regional, or age-group affiliation and that includes such
speech-oriented lexical and grammatical features as colloquial formulas and epithets,
slang, obscenities, and other vulgarisms, and certain kinds of allusive or elliptical
morphological and syntactic arrangements.(5)
Questa definizione potrebbe adattarsi ai vari 'dialetti' americani, ma sarebbe assolutamente inadatta
a descrivere il fenomeno dei vernacoli e quindi questioni di stile relativi ad essi in Italia, dove per
dialetto non s'intende semplice divergenza dallo standard nazionale, ma sistema linguistico autonomo,
storicamente determinato mediante meccanismi ben noti, come tutti i linguisti riconoscono. D'altra
parte, come si vedrà più avanti, diversi traduttori riconoscono l'imprescindibile validità di questo
principio e non solo rifiutano il concetto di dialetto come linguaggio deviante ed eccentrico, ma lo
considerano invece il luogo della naturalezza e della spontaneità, la norma linguistica di una
determinata comunità e quindi secondo un criterio metodologico solo in apparenza paradossale
l'esatto contrario di deviazione.
Il mondo anglofono, con le sue innumerevoli varianti dell'inglese, non è naturalmente il solo
a risentire profondamente del problema del vernacolo. Bisognerebbe, per l'occidente, almeno
menzionare anche l'universo francofono, altrettanto ricco di particolarismi locali e regionali in tante
diverse parti della terra. Basterebbe citare un caso tra i meno appariscenti: l'apporto dialettale nella
narrativa canadese e le sue conseguenze per la traduzione, esaminati da Henry Schoght nella sua
rassegna di diversi romanzi canadesi, compreso La Sagouine di Antonine Maillet, in cui alcuni
personaggi parlano il dialecte acadien della provincia di Nouveau Brunswick:
La caractérisation emphatique de l'héroine qui tient le monologue repose sur des traits dialectaux
aussi bien que sur le contenu de ce qu'elle dit. On pourrait se demander si l'attrait du livre pour bien
des lecteurs ne remonte pas à un sentiment de condescendance éveillé par la simplicité et la naiveté
de la protagoniste et par le soi-disant pittoresque du dialecte. Quoi qu'il en soit, le traductur Luis
Cespedes a essayé de garder un peu de le saveur du TD [texte de depart] qui ... n'emploie qu'un
registre unique et ne crée pas d'oppositions à l'intérieur du texte. Comme le facteur géographique ne
lui permettait pas de remplacer le dialecte de La Sagouine par un dialecte également fortement
marqué d'un village de pêcheurs anglais ou écossais, il a opté pour un procédé de compensation en
substituant un sociolecte populaire géographiquement neutre au dialecte acadien. Malheureusement,
la Sagouine de la traduction parle presque comme Holden Caufield, du Catcher in the Rye de
Salinger, de sorte que la compensation ne réussit pas vraiment.(6)"La caratterizzazione enfatica
dell'eroina che esegue il monologo regge su dei tratti dialettali oltre che sul contenuto di ciò che dice.
Ci si potrebbe domandare se l'attrazione del libro per molti lettori non derivi da un sentimento di
condiscendenza risvegliato dalla semplicità e dall'ingenuità della protagonista e dal sedicente
pittoresco del dialetto. Comunque sia, il traduttore Luis Cespedes ha cercato di conservare un poco
del sapore del testo di partenza che ... impiega un unico registro e non crea opposizioni all'interno del
testo. Poiché il fattore geografico non gli permette di sostituire il dialetto di la Sagouine con un
dialetto ugualmente marcato di un villaggio di pescatori inglesi o scozzesi, ha optato per un processo
di compensazione nel rimpiazzare un socioletto popolare geograficamente neutro al dialecte acadien.
Purtroppo la Sagouine della traduzione parla più o meno come Holden Caufield di Catcher in the Rye
di Salinger, cosicché la compensazione non riesce veramente bene" (34).
La soluzione adottata dal traduttore, scegliendo riduttivamente un socioletto
geograficamente neutro e privo di opposizioni all'interno del testo, non è diversa da
quella fatta propria dal traduttore italiano. Ma per le varie strategie di compensazione
di cui dispongono i traduttori è determinante la totalità del contesto linguistico in cui
appare il dialetto, perché se è possibile parlare di naturalezza in un contesto
monolingue, dove si parla solo dialetto, e quindi la perenne opposizione lingua-dialetto viene spinta al di sotto della soglia della conflittualità, questo diventa
pressoché impossibile nel momento in cui viene introdotta l'altra lingua, la lingua
standard, nei cui confronti il vernacolo dovrà necessariamente diventare eccentrico,
deviante. È dunque il contesto plurilingue, ricco di opposizioni e di contrasti interni,
che complica maggiormente il compito del traduttore, costretto a strategie compensatorie inevitabilmente riduttive ed insoddisfacenti ad esprimere quella diversità che si
manifesta nella sua pienezza solo di fronte al linguaggio standard.
Un esempio nostrano dell'uso di molteplici dialetti in un'opera di narrativa
porta la prestigiosa firma di Carlo Emilio Gadda in Quer pasticciaccio brutto de Via
Merulana. In questa detective-story espressionistica e barocca Gadda intreccia il
romanesco, il napoletano, il veneziano, il milanese, il molisano e il siciliano al
burocratese dei vari uffici, al gergo della polizia e a diversi altri linguaggi settoriali.
Per garantire l'autenticità dei vari dialetti Gadda cercò la consulenza di diverse
persone, ricorrendo, ad esempio, a Mario Dell'Arco per il romanesco. Quer
pasticciaccio è un'opera almeno altrettanto refrattaria alla traduzione quanto
Huckleberry Finn: il traduttore deve tener conto non solo della complessa interazione
dei vari dialetti, ma anche della loro funzione espressiva e strutturale, come in Mark
Twain. Sarebbe impossibile ricreare la caratterizzazione dei personaggi tramite il
linguaggio effettuata in Quer pasticciaccio assegnando ad ognuno una varietà
vernacolare americana, ed il traduttore, William Weaver, non ci prova nemmeno, con
lo stesso effetto di impoverimento e deprezzamento espressivo notato sopra. In un
articolo sulla traduzione inglese di Gadda(7), Brian Altano indirettamente critica il
traduttore per non aver usato un linguaggio abbastanza colloquiale, vernacolare, nella
traduzione, ed offre come esempio il seguente brano, che descrive un venditore di
porchetta in un mercato:
La porca, la porca! Ciavemo la porchetta, signori! la bella porca de l'Ariccio con un
bosco de rosmarino in de la panza! Co le patatine de staggione!... V'oo dico io.
Asssaggiatele!" Posava un attimo a riprender fiato. E poi a scoppio: "Uno e novanta
l'etto, la porca. E' 'na miseria, signori! a chi venne e a chi compra! Uno e novanta
l'etto, più mejo fatto che detto. Famese avanti co li bajocchi a la mano, sore spose!
Chi nun magna nun guadagna" E poi sottovoce a una belloccia: "A voi ve do er mejo
boccone, v'o giuro! Me piacete troppo! Sete troppo bona!(8)ladies! It's a crying shame,
that's what it is, ladies! You ought to be ashamed to buy it so cheap. One-ninety,
easier done than said! Step right up, cash in hand, ladies! If you don't eat you can't
work."... Then, to a local beauty, lowering his tone: "What about you, pretty girl?"
The girl, at that tone of authority, couldn't restrain her laughter. "A half pound of
pork?" and, sotto voce, to her, but with a glance at the penniless tooth-puller: "I'll
give you the best part, that's a promise. You're my type, all right. You're too pretty!
Nel tradurre questo brano, secondo Altano, il traduttore deve considerare tre elementi
importanti: 1) il gergo vivace usato dal giovane per attrarre la folla; 2) il senso di
affannosa concitazione dell'originale 3) le sfumature di tono, specialmente le allusioni
salaci di un giovanetto di quattordici anni.
Senza citare qui tutta la traduzione di Weaver, riportata in nota, basterà
leggere l'ultima battuta, cioè "A voi ve do er mejo boccone, v'o giuro! Me piacete
troppo! Sete troppo bona!". Weaver la rende così: "I'll give you the best part, that's
a promise. You're my type, all right. You're too pretty!." "You're too pretty" non ha
niente della sensualità carnale dell'originale, forse perchè al traduttore sfugge la
connotazione erotica dell'aggettivo romanesco "bona," l'allusione salace di cui parla
Altano. Quest'ultimo propone la sua propria traduzione del brano, usando un
linguaggio molto più idiomatico e gergale, e traduce così l'ultima frase: "I'll give you
the best mouthful, I really swear. I really like ya a lot! You're really good lookin',"(9)
ma anche qui si sente che manca qualcosa, che il tono dell'originale, la sua specificità
espressiva, rimangono lontani, inafferrabili.
Ma Huckleberry Finn e Quer pasticciaccio sono esempi estremi dell'uso di
molteplici codici vernacolari a scopo letterario; la norma è invece l'uso di un solo
vernacolo il romanesco di Belli, il siciliano di Meli, il napoletano di De Filippo che
può nondimeno articolarsi in diversi registri espressivi che stanno ad indicare
posizione sociale, livello di cultura, luogo di provenienza ecc. Tutti i dialettofoni sono
consapevoli di questi livelli linguistici nel loro dialetto e riescono immediatamente ad
individuare forme leggermente più arcaiche o periferiche. C'è poi da aggiungere che
uno stesso dialetto non è necessariamente uguale per tutti e può essere utilizzato in
modo molto dissimile da vari autori; il napoletano di Basile è molto diverso sia da
quello di Di Giacomo sia da quello più recente di Serrao, esaminato più avanti, e il
romanesco di Trilussa, per fare un altro esempio, è diverso molto più neutro e vicino
all'italiano da quello di Belli. Per tornare intanto a quest'ultimo, leggiamo dalla
prefazione del suo traduttore Miller Williams:
There is in some quarters an assumption that because Romanesco is looked upon as
a dialect by those who don't speak it, Belli's poems can't be truly translated unless they
are rendered into some sort of patois, some special language spoken by a people
outside the center of culture and mostly deprived of whatever the culture offers
people, that is, like the Romani of Trastevere. The truth, of course, is exactly the
contrary. If we render the poems into any kind of dialect, slang, or jive talk, we hear
them only as the middle- and upper-class Roman would have heard them and hears
them now. If we are to come to them as the people of Trastevere did, then we have
to hear them as they did, in the plain language of our own conversation. The simple
fact is, to those who live in Trastevere, the language spoken in Trastevere is the way
people talk.(10)
Se è vero che ogni dialetto, come osserva Williams, è semplicemente il modo di parlare della gente
che lo parla, allora il problema della traduzione della poesia dialettale si semplifica notevolmente,
perché non richiede che il traduttore adoperi una lingua fortemente connotata, altra e diversa dalla
lingua della comune conversazione. Ma rimane il fatto che il dialetto è per natura una lingua distinta
e marginale rispetto a una lingua standard, e quasi tutti i dialettofoni stessi la considerano tale, hanno
cioè coscienza di parlare una lingua che è in un certo modo in opposizione ad un altra, più diffusa e
più importante, anche se si trovano in un ambiente completamente dialettofono, e l'opposizione
rimane quindi solo virtuale. Ciò significa che la traduzione dal dialetto non può non tener conto in
qualche modo della sua unicità e diversità, anche se poi le varie soluzioni possono prendere forme
molto diverse. Du Val fa notare, per esempio, che il potere politico e culturale di Roma al tempo di
Belli apparteneva a coloro che parlavano latino e italiano, e che il sonetto era la forma letteraria per
eccellenza; lo scrivere sonetti in romanesco era in effetti una violazione del sonetto tradizionale, e
quindi il pubblico romano di Belli vedeva in ogni sonetto un atto di impertinenza letteraria e
linguistica, oltre che politica.(11) Dunque per tradurre il dialetto come era visto da coloro che lo
parlavano, Williams era tenuto a tradurre la sua impertinenza, la sua carica eversiva.
Oltre che con l'uso del dialetto, Belli dissacra il sonetto anche con l'oscenità, con la
rappresentazione di scene di vita popolare, con commenti sulla chiesa, la filosofia, la teologia e storia
biblica, tutte da una prospettiva bassa, popolare. Questi altri elementi di disturbo in effetti vengono
in soccorso al traduttore, perché tendono a conservare la loro funzione estraniante anche nel nuovo
contesto linguistico, dove possono suonare altrettanto fuori posto e irriverenti, specialmente nella
dignitosa veste letteraria del sonetto. Basteranno alcuni esempi della traduzione di Williams citati
nell'articolo: il papa "fiddles around, snacks, debauches a bit"; "instead of making a tower they made
a mess"; "one of the angels had a charley horse" e così via. Più difficile, fa notare ancora Du Val(12),
è rendere il complesso gioco di parole, che spesso mescola oscenità e religione, e prende ad esempio
la seguente terzina di chiusura di un sonetto:
San Giuseppe tratando s'ariscarda:
Doppo leva ar somaro la bbardella,
E appoggeno tre mmesi la libbarda.
L'ultimo verso, "e appoggeno tre mmesi la llibbarda," significa letteralmente "appoggiano per tre mesi
l'alabarda," il che vuol dire che sbafano, fanno gli scrocconi per tre mesi, ma è implicita anche l'idea
dell'astinenza sessuale e quindi la negazione della dottrina cattolica della verginità perpetua di Maria.
Williams traduce così:
"Saint Joseph, meanwhile, rubbed away the cold
beside the fire and saddled up the ass
and put his tools away for a long time."(13)
Qui quel "long time" potrebbe anche significare "per sempre," ma è comunque un commento
fortemente ironico sulla castità della vergine, e quindi ritiene la carica eversiva dell'originale.
Quanto alle sue proprie traduzioni di Trilussa e Pascarella, Du Val riconosce le differenze che
distinguono i vari poeti romaneschi: per Trilussa, dato che la voce poetica della maggior parte dei
sonetti appartiene ai popolani di Trastevere, per riprodurre l'effetto estraniante della loro parlata si
serve di un altro espediente adoperato da Williams, e cioè viola sistematicamente la metrica del
pentametro giambico, per far sì che la deviazione costante dal verso canonico rifletta la deviazione
del romanesco dall'italiano. Ma nelle favole, poiché la voce di Trilussa rimane al di sopra dell'azione
e la commenta con distacco ironico nel modo in cui la Fontaine giudica i suoi animali, con appena un
pizzico dell'insolenza romanesca, il criterio del traduttore è diverso: "In translating, I felt that I had
to aim for a modified elegance and a slightly smoother rhythm than would be appropriate in the
sonnets." Per Pascarella invece il problema è un altro: a differenza di Belli, che lardellava di oscenità
la sua poesia, il linguaggio di Pascarella è relativamente sobrio, entro i limiti permessi dal romanesco.
"A conflict I am having" osserva il traduttore, "whether it is from the dramatic enthusiasm of this
speaker or from his obvious kinship with the characters of Belli's great work or simply from my own
warped imagination, is that with every sonnet, some obscene expletive strikes me as the perfect
solution to a rhyming difficulty, and in each case, I must decide whether to express the modesty of
the author or the enthusiasm of his tough Romanesco."(14)
Ma se il romanesco colpisce i traduttori per la sua impertinenza, che dire allora del
napoletano, della sua prorompente ricchezza espressiva, delle sue proteiformi incarnazioni non solo
in poesia e teatro, ma anche nella novellistica. Una delle prime opere in dialetto napoletano ad essere
stata tradotta è Il Pentamerone di Giambattista Basile, pubblicato nel 1634, e tradotto per la prima
volta nel 1713, curiosamente non in italiano ma in dialetto bolognese, da Maddalena e Teresa
Manfredi, e poi anonimamente in italiano nel 1754. Fu poi tradotto in tedesco nel 1946, ed in inglese
nel 1848, 1893, e 1932. Nella sua lunga introduzione all'edizione del Pentamerone del 1925,
Benedetto Croce trova le traduzioni tedesca ed inglese generalmente migliori di quella bolognese o
italiana, e poi spiega i criteri adottati per la sua propria traduzione:
Sono stato fedelissimo alle parole del testo, cercando di non scemare la quantità, e di
alterare il meno possibile la qualità, delle immagini che contengono; ma mi son
condotto con piena libertà di rifacimento verso la sintassi, che nel Basile è difettosa
e spesse volte pessima, forse principalmente perché l'opera fu stampata ancora
incondita e in molte parti ancora in abbozzo. Ho resistito alla tentazione, alla quale
altri sarebbe soggiaciuto, di sostituire per equivalenza agli idiotismi napoletani
vocaboli e frasi dell'uso fiorentino vivo; e mi son studiato di lasciare al libro, non solo
tutti i suoi ornati barocchi, ma anche un certo sapore napoletanesco.(15)
La traduzione inglese di Norman Mosley Penzer del 1932 si basa in gran parte, ma non esclusivamente, sulla traduzione italiana di Croce. Nella sua premessa il traduttore vuole dimostrare una certa
familiarità del complesso rapporto tra italiano standard e dialetto, premuroso di convincere il lettore
che conosce anche l'originale in dialetto, arrivando addirittura a criticare alcune delle traduzioni del
Croce:
I have endeavoured to keep two main objects constantly in view first to translate
literally, taking noun for noun and verb for verb, and secondly to preserve all the
puns, local allusions, similes and metaphors of the original. Before speaking of the
style of language adopted, I would like to give a few examples of the difficulties of
translation. Take, for instance, the string of vile abuse that pours out of the old
woman's throat when her pitcher is smashed by the court page (The introductory tale).
She starts off as follows: "Ah zaccaro, frasca, merduso, piscialietto, sautariello de
zimmaro, pettola a culo, chiappo de mpiso, mulo canzirro!" The first four words
present little difficulty, but what is the meaning of "sautariello de zimmaro?" Croce
gives it in modern Italian as "salterello di Cembalo," and "martellino de cembalo"
something moving very quickly and causing a lot of noise, possibly our "madcap". But
figuratively "martellino" can mean "torment," and "cembalo" can mean "ugly"...(16)
Va avanti così per un bel po', esaminando nel contempo le precedenti traduzioni inglesi e concludendo
pertanto che Croce in effetti ha preso una svista e che "zimmaro" significa veramente "becco" o
"caprone"; quindi procede a rivelare la sua traduzione di "sautariello de zimmaro," cioè "jumping he-goat." La stessa meticolosa analisi viene fatta a "pettola a culo," che Croce traduce pudìcamente
"falda pendente di dietro," diluendo così tutta la forza espressiva dell'originale. Studiando i dizionari
napoletani, Penzer scopre che l'espressione "cu 'a pettola 'nculo" significa "lattante," "inesperto," ma
poi, accorgendosi che il concetto è già insito nella parola "frasca" pronunciata poco avanti, conclude
che è meglio tutto sommato tradurre "pettola a culo" con una espressione volgare, come "ass flap".
Dopo aver dimostrato la sua conoscenza, almeno teorica, del dialetto, Penzer dichiara i suoi criteri
metodologici, che in un certo senso lo pongono nella stessa scia di Williams e Du Val:
In the present edition I have decided to employ modern rather than archaic
Chaucerian or Elizabethan English, which might be supposed to be the equivalent of
seventeenth-century Neapolitan. My theory is that the modern reader in reading
modern English will obtain a much better idea of what the Neapolitan book meant to
the Seventeenth-Century reader than if I attempted to preserve a mock-archaic
atmosphere by dragging in early English words and phrases.(17)
Ma qui manca qualsiasi riferimento all'unicità del dialetto, alla tensione dialettica sempre latente tra
dialetto e lingua, per cui Penzer non attribuisce nessuna difficoltà specifica alla traduzione del
napoletano che non si possa risolvere con un buon dizionario.
Nel Seicento sarà invece un siciliano, Giovanni Meli, ad essere considerato il maggiore poeta
dialettale del suo tempo. Il siciliano di Meli è una lingua tutta particolare, che dimostra come la
questione del dialetto sia così intimamente connessa alla letteratura in lingua e richiede un trattamento
specifico, come spiega Gaetano Cipolla nell'introduzione alla sua traduzione di Don Chisciotti e
Sanchu Panza, pubblicato nel 1787:
While Meli may have intended to create an "illustrious Sicilian," the result of his
efforts was a mixture of the literary idiom of Italy, that is, Tuscan, especially in its
Arcadian tradition, and of Sicilian. The interrelationship between these two
components represents an essential feature of Meli's language. This interrelationship
may be articulated along an axis that includes a highly literary Tuscan (a direct
quotation from Petrarch, for example), passing through a line of expression that is
structurally Tuscan but with Sicilian superimposed on it. A third point of the axis
might consist of "illustrious Sicilian," that is, purified from its local Palermitan dress
and distilled from a a variety of idioms spoken in Sicily, and finally there might be a
line or expression which comes from the every-day jargon of the streets. I have tried
to reproduce such sliding along the axis whenever possible... Consonant with the tone
of the original which obtains comic relief by mixing a highly dignified language with
popular speech, I have tried to maintain the same combination in English, allowing
myself to slide in the direction of archaic terms or slang, according to the situation.(18)
Ho voluto citare a lungo da Cipolla perché, a differenza di Penzer, quest'ultimo attacca frontalmente
il problema dei vari registri espressivi, della tensione generata dal rapporto lingua-dialetto, dialetto-dialetto, linguaggio popolare-linguaggio letterario, proponendo varie soluzioni concrete nella sua
traduzione. Si veda per esempio la risposta di Sancio all'aulico "bel morir tutta la vita onora":
"Comu! rispusi Sanciu, e chi scacciati!
Ch'aju a muriri pr'esseri onoratu?
Pirdunatimi, è grossa asinitati;
mi sentu megghiu eu vivu, sbrigugnatu,
chi Achilli e Ulissi morti, decantati;
pirchì eu, o tintu o pintu, avennu ciatu,
la cìnniri di st'omini valenti
la scarpisu, e perciò sù chiù potenti". [Canto I, 11]
"What are you telling me?" then Sanciu asked,
"Am I to die so honor can be mine?
Forgive me, but that's really asinine!
Alive, though in disgrace, I feel much better
than both Achilles and Ulysses, for
they're honored but quite dead, and since I breathe,
good man or bad I am the stronger, then,
for I can tread the dust of those brave men."
Per tornare a tempi a noi più vicini, uno dei fenomeni più interessanti del panorama letterario
contemporaneo è senza dubbio la rigogliosa, per tanti versi eccezionale, fioritura di poesia neo-dialettale attualmente in corso. Vorrei a questo punto soffermarmi brevemente su due tra i migliori
neodialettali, Giose Rimanelli e Achille Serrao, ambedue tradotti da me. Rimanelli ha recentemente
pubblicato Moliseide(19), un libro di poesie in dialetto molisano con la mia traduzione inglese, in cui
il problema del dialetto è complicato dalla estrema letterarietà del testo, sistematicamente contaminato
da riferimenti alla poesia trovadorica, alla poesia latina medioevale, alla poesia americana e francese,
al jazz e ai blues. È un testo, il suo, caratterizzato dal plurilinguismo e pluristilismo e da una ricca
varietà di soluzioni metriche, dal verso libero alla ballata, dall'endecasillabo al doppio settenario, con
abbondanza di rime ed assonanze. Il dialetto è quindi il tronco su cui si innestano le più svariate
esperienze linguistiche e letterarie. La ricerca del dialetto si rivela pertanto una ricerca di linguaggio
poetico ed il traduttore è costretto a seguire gli intricati percorsi testuali della parola poetica, nella
consapevolezza che la difficoltà maggiore risiede più nella stratificazione culturale e letteraria del
testo e nella ricerca di un risultato anche ritmicamente adeguato, che rispetti il movimento interno del
verso, che nello specifico dialettale. Si dà il caso che il dialetto molisano è anche il mio dialetto, il che
semplifica notevolmente il processo della traduzione, senza peraltro incidere sul problema della
traducibilità.
L'intraducibilità del dialetto, cioè la sua opacità semantica, è proporzionale all'uso gergale,
fortemente idiomatico della parola, circoscritta al colore locale, municipalistico. Sulla questione
dell'intraducibilità del dialetto insiste ad esempio Hermann W. Haller, che ha tradotto in inglese le
poesie della sua importante antologia Hidden Italy, optando però per una traduzione letterale
piuttosto che letteraria:
I have chosen a literal prose translation at the cost of some stylistic and rhytmic
elegance, aware of the difficulty of translating the unique expressiveness of each of
the dialects.(20)
E più giù:
The result of this pluralistic operation is a poetry that can barely be translated. Words
such as the Milanese cagabizet or cagoni, the Piedmontese brandèv, or the Triestine
povaro can cannot be rendered accurately... The sound of each dialect is different, the
phonosymbolism of each adding a special musical effect: the rather somber,
melancholy sounds of Sicilian; the happy tonality of Neapolitan, expressing love for
life; the cordial timbre of Romanesco and the airiness of Venetian; the powerful gallic
intonations of Milanese.(21)
D'altra parte la traducibilità del dialetto, come fa notare Franco Brevini in un fondamentale studio
sulla poesia dialettale, Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo(22) dipende appunto
dall'eliminazione degli elementi più strettamente gergali, delle punte idiomatiche troppo accentuate,
come accade in Giotti, in Marin, in Noventa e quindi in Rimanelli. Prendiamo ad esempio la prima
strofa della prima poesia di Moliseide:
Quanne t'èzzíccche a i vríte du pènziére
e fóre chiagne u sole, ze fa' nòtte,
u sanghe te ze chiátre, sie' strèniére:
a vije da terre tíje dónde sta'?(23)
Quando t`avvicini ai vetri del pensiero / e fuori piange il sole, si fa notte, / il sangue
ti si gela, sei straniero: / la via della tua terra dove sta?
Da notare, oltre alla sapiente struttura melodica ed alla forza espressiva delle immagini, che in questa
strofa non c'è nessuna parola o espressione dialettale che presenti particolari difficoltà per il
traduttore; qui è invece nel tono che si annidano esse, nella modulazione ritmica e nella struttura
metrica, per cui nella traduzione mi sono visto costretto a scartare la rima, che avrebbe inciso
notevolmente sulla possibilità di seguire le sottili modulazioni ritmiche del testo:
When you get near the glasspanes of your thoughts
and outside the sun weeps, and darkness falls,
your blood turns into ice, you are a stranger:
the road back to your land, where can it be?
Diverso il discorso per il campano Achille Serrao, che nel suo libro di poesie, 'A canniatura(24),
anch'esso con la mia traduzione inglese, usa non il napoletano, ma il dialetto periferico di Caivano,
molto più duro e aspro del napoletano. Alla resistenza dello strumento linguistico si aggiunge il
programmatico antisentimentalismo ed antisoggettivismo di Serrao, il cui testo risulta perciò
estremamente denso, volutamente antimelodico, refrattario, granuloso, mirante ad armonie più sottili,
più intime. Cercare di rendere in inglese l'asprezza del dettato di Serrao risulterebbe in una ricerca
forzata di suoni consonantici, di ritmi spezzati ed antimelodici, da cui verrebbe fuori un inglese
artificioso, inesistente. La mia strategia in questo caso è stata invece di cercare di catturare la tonalità
di base del testo, l'intensità della malinconia che si nasconde sotto l'apparente impersonalità della voce
narrante. Inoltre c'è il problema della precisione filologica di Serrao, che ha aggiunto un glossario per
spiegare le sue scelte linguistiche. Faccio un esempio dalla poesia "'Nu tiempo c'è stato":
Nu tiempo c'è stato ch''e pparole
nun cagnavano ll'aria, addu nuje
frièvano cu' ll'uoglio
d''a jacuvella aréto 'a vocca, attenùte
pe' ppaura, cummeniènza che ssaccio...
Un tempo c'è stato che le parole / non cambiavano l`aria, da noi / friggevano con
l`olio / dell'astuzia dietro la bocca, trattenute / per paura, convenienza, che so...
Chi conosce abbastanza bene il napoletano, probabilmente ha difficoltà solo con "jacuvella," che nel
glossario in appendice viene spiegata così:
Jacuvella s.f.: "intrigo, astuzia, vezzi, moine". Etim.: dal francese Jacques= Giacomo,
che ha il significato metaforico di "sciocco, semplicione," almeno a datare dal
Sec. XIV (nel 1358, infatti, i contadini in rivolta furono detti spregiativamente
Jacques Bonhomme; il nome personale "Giacomo," nella sua forma latina
Jacobus ha dato Jàcovo in napol.; l'espressione Jàcovo Jàcovo ("vacillare")
è derivata dal nome Giacomo; lo stesso nome di Coviello, maschera farsesca
napoletana che vale "buffone, cialtrone," è Giacomo in forma diminutiva.
Non essendo possibile rendere nella traduzione, neppure in minima parte, la ricchezza connotativa
della parola, non mi è rimasto che arrendermi e tradurre "l'uoglie d''a jacuvella" semplicemente con
il poco soddisfacente e generico "the oil of cunning," puntando invece sull'asciuttezza e compattezza
del dettato:
There was a time when words
didn't change the air, around these parts
they fried in the oil
of cunning, held in the mouth
by fear, expedience maybe...
Rimanendo ancora nell'ambito della poesia dialettale contemporanea, è di prossima
pubblicazione un'antologia trilingue della poesia dialettale meridionale, da me curata, ed ho chiesto
ad alcuni dei traduttori che hanno collaborato di fornire qualche osservazione sulle difficoltà che
hanno incontrato nel tradurre dal dialetto. Bisogna premettere che dal punto di vista del traduttore
il problema della traduzione naturalmente è condizionato dalla conoscenza del dialetto. Chi non
conosce il dialetto è costretto a valersi della traduzione italiana, e quindi rimane essenzialmente
estraneo all'esperienza dialettale. La situazione migliore è quella del dialettofono che è anche
perfettamente anglofono e pertanto può sviscerare il dialetto dall'interno; anzi, la situazione ideale è
forse quella dello scrittore bilingue che traduce sè stesso, come vedremo nel caso di Zanzotto. Per
Michael Palma, traduttore di Gozzano e Valeri, che per l'antologia ha tradotto poesie napoletane e
calabresi, la scarsa conoscenza del dialetto è determinante:
I would point out two immediate problems that I have encountered in translating
dialect poetry. The first is my unfamiliarity with the dialects in question. There is
always a concern with what is lost in the translation process; under these circumstances, there is a concern over a potentially double loss...
The other problem occurs at the other end of the translation process. Obviously, there
is no equivalent in English for the Italian tradition of dialect poetry. Translating into
slang or any other non-normative English dialect "So I says to him, I says," or some
such thing would be totally inappropriate; it would fail to catch the spirit of the
original and it would make for some rather bizzarre-sounding English poetry. The
only real solution was to translate these poems in the same idiom as any others: if
there was any concession to the supposed flavor of the originals (and even this notion
of "flavor" is debatable, if the dialects are in fact the normal language of their
speakers), it was a slightly greater tendency at moments toward more informal expression --(25)
Come si vede, Palma riprende il discorso di Miller Williams, considerando il dialetto la norma dei
dialettofoni, per cui tradurre in gergo, cioè deviando dalla norma, sarebbe improprio e fuori luogo.
Un simile percorso segue Anthony Molino, traduttore di Magrelli e De Filippo, che per l'antologia
ha tradotto la poesia dialettale abruzzese.
Many people have asked me how does one manage to translate from the Neapolitan -
apparently implying that the rendition of a "dialect" into English can pose more or
different problems than would a more widely known language. I've always believed
that a translation is successful to the extent that the culture and language that nurture
a text can be fully assumed, indeed known, by the translator. In this, there is
something of an anthropological dimension, something akin to the ethnographer's
capacity for "going native". Though not of Neapolitan origins, I'd been exposed to a
number of Southern Italian dialects and traditions, first as a child and later via my own
experience in the Abruzzi, Rome, Sicily and Matera, where altogether I've spent ten
years of my adult life.
Molino qui apre un'altra, importantissima prospettiva, sulla problematica del dialetto, ripresa poi da
un altro traduttore, Justin Vitiello, traduttore dal siciliano e dal pugliese, che enumera alcuni degli
elementi più importanti nella traduzione dal dialetto:
1.) un lavoro di conservazione di culture in fase di estinzione (e qui Vitiello dà una prospettiva
globale del problema).
2.) La traduzione della poesia dialettale ridà una voce culturale-globale agli emarginati, a
quelli che Franz Fanon chiamava i dannati della terra.
3.) Al livello linguistico, come vediamo chiaramente nella poesia americana nera o Beat, i
dialetti sono i veicoli di innovazione artistica.
4.) Questo è un discorso politicamente corretto? No, guardate Dante, il padre Dante, anche
lui si radica, nella sua rivoluzione della lingua letteraria, in un dialetto.(26)
Le osservazioni di Vitiello sono molto fertili e richiederebbero puntualizzazioni e chiarimenti che ci
porterebbero troppo lontano. Bisogna però dire, e questo è uno degli aspetti del dialetto da cui non
si può prescindere, che il dialetto ha un sottofondo tragico, perché ormai l'universo antropologico che
vuole esprimere non esiste quasi più. Come ci ricorda Luigi Meneghello, uno dei più profondi
conoscitori della situazione dialettale (si vedano i suoi libri Libera nos a malo e Jura), le cose
scompaiono, ma le parole restano. Il dialetto è una lingua tragica perché i suoi referenti sono
scomparsi, estinti. La sua contraddizione interna è proprio questa: da una parte, il dialetto è visto
quasi universalmente come lingua della concretezza e della corporalità; dall'altra, concretamente, sono
stati cancellati i punti di riferimento esterni, cosicché la consistenza del dialetto si manifesta in effetti
come fantasma della memoria, come risonanza interiore. La difficoltà specifica del tradurre dal
dialetto, quindi, nasce anche dal fatto che la parola dialettale è avulsa dal suo humus originario, di
determinatezza, di identificazione completa con la cosa.
La situazione ideale, si è detto prima, si ha forse solo quando lo scrittore bilingue diventa
traduttore di se stesso. In un suo articolo su Zanzotto traduttore, Giovanni Meo Zilio nota che "Il
traduttore di testi altrui, anche nel migliore dei casi, cioè quando egli sia del tutto bilingue e possegga
effettivamente la forma interna della lingua da cui traduce (il che non è certo frequente) cozza contro
difficoltà semantiche di ogni genere (che si aggiungono a quelle stilistiche e fonomelodiche) come la
polisemia, l'ambiguità, l'ermetismo intenzionale, i riferimenti contestuali di tipo storico, socioculturale,
biografico, psicologico ecc., che invece non sogliono esserlo per il traduttore di sé stesso."(27)
Zilio offre un'analisi lunga e molto dettagliata della traduzione italiana che Zanzotto fa di un
suo racconto in dialetto veneto intitolato "La storia del barba zhucon / La storia dello zio tonto." La
sua conclusione è che Zanzotto adotta un criterio di rigorosa fedeltà, ma che all'interno di questa
fedeltà di fondo appaiono qua e là, nella sua traduzione, certe scelte stilistiche (lessicali, sintattiche,
fonomelodiche ecc.) che si allontanano dal testo di partenza e che in uno scrittore così attento e
calibrato non possono essere casuali. Queste differenze vengono raggruppate in due categorie:
a) Deviazioni da letterarietà: nel senso di scelta di parole o sintagmi più letterari (meno
familiari o meno plebei o meno rurali rispetto a quelli del testo di partenza).
b) Deviazioni da essenzialità: nel senso di una maggiore sobrietà (ritegno, discrezione
espressiva); che comprende la semplificazione, la razionalizzazione, la sdrammatizazzione
(antiteatralità), rispetto allo stesso testo.
Per quanto riguarda la maggiore letterarietà del testo italiano, Zilio conclude che mentre il testo
originario è ripreso dal folklore dialettale trevigiano, nel testo italiano l'autore è meno condizionato
dalle forme e strutture psicolinguistiche e sociolinguistiche con cui quel materiale folcloristico è stato
tramandato ed è giunto fino a lui. Ma c'è operante un altro meccanismo, "che agisce più o meno in
tutti i dialettofoni quando passano dal dialetto alla lingua nazionale, il quale si può articolare, con esiti
diversi, sotto l'etichetta di ipercorrettivismo (in questo caso stilistico) e che consiste, com'è noto, in
una controspinta psicolinguistica che produce effetti di autocensura sovrabbondanti verso la naturale
spinta alla contaminazione."(28) Da notare che questa differenza di letterarietà fra testo italiano e testo
dialettale si dà, per Zanzotto, nella traduzione piuttosto che negli scritti originali, dato che la sua
poesia dialettale non è meno letteraria di quella italiana.
Esula da questo saggio una disamina dell'operazione inversa forse ancora più problematica,
ma da esplorare in un altro saggio cioè della traduzione da lingua a dialetto, che ha prodotto varie
versioni dialettali della Divina Commedia, una versione calabrese della Gerusalemme liberata,
un'Eneide in ottava rima napoletana e così via. Vorrei però segnalare almeno il tentativo molto
recente di un poeta dialettale, Giuseppe Jovine, di rendere in dialetto un autore complesso come
Montale.(29) Lo segnalo anche per la lucidità metodologica con cui viene affrontato un compito
apparentemente inattuabile:
Quanto alla traduzione di Montale, che potrebbe essere contestata col pretesto della
intraducibilità di testi complessi e psicologicamente raffinati, in un vernacolo che si
ritiene presuntivamene esente da complessità e raffinatezze stilistiche e contenutistiche, c'è da dire che i grandi temi montaliani della vita e d'oltre vita, della ricerca della
formula risolutiva dell'essere, della "parola che squadri da ogni parte l'animo nostro
informe," della ventura dell'umano svanire, possono ben trovare una loro collocazione
nel vernacolo, perché in questo tutti quei temi hanno un loro equivalente linguistico,
se è vero, com'è vero, a mio avviso, che nel folclore si ritrovano, come osserva
Gramsci, i superstiti documenti mutili e contaminati di tutte le concezioni del mondo
e della vita che si sono succedute nella storia.(30)
Quanto ai risultati, se si supera il momento iniziale di disorientamento e di straniamento dovuto alla
carica provocatoria implicita nel testo, il meno che si possa dire è che l'esperimento è indubbiamente
interessante:
Come Zaccheo
Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro
per vedere il Signore se mai passi.
Ahimè, non sono un rampicante ed anche
stando in punta di piedi non l'ho mai visto.
[da Diario del '71 e del '72]
Chi sa se passa u' Patraterne
Ze tratta da 'nghianà
'ncopp'a n'albere de chiuppe
Nze pò sapè! Pessotte pò passà
da nu prichinde all'atre u' Patraterne.
Ma se mmanche na' luna l'ànne viste
'gna le pozze vedè se nen m'arrizze
manche 'npunte de pede pe le calle?
[da Chi sa se passa u' Patraterne]
Si tratta di salire / sopra un albero di pioppo. / Non si può mai sapere! Sotto può
passare / da un momento all'altro il Padreterno. / Ma se nemmeno sulla luna l'hanno
visto / como posso vederlo se non riesco ad alzarmi / nemmeno sulla punta dei piedi
per i calli?
Bisognerebbe, in ulteriori studi, approfondire l'analisi dei testi in traduzione per poterne
concretamente misurare e valutare la resa stilistica e letteraria. Alla fine siamo però costretti a dover
constatare l'ovvio: cioè che è impossibile trovare risposte risolutive al problema della traduzione dal
dialetto. In questa sede ci siamo limitati ad indicare tracce da seguire, percorsi da esplorare, ma la
riuscita di qualsiasi tentativo non può in definitiva che dipendere dall'abilità e dalla sensibilità linguistica e letteraria del traduttore.
LUIGI BONAFFINI
Brooklyn College/CUNY
NOTES
1. 1. .The Portable Mark Twain, ed. Bernard De Voto (New
York: The Viking Press, 1968): 193.
2. 2. .John Du Val, "Translating the Dialect: Miller Williams' Romanesco", Translation
Review 32-33 (1990): 27. Il commento di Mark Twain appare all'inizio dell'articolo.
3. 3. .Le avventure di Huckleberry Finn (Milano: Garzanti, 1992).
4. 4. .David R. Sewell, Mark Twain's Languages: Discourse, Dialogue, and Linguistic
Variety (Berkeley: University of California Press, 1987) 67.
5. 5. .Judson Rosengrant, "Toads in the Garden: on Translating Vernacular Style in
Eduard Liminov", Translation Review, 38-39 (1992): 16.
6. 6. .Henry G. Schogt, "Langue étrangère et dialecte et leurs rapporte avec le texte
principal: un probleme de traduction", Contrastes, (Décembre 17, 1988): 21-38.
7. 7. .Brian Altano, "Translating Dialect Literature: the Paradigm of Carlo Emilio
Gadda," Babel 34.3 (1988): 152-156.
8. 8. .La traduzione di Weaver, citata da Brian Altano, "Translating Dialect Literature" 155, è la seguente:
"Get your roast pork here! Pork straight from the Ariccia with a whole tree
of rosemary in its belly! With fresh, new potatoes, too, right in season!... I'm here to
tell you. Taste them for yourselves." He rested for a moment to catch his breath. And
then, exploding: "One-ninety the slice, roast pork! We're giving it away,
9. 9. .Brian Altano, "Translating Dialect Literature" 156.
10. 10. .Sonnets of Giuseppe Belli (Baton Rouge and London: Louisiana State UP,
1981) XXII.
11. 11. .John Du Val, "Translating the Dialect" 27-28.
12. 12. .Ibid. 28.
13. 13. .Ibid. 28
14. 14. .Ibid. 31.
15. 15. .Giambattista Basile, Il Pentamerone, traduzione di Benedetto Croce (Bari:
Laterza, 1925) XXX-XXXI.
16. 16. .The Pentamerone of Giambattista Basile (London-New York: E.P. Dutton,
1932) VIII.
17. 17. .Ibid.
18. 18. .Don Chisciotti and Sanciu Panza (Ottawa:Canadian Society for Italian
Studies, 1986) XXXI.
19. 19. .New York: Peter Lang Publishing, 1992.
20. 20. .The Hidden Italy (Detroit: Wayne State UP, 1986) 22.
21. 21. .Ibid. 45.
22. 22. .Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo (Torino: Einaudi, 1990)
23. 23. .Giose Rimanelli, Moliseide, cura e traduzione di Luigi Bonaffini (New York:
Peter Lang, 1992).
24. 24. .Achille Serrao, 'A canniatura / The Crevice, cura e traduzione di Luigi Bonaffini
(New York: Peter Lang, 1995).
25. 25. .In una lettera indirizzata a me, in risposta ad alcune domande sulla traduzione
dal dialetto.
26. 26. .Ibid..
27. 27. .Zilio, Giovanni Meo. "Come Zanzotto traduce se stesso." Quaderni veneti, 14
(Dicembre 1991): 95-107.
28. 28. .Ibid. 106.
29. 29. .Giuseppe Jovine, Chi sa se passa u' Patraterne (Roma: Il Ventaglio, 1992).
30. 30. .Ibid. 9-10.
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