NINO DE VITA E IL MONDO DI CUTUSIO
di Lucio Zinna

Partenza da «Fosse Chiti»

Il viaggio poetico di Nino De Vita prende le mosse dal 1975, anno in cui il poeta siciliano inizia a comporre, in lingua italiana, i testi di Fosse Chiti. 1
Il titolo è derivato da un toponimo, riferito, con espressione vernacola, alle “fosse cretose” esistenti in una località (in tempi trascorsi, cosparsa di acque malariche) confinante con la contrada marsalese di Cutusìo2, nella quale l’autore vive dalla nascita. Un palpitante scenario di vita vegetale e animale si disvela in un frammento qualsiasi del pianeta, nel quale si recupera in intensità quel che si perde in estensione, in un’intensa eppur misurata festa zoo-vegetale. «E noi capiamo – scriveva Giuseppe Conte – che sul mistero del cosmo si apprende più dal saper osservare il trascorrere ciclico e silenzioso della vita nelle “fosse chiti” che da tutti i trattati della biblioteca di Alessandria.»3
Possiamo considerare quest’opera un fine e raro – specie nella produzione odierna – esempio di letteratura agreste (da non confondere con le generiche lamentazioni per la scomparsa della civiltà contadina), in cui è ossimoricamente cantato un limitato universo, nella stagione invernale maculato di acque stagnanti, nel quale si muovono, in qualità di personaggi, bruchi e vermi, rane e farfalle, rami e foglie, uccelli e formiche, alberi e gazze, galli e galline. E carciofi, melagrane, carrubi, pomodori etc.
Il testo sulla rana, ad esempio, riveste di esemplare classicità, e nel contempo di moderna eleganza, una materia tradizionalmente inadatta ad auliche trattazioni poetiche, in una sorta di epopea minimale, di canto delle lateralità, in cui piccole vite trascurate assurgono al rango di protagoniste:

Con le dita palmate, l’occhio grande
ma cieco quasi, oscuro, il muso a punta
il dorso bruno oliva
con macchie nere ornate da ogni lato,
la rana verde vive
ai margini di stagni o corsi d’acqua
in mezzo all’erba
e salta
con le cosce allargate a uno spavento
un giuoco. L’onda grossa
batte sui bordi circolari
torna
più piccola, leggera…
Con il buio
è una voce monotona
perduta nell’alba che raccoglie alle pupille
la luce nuova,
bianca, in un puntino. 4

Una popolazione animale e vegetale in qualche modo riscattata da una subalternità di matrice antropocentrica – qua e là alternata, nel paesaggio, a cortili, tetti, lavatoi –, emersa dai ristretti ambiti di una zona palustre. Un mondo un po’ estraneo e un po’ coinvolgente e talvolta come osservato dalla finestra, ma mai superficialmente:

Questo sguardo
dalla finestra abbraccia la campagna
la ferrovia gli ulivi le saline…5

Lo sguardo di De Vita è quello dell’uomo di scienza (è docente di osservazioni scientifiche), apparentemente freddo, attento e indagatore, che studia i fenomeni ma non si limita a questi, travalicando in una dimensione poetica. E il poeta carica i fenomeni di sentimenti (quello della natura in primo luogo) e canta impulsi vitali e ineluttabilità della morte, in un pressoché costante dialogo. A versi come questi:

La foglia viva ha un succo verde dentro
nervi
cellule rigonfie d’umore 6

o come i seguenti:

Maturerà crisalide la vita
D’una stagione sola:
una farfalla
un’altra metamorfosi
una larva
al muro screpolato. 7

se ne contrappongono altri che si direbbero di segno opposto, nei quali è rappresenta la morte, per di più violenta.
La mosca, catturata nel volo da una mano lesta

Sta riversa. Le zampe
mosse nell’aria, lente; le ali rotte,
l’addome insanguinato…8

Si fa immenso il muggito del toro al macello, in una poesia tra le più intense, figurante nella prima edizione e non più riproposta nella successiva:

Ho visto scannare un toro.
La voce del dolore
usciva dalla bocca spalancata:
riempiva strade e cielo
si perdeva…

Lungo i meati il sangue si è infiltrato:
l’acqua del pozzo ha tinto
e dopo il fiume
il mare. 9

Il linguaggio è asciutto e al tempo stesso umoroso e sapido, come il sale (le saline del marsalese sono a brevissima distanza da quelle stesse fosse cretose), presente nel paesaggio devitiano:

Nei letti, in onde brevi,
maturo
affiora cristallino

dall’acqua che

arrossa, imbianca,
evapora nel sole, si disperde …. 10

Un verseggiare montalianamente «bruciato dal salino». La sintassi – rileva Stefano Jacomuzzi – è «semplificata, grazie anche alla frequenza dell’ellisse, che non complica il quadro, ma ne allinea con ordine i particolari.» 11
Giocati sull’hic et nunc, i testi della silloge poggiano quasi esclusivamente sul presente indicativo dei verbi (che, in alcune composizioni, addirittura scompaiono, come ancora rileva Jacomuzzi12), lasciando alle cose uno spazio maggiore, un'evidenza assoluta nel risicato telaio linguistico-espressivo delle varie composizioni.
Benché il codice adottato fosse quello della lingua nazionale, la poesia devitiana, già nel suo apparire, era connotata, dunque, da un’intrinseca dialettalità, in primo luogo per l’attenzione e l’attrazione a un mondo di florida marginalità, a una realtà locale fortemente evocativa, mirata alla res e alle sue profonde, interne articolazioni. Tale aspetto è certamente più rilevante della presenza, comunque non insistita, di termini dialettali (a principiare dal titolo),13 usati quali solecismi chiamati in soccorso a meglio piegare, come una volta si diceva, la materia all’intenzion dell’arte, per via della loro pregnanza e perfino di una loro, sostanziale o virtuale, intraducibilità. L’asino, ad esempio, ha tastiera col «giummo» (non «fiocco») rosso e con le «cianciane» (non «campanellini») 14 e il pane è ammuffito nello «stipo» (non nella «credenza» o «madia»).15

«Cutusìu» e la svolta neodialettale.



Lo sbocco del poeta marsalese nella poesia neodialettale, con Cutusiu,16 non sorprende, anzi appare una sorta di adequatio rei et intellectus. È accaduto a De Vita di attuare quel che il grande poeta dialettale siciliano Alessio Di Giovanni rimproverava a Giovanni Verga e cioè di non aver scritto in dialetto I Malavoglia, ritenendo inspiegabile che questi – dopo l’imperioso irrompere nelle scene letterarie degli umili, da cui lo stesso linguaggio verghiano traeva linfa – avesse lasciato a metà la sua rivoluzione.17 Ma dopo Mastro don Gesualdo, Verga, per il progressivo incupirsi del suo pessimismo, aveva preso ben altra decisione: di interrompere il progetto compositivo del suo ciclo dei vinti e La Duchessa de Leyra fu soltanto iniziata, L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso rimasero nella sua mente, nel silenzio.
De Vita, allargando di un palmo il suo orizzonte, completa la rappresentazione del suo micro-universo, spostandola dalle «fosse chiti» all’adiacente altura («timpùni») di Cutusìo, rendendo, nel contempo, integrale la dialettalità di quel mondo, assumendone in toto il codice linguistico, vale a dire la parlata di quel milieu. Il poeta non oltrepassa, fisicamente, il perimetro di un territorio, più che consueto, familiare, ma estende il suo sguardo – ora non più limitato agli oggetti e alle presenze vegetali e animali – alla figura umana, concentrandosi su un panorama antropologico elementare ma ricco di memorie e screziato di fascinazioni, acutamente perlustrato nella sua peculiare aneddotica, nei suoi drammi e nelle sue boutades.
La sua, lungi dall’essere la lingua siciliana della koiné, appare piuttosto la trascrizione, quasi magnetofonica, del modo di esprimersi di altri “primitivi” in senso verghiano gravitanti nell’isola, non dalle parti di Acitrezza nel secolo XIX, bensì nello sperduto angolo di mondo che è la sua contrada e sul declinare del secolo XX, quasi ad esemplare l’indicazione tolstojana «descrivi il tuo villaggio e sarai universale».
Dal 1980 De Vita imprende a lavorare attorno a una sorta di “romanzo in versi” (come già per tempo lo aveva definito Rosita Copioli nel corso di un’intervista concessa dall’autore e probabilmente su suggerimento dello stesso18) che celebri quel luogo e ne rechi in titulo il toponimo. Nel 1980: dunque, mentre il poeta attende ancora alla sua silloge in lingua italiana, Fosse Chiti, che di fatto completa nel 1989.

«Cutusiu» poema dell’infanzia.

Opera di lunga gestazione, Cutusiu è autonoma e di ampio respiro e tuttavia intrinsecamente connessa alla precedente. Il sintagma “romanzo in versi” non è del tutto azzardato, ove si consideri quanto sia sostanzialmente fievole il discrimine tra i generi letterari, nonché fra prosa e poesia, a certi livelli creativi; in effetti e per limitarci a qualche illustre esempio, non sono altro che “romanzi in versi” le omeriche Iliade e Odissea o l’Orlando Furioso dell’Ariosto o l’Hungerfield di Robinson Jeffers e, per converso, quella circulata «melodia dolorosa» – per usare l’ espressione di Luigi Russo19– che impronta I Malavoglia verghiani, evidenzia la valenza poematica di quel racconto.
Di Cutusiu sono uscite due edizioni: una nel 1994, privata, e una con avallo editoriale nel 2001; delle anticipazioni erano apparse fin dal 1983 in riviste, almanacchi e antologie; nell’arco di tempo tra il 1991 e il 1993, alcune parti dell’opera erano circolate, col sistema delle private plaquettes a limitatissima tiratura (più o meno com’era accaduto alla prima edizione, pour les amis, dei Canti barocchi di Lucio Piccolo), con ritmo pressoché cadenzato: Bbinidittedda, Fatticeddi, Bbatassanu, Nnòmura.
La contrada che dà titolo al libro è un «timpuni assulazzatu» (altura desolata), avvallata ad un fianco, con la sua terra ora incolta ora seminata a strisce, con le sue

Ciari ggiannuffi, rrunzi,
chiàppari e affucamuli 20

(sciare calcaree, rovi /capperi e avena selvatica), nelle cui trazzere s’incontrano oliveti e «zzappatricchi licchetti» (pettirossi vispi»); sullo sfondo, Erice, nel suo cumulo di nebbia. 21
Cutusìo si colloca geograficamente di fronte alle isolette del marsalese (Altavilla, Mozia, Santa Maria), fra le tante dell’arcipelago Sicilia, con i loro maestosi alberi di gelsi, i loro pini secolari, gli ulivi contorti e le agavi che, del paesaggio siciliano, sono un po’ (persino oleograficamente) emblema; percorrono quei lembi di terra rondini, beccaccini, pavoncelle, folaghe, ecc.23 È questo il fondale di quel poema scenico che è, in fondo, Cutusìu.
L’opera riveste configurazione autobiografica fin dalla prima sezione: «Ottu giugnu millinovicentucinquanta», data di nascita del poeta; tale configurazione non sarà abbandonata nelle successive sezioni,22 nelle quali la silloge andrà tuttavia assumendo dimensione corale, popolandosi sempre più di personaggi e intensificandosi di episodi di quel piccolo mondo, di cui l’autore è ora protagonista ora comprimario, spesso spectator, io narrante, comunque emotivamente coinvolto, benché la scrittura appaia distaccata e “bruciata dal salino”, com’era accaduto in «Fosse Chiti».
Il mondo di Cutusìo assume progressivamente le sembianze delle sue animate figurine di galestro: Gnaziu Santupàtri ‘u cazzusaru (il gazzosaro), Sasà Ricuttedda ‘u vucceri (il macellaio), lo sciancato Ninu Meu, Turddu Cacafocu. Per non dire di Mastr’Aiffiu ‘u zimmilaru (artigiano costruttore di bisacce), di Bbiniritteddra, di Bbatassànu, ai quali sono dedicate apposite sezioni: personaggi – come nota Pietro Gibellini nella sua acuta prefazione - «destinati all’anonimato, che la nitida memoria del poeta incide come in una pittura dal vero, senza mai indulgere all’abbandono idillico.» 24
Lo sguardo resta quello del fanciullo; tutto è filtrato nella memoria e da essa emerge con precisione di contorni, fosse anche con il color seppia del tempo trascorso. Un poema dell'infanzia (diversamente thoveziano), procedente per flash memoriali. Ed è la memoria di quel fanciullo e, al tempo stesso, del puer aeternus nel cui alveo si gioca (pascoliana poetica del “fanciullino” a parte), nei poeti di ogni tempo e di ogni plaga, una rilevante dose del mutarsi in poiesis della quotidianità, anche la più banale o la più tragica.
Allora non è occasionale il fatto che il libro di De Vita prenda le mosse da qull’otto giugno 1950.
La prima figura umana a comparire sulla scena è quella del padre, nel momento in cui esce di casa sospirando, nell’irrequietezza dell’imminente paternità:

Talijava ‘u celu
e si talijava
i manu 25



(Guardava il cielo / e si guardava le man»), come il figlio lo avrà osservato in altre difficili circostanze. Il bambino nasce asfittico:

‘U dutturi cafuddava.
Stricava
‘i jirita nnô pettu,
ciucijava rintr’a vucca;
e cafuddava: nnê natichi,
nnê cianchi…
Pi’ ddu uri.
Poi, finarmenti
– nivuru –

chiancii. 26

( Il dottore batteva con la mano. / Massaggiava / con le dita il petto, / soffiava nella bocca; / e batteva sulle natiche, sui fianchi…// Per due ore.// Poi, finalmente / – nero – piansi).
In quel «chiancii» liberatorio, nella solitudine di quella voce verbale a conclusione del testo, sta la vittoria della vita, nel suo punto sorgivo, sulla morte. Inevitabile il riferimento alla considerazione leopardiana del Canto notturno: «Nasce l’uomo a fatica, /ed è rischio di morte il nascimento».
I successivi momenti di Cutusìu, da Jòcura e Rrufulijàti (Giochi e Scompigli) in poi, sono tranches de vie, non sempre eccezionali: semplici accadimenti, in alcuni casi, che tuttavia costituiscono parte inalienabile di una personale epopea. Il poeta, ponendosi nel bel mezzo di essi, li presenta non di rado come un annotatore da Chronicon medievale.
Del resto, permane in lui l’eco di quel “dogma dell’impersonalità dello scrittore” di matrice zoliana, filtrato attraverso il verismo isolano (Verga, Capuana, De Roberto); “dogma” assecondato ed eluso nel contempo: assecondato nella rappresentazione delle vicende e nei moduli espressivi adottati; eluso nella (malcelata) compartecipazione a quelle vicende, fino a farsi palese in certi fugaci tremori o in certi incantamenti paesistici.
Questi ultimi, in particolare, paiono sfuggiti come per caso dalla penna del De Vita:

‘U ventu nnô mulinu
ri canna ncap’u curmu
r’a pagghialòra vecchia:
‘u friscu leggiu, longu
r’i paletti, nziccuti e trasparenti. 27

(Il vento nel mulino / di canna sul displuvio / del magazzino vecchio: / il fischio lieve, lungo, / delle palette rinsecchite e trasparenti).



Oppure:

Fermu sciroccu e ‘u mari
azzòlu.
I piscatùra
attornu ô sciabbicùni
tiratu nnô vacanti
r’i trisci. 28

(Quieto scirocco e il mare / azzurro. / Stavano i pescatori /attorno alla sciabica, /tirata tra gli spazi/ delle alghe.)
Questi versi costituiscono l’incipit del testo poetico su Mozia che, superato lo Stagnone, si disvela ogni volta con il fascino della prima, con i suoi reperti di civiltà sepolte: tombe antiche di pietra, brocche, lacrimatoi, caraffe istoriate, in un ambiente naturale in cui si mescolano effluvi, vecchi e nuovi, di nepitelle, di lauro, di mentucce. Una delle liriche più significative della silloge, densa di suggestioni, nel rarefatto andamento musicale dei versi; tornano alla mente – in altri siti, tempi e occasioni – le pagine delle Confessioni nieviane in cui Carlino Altoviti “scopre” il mare e prova la sgomentosa percezione del mistero dell’universo.

Cutusio isola metaforica

Sfilano così, singolarmente o assemblati, tra inverni e primavere, tra autunni e calure estive, Filippeddu e gli aquiloni, la cagna Carina smarrita e ritrovata, il padre di Masinu e la mattutina raccolta delle chiocciole, don Pasquale Ficarra che fucila una gattina in amore, infastidito dal miagolio notturno. E nonna Nardinedda, Turiddu Cacafocu commerciante di morchia, e mastr’Aiffiu, che abitava nel pagliaio, facile alle ubriacature, durante le quali inventava «cùntura strullichiusi» (racconti strampalati), come paiono a volte i racconti veri del mondo di Cutusio.
In giovane età Mastr’Aiffiu aveva sposato una fanciulla bellissima, Peppina, che scopre poi essere dedita al bere, finché una sera non la trova abbandonata per terra, morta, mentre sul fuoco cuociono ancora le lumache a ppicchipacchiu (condimento mediterraneo di pomodoro, cipolla, aglio, basilico e pepe). Da vecchio, quest'uomo che pare tetragono ai colpi della sorte, rievoca la moglie:

Accapuzzau ‘a testa,
arrunchijannusi ‘i spaddi
e ‘a trantuliàu
ri chiantu.29

(Crollò la testa, / restringendosi nelle spalle / e la scosse / di pianto).
E Angiulu, innamorato della cugina, che muore in manicomio a ventun’ anni. E Bbatassanu, che si trova coinvolto, suo malgrado, in una storia di sequestro di persona di cui è testimone; deciso a denunciare il fatto ai carabinieri, è oggetto di persecuzione, rischiando la vita. Il fatto si conclude in una strage. E Giammitrina, personaggio a intensa, tragica grecità, che figura nella prima edizione del libro (l’episodio è stato soppresso nella seconda), il cui marito pescatore perisce in mare e lei, ogni anno, per la festa dei morti, va a posare un fiore su una tomba abbandonata, in memoria del coniuge.
E Bbinirittedda, l’adolescentina che muore di parto abortivo. Il tempo di questo racconto – nota Antonio Pane – è scandito da una accorta regia: «La progressione drammatica è sapientemente ritardata da ariose aperture del paesaggio – delicati inventari, attesi a una sorta di prosciugato pascolismo, del microcosmo naturale e umano che preparano ulteriori scatti dell’azione i cui apici sottolineano trepide sequenze iterative (“ ’a ntisi, sì, ‘a ntisi – com’un lament’a vuci”).»30
Isola metaforica nell’isola geografica, Cutusio è il pianeta terra in un suo lacerto, scrutato come al vetrino, come in sezione.

“Nnomura” come madeleinettes

Questi esempi di vita cutusiara trovano – a un semplice mutare di parvenze e scenografie – il loro corrispettivo in ogni epoca e in ogni luogo. Perché la vita, sembra dirci il poeta, è quella che è: sempre diversa e sempre la stessa, nella sua sotterranea coincidentia oppositorum, per cui finiscono per conciliarsi Parmenide ed Eraclito: variegata ed uniforme, immutabile nel suo eterno fluire, leggibile come un libro aperto e misteriosa fra le righe, rompicapo tragico e comico, comunque affascinante, nella dialettica dei (pirandelliani) essere ed apparire.
Pietro Gibellini osserva: «Sulla vita il poeta getta uno sguardo schillerianamente “greco”, nel senso che la ritrae con candido nitore, nella sua misteriosa interezza, senza cercarne un senso che non sia quello stesso che la vita comunica: un evento sottratto alla morte, un miracolo quotidiano fatto di accadimenti minimi, di dolori senza perché, di affetti intensi, per lo più sommessamente percettibili, talora gridati con forza.»31
E poiché la vita non ha che parziali, momentanee, conclusioni, non di rado il poeta chiude ex abrupto le sue composizioni, quasi bloccando fatti e fatticeddi all’ultimo fotogramma, in una moviola della memoria.
Il verso, come già si è accennato, è essenziale. Essenzialità di roccia, di terra arsa e brulicante di esseri umani, di animali, di piante, di oggetti. E i sentimenti sono contenuti, misurati, ma non compressi. Essenzialità che è quella della vita stessa, mondata da scorie ed apparenze, così come la poesia è sempre al di là degli orpelli espressivi, al netto di ogni retorica, termine, quest’ultimo, con il quale non vogliamo certo riferirci all’ars dicendi, bensì – nel nostro caso – a quella tendenza al folklorico o al vittimismo che ha caratterizzato aspetti non trascurabili della poesia dialettale (e non) isolana del secondo Novecento.
Luigi Reina individua due elementi caratterizzanti la poetica devitiana: una tensione lirico-narrativa con ascendenza fabulistica, di marca mediterranea, e un richiamo fortissimo e quasi mitico della contrada nativa, Cutusio. «Da qui deriva – osserva lo studioso – quella sorta di alternanza di “toni” (tra il lirico, l’epico, il tragico o il descrittivo) e l’apparente concentrazione dei moduli adottati intorno a un nucleo rappresentativo che utilizza il realistico (nel senso più nobile del termine) in funzione di una resa mitica.»32
Il “siciliano” usato da De Vita è cutusiaro come il mondo che egli descrive; della parlata locale il poeta riproduce persino le cadenze. La lettera «r», ad esempio, compare o scompare a prescindere dalle comuni lectiones di certi vocaboli, a seconda se sia usata o meno nelle espressioni gergali della contrada: abbiamo così, per menzionare qualche caso, “scoccia” per “scorcia” (scorza)33, “ricina” per “dicina” (decina)34 o “Giammitrina” per “Giammitina” (Gianvitina)35 o extracanonici raddoppiamenti a inizio di parola (“rrufuliava” per “rufuliava”(strapazzava),36 “rruttu” per “ruttu” (rotto),37 “rruppi” per “ruppi”(spezzò),38 “rrussu” per “russu”(rosso);39 “rribbilliu” per “ribilliu”, “tirribblilu”(sfacelo)40, “rrini” per “rini” (reni) 41etc.
E parimenti rivivono nel linguaggio di De Vita termini desueti nella lingua siciliana e consueti dalle sue parti: «pianneddu ‘u ventu» (amoroso il vento)42, «u marvùni» (il geranio),43 «â ‘ntrabbuliata» (il crepuscolo)44, «ddisariàtu» (allocchito)45, «tirchiniava» (pungeva)46 e così via. A cui vanno aggiunte interiezioni gergali del tipo «nisba!» (niente!, non c’è nulla da fare)47 o «attinchitè» (a iosa )48.
I “nnòmura”, i nomi, vanno, in questo poema narrativo (e, in generale, laddove la poesia si ponga quale ri-significazione della parola), al di là delle loro stesse significazioni, del loro essere indicativi di qualcosa; assolvono, in De Vita, a una funzione evocatrice, sono stimolatori memoriali, riconducono le emozioni che ci assalgono ai loro elementi primigenii: fungono, in certo senso, da madeleinettes proustiane.
Salvare i nomi vuol dire salvare, nella memoria, persone e cose, animali e piante. Preservare e custodire quei nomi equivale a sottrarre significati e significanti al tempo che, inesorabile e impietoso, li travolge. Nomi diversi da quelli registrati nella nostra infanzia, cresciuti con noi, renderebbero diverso ciò a cui il nostro vissuto si era riferito e si riferisce. Può leggersi anche in questo senso il motto latino “sunt nomina numina”.
E scomparsi i nnòmura svanisce una parte, tutt’altro che esigua, di noi stessi.



«Cùntura»: dentro e oltre Cutusìo.

Nel 1999, con la consueta formula dell’ edizione privata a bassissima tiratura, vede la luce Cùntura,49 un’opera scritta in pochi mesi, una decina d’anni prima, precisamente dal marzo al giugno del 1989, composta da 15 piccole storie in versi. “Cùntura”, vale a dire, genericamente, racconti. Ma anche fiabe, nate – apprendiamo dallo stesso autore – 50 dall’affetto paterno, essendo state originariamente create per la figlioletta Francesca, allora di due anni.
In questi contes il mondo poetico devitiano si mantiene nel perimetro che si è prescelto e nell'ambito del quale poter spaziare, anche se concentrato talvolta su zone diverse dalle Fosse Chiti o da Cutusìo ma ad esse limitrofe. E si può dire, parallelamente, che delle due raccolte poetiche, la seconda orbiti attorno alla prima: Cùntura infatti poco si chiarirebbe e poco risalterebbe senza Cutusìu. Non viene meno in quest’opera – in rapporto a Fosse Chiti e a Cutusìu – l’attenzione alla fauna e alla flora esistenti in quel territorio, ancora immune, benché non del tutto, dalle devastazioni operate dall’homo faber ficiniano.
L’opera permane nella linea di una letteratura che, all’inizio di questo discorso, abbiamo voluto chiamare agreste, non arcadica, non idillica, connotata da un realismo conseguente, che può anche essere crudo, quando occorra, ma sempre nobilitato da una superiore visione della vita e dalla compassione per le creature.
Con Cùntura tale ambito si estende alla fiaba, rendendo visibile l’altra faccia della luna, intendiamo dire l’aspetto fantastico del realismo devitiano o cutusiano che dir si voglia. Abbiamo anche rilevato che Cutusìu può considerarsi un poema dell’infanzia; Cùntura si riappropria della magica dimensione infantile della fiaba, anch’essa nata da quel territorio e con connotazioni in quell’habitat spiegabili.
Di questi “cùntura”, come di molti di ogni tempo e paese, sono dramatis personae esseri umani (i due gemelli, la ‘zzi Nzula, ad esempio) o piccoli animali (le gazze, le lucertole, la volpe, il riccio) e insetti e farfalle, nella loro esistenza fatta di sensibili antenne, di peculiari percezioni. La presenza dell’uomo non è debordante, anzi sporadica, addirittura avvolta nel mistero come nell’episodio della casa sull’altura o in quello del Chiapparotta. Tale presenza assume talvolta toni delicati e patetici, come nel racconto dei due «minzùdda», i gemellini Matteo e Mattia, talaltra aspetti devastanti, come il proditorio depotenziamento della “Vurga” (la Fossa del Birgi) operata da due loschi figuri, con la strage di tinche che ne deriva.
Il silenzio che circonda «’a casa nnô timpuni» è lo stesso di quello che suggerisce il titolo di «Sulità», il quale rimanda all’adagio siciliano che indica come beatificante la ( o le) “sulità”: “Sulità santità”, che può anche considerarsi come l’arcaico e popolaresco corrispettivo della dannunziana «beata solitudo sola beatitudo».51 E certo la parola «sulità» indica qualcosa di più di «solitudine»: quest’ultima può essere un fatto contingente, la prima sottende qualcosa di assoluto, di metafisico.
C’è una profonda sintonia tra il poeta e quel mondo serenamente sauvage che egli rappresenta; un mondo che può essere ancor più felice quando l’essere umano (una volta evaso dalla propria infanzia) non vi imponga la propria presenza, che in alcuni caso può rivelarsi disarmonica o sconvolgente.
Anche per queste “Fiabe” accade – come alle più esemplari e rinomate del genere – che, nate per i piccoli, finiscano per offrirsi alla particolare e opportuna meditazione degli adulti, ed è questo un segnacolo della loro intrinseca poeticità (che è fatta anche di meditazione, di ricerca della verità con propri percorsi), che De Vita rende anche estrinseca.

Lucio Zinna



NOTE

Il presente saggio deriva, con varie aggiunte e modifiche, da quello apparso sulla rivista Diverse Lingue, a. X, n° 13, giugno 1994.

1. «Fosse Chiti» fu edito in prima edizione da Lunarionuovo/Società di Poesia, Milano 1984; la seconda edizione, notevolmente ampliata, apparve a distanza di un lustro presso Amadeus (Montebelluna 1989). Il libro non costituisce, in assoluto, l’opera prima del Di Vita, essendo preceduto da una silloge intitolata «La prima stagione», pubblicata a Trapani nel 1978, con una 2a edizione l’anno successivo, a cura del Ce.Si. (Centro per lo studio delle attività economiche, sociali e culturali in Sicilia) di Palermo. In una nota conclusiva alla prima edizione di «Fosse Chiti» l’autore dichiarava tuttavia di considerare questa nuova opera «come mio primo libro», pur non ripudiando, precisava, «quanto fatto e precedentemente pubblicato.» (1a ediz.,cit. p. 55)
2. cfr. note alla 1a edizione, cit., p. 55 e alla 2a,, cit., p. 108.
3. G. Conte, Nota di presentazione a «Fosse Chiti», 2a, cit., IV di copertina.
4. Con le dita palmate, l’occhio grande, in «Fosse Chiti», 2a, cit., p.17.
5. Il tuono e poi la luce, in «Fosse Chiti», 1a, cit., p. 37. Il testo non è riproposto nella 2a edizione; il tema è lo stesso di quello del testo Il lampo e dopo il rombo, 2 a , p.63.
6. È dentro il pugno, al buio, in «Fosse Chiti», 2a, cit., p. 34.
7. Bianca, la cavolaia, in «Fosse Chiti», 2a, cit., p. 39.
8. È dentro il pugno, al buio, in «Fosse Chiti», 2a, cit., p. 34.
9. Ho visto scannare un toro, in «Fosse Chiti», 1a, cit., p. 32.
10. Stagna nelle saline l’acqua, in «Fosse Chiti», 2a, cit., p. 28.
11. S. Jacomuzzi, Prefazione a «Fosse Chiti», 1a, cit., p.7.
12. ib.
13. «Fosse Chiti» è sintagma cutusiaro, poiché in siciliano l’espressione «fosse cretose» suona «fossi di crita»; “crita” (creta) è sermo rusticus: si muta in “chita” proprio in limitate zone del trapanese e, per lo più, in ambito contadino.
14. L’asino con le croste, in «Fosse Chiti», 2a, cit., p. 19.
15. Il pane ch’è ammuffito nello stipo, in «Fosse Chiti», 2a, cit., p. 70.
16. N. De Vita, Cutusìu, con prefaz. di P. Gibellini, Trapani, Arti Grafiche Corrao, 1994. L’opera è stata ristampata (con prefazione di V. Consolo) dalla casa editrice Mesogea di Messina nel 2001. Le citazioni che seguono si riferiscono, ove non diversamente indicato, alla 2a edizione.
17. cfr. A. Di Giovanni, L’arte di Giovanni Verga, Palermo, Sandron. 1920 (testo della conferenza tenuta il 5.9.1920 in Palermo nella Sala Di Maggio ad iniziativa della Società Siciliana per la Storia Patria). Cfr. anche: L. Russo, La lingua di Verga, in L. Russo, Giovanni Verga, Bari, Laterza, 1959 (1a ed. 1919), pp.350-1; P.P. Pasolini, Noterella su una polemica Verga-Di Giovanni, in «Galleria», fasc. spec. Su A. Di Giovanni, a cura di G. A. Peritore, a. VI, n° 5-6, sett.-dic.1956, pp. 330-332.
18. cfr. R. Copioli, N. De Vita, da Sciascia al paradiso terrestre, Avvenire, Milano, 19.10.1991.
19. cfr. L. Russo, Giovanni Verga, cit., pp. 137 e 170-1.
20. Timpùni assulazzatu Cutusìu, in prolepsis, «Cutusìu», cit., p.15.
21. Paricchiati, II, «Cutusìu», cit., p. 65
22. Le sezioni successive alla prima recano, nell’ordine, le seguenti titolazioni: Jòcura e rrufulijati; Paricchijati; Mastr’Aiffiu; Scàntura; Angiulu; Bbatassànu; ’U rui novembri r’u sissantarui; Era lustru ri luna; Bbiniritteda; Comu cucìa ‘u suli nnall’astaciuni r’u sissantatrì.
23. Paricchiati, II, in «Cutusìu», cit., p. 65.
24. P. Gibellini, Prefazione a «Cutusìu», cit., p.8. Sulla assenza di «toni elegiaci» si sofferma anche L. Reina (cfr. Sicilia in «Il filo d’Arianna nel labirinto della poesia», Ripostes, Salerno 1997, p.221). A. Pane osserva che «la quieta trasparenza del disegno, il composto fluire delle immagini non configura tuttavia un’arcadia, non suggerisce sospiri e tintinni d’idillio […].» ( cfr. Un erbario d’anime», «Oggi e Domani», Pescara, novembre 1994.
25. Ottu giugnu millinovicentucinquanta, in «Cutusìu», cit., p.19.
26. ib. p. 29.
27. A picurùmi, in «Cutusìu», cit., p.39.
28. Mozia, in «Cutusìu», cit., p.41.
29. Mastr’Aiffiu, in «Cutusìu», cit., p.95.
30. A. Pane, recens. a Bbinidrittedda, «Arenaria», a.VIII, n° 21, sett.- dic. 1991 (i versi si traducono: «La udii, sì, la udii, come un lamento, la voce.»).
31. P.Gibellini, cit., p. 9.
32. L. Reina, cit., pp.220-1.
33. Riccardu, in «Cutusìu», cit., p.33.
34. Martinu, in «Cutusìu», cit., p.187.
35. Giammitrina, in «Cutusìu», 1a ed., cit., p.123.
36. ‘U mmernu, in «Cutusìu», cit., p.55.
37. ib.
38. Bbatassanu, VI, in «Cutusìu», cit., p.157.
39. ib , p.159.
40. Turiddu Cacafòcu, in «Cutusìu», cit., p.105.
41. Comu cucia ‘u suli…, II, in «Cutusìu», cit., p.189.
42. ‘U mmernu, in «Cutusìu», cit., p.57.
43. ib.
44. Angiulu, II, in «Cutusìu», cit., p.123.
45. Giammitrina, V, in «Cutusìu», 1a ed., cit., p.130.
46. Comu cucia ‘u suli nnall’astaciùni r’u ssessantatrì, I, in «Cutusìu», cit., p.123.
47. Angiulu, cit., p.119.
48. ’U rui novembri r’u sissantarui, in «Cutusìu», cit., p.173.
49. N. De Vita, Cùntura, Alcamo, Arti Grafiche Campo, 1999. Dei 15 testi che vi sono raccolti, dieci sono usciti in riviste e riproposti, in parte, in libretti fuori commercio, secondo consuetudine dell’autore: A casa nnô timpuni (1994), Sulità (1995), ‘U spavintapàssari (1997), L’aranci (1998). Jòcura fu pubblicato, anch’esso in edizione fuori commercio, da Boetti & C. Editori (Mondovì, 1996), con prefazione di G. Tesio, mentre I carcaràzzi fu pubblicato nel 1997 nei “Quaderni” del Fondo Moravia (cfr. nota a Cùntura, p. 201).
50. N. De Vita, Nota a Cùntura, cit.
51. G. D’Annunzio, Motti e versi del «Vittoriale», in «Tutte le poesie» vol. III (Poesie in dialetto, per canzoni e disperse), a cura di G. Oliva, Roma, Newton Compton, 1995, p.214.