DISCORSO SU CAMPAGNA/CITTA' - DIALETTO/LINGUA:1
FRANCESCO JOVINE & GIUSEPPE JOVINE
Giose Rimanelli
Iè nen sacce chia sò,
nen sacce addò stinghe,
gire lu munne, zì Minghe,
pè ttruvà nu paiese
che ne sacce addò stà;
nu bongiorne vuglie da,
nu bongiorne voglie avè:
chisse è ttutte uei zì Mì.2
Giuseppe Jovine, Lu Pavone
Sû no de què che vöri què che speri,
de quèl che speri fu gnanca la mutâ,
e metâ d'olter deventa un sumeneri
de quèl che spei e forsi sun mai stâ.
Franco Loi, Liber3
Vècch sét del dì
vecch sét de la nòc
vecch sét de la sét.
Fà de la sét un fiû.
Giancarlo Consonni, Vûs4
1. Scrivere. Ho trascorso (quasi) metà della mia vita in Italia, e il più dell'altra metà negli
Stati Uniti. Due patrie, due cuori? L'Italia è il mio paese biologico, e l'America è il mio paese di
adozione: ma tirando le somme qual'è, realmente, il mio paese? Sono un animale diviso, infelice,
esiliato? Niente di tutto questo. Sono scrittore di vocazione e professione, e potrei stare in
qualsiasi angolo di mondo senza provare angosce o pruriti. Perché in effetti SCRIVERE è il mio
vero paese e alla mia bella età potrei scrivere in varie lingue anche se, in prevalenza, Italiano e
Inglese.
Non c'è separazione e non c'è amarezza in queste due vite, Italia/America, né in questi due
linguaggi. E però il richiamo della lingua dell'infanzia, che costituisce il mio DNA, è una ricorrente
eco nelle caverne della mente; decisi infine di adottarla al momento del mio espatrio negli Stati
Uniti, marzo 1960.
Per tipi di viaggiatori del mio stile scrivere è, nel migliore dei modi, un confessare e un
"ascoltare" se stessi - vuoi nella latina forma di auscultare, udire con attenzione, accogliere
nell'animo - che in quell'altra di udire, quasi ricevere sul corpo alla maniera in cui l'intende Franco
Loi in riferimento al plurilinguismo: avvio al "puro ascolto di sé" con "apertura verso l'altro."5
Purtroppo, riflette Loi, la società in cui viviamo non vede alcuna pratica utilità nella poesia, specie
la "dialettale", anche se l'apprezzamento di "letterario valore" sia ben elevato dal Nord al Sud.
Il magnifico poeta lombardo così riflette:
...Se scriv. Per chi? perché? Se scriv per l'aria,
che là nel vent se sperden i paroll,
paroll di òmm in nott sensa speransa,
vûs mort che sensa dìss pàren scultàss,
fràm gent che van nel mund sensa creansa,
marün che se desperd cun la pietâ.
Mi scrivi in milanes, e lur me disen
che sun arius* o che capìssen no...
Pö, giunten che `l dialètt l'è per gent bassa
_______________
*Arius: arioso. I milanesi lo usano per i nati fuori Milano. E' sinonimo di Forestiero. Questo termine è usato dal
critico milanese Franco Brevini nei riguardi della poesia di Giancarlo Consonni.
e sarìa mèj giüstal cun l'itallian.
De quèl che parlen mai l'è la puesia
che par sia fada per i ciall e i mort...6
Gli fa eco il magnifico poeta molisano Giuseppe Jovine, con una lirica dal titolo "Certe
volte", sebbene questa non costituisca effettivamente un' "eco" ma un antico desiderio di
esplosione poetica nell'affermativo senso di confessione, scelta o destino che sia lo scrivere:
Certe volte preghe gna nu sante
p'avè `na pena ragnecosa `n piette
e `na parola leggia coma ll'aria
e fresca coma nu cacchiuole
ca rire tra le spine.
Ma quanne vè la pena
m'accidesse,
ca ze fa chiumme ogni parola
nu zeffunne nire de lu core.7
La pena di Jovine è quel non essergli possibile esprimere la "parola" (in altri termini farla
sentire, ricevere), in quanto sebbene "leggia coma ll'aria e fresca coma nu cacchiuole che ride," è
tra le spine della campagna, una parola/poesia non "nobile" come potrebbe essere la parola/poesia
cittadina, pulita, educata ed ufficializzata. "'Na parola! Che gghiè `na parulella! / Basta a fà luce e
stuta lu turmiente."8
Come certi personaggi di Pirandello che dalla provincia siciliana
vanno nel "Continente" per "acclimatarsi", "aggiustarsi", guadagnar pane e fortuna, così è per
molti poeti (e non solo "dialettali") contemporanei: dal paese alla città per poi tornare al paese
come fonte originaria, patrimonio. E questo è anche il caso di Giuseppe Jovine, (per gli amici,
Peppe), che il suo Castelmauro nel Molise pare non l'abbia mai lasciato sebbene in effetti vive ed
opera a Roma. Ed è il caso di Giancarlo Consonni che da Merate (Lecco) si è trasferito a Milano,
scrivendo poesia sia in italiano che nel milanese rurale di Verderio Inferiore, come potrei dire - se
potessi dirlo -, di Franco Loi che da Genova dove nacque nel 1930 venne portato a Milano all'età
di 7 anni, e qui si fece poeta dialettale in un milanese mescidato, "aspro e violento"9 - vale a dire in
un parlare del proletario suburbano già contaminato da altri dialetti, quindi arricchito da
neologismi e soprattutto da archaismi derivati dal latino. Un Loi, in pratica, né veramente rurale e
né veramente cittadino; e come potrei dire - se potessi dirlo - di Achille Serrao che, romano di
nascita e di vita, scrive nel dialetto casertano, di Caivano, il paese dei suoi avi e, in effetti,
"unicamente" suo per l'incisivo modo in cui egli usa e ricrea quel dialetto trasmessogli dalla
memoria del padre e del nonno Achille, fattore di campagne.
Ed anche Serrao, come Loi e Jovine, ci dice di quanto ci preme in questo momento:
scrivere la parola, la parola coatta, sacrale da una parte e dissacrata dall'altra: la parola vernacola.
Solo che Serrao, per sapienza antica, ci suggerisce di non nominarla affatto: "`a meglia parola è
chella ca nun se dice." Tanto è vero che il poeta ce la dice ugualmente, poi, la parola, la "meglia",
con questi turbati versi:
Nu tiempo c'è stato ch'è pparole
nun cagnavano ll'aria, addu nuje
frièvano cu ll'uoglio
d'`a iacuvèlla arèto `a vocca attenute
pe' ppaura, cummeniènza che ssaccio
nu chiuovo stu silenzio...Abbastava
na guardata, `a strenta d'`e mmane e ttécchete
n'ata manèra `e parlà. Sulo vicino
ô lietto d'`o muorto succedeva
n'appicceco `e voce nu òtta
vòtta comme d'auciélle annude
pe'quacche presa `e pane.10
Considerato, comunque, che "`l dialètt l'è per gent bassa," come ironizza il Loi, "non
sarebbe meglio acconciarlo con l'italiano," che è per gente "alta", istruita, che ha studiato la
lingua, quella non succhiata dalla mammella della madre ma dalla scuola, dove ti vestivano col
grembiulino e il maestro aveva il bastone in mano: se sbagliavi, botte sulla mano. Mentre il
dialetto di campagna o di quartiere era riservato ai furiosi brevi conversari nel cesso della scuola o
per le liti di strada; e quella ci s'incavò dentro, con i suoi stracci e il suo dolore, addosso
restandoci come tatuaggio, o stigmata.11 Per poi, ecco, da una parte il dialetto ci aiutò ad esser
puniti, torturati da precettori e maestri nel nostro cammino verso l'inevitabile urbanizzazione
culturale, e dall'altra questa madre lingua ci diventò (se freudianamente intesa) concubina, la
compagna del nostro segreto peccato.
Per me, in ogni caso, così è stato.
2. Il gioco della palla. Ho detto peccato? E non ho anche detto che "scrivere" è più o
meno un "confessare"? Ed eccomi qui a dire (a dirmi) che lasciai il mio villaggio appenninico
chiuso da ogni parte da alti picchi - e dovevi salire sul più alto, chiamato Gesù Redentore, se
volevi vedere il mare laggiù, laggiù -,12 lasciai tutto, meno il mio dialetto, all'età di dieci anni per
una vita altrove - di santità e cultura. Nel seminario, che mi divenne casa e destino per alcuni anni,
per colui il quale cadeva inavvertitamente (istintivamente) in una parola o espressione dialettale
c'era immediata sanzione, e possibilmente punizione umiliante se recidivo. Esattamente a quel
punto iniziava l'educazione del contadino in cittadino, del provinciale in intellettuale: in altre
parole veniva sperimentata su di noi la famosa teoria della realpolitik, corrispondente al cosidetto
brain wash, ovvero lavaggio del cervello.
Da spontanea e liberatoria dal silenzio e dai severi studi che doveva essere, la ricreazione
si fece agone di ansia per il fanciullo; ogni ragazzo scrutava l'un l'altro in ogni minuta azione (e
parola) per appurare (indovinare) se, fra di loro, si nascondesse il detentore del temuto oggetto:
una "benedetta" pallina da passare in giro. Per ottenere un corretto italiano, i superiori avevano
inventato il "gioco della palla"; e chi di soppiatto la riceveva d'incanto si mutava in spione del "linguaggio pulito", l'italiano, ai danni del "linguaggio sporco", il dialetto. Questa era una pallina di
pezza o anche, a volte, un pallino di vetro che pareva un occhio. Veniva passata a turno, di mano
in mano e in segretezza, a chi sgarrava linguisticamente nelle conversazioni di gruppo durante
l'ora di ricreazione. Se vi erano contestazioni si instaurava un processo immediato: si chiamava in
causa il decano13 il quale, sentito le parti, definiva infine da quale parte riposava la verità. Il
giudizio salomonico del decano era finale, non c'era quindi appello. Al termine della giornata
quella palla restava in tasca a qualcuno, ovviamente; un qualcuno che era stato incapace o
impossibilitato per sua deficienza e altrui scaltrezza di passarla; un qualcuno che, infine
rassegnato, accettava il suo fallimento e, quindi, la punizione: pane ed acqua per cena, in
ginocchio in mezzo al refettorio a mani conserte, oppure a leggere ad un leggìo da un libro di vite
di santi o dal Galateo di Mons. Giovanni Della Casa, attento anche a provvedere una giusta
dizione.
Io ero diventato piuttosto scaltro nell'osservazione di chi mi circondava. Quel gioco della
palla non mi divertiva, comunque. Era basato sullo spionaggio, nel quale spesso vi rientrava la
malafede. Cominciai ad articolare altri linguaggi, tra quelli vivi e quelli morti e anche, per meglio
divertire i miei compagnucci, un linguaggio inventato, artificiale, specie di Esperanto, aspettando
di essere sanzionato per "delitto di evasione" dal reale: e il reale era la lingua. Ma nessuno mai mi
sanzionò. I miei compagnucci, anzi, si divertivano alle mie stranezze. A volte, comunque, mi
vedevano ridacchiare tra me e me, nei miei pensieri, e sempre qualcuno con timidezza chiedeva:
"Che, sei scemo?"
Mi accadeva di ricordare - specie di sprazzi nel buio, illuminazioni - aneddoti, barzellette e
ludico/luride espressioni in dialetto, ed episodi e personaggi in scene di vita rustica, familiare.
Presi infatti a scrivere pensierini che chiamavo "arzigogoli" o "ànemèlle", che poi passavo a
qualche fidato amichetto, da cospiratore. Avevano più o meno questo tono:
a mènde ce fa dè spìje,
e revót'à pìzze, ndàse:
tu ciérche
mè nèn truóv'à vìje
ègguèrdànnete nù ngiérte:
ce stìve o nèn nge stìve
nù rèpiérte?14
In seguito, mi divennne scudo e pungolo usare il dialetto nel proteggermi o maledire
qualcuno, qualcosa...(almeno col pensiero).
3. Blues. Presi a scrivere poesia nel dialetto della mia infanzia, come del resto anche poesia
e narrativa in lingua italiana e lingua inglese, in America, da espatriato, dal 1960 in poi; e questo
in quanto, in un certo senso, voler ricatturare il paese che avevo volontariamente abbandonato e
allo stesso tempo conquistare quest'altro che avevo scelto.15
Durante un mio sabbatico dall'insegnamento, nel 1983, tornai nel Molise (e da quell'anno
ancora e ancora) per ricerche su di un dialetto - il mio - in via di estinzione. Con il cantautore
Benito Faraone, noto nella regione, percorremmo centinaia di chilometri a piedi, a dorso di mulo,
in macchina e su carretti per tastare il cuore e il polso della gente nelle bettole e sulle aie, villaggi
e masserie, componendo ballate, madrigali e tarantelle un po' alla maniera dei trouvères della
Provenza prima del 1150, con nella mia mente Marcabru, Jaufré Rudel e Cercamon. Mi rigiravo
ancora nel cervello frasi in versi d'una lettera del tredicesimo secolo che il trovatore Raimbaut de
Vaq[u]ieras aveva inviato al marchese Bonifacio I della corte di Monteferrato. Era un elogio, e
qui ne traduco le prime righe:
Nella vostra corte regna ogni benestare
magnificenza e rispetto per le nobildonne
vesti eleganti, armi raffinate,
trombette e giochi, viole e canti...16
Non che mi visionassi il rustico Molise come raffinata corte, opulente per ricchezze e
incontri, ma corte del cuore lo era e lo è, e riafferrare quel dialetto era come ritrovare la luce
dell'infanzia, per me il vocabolario del mondo. E nella mente c'erano, naturalmente, i letterari
ricordi di giullari e predicatori, i convertiti come Jacopone e il Beato Colombini, e naturalmente i
"siciliani" Rinaldo d'Aquino, Guido delle Colonne, Jacopo da Lentini e Ciullo d'Alcamo, e così io
presi a recitar versi nelle piazze dei paesi, versi che io componevo come in una febbre anche nel
sonno, versi d'amore, di pena, di viaggi, di sbronze... Allo scopo d'introdurre la poesia nel folto
delle campagne,il cantautore Benito Faraone ed io escogitammo l'idea di riesumare le tecniche dei
venditori-indovini di un tempo i quali, con l'aiuto di un addomesticato pappagallo, per poche lire
vendevano alle credule persone nell'influsso benefico degli astri, il cartellino colorato della
"pianeta", la Fortuna medievale, la Fortuna bendata sulla sua ruota, vale a dire la "buona sorte", il
gioco moderno dello slot-machine a Las Vegas. Con il nostro cartellino noi volevamo offrire
gratis la poesia. Ma non trovammo il pappagallo, né stampammo il cartellino.
Scrissi un centinaio e più di poemi corti e lunghi, di ogni metro possibile, persino canzoni
monosillabiche, bisillabe e trisillabe che sembravano confetti gettati in aria, testi poi raccolti sotto
il titolo complessivo di Moliseide, Ballate e canzoni in dialetto molisano. I primi 12, con
musicassetta, vennero stampati nell'ottobre 1990 nelle Edizioni Enne di Campobasso, mentre
un'edizione completa di Moliseide, trilingue, inaugurò nel 1992 presso la Peter Lang Publishing di
New York la collana Studi sulla cultura dell'Italia meridionale e italoamericana che presto
doveva distinguersi, sempre nell'attenta traduzione di Luigi Bonaffini, con la pubblicazione dei
Canti orfici di Dino Campana, Lu pavone/La sdrenga di Giuseppe Jovine, e `A canniatura di
Achille Serrao. Moliseide, comunque, con l'aggiunta di un altro mio libretto, I rascenìje ed inediti,
esce in una nuova edizione trilingue americana curata da Bonaffini presso Legas.
Ai molisani piaceva quella nostra poesia, e in special modo una ballata che scrissi il 26
gennaio 1985 nel mio "piccolo" esilio di Albany, nello Stato di New York, dal titolo Rèpòrteme
nè càse, che prese spunto dalla Ballatetta di Guido Cavalcanti, scritta presumibilmente nel 1300
dal suo esilio di Sarzana, dal quale tornò infine a Firenze malato, per lì subito morire, secondo la
testimonianza di Giovanni Villani (Libro 8, capitolo 42).
Ricordate i primi versi di quella Ballatetta?
Perch'i' no spero di tornar giammai,
ballatetta, in Toscana,
va' tu, leggera e piana,
dritt'a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.17
Cavalcanti amò e cantò poeticamente varie donne, a parte la moglie Bice, figliola di
Farinata degli Uberti, tra le quali Giovanna (la Primavera delle sue rime), e Pinella e la giovane
donna di Tolosa chiamata Mandetta. Ma in questa piccola ballata, in verità, la "donna mia" è
traslato di "terra mia" per il poeta, in quanto egli langue per un ritorno da lei, la sua terra,
esponendo il reale stato della sua mente, della sue condizioni fisiche, come in questi versi:
Tu, voce sbigottita e deboletta
ch'esci piangendo de lo cor dolente,
con l'anima e con questa ballatetta
va ragionando della strutta mente.
Voi troverete una donna piacente,
di sì dolce intelletto
che vi sarà diletto
starle davanti ognora.
Anim, e tu l'adora
sempre, nel su' valore.18
E questo è il mio blues:
Rèpòrtème nè càse nù Molise
pa' vècchie stradèrèlle de chèmpàgne.
M'haje vèvut'a cìte ed ù shèmpàgne
chi bbuóne e i mmalèmènde de sc_tù munne.
Mè ù Tiémbe nèn è cuàdre, nèn è tùnne:
t'ècchiàppe pi' vèdèlle, te rèpónne.
E mó sc_tè vìte mìje
rècèrch'a càse sije
pe' rèpèsà.
Rèpòrtème nè càse nù Molise
de dóve sòngh'èsciùte de guèglióne.
Tenéve dend'ù córe nè chènzóne
d'èmóre e fàndèsìje pe' sc_tù mùnne.
Mè ù Tiémbe nèn è cuàdre nèn è tùnne:
t'ècchiàppe che nè rìse po' t'èffónne.
E mó sc_tè vìte mìje
rècèrch'à càse sìje
pe' rèpèsà.
Rèpòrtème nè càse nù Molise
che tùtt'ù mùnne l'haje già gèràte.
Pur'ì cchiù bbèlle suónne so' sènnàte
sègliènne e dèscègnènne tànde scàle.
Mè ù Tiémb'èllùcche cóme `n ànèmàle
nu córe che `n zè scòrde dù pèglàre.
E mó sc_tè vìte mìje
rècèrch'a càse sìje
pe' rèpèsà.19
Da quel 26 gennaio 1985 ad Albany, New York, quando composi questa mia "ballatetta",
sono trascorsi innumerevoli altri anni nella mia vita di uomo con due cuori, e niente è mutato in
questa operazione/proiezione sintattica che conduco nei riguardi di un sentimento che vive nel
battito, potrei dire, di due lancette di orologio, riassunte nei termini di campagna e città, rurale e
cittadino, lingua e dialetto. Quindi la nozione del "tornare" - nello scrivere almeno - mi diventa
realisticamente memoria; e "restare", per contrasto, nel paese dove attualmente esisto da 38 anni,
mi significherebbe "salvare" un'altra memoria: quella della poesia in italiano, quella intendo di alta
dignità letteraria e civica, al di là e al di sopra del confuso e deturpante sgretolamento che di essa
si sta operando per le strade e le case d'Italia, con il beneplacito, il suffragio, l'incoraggiamento di
programmi radiofonici e televisivi20 che in questo hanno definitivamente aiutato un nuovo corrente
linguaggio chiamato "giovanilese".21 Eccone un esempio, tratto da una trasmissione radiofonica
musicale22:
Claudia: ciao Mauro, sono Claudia di Biella
Mauro (DJ): ciao, Claudia
C.: volevo dirvi due cose importantissime
M.: vai, Claudia
C.: la prima è che mi sono innamorata di Pizza.23 Mi piace un casino
M.: pazzesco
C.: è essenziale per me
M.: vai, sorella
Nessun panico, comunque. Per giovani colleghi, il "giovanilese" è "quasi" diventato
linguaggio accademico anche in America.24
Per il governo italiano, d'altro canto, "Evviva il Giovanilese", parrebbe, e "Abbasso gli
studi della letteratura", parrebbe, quindi anche della stessa lingua. Il 24 marzo 1998 apparve sul
quotidiano "Avvenire" un articolo di Pietro Gibellini con questo titolo: "Recenti decisioni tagliano
i fondi alla ricerca letteraria e declassano l'esame di italiano negli atenei. E buona notte
all'Alighieri." Un candidato al Ph.D in studi italiani all'Università di Harvard, Andrea Malaguti, mi
inviò per e-mail l'articolo del Gibellini con questa sua nota: "Ultime dalla svalutazione in corso: gli
italiani stanno buttando al macero la loro stessa letteratura. In favore di che?"25
4. "Aulico" e "Basso". Telefonai a Giuseppe Jovine a Roma,appena rientrato dal nostro
paese, il Molise, per dirgli che sarei volato in Italia per restarci qualche mese, e così rendermi
conto della situazione.
"Ma quale?" lui rispose. "Qui ne abbiamo ogni giorno, di situazioni..."
"Sul corpo italiano" dissi, "ci sono ancora e sempre dibattiti su Nord/Sud,
federalismo/separatismo, Padania/Terronia?"
"In Italia ci sono le piazze, i marciapiedi e i Bar Caffè, l'hai dimenticato? La gente
s'incontra e parla..."
"E i poeti?"
"S'incontrano e leggono le loro cose, in genere nei sotterranei delle librerie, sia a Roma
che a Milano, a Genova e a Palermo, a Campobasso e a Torino: ovunque. Su questo livello
almeno, nessuna separazione. Fin dal 1992 Serrao lo fece sapere a tutti con l'Antologia di poesia
neodialettale Via Terra...26 Sebbene vi manchi il Molise."
"Pare che ci sarà una seconda edizione, con inclusione del Molise nelle nostre due
persone... Bonaffini ha già tradotto tutto per un'edizione trilingue."
"Mi fa piacere, si riempirebbe un vuoto. E' una bella Antologia. A parte, comunque, l'età
dei poeti, il fatto positivo è che esistono poeti vecchi e giovani che sono fratelli persino nei loro
temi. Guarda Loi e me, per esempio" Jovine aggiunse, da quell'entusiasta che è.
"In che senso? Puoi dirmene qualcosa?"
"Ha ragione Franco Loi," Giuseppe Jovine prese a dire, a braccio. "Ha ragione il Loi
quando, nell'introduzione al suo Liber in dialetto milanese argomenta che la vera difficoltà del
poeta consiste nell'entrare in quel particolare stato in cui possiamo essere attraversati dalla poesia
senza essere uccisi; per non essere uccisi occorre armarci con lo scrupolo della ricerca e
l'affinamento dei testi, che esige `attenzione musicale', `sensibilità materica', `un ordine interiore' e
`l'eliminazione del superfluo,' `l'arte del levare di Michelangelo.' Mi senti?"
"Vai avanti. Non ti tolgo nulla."
"Ma l'arte del levare è operazione assai difficile, e non si sa poi se il tolto sia mal tolto. Tu
non hai letto Liber, no? Te lo manderò, con chiose... C'è un rapporto incredibile tra quelle poesie
e le mie. Nel suo commento a Loi, Cesare Segre opina che la poesia può suggerire e urlare, essere
tenera e implacabile, può narrare e concentrare nell'ellissi."
"Così opina Cesare Segre? Hai detto opina?"
"In pratica, lui vorrebbe dire, e io vorrei dire che non c'è scuola `lombarda' o `meridionale'
che possa sentirsi autorizzata a postulare solo canoni locali, latitudinali. Ogni parlata locale deve
necessariamente passare al vaglio della mente di quel setacciatore della parola che è il poeta,
attraverso un raffinato e complicato compromesso idiomatico, nel senso della conservazione della
dialettalità della materia poetica, e contestualmente nella direzione dell'assimilazione al dialetto dei
modi propri della lingua, che siano peraltro leggibili in chiave dialettale. La riscoperta o la
riesumazione critica non evasivamente nostalgica delle potenzialità dialettali..."
"Peppe, scusa l'interruzione," interrompo. "Dove hai lasciato Loi?"
"Volevo giungere a questo: le potenzialità dialettali, conclamate dagli stessi poeti
`sperimentali' della `terza ondata', interessati a procedimenti idiolettici trasformatisi di natura
eterogenea che mirano a coniugare l'aulico col basso, il letterato con il sociale, il poetico col
prosaico, è la riprova di un'esigenza diffusa del ritorno al dialetto."
"Franco Loi pare tormentato da tali classificazioni, o mi sbaglio?"
"Ecco, ecco: anche tu torni al problema di aulico e basso," Peppe Jovine disse. "Ebbene,
posso dire che tutta la poesia dialettale contemporanea è contrassegnata dal tentativo di quella
difficile congiunzione, aulico e basso. Se mi consenti, la mia traduzione in dialetto molisano dei
più ardui temi di Montale obbedisce all'ipotesi della traducibilità delle più sofisticate raffinatezze
stilistiche che possono ben trovare una loro collocazione nel vernacolo, se è vero come è vero che
nel dialetto si ritrovano, come osserva Gramsci, i superstiti documenti mutili e contaminati di tutte
le concezioni, del mondo e della vita, che si sono succedute nella storia."
5. "La mia poetica". "Peppe, parliamo della stessa cosa o di altre cose?"
"Sempre della stessa cosa, Giose. Hai una buona recezione, lì dove ti trovi?"
"Credo di sì, Peppe."
"Allora devo dirti che qui entra in ballo il problema della ricerca dell'equivalente
linguistico, lessicale o, in assenza di questo, di `locuzioni' o `perifrasi', `metafore', `congetture
(conghietture)' o `circonlocuzioni', come testualmente scrive Leopardi, `conghietture che spieghino le cose'." "Mi perdi, Peppe. Scusa."
"Tu conosci Sebastiano Martelli, no?"
"E' mio erede testamentario, non lo sapevi?"
"Scusa la provocazione. So tutto. Ma tu non sai cosa ha scritto Sebastiano sul mio Chi sà
se passa u' Patraterne. Sebastiano parla, mi ascolti?, parla di un, cito, `espressivismo linguistico
che, attraverso il trasbordo di alcuni sostrati antropologici della civiltà contadina e della cultura
popolare nei territori della letterarietà moderna, riesce a coniugare Montale con i recuperi della
tradizione letteraria popolare, fornendo originali soluzioni ad una poesia, come quella
neodialettale, che non voglia utilizzare il dialetto solo come puro pretesto, ma che sappia
valorizzare le possibilità semantiche e fonetiche profonde.' Che te ne pare?"
"Stupendo. Ma non so se ho capito."
"Vuoi che ripeta?"
"No, no! Ha detto e scritto però, o così mi pare a sentirti, nel senso autorale giusto, e con
il linguaggio critico professionale impeccabile: una virtù che in lui riconosce anche il comune
amico Luigi Fontanella che, per quanto riguarda lui stesso, sa di esercitare un linguaggio critico
professionale impeccabile, con saggezza e acume."
"Dunque, vedi che siamo d'accordo?"
"E come potremmo non esserlo? Non so però dove hai lasciato Loi."
"Non ti preoccupare. Loi è legge, ed è con noi. Volevo precisarti, dopo quanto ha scritto
Sebastiano, che si sgretola la vecchia dicotomia tra l'apologia di una purezza `primitiva', come ben
dice Filippo Bettini di `Terza ondata', e l'esaltazione di un irreversibile `progresso'."
"Progresso? Mio Dio, c'è un progresso?"
"Credere o no, sia che si voglia considerare la cultura come un prodotto collettivo alla
maniera di Bockel..."
"Bockel...il tedesco?"
"...che quella popolare la `sola poesia positiva', sia che la si voglia crocianamente
considerare come il prodotto aristocratico di una individualità creatrice anticosciente, distinto per
un tono di una complessa spiritualità, non si può misconoscere il rapporto sotterraneo ed
osmotico tra cultura `aulica' e cultura `popolare' al di là dei presunti processi di `italianizzazione'
del dialetto."
"Loi a parte, dunque, che è comunque più favorevole al plurilinguismo che al
mistilinguismo di quella gente di `Terza ondata', tu sei per l'italianizzazione del dialetto per
smussare feroci differenze?"
"No, no!" recisamente negò Peppe Jovine dall'altra parte del filo. "Ti porto esempi,"
aggiunse. "Il presunto `romanesco italianizzato' di Trilussa, evidenziato da Paratore, pur se
deprivato da qualche elemento distintivo vernacolare come l'anafora (cadenza e ribattuta e
ritornello), è pur sempre leggibile in chiave dialettale, perché del dialetto conserva, se non
l'anafora, altri elementi sostanziali, vitali al tessuto linguistico dialettale, e precisamente i valori
fonici, tonali e soprattutto la carica ironica e la mimica che s'immagina sottesa al lessico, ai fonemi
vernacolari."
"Lasciamo Loi a Milano, per il momento, va bene Peppe? E siccome hai portato il
discorso a Roma con Trilussa, cosa ne è di Dell'Arco?"
"Stavo appunto per dirti, Giose, che quando tu portavi alla ribalta Giovanni Cerri di
Casacalenda nei `50, Mario Dell'Arco e Pasolini portavano alla ribalta Eugenio Cirese di Fossalto,
in questo nostro Molise di solo qualche poeta."
"Vuoi dire che tanti chiacchierano e soltanto qualcuno fa qualcosa? Do re mi fa, uh?"
"Per il momento tu e io, mi pare, facciamo il do re mi fa, sì... Quanto poi a Dell'Arco, ah, il
discorso su Trilussa vale anche per lui e, se vuoi, addirittura per il Belli, il cui tanto vantato
`romanesco', `corrotto' in alcuni sonetti come La vita dell'omo, da apparente processo di
`italianizzazione' non segna per questo battute di arresto proprio perché carico di quegli elementi,
di quei moduli linguistici e strutturali ai quali ho fatto accenno a proposito di Trilussa."
"Potresti dunque dire, a proposito del Belli, ch'egli non rappresenti la poesia popolare
romanesca?"
"Non rappresenta, no, quella poesia. Il Belli dice, testualmente, che lui rappresenta solo i
discorsi popolari svolti nella sua poesia."
"Ah, non sarebbe dunque teorema quello del Belli, ma credo poetico?"
"Il suo credo è anche la mia poetica."
"Bene. Se così è, devo onestamente dirti che io ho pensato proprio a questo, leggendoti.
Vedi Trascurze e altro. A me pare che tu non faccia altro che raccontar storie popolari... mi
sbaglio?"
"E come potresti? Certo che non ti sbagli. E' proprio il Belli a spiegarci il ruolo storico
della poesia dialettale. La Roma popolaresca del Belli non è nient'altro che la lingua del Belli. A
questo proposito devo anche dirti che c'è stato un esperto, non so se tu lo conosca o meno, si
chiama Stefano Lensini..."
"Lentini?"
"Lensini, Lensini. Lascia stare Giacomo! Stefano Lensini ha detto che, e cito, che io uso
`un lessico, una sintassi `altri' da quelli dell'italiano standard, che ti dà la chiave per realtà umane e
storiche, per affetti, desideri, tensioni morali che non conosci e che ti appaiono ogni volta nuovi.'"
"Così ha detto Lentini?"
"Lensini, Giose. Sì, così ha detto Lensini. Aggiungendo che la mia cifra dialettale sarebbe
quella che, cito, `alla parlata locale affida la riscoperta del reale nei suoi mille, piccoli particolari in
cui, come per magia, viene a racchiudersi un significato universale.'"
"Così ha detto Lensini?"
"Così ha detto, anzi scritto il Lensini."
"Bello non solo, ma vero. Mi reciteresti, Peppe, La serva e la sacrastana?"
"Aspetta un momento, fammi concentrare. Ma tu non ce l'hai il libro?"
"Certo che ce l'ho! E' però meglio sentire la tua viva voce: dal momento che siamo in
onda, registriamo, ti pare?"
"Va bene. Sei pronto?"
"Pronto!"
E Peppe Jovine recitò Trascurze: La serva e la sacrastana, fingendo anche le due voci:
-Cummà bongiorne! Lu tiempe z'acconcia.
-Eh! Sé! Lu tiempe z'acconcia e ze sconcia.
-Vurria vedé c'ognurne é sempe Pasqua!
-Ognurne te ne vì da la capera
pe ffatte fà lu cape che le trecce.
-E tu nti fì lu cape ogne matina?
-Tante songh'ì tante sì ttù? Uagliò!
-Tu purte `a spara, ie porte la veletta.
Tu t'abbutte de pecura e de crapa,
ie magne sempe carne de vaccina.
-La vaccina sbregogna a chi cucina.
-Magliocca! Te sbregogna lu ddiune.
-Che lenga tì! Che bbella sacrastana!
-La lenga nen té ossa e ossa rompe.
-Ie nen sapeia ca pure tu tì l'ossa.
-Cavalle gastemate ie luce u pile.27
"Bene, Peppe: il nastro sta per finire," l'interruppi. "Il battibecco tra la serva e la sacrestana
è piuttosto lungo. Un attimo, metto un altro nastro."
"Ma ti costa un occhio questa telefonata..."
"Non ti ho già detto che ne ho un altro? Ecco, ci siamo. Dove abbiamo lasciato Franco
Loi?"
6. La lettera. "Franco Loi non è stato lasciato in nessun posto perché è sempre con noi"
lui rispose. "Quanto ti ho detto poco fa, circa la poetica che perseguo, Loi lo ribadisce da par suo
sul giornale, "Il Sole - 24 Ore", quando recensisce i miei testi e i tuoi, Giose. Vuoi sentire?"
"Certo."
"Loi scrive quanto segue: `Il dialogo con la propria terra è conversazione con se stesso,
con la propria storia, attorno alle domande che inquietano gli uomini in un groviglio di memorie
personali e collettive. Vengono in mente quei bei versi di Jovine nella traduzione molisana del
Montale di Dora Markus: lu specchie z'è scurite / ma tu ti guirde ancora / coma tanta tiémpe
arrète! Si confonde il presente col passato, il nostro memorare con gli altri; la nostra con le altre
vite.' Così dice Loi."
"Così dice Loi?"
"Necessariamente i poeti finiscono col dire le stesse cose, Giose, con stile ovviamente
diverso, e una parlata usata nelle direzioni più diverse, dalla rappresentazione satirica all'ironia, al
sogno lirico, alla speranza. E questa è la poesia, Giose: lo stupore dinanzi alla varietà e al mistero
della vita sempre riavvertito come una musica magica, quella musica che ho sentito in Quanne sì
mmorta chella sera, ma'. Recitai quella poesia una notte d'estate, in una piazza di Frosolone, un
paese di montagna del Molise. M'erano compagni di recitazione Achille Serrao e Franco Loi che
furono stimolati anch'essi a recitare una loro poesia dedicata alla madre, emblema del mistero
della vita fatta di luce e di buio. Una grande folla ci ascoltava, al chiaro di luna, attonita e silenziosa. Con noi mancavi tu, ma ti pensammo là in America..."
"Me ne scrisse Loi, infatti. Una lettera memorabile, un capolavoro di lettera che riflette
tutta l'anima e l'etica del poeta, specie per quanto riguarda il discorso su aulico e basso. Se vuoi,
te ne mando una copia a Roma."
"E non ce l'hai lì con te?"
"Infatti, ce l'ho qui in evidenza, sulla scrivania. Vorresti sentirla?"28
"E come no?"
Caro Giose, anche se `caro' è troppo ed è poco. Io ricordo ancora il Rimanelli degli anni 40-50, i tempi
dell'Unità e del Tiro al piccione.29 Ed è un piacere constatare che i fili del vivere non si spezzano e che c'è un
tessuto segreto che unisce luoghi e persone se, attraverso un caro amico come Achille Serrao, torniamo a
ritrovarci. Mi fa molto piacere che Achille sia stato tradotto laggiù e spero che possa aver fortuna. E' uno di
pochi poeti di qualità e, come diceva Stendhal dei dialettali italiani, `è anche uno che fa piacere di conoscere di
persona.' E' del resto interessante la distinzione che lo scrittore fa tra l'arroganza dei poeti in lingua e la modestia
e la qualità dei poeti come Carlo Porta.
Evidentemente i poeti delle lingue regionali sono più vicini alla prosa e più rispettosi dell'ignoto con cui
ogni uomo si deve confrontare. Non ci deve essere, o meglio non si deve nutrire amarezza. L'amore è pago di sé,
se è amore. Certo, sarebbe bene se ci fosse risposta al dono dell'amore. Ma sappiamo che tra gli uomini è più
diffusa la cecità e la sordità che l'attenzione, e che gli uomini che amministrano sono in generale più dediti alla
violenza che alla poesia. Del resto, la nostra è epoca di decadenza: le banche hanno preso il posto dei campanili,
e anche delle torri, e la cultura tutta è fuori, non ha centralità sociale. A meno che non sia morta. Giacché, come
aveva ben visto persino Sartre, che era piuttosto miope, `la cultura dei cimiteri serve ad ornare la violenza.' Le
virgolette non sono sue, ma riassumono un suo pensiero.
Aspetto con impazienza i tuoi libri. Sono stato con Achille a Frosolone. Abbiamo trovato anche Jovine -
organizzatore di una lettura di poesia in piazza. E' stata una buona serata. Ho così, per la prima volta, messo
piede nelle sue e tue terre. Avevo letto Le terre del Sacramento, e però il Molise mi è sembrato ancora più aspro.
Frosolone poi, la patria dei coltelli - c'era appunto la sagra dei coltelli. Dunque l'asprezza della sua poesia la
capisco ora di più. Un caro abbraccio. Franco.30
"Stupenda, hai ragione," subito disse Jovine dall'altra parte del filo. "Ma dimmi, mó:
cuànn'arrevié nù Molise?"
"Presto, spero. E questa volta per un giro dal Sud al Nord, dal Nord al Sud. Non ho visto
più niente da anni, e più niente so di letteratura e poesia. Ho sentito però qualcosa su
multilinguismo e Terza Ondata. Ma che vogliono?"
"Rivitalizzare un paesaggio culturale asfittico, dicono, soprattutto attraverso le pratiche
d'irriverenza, di trasgressione. Senti questi versi:
Squilibrio omeostatico
epigenetico, speciazione, irradiazione
aduttiva rettile
anfibie diarree
cacherie da bambolo.
Hai capito, ora?"
"Grazie, Peppe. Credo di aver capito. Purtroppo tutte le avanguardie iniziano con casini e
pisciatoi. Mi torna in mente ancora Loi, in un suo articolo. Da una parte egli riafferma la sua fede
nei dialetti, e dall'altra è amareggiato dalla corruzione di lingua, analfabetismo, e confusione."31
"Si tratta, sì, di confusione, Giose," disse Jovine. E aggiunse: "Di una certa decadenza
artistico/linguistica, e sentimentale che esiste oggi in Italia già da qualche anno ormai suonò le
campane l'eterodosso sperimentalista Mario Lunetta - ricordi Lunetta? - che quasi si vergogna di
autentici momenti di poesia lirica,32 come in una sua lirica ora ben nota, che s'intitola C'era una
volta Roma. Te la recito e poi chiudiamo?"
"Va pure..."
C'era una volta Roma,
era na città di marmi e fontane
ora non ha più linfa,
qualcuno ne ha fatto strame,
c'era un fiume dorato nervoso e veloce
come un atleta.
Quanti anni sono passati,
quante stagioni e settimane?
Era un giardino fiorito
ora è un acquitrino di rame.
Era un divano orientale,
un pianeta d'oro, una luna
ormai è un gran mucchio di stracci
di plastica bruna.33
7. Là nel Nord. Un mese e più a girare per questa bella Italia amate sponde34 che sempre
mi appare come una grande malata maliosa e libidinosa tra cimitero e ospedale ma è tutta distesa
su di un letto di plastica e lucido ottone che scricchiola, fa pena solo a guardarlo. Ma i bar sono di
conforto e cibo, la gente veste bene e gironzola per negozi. Pare sempre che nessuno lavori.
Anche per tastare gli umori, al mio arrivo telefonai a un vecchio caro amico che qui indico
solo con le inziali E. R., che ha viaggiato nel Nord America ed è stato lettore in alcune università
americane, che già in una sua lettera elettronica mi aveva fatto partecipe dei suoi sentimenti circa
regionalismo, cultura, pettegolezzi.
Tra l'altro scrisse: "[...] raramente ho incontrato persone ancora legatissime alle loro
regioni di origine, nonostante i decenni e decenni di impianto forestiero. E tu sei certo un
esempio-spot di questo cordone ombelicale mai tranciato nonostante le mille forbici che ti hanno
porto. D'altra parte anch'io, che sono padano e da decenni e decenni abito a Roma, avverto
immediatamente, sottopelle e intensamente, il richiamo fascinato dei pioppi, dei campanili, delle
fattorie di cotto, delle strade selciate a sassi di fiume, della nebbia, delle strade dritte, a perdita
d'occhio nel piattume delle campagne (fors'anche per questo amo pazzamente gli Stati Uniti)."
Qui giunto, la visione immediata che offre quella sua nostalgia padana, un Nord che
conosco abbastanza per averci vissuto e lavorato, mi suscitò il centoventunesimo "ottavino",
versetti ottosillabici in dialetto e in lingua, microelegie, che scrivo in segreto per una mia
personale nostalgia di qualcosa; e dedicarglielo:
Strade che ti allucinano,
diritte come schioppettate
là nel Nord, con infilate
d'alti pioppi che bruciano
la gentilezza del cielo.
Fattorie di cotto, pietre
di fiume e nebbia, e le tetre
lontananze senza un velo
d'aria, tinte di colore.
Un giorno vi lasciai il cuore.35
Gliela mandai unitamente a un paio d'altre microliriche di questo tipo, che lui commentò
con acume e grazia in un successivo messaggio elettronico, per me tra l'altro interessante in
referenza alle sue simpatie letterarie:
Ti invidio la poesia, forse anche per il fatto che questa non l'ho mai molto coltivata, né come autore né
come critico: sia, credo, per naturale inclinazione alla concretezza della scrittura, ma soprattutto perché a un
certo punto ho dovuto optare per il campo che mi era più congeniale (e, perché no, più facile) se volevo tenermi
veramente al corrente almeno in un ambito. E fino ad un certo punto ci sono riuscito, onnivoro; ma arrivato a una
certa età, mi sono accorto che perdere anche soltanto un pomeriggio a leggere racconti e romanzi di nessuna o
scarsa consistenza, era sprecare la ormai accorciata vigilia dei sensi che mi restava, e avevo ancora tanti
capolavori, soprattutto stranieri, da godere, e magari qualche classico italiano letto con altra mente e altre forme
d'esperienza. Pensare di aver letto Dostoevskij, Tolstoi, Proust, Kafka e tanti altri grandissimi fra i quindici e i
vent'anni, e di campare ancora di quella rendita dubitosa, mi ha agghiacciato. Li ho ripresi in mano e riletti. A
quel punto puoi immaginare a che livello siano finiti i miei italiani contemporanei, magari non tutti, è chiaro, ma
la maggioranza; e a che punto io collochi i narcisetti di cui sopra. Adesso leggo quel che mi va: attualmente sono
in cotta di Chatwin e Vazquez Montalban, del Gadda del `Pasticciaccio", del primo Penna; mi piace Aldo Busi per
una certa voglia di invenzione linguistica e stilistica (non molta, ma in questo pattume...). E mi capita di leggere
anche Jacq e il suo Rameses.
E venne all'appuntamento, Bar Rosati in Piazza del Popolo, gentile ed anche irritato, forse
offeso sopratutto.
"Offeso?"
"Da tutto e da niente," rispose. "Dai chiacchiericci, certo, cose però da niente: da sempre
si sono sussurrati e sempre continueranno a sussurrarsi, spesso basati sul puro nulla. In fondo
coma, amorazzi o altri particolari personali della biografia di un artista non aggiungono o tolgono
nulla, almeno a distanza di tempo, al valore (se c'è) della sua produzione creativa. Raimbaud era
quello che era, e probabilmente avrà sofferto della scarsa considerazione o del disprezzo borghese
che gli gettavano addosso i suoi contemporanei: eppure il sapere che oltre al non lavarsi e a farsi
mantenere da Verlaine era anche un omosessuale, oggi non passa affatto sulla bilancia del giudizio
critico; e se qualcuno lo fa pesare (come per Gide o Pasolini o Penna o Wilde o Busi o eccetera),
suo danno."
"Pazienza. Bisogna mettersi il cilicio. Io l'ho portato per anni. Ma soffrire non fa bene, e
neanche star bene fa bene."
"Cosa fa bene?"
"Aver idee."
"Una parola! Qui tutto è afflosciato o si affloscia," disse l'amico.
"Mah, senti" feci. "Spesso vengo in Italia da straniero, e questo fa male.36 E però è proprio
questo interesse per le radici che mi ricompensa: continuo a scrivere. E oggi, con questa storia
antipatica Nord/Sud, Padania/Terronia pare a molti di noi, all'estero non solo, che quest'Italia sia
stata deturpata, violentata sia dai poveri del Sud che cercano respiro nell'emigrazione a Nord che
dagli arroganti stupratori del Nord. Solo nella poesia dialettale, mi pare, regni creatività e quindi
armonia a Nord e a Sud."
"E' l'economia, anche" lui disse.
"Non hai detto, o alluso al problema, che infatti c'è decadenza, e segno preciso di questa -
come accade in tutte le civiltà - è la mancanza di una letteratura che ti prenda per le budella -
come un tempo quella russa, o francese, di cui hai parlato?"
"Lo so, e mi dispiace," lui rispose, calmo ora. "Ma non è soltanto un fenomeno italiano."
"Vero. C'è un detto nel Molise, questo: il bove dice cornuto all'asino. Che risolve? E' la
stessa cosa in Francia. Ho visto recentemente Michael Butor: la stessa lamentela. Non c'è più
letteratura di nerbo, di rilievo. Il fatto è che, almeno così a me pare, tutti parlano e parlano e infine
non c'è più una persona con cui poter parlare. Mi sai spiegare questo fenomeno?"
Il mio amico si agitò un poco sulla sedia, prese un sorso dal suo bicchiere e fece: "Ha
toccato il tasto, Butor. Vuoi che mi sbottoni?"
"Prego!"
"Non è facile oggi incontrare una persona con la quale si possa parlare di sentimenti legati
alla letteratura, di lavoro, di progetti; figurarsi poi quanto sia difficile trovare uno scrittore, e uno
scrittore con la maiuscola che riesca come te a parlare di sé senza assolutamente spendersi in
narcisate. La maggior parte degli scrittori che ho conosciuto e che conosco (o, diciamo meglio,
incontro) si atteggiano a geni, mai ti farebbero una confidenza veramente intima, non calcolata
come tessera di un'eventuale `servizio' su di loro: e sono piccolini, piccolini in confronto ad altri di
cui ho goduto l'amicizia: Giuseppe Berto, Carlo Bernari, Libero Bigiaretti; per non dire della
disarmante disponibilità di Palazzeschi. Una validissima ragione per disertare gli incontri e le
presentazioni e le kermesse librarie me l'hanno ripetutamente offerta invece alcuni scrittori di oggi,
magari anche buoni ma assetati di fama e gonfi di sé; e magari qui faccio anche qualche nome, al
modo di A. G. Solari: Tabucchi, ad esempio, e Roberto Pazzi, o Baricco, o la Tamaro, o la
Rosetta Loy, che solo ora si è buttata su una madeleine-semitismo da diario puberale. Uno poi dei
più sconosciuti - nonostante i suoi tre corposi romanzi usciti qualche tempo fa e, tranne il primo,
scomparsi alla vista in quattro e quattr'otto - si permette anche di non accettare correzioni di
errori marchiani tipo `aureola' invece di `areola' (e contestualmente si trattava proprio di tette),
insistendo che i due vocaboli erano perfetti sinonimi; e quando gli ho messo sotto il naso le varie
fotocopie dei maggiori dizionari, ha chiuso la discussione con un `Hai ragione, ma a me piace di
più `aureola'!"
"Buon segno, sei agitato" con un sorriso ringraziai. Guardammo il cielo. Un tuono
furibondo lo aperse in due e giù scrociò la tipica pioggia romana, di quasi grandine a ciel sereno.
Facemmo appena in tempo a dir ciao.
"Dove vai adesso?"
"A Nord: Milano, Brescia, Torino, Ventimiglia, che ne so?"
"E ricerchi cosa, l'Unità d'Italia?"
"La poesia dialettale, forse..."
Lui sparì nella pioggia e io partii per Milano. In macchina aprii Ümber di Loi, per
conciliarmi la via, come risentire sotto le mie narici lo smog, l'aria bassa di bagnato e di bruciato di
quella città:
...in angul, geumetrii, citâ di matt...
Lüs giald, e quj stralüsc che par la nott
di auto, i palass mort, vita de merda..
..se va tra i sentirö..una stradina..
ulìv fà pulver e tocch gram de prâ..
Due che la vita se restreng a vita
i strasc e l'umbra û pruâ a ciamà..37
Poi lessi qualcosa di Edoardo Zuccato sui giardini di Milano che si vedono dal treno, sono
a piè di pagina dei palazzoni intorno, mentre le casette hanno il tetto fatto di porte stracce, i muri
di lamiera, le finestre di pezzi di credenze e comodini... E Zuccato conclude che, abitata solo nel
tempo libero, questa città inventata è la campagna come se la immaginano in città: una caricatura
della campagna anche per chi l'ha progettata.38
Cercavo Fabio Gabrielli che aveva dato al suo primogenito il mio nome: Giose, Giose
Gabrielli. Ma viaggiava, lui, Milano/Torino, e andai quindi a Torino dove vissi anni, dove avevo
gente che conoscevo bene - potrei nominarli sulle dita delle due mani, parecchi dunque -, ma a
parte Giovanni Tesio e una ragazza americana sposata a un meridionale costruttore di residenza a
San Benigno Canavese, vidi Fabio, un laureato in legge che vorrebbe specializzarsi scrittore
politico.
Entrammo in una libreria e comprai diversi libri di poesia dialettale e di critica, che ficcai
nel mio sacco a spalle. Prendemmo un caffè a un bar sotto i portici di Via Po, e un po' scherzando
e un po' sul serio dissi: "Parlando patois, Cavour e Massimo D'Azeglio qui complottarono l'Unità
d'Italia e la fecero, infatti, mandando nel Sud l'Avventuriero dei due Mondi. E oggi dal Piemonte
alla Lombardia alle Venezie si fa di tutto per sfasciarla. Solo che l'attuale Avventuriero di grido,
sorto della Palude Padana, vorrebbe sfasciarla a parolacce, navigando il Po con una barca di carta,
di quelle che piacciono ai bambini."
Fabio aggrottò la fronte. Volevo provocarlo, avere una reazione. Chiese invece, "Dove
alloggi?"
"Ogni volta che scendo a Torino vado all'Hotel Roma e chiedo la stanza Pavese. `Pevese,
chi?'" rispondono. "Anche questa volta sono sceso al Roma, accanto alla stazione."
"Peccato! Potevi venire da me. Ho una soffitta."
"Che vita fai?" gli chiesi.
"Purtroppo sono parecchio in giro per l'Italia. L'altra sera ho presentato alla libreria
Paravia di Milano un paio di bei titoli di Mino Milani, scrittore appartato che per la mia
generazione ha incarnato la figura di un piccolo Salgari."
" E qui a Torino?"
"Qui a Torino va bene, anche se fa un gran freddo, e spesso nevica. Le montagne sono a
un passo e il vento gelido spazza la città infilandosi dappertutto. Viaggio sempre, in treno, con le
puttane nigeriane e i loro papponi. In generale qui c'è molta prostituzione: donne orribili,
attempate, con un loro indecente decoro, attendono e adescano clienti sui marciapiedi di queste
vie lunghissime, diritte, disegnate col righello."
"Ho letto da qualche parte una poesia bellissima, in dialetto, di un torinese che vorrei
conoscere, si chiama Baraldi. Ricordo solo qualche verso, in traduzione. Vuoi sentire?"
"Vai."
" 'Sembra che le case si stringano se pioviggina / l'acqua slava mastica l'ocra / la rende
rugginosa come un bacio morto / entra nelle ossa sfrucona / come un cancro che non si conosce e
uccide improvvisamente.' Non ricordo altro. E' una poesia piuttosto densa e lunga. No, ecco, le
ultime due righe, ciò che veramente cercavo. `[...] la terra dolora in un pantano / che impasta le
prime foglie che sono cadute.'"
"Impressionante," disse Fabio.
"Da nessuna parte, nel Nord, c'è la campagna - se si eccettua il Friuli di Giacomini e
Giacomo Vit, forse..."
"La campagna è più un mito letterario, in un certo senso. Mentre nel Nord, e in special
modo qui a Torino, la città significa politica, vita adulta, denaro... Tra l'altro, qui danno poca
confidenza, e la popolazione è spaccata a metà: il proletariato FIAT da una parte - facce, vie,
quartieri, case, mezzi pubblici -, e dall'altra tutti gli altri. Gli emarginati son figli della prima
Torino, quella dei diseredati cui non si affittavano appartamenti perché meridionali. La Torino
salvata - e non sommersa, come l'altra -ha gerarchie ferree e un comune senso di appartenenza.
Credo che tutto sia stato preservato dal mondo Sabaudo prima, e da quello azionista poi. Io cerco
di passare in mezzo a tutto questo con gli occhi aperti, per potertelo raccontare anche dopo,
quando torni in America."39
Tornai in albergo ed aprii il sacco dei libri. Non era la stanza dove Pavese si suicidò. Lessi
quasi tutto, come ai tempi della giovinezza, e all'alba piovosa presi a scrivere sul laptop una
recensione in inglese sul recente libro di Giancarlo Consonni, Vûs40, pensando d'inviarla via e-mail
a World Literature Today,41 soprattutto affascinato dalla nota in retrocopertina di Cesare Segre
che riassume in gran parte il mio tema di ricerca: vita rurale e vita cittadina nella poesia dei dialetti
italiani.
8. Vita: rurale/cittadina. Il Segre trova che il soggetto di queste poesie del Consonni è la
vita, appunto, nel libro interpretata in due sezioni, o parti: L'estâ gulûsa, la rurale, e Grüista, la
cittadina: "piccoli esseri (pettirossi e lucherini, lumache e ramarri) o prodotti vegetali raffigurano il
primo tremore della vita, implorano dalla loro fragilità un minimo riscontro affettivo. La natura è
ancora lì, con luci e odori, materna; poi umiliata, ridotta ai margini, nella parte cittadina, ma pur
sempre disperatamente viva. Anche il discorso pare ridursi a brevi suoni, talora ordinati a una
precisa epigrammaticità; ma nei silenzi tra una frase e l'altra si stringono associazioni, s'accendono
epifanie. Sempre sottintesa, pure nelle concentrate affabulazioni, una schiva fraternità tra gli esseri."42
Consonni scrive nella parlata dell'infanzia, quella del suo paese sulla riva del fiume Adda,
Verderio Inferiore, dove visse fino a ventitré anni prima di trasferirsi a Milano dove attualmente
vive. Così si nota in Vûs e Viridarium (1987), uno "scontro" di due realtà: quella della campagna
e quella della città: e in tutto, è proprio al poeta infondervi una riflessione sociale, di satirica
malinconia, come questa che illustra la copertina del libro:
Pulver sulfer fin
téra tépa lègn.
Del póss di còrp
vègnen fö i undû.
Un göss de lümaga
al córr gemò
sö l'aqua del senté.43
Oppure Consonni si diverte a sentenziare con ironia e desiderio di amore proprio nel
comune: "Avere sete del giorno / avere sete della notte / avere sete della sete. // Fare della sete un
fiore."
La nota del Segre su questa poesia di voci, forse di echi, va dritto alla carne, al vero che
esiste nella voce di Consonni. Anche se quasi epigrammatica, dunque, questa voce metropolitana,
desertica, arriva nel cuore in quanto in essa pare, almeno a questo lettore notturno, vi soggiorna
una sottintesa corrente di bontà, una quasi fratellanza che riconcilia i viventi dei due mondi in
contrasto, il rurale e il cittadino, in sottovoce identificati dal quieto canto del poeta.
Franco Brevini, che ha scritto la bibbia dei "dialettali" del Nord (con qualche nome anche
di poeti del Sud) con Le parole perdute, va non solo consultato ma assorbito di rigore. Passando
attraverso le singolari e maiuscole esperienze di Tessa, Giotti, Noventa e Marin, il Brevini
scandaglia i neodialettali Pasolini, Guerra, Pierro, Baldini, Loi, Giacomini, Serrao, Scataglini per
quindi considerare l'emergenza di "vernacoli non cittadini", cioè non metropolitani, che in sé
racchiudono un '"esperienza di verginità linguistica" negata ai dialetti metropolitani, "di solito
illustrati da cospicue tradizioni letterarie."44 E così Franco Brevini illustra la sua tesi:
Mentre Giotti ricorre al triestino, Tessa al milanese, Firpo al genovese e Pacòt al torinese, con Marin
per la prima volta è una parlata marginale e inedita come quella di Grado a entrare in scena. Lo stesso dicasi
della varietà di friulano, quello di Casarsa del Pasolini; del lucano di Tursi di Pierro; del santarcangiolese di
Guerra, Pedretti, Baldini, Fucci; della varietà di area ravegnana di Baldassari, che scrive nel dialetto di
Castiglione di Cervia; del friulano eccentrico e impuro di Giacomini, estraneo alla Koinè. E ancora del ligure di
levante di Bertolani, del sermionese della Grisoni e dei dialetti "ariosi", brianzoli di Giancarlo Consonni e Piero
Marelli...45
Brevini definisce la poesia del Consonni "ariosa", aperta come l'accento grave sulla e e
sulla o, l'accento circonflesso sulla vocale tonica e, in definitiva, sui "paòi vècc", come in questi 3
versi stupendi di Vècc (Vecchi):
Sö la porta
i ginoecc
spungen ul vènt46
Telefonai poi al mio amico dialettologo Luciano Zannier di Spilimbergo, Pordenone, e in
questo senso "apostolo dell'infanzia", per dirgli che in qualche modo l'organizzazione mentale e
cadenza verbale del Consonni mi ricorda il friulano Giacomo Vit. "Vi trovi nei due poeti accenti di
campagna e di città, di vita contadina e vita cittadina?"
"Vit è più interessante di Consonni."
Parlammo molto, come del resto spesso faccio con gli amici del mondo e del terzo mondo
(anche dell'altro mondo, in poesia) dal mio "piccolo esilio" americano. Da una delle sue lettere che
ricevetti in seguito da Luciano Zannier, c'era anche uno specchietto ragionato, una sua indagine,
sull'opposizione città-campagna nel mondo dialettale Nord-Sud, che qui riproduco e propongo
come testo per ulteriori analisi.47
Per l'opposizione città-campagna nel mondo dialettale Nord-Sud, forse piacevole, e
sempre a livello introduttivo, uno schema elastico (anche...vuoto a riempire, in base alle
esperienze personali relative dinamiche) del tipo seguente basato sulla possibile attenzione a vari
problemi:
problema Nord-città Nord-campagna Sud-città Sud-campagna
- + + +
Zannier così scrive in calce al suo "schema elastico": "Anche i poeti, persone sicuramente
capaci di 'inventare' la propria tradizione, non vivono impunemente nei loro territori e davanti alla
pagina bianca difficilmente eludono le attese sociali, le regole, le convenzioni del proprio tempo...
In ogni caso, mentre l'immaginazione 'primaria' dialettale del Nord comincia ad essere poco
attenta alle suggestioni culturali provenienti dal passato, gli autori del Sud mostrano un vitalismo
linguistico-culturale ancora lodevole (quella volontà di 'campare' dell'asse orizzontale, anche
sorretta da forme brevi ma intense di religiosità e di amore)... Come è noto, ogni creazione
letteraria è combattimento tra l'uomo e il suo ambiente, l'uomo e la sua opera, l'uomo e se stesso...
Anche considerando, fatto importante, l'età degli autori, gli esiti letterari dialettali più attuali del
Nord ancora provengono, regolarmente o in alta percentuale, dai vissuti personali ma trovano
ormai scarso conforto nell'ambiente di vita (il potenziale della 'configurazione infanzia' è
conseguentemente attivato al massimo), quelli provenienti dal Sud sono ugualmente attivati dai
'pozzi' profondi ma l'ambiente di vita non si sente quasi di fronte a proposte linguistico-culturali
estranee o ritenute superate dai tempi (e la 'configurazione infanzia', al momento del bisogno, avrà
innegabili riserve ancora da offrire)... Probabilmente, la rarefazione delle proposte dialettali di
lettura avverrà in tempi contenuti lungo l'asse Nord-Sud, dalle città alle campagne, con un
crescendo ormai inarrestabile (attualmente al Nord gli ultimi fuochi, al Sud ancora serre
amorevolmente coltivate: sempre elitarie, nei due casi le generose volontà di sopravvivenza)...
Dietro alle parole, ci sono sempre, in posizione d'attesa, altre parole: al Nord sempre meno
'dialettali', per evidenza... Con esercitazioni rusticali svolte a tavolino e lontane dalle esperienze
linguistiche dei parlanti, non ci sono nell'avvenire, grandi speranze..."
9. Traduzioni. Telefonai a Peppe Jovine per dirgli che me ne tornavo in America da
Milano. Un volo Milano-Londra-New York, e quindi non ci saremmo visti. Un dolore profondo lo
prese, come per la morte di un amico. Mormorò:
"Stanno sparendo tutti questi miei amici, ed ora questi giorni sciancati pesanti come
chicchi di piombo di una collana nel cuore ci si affondano più lenti di un treno merci che ha nella
notte la rabbia delle zannate..."
"Cos'è?"
"E' uno scatenato metaforismo che ha radici nei procedimenti del linguaggio popolare.
Insomma è Pierro, non l'hai afferrato? Ti ho raccontato la storia di Pierro, il Premio Nobel e
Mario Luzi?"
"No, grazie."
"Sai che Pierro è poi morto?"
"A causa del Nobel?"
"Andai espressamente a Firenze a parlare con Luzi, che contestò la candidatura Pierro, e
cercar di chiarire quell'antipatica faccenda! Ma, sfortunatamente, quell'antipatica faccenda si è
ripetuta quando Luzi diede interviste criticando il Nobel al giullare Dario Fo." Peppe Jovine fece
una piccola pausa, quindi disse, "Ecco, ora ricordo. L'ultima volta che lo vidi, Pierro mi chiese,
`Quand'è che Rimanelli ha preso a scrivere poesie in dialetto?' Ed io gli risposi, `Mah!'. Infatti, ora
che ci ripenso, quando? Spesso mi sono chiesto perché gl'interessasse."
Qui cadde la linea; cioè, la mia tessera telefonica morì lì. E corsi via senza girarmi indietro.
Ma quell'idea si stampò dentro: "Quand'è che Rimanelli ha preso a scrivere poesia in dialetto?"
Sull'aereo aprii il laptop e scrissi:
QUAND'E' CHE RIMANELLI HA PRESO A SCRIVERE POESIE IN DIALETTO?
Ed ecco che mi tornò davanti agli occhi quell'altro Jovine, Francesco, a cui fui molto
vicino negli ultimi mesi della sua vita.
"Lei, i contadini, come li fa parlare?"
"Li traduco."
"Da noi una ragazza che pascola le pecore direbbe, per saluto,`Ué, Luche!' Lei ha
tradotto, `Ehi, Luca!'"
"Abbastanza vicino, mi pare" lui rispose.
Tra l'inverno del 1949 e i primi mesi del `50 gli battei a macchina sotto dettatura il suo
ultimo romanzo, Le terre del Sacramento. Ero alquanto infelice nel sentire l'italiano dello studente
Luca Marano nell'arringare i contadini e spingerli all'azione, occupare le terre della Chiesa. Il libro
si chiude con i carabinieri che ammazzano il tribuno del popolo, Luca, e il popolo lo piange.
Com'è uso nelle nostre campagne, si racconta e si loda la vita e le gesta del morto. Jovine prese a
dettarmi la trenodia48
A un tratto Immacolata Marano urlò:
- Luca, oh Luca! - e si mise le mani intrecciate sul capo dondolando sul busto.
Luca, spada brillante, - gridò una voce giovanile.
- Spada brillante, - ripeterono in coro le altre.
- Stai sulla terra sanguinante.
Via via le donne si misero le mani intrecciate sulle teste, altre presero le cocche dei fazzoletti nei pugni
chiusi e li percuotevano facendo:
- Oh! oh! Spada brillante, stai sulla terra sanguinante!
- T'hanno ammazzato, Luca Marano.
- A tradimento, Luca Marano.
- Non lo vuole la terra il tuo sangue cristiano.
- Difendevi le terre del Sacramento.
- Erano nostre, nostre le terre.
- Avevamo le ossa per testamento.
- Le avevamo scavate con le nostre mani.
- T'hanno ucciso, Luca Marano.
- Piangete anche Mastro Cece!
- E' morto anche Mastro Cece, stasera.
- Era vecchio e aveva patito fatica, fame e galera.
- Morte e galera su Morutri.
- Le donne, sole, col pianto.
- A lavorare, le donne soltanto.
- Piangete, donne; domani con la zappa in mano non si piange.
- Luca Marano, spada brillante; stai sulla terra sanguinante.
- Non piantate zappa e bidente sul sangue cristiano.
- E' il sangue di Luca Marano.
- Aveva la luce nella mente e gli occhi di stella.
- E Gesualdo era suo fratello.
- Torneremo sulle terre maledette; - il sangue avvelena l'acqua santa.
- Ci verremo senza messa; - i figli vogliono pane - anche se è pane di Satanasso.
- Non bestemmiate, donne cristiane.
- Per noi fame e dannazione - ma per i figli paradiso e pane.
- Torneremo al Sacramento - saremo serve, saremo; - ma avremo di lutto il vestimento.
- Per tutti gli anni che durerà buio e galera - vestiremo di panno nero.
Piansero e cantarono grande parte della notte, rimandandosi le voci, parlando tra loro con ritmo lungo,
promettendo tutto il loro dolore ai morti. La notte era buia e le voci si perdevano sulla terra desolata oltre il
circolo di luce che faceva il fuoco, ancora vivo.
"Cos'è?" lui chiese, dall'altra parte della scrivania. Scossi la testa. "Non ti piace?"
"Non è questo," risposi, con una certa reticenza. "Anzi è fin troppo bello, quasi
commovente, da rappresentazione teatrale... Ma da noi non parlano o piangono così. Almeno non
mi pare..."
"Ah! Tra scrivere e parlare ci corre sempre qualche differenza," lui subito disse,
sorridendo, compiaciuto. Con delle forbicine tagliò in due una sigaretta di marca Macedonia che
in genere fumavano le donne, e ne mise una parte nel bocchino di osso. "Accetto la tua perplessità
come un complimento. La tragedia ha le sue regole, Aristotele le dettò. E il linguaggio,
corrisponda o no agli usi del tempo, dev'esser alto, nobile, aulico dentro e al di sopra del suo
tempo."
No, non lo era (almeno per me). Le tragedie di Alfieri non mi piacevano. Andai comunque
alla Biblioteca Nazionale, in via del Collegio Romano, e cercai Aristotele, De Poetica. Non era un
manuale facile. Continuavo a pensare al lamento delle donne molisane nel romanzo del mio
mentore, certamente il suo migliore in quel momento. E mi dicevo: La spada brilla al sole in un
duello. Di questi ce n'erano tanti, all'epoca della cavalleria. Ma da noi la parola si usa solo se
riferita alla pietra preziosa, il diamante. Aje trèvàte nu bbrellànde. Spada brillante! Quella
metafora non ci appartiene per indicare bellezza o valore, specie se la bellezza morale di un
individuo, o il valore fisico, civile, di un individuo viene identificato con la spada. E il morto, tra
l'altro, non si chiama mai per nome e cognome. Per nome, sì. Ma in genere, il morto è uno di
famiglia, anche simbolicamente, specie se ha vissuto con coraggio e onore. Lo si chiama "figlie
mije", "frate mije". Ma Francesco Jovine aveva inteso, pensando ad Eschilo o Sofocle o
Shakespeare, i grandi della tragedia, di elevare Luca Marano a difensore, e quindi martire, dei
diritti della povera gente del nostro paese, così come l'eroe omerico Ettore si sacrifica per salvare
Ilio, la sua città. Vero e bello, come idea. Ma nella mia mente restava un punto interrogativo.
10. Epicedio. Francesco Jovine morì d'infarto qualche mese dopo, in quel suo
appartamento in via Madonna del Riposo. Era rispettato come scrittore, dileggiato da certa altra
gente (intellettuali, colleghi scrittori) per la sua affiliazione al Partito Comunista.
Era un uomo buono e grasso, direi fisicamente enorme, con un cecio sul naso. Guidava
una vecchia Balilla nera, sempre tirata a lucido, che appariva persino più affascinante di una
Isotta Fraschini, sebbene Jovine vi entrasse a fatica, comprimendo poi la sua pancia sotto il
volante. La macchina si chinava tutta sul lato sinistro. Tentò anche, a un certo punto, d'insegnarmi
a guidarla per poterlo scarrozzare da qui a lì, siccome egli si muoveva poco, come tutti gli
scrittori del resto, sempre inchiodati al loro tavolino, con i bambini a volte che gridano nell'altra
stanza. Ma lui non aveva bambini. Mai avuti.
Fin da ragazzo, comunque, e destinato agli studi invece che al commercio, mi confidò che
gli consigliarono di metter da parte il dialetto, e tantomeno innamorarsene come i medici poeti o
gli avvocati poeti di paese e soprattutto i maestri elementari poeti di quel tempo, "perché il
dialetto non porta lontano". Ma andando ai campi col primo canto del gallo i contadini
"guardavano in alto la luce accesa nella mia stanza e dicevano, `Don Ciccio studia'. Io dormivo
invece, avendo dimenticato di spegnere la luce," con un sorriso dolce, benevolo Jovine mi disse e
ripeté durante le nostre sedute.49
E io gli dissi del "gioco della palla" in seminario. Ma il dialetto, e la gente del dialetto,
Jovine ce l'aveva nel cuore. Il libro che lo rese famoso, Signora Ava,50 si apre con una epigrafe
spulciata da un canto popolare del Mezzogiorno:
O tiempo da Gnora Ava
nu viecchio imperatore
a morte condannava
chi faceva a'mmore.
Io mi innamorai di quel libro, e direi "perdutamente" come un tempo quando leggevo
Tolstoi o Stendhal, scorrendo prima a caso e poi con febbrile interesse l'apertura della Parte
seconda del romanzo, che cito qui sotto: così precisa, vera, intensa e stilisticamente tanto affascinante in quanto io conoscevo quel paesaggio, da bambino:
L'inverno era stato duro, nevoso, tempestoso: una frana aveva scorticato il bosco "La Fresta" alle
spalle di Guardialfiera e la terra, che era scivolata a valle, aveva tagliato a mezzo il vallone in piena per le
interminabili piogge; ora l'acqua allagava tutte le terre delle masserie Bardella. Il Cervaro a levante del villaggio
aveva settimane di terribile irruenza. Il Biferno a mezzogiorno scrosciava in permanente piena, gonfio di tutti i
torrenti e rivoli del contado di Molise.
Guardialfiera era chiusa per tre lati dalle acque; per settimane e mesi da Casacalenda, Larino, Palata
non arrivava un corriere, un contadino, un porcaro.
Il maltempo, la neve, spegnevano intorno al paese ogni vita. Nella campagna, qualche nero camino
fumava nelle lontane masserie, dove erano rimasti solo i pastori per il governo degli animali. La notte e il giorno,
nel silenzio, s'udiva insistente e monotono lo scroscio delle correnti. Quando arrivava il vento dalla gola dei
monti, i boschi prossimi mischiavano il fruscìo sibilante dei rami al rumore dell'acqua. Solo la vecchiaia sicura,
immortale delle pietre bige che formavano le case faceva pensare come provvisoria l'umida furia del cielo e della
terra. Il maltempo durò senza soste fino a febbraio; neve e acqua, acqua e neve, rigagnoli, pozze, pantani, umido,
nebbia.
Mio padre mi portava col suo cavallo al Biferno laggiù, sotto il paese di Jovine, e lui si
accoccolava sull'acqua e pescava i pesci con le mani. C'era un ponte romano, ora sommerso dalle
acque che formano un lago, dove pareva che i pesci mulinassero, parlando tra di loro.
La casa di Jovine, a Guardialfiera, era a quel tempo - e così appare anche oggi - vasta e
antica, tipica residenza di proprietari terrieri tra vicoli pietrosi che scalano la montagna. Ma suo
padre, proprio come mio padre col cavallo, era solo un modesto agrimensore, oggi detto perito
agrario.51 Ricordai queste cose in un paio di articoli usciti su la Repubblica di Roma nel `48,
probabilmente. Don Ciccio lasciò la terra da giovane, per seguire la sua vocazione d'insegnante
prima, e poi di direttore didattico. Ma la gente, a Guardialfiera, lo ricordava sempre. I contadini
venivano a Casacalenda a vendere i frutti delle loro terre, che erano belli e buoni perché cresciuti
accanto all'acqua, e io spesso gli chiedevo del loro scrittore. "Non è più tornato," dicevano, quasi
a volerlo dimenticare. Invece io gli dissi, battendo a macchina il suo ultimo romanzo, che lo
ricordavano, gli avrebbero "fatto un monumento".
"E' vero? Dici sul serio?"
Arrossii, e me ne vergognai. Il monumento me l'ero inventato. Ma effettivamente, nel mio
animo, sapevo che quello che aveva scritto con Signora Ava meritava un monumento. un ricordo,
una placca, qualcosa che lo legasse al luogo della sua genesi e invenzione. Ma non ero lontano,
comunque, dalla divinazione. Oggi c'è Via Francesco Jovine al centro di quel suo paese, e per un
certo periodo di tempo ci fu anche un concorso giornalistico/letterario dedicato al suo nome. Il
Molise è generoso, quando se ne ricorda. Nel mio paese, Casacalenda - alla cui stazione
ferroviaria tutti i guardiesi dovevano scendere o partire prendendo la corriera per il o dal loro
paese - gli dedicarono una scuola.
Vennero due insigni personaggi romani a bussare alla mia porta, a Roma, su Salita del
Pincio,52 per portarmi con la loro macchina a via Madonna di Riposo, da Francesco Jovine, morto
il 30 aprile. Sapevano che non aveva figli, ma credevano che io gli fossi imparentato, un suo
nipote, forse. Il nipote, invece, (almeno come io credetti nei primi tempi), era Giuseppe Jovine,
che mi disse: "Non gli sono nipote, ma cugino."
"Come mai non t'ho mai visto prima, in questa casa?"
"Noi siamo del ramo Jovine di Castelmauro," rispose. "Non ci frequentavamo."
E fu lì, alla veglia funebre - e come a compensare la mancanza della vera campagna al di là
della politica fatta in città -, che per la prima volta incontrai Peppe Jovine, una specie di "giovin
signore" pariniano a prima vista, almeno dall'esterno, coi baffetti rossicci impeciati e il pizzetto à
la D'Artagnan, insegnante nelle Scuole Medie di Roma e più tardi Preside, ancora ignoto a quel
tempo come poeta dialettale,53 il futuro autore di un capolavoro lirico in dialetto molisano, Lu
Pavone, che si apre con la riflessione; e questa, articolata come allocuzione verso il personaggio a
nome Miserere, (ricorrente patronimico nel Molise, ma anche voce latina che si traduce in "pietà",
"compassione"; Cicerone: cum misereri mei debent, quando dovrebbero compiangermi), a cui la
lirica è anche dedicata, con brevi e pensosi versi avvolge gloria e distruzione, baronia e guerra,
vita e morte, lo stesso ciclo cosmico del tempo.
Rivolgendosi a Miserere, il poeta gli commisera quel giardino in rovina lassù, in cima al
paese dove, ai tempi del Barone, c'era un pavone che paveva volasse quando se ne andava in giro
e faceva la ruota. Era una bellezza a vederlo, solo che quando gridava "pareia `nu murte accise", il
poeta dice a Miserere. Quindi viene la guerra. E' sparito il Barone e anche il pavone. Ma pure la
guerra passa, un torbido sogno che il poeta non sa raccontare, o capire:
ghianche e nire, virde e gialle,
Marucchine e Merecane,
prutestante e mussurmane!...
Ieva guerra o carnevale?
Ieva guerra, Miserè! [...]54
Il poeta ricorda una sola cosa: che quand'era bambino lì, in quel giardino, c'era un pavone
bellissimo che faceva la ruota "come un ventaglio ricamato in mano a una bella donna fascinosa o
una signora dei tempi antichi."
Il poeta non indica, qui, tempi o condizioni politiche: evoca un passato che ad immaginarlo
pareva bello, un presente che è una distruzione dopo la guerra, e il ricordo che se da una parte ha
cancellato l'orrore, non può dall'altra in alcun modo cancellare il senso e il vero che è nella
bellezza: quella della gente, della natura. E questo libro di poesie in dialetto molisano parla, infatti,
unicamente di bellezza: una specie di maga multiforme con valenze nella cultura, nell'istinto
umano, nell'amore e nel dolore, nel crescere e nell'invecchiare.
E soprattutto vi domina la bellezza del raccontare questa lingua, questo dialetto che scava
e carezza e rivela il peccatuccio, la lacrimuccia, la luna, la neve, la tagliola, la fiera, il piccolo
storpio, il morto, la chiesa a ventunora e il Palazzo/Castello, un tempo del Barone forse, e in
verità oggi del ramo Jovine di Castelmauro dov'egli è nato, nel quale il poeta contempla le tante
cravatte del padre, di seta di cotone e di lanetta, e rivede quelle magiche mani del padre che le
toccano come fossero fiori, e se le annoda davanti allo specchio con dita agili ed abili come
suonando uno strumento; ed ecco che si pente delle tante volte che ha lasciato la madre sola "per
quelle stanze vuote che parevano cisterne", parlando ora coi morti, lei ch'era stata "chioccia in un
pollaio dove come un gallo canta ogni pulcino;" e lei che, questa mamma, quando il poeta si
assenta se ne va "come un uccelletto impazzito tra le mura che non ritrova la via per il cielo,
sbatte l'ali alla ventura e zitta zitta s'avvia per quelle stanze vuote che parevano cisterne."
E' qui che, infine, erompe il grido ansioso, impaurito del poeta:
Tì nuvantanne, mà
e iè me sente me sente murì.
Chiù nghiine e chiù nghiane
ncopp'a la muntagna
che z'arescegne che nu lampe.
E' llu vere! Chi more e chi campa,
chi balla e chi ze lagna
e lu tiempe, lu tiempe vola vola,
ma iè sacce, mà, `na cosa sola:
tì nuvantanne mamma mamma mè
e iè sente me sente murì.55
V'è nella poesia di Giuseppe Jovine, lieve in apparenza, una profondissima vena di
peculiare destino, un amore/morte tuttavia visti come nel balletto della maschera, il tragicamente
definitorio Eros/Thanatos è ugualmente come preso in giro in quanto scontato, almeno
letterariamente, in altri termini per il poeta è come sottolineare con brevi guizzi ironici il grave
senso della temporalità della vita, il volgere del giorno e la sua sensualità, l'approssimarsi della
notte e della sua preghiera. Con lui, nella sua gola e nella sua poesia, c'è sempre il canto, il sorriso
e il pianto incancellabile, primitivo, frammisto con i colori sbiaditi dello strazio odierno, appunto
perché eternamente pregno di sudore e fatica e che, comunque, pur sempre avvolge la verde e
desolata campagna del Molise, letto di vari gruppi etnici con ancestrali tradizioni, a Peppe Jovine
familiari. In certi momenti la magìa del poeta pare sia quella di rendere la perdita, che sempre
coinvolge il dolore, quasi grottescamente irreale nella sua naturalezza, come avviene nel
racconto/elogio Cinzinille:
Ze chiamava Cinzinille.
Faceia lu murte pe pazzia
che le diente de lumine
e la faccia de farina.
Nu iurne nen z'alzatte lu telone.
Na stanza c'addurava de melelle,
arrèt'a `na tendina culurata,
cu nu sciocche nu cullette,
`na pinzetta ne capille
steia tise Cinzinille.
Ieva ghianche coma `na cannela!
La mamma senza chiagne
me dicette acchiane acchiane:
dà nu vasce a Cinzinille,
ze la portene addumane,
lè ma penzave ca faceia lu murte
e ririve de paura
coma quanne nu taatre
Cinzinille aregregnava
che le diente de lumine
e la faccia de farina.
Ieva lu prime murte che vedeie!
Ma Cinzinille nen pazziava:
ieva la prima volta che murìa!56
Un'altra indagine di struggente importanza che andrebbe condotta circa la poesia di
Jovine, che qui solo indico ma che riguarda tutta la poesia dialettale del Mezzogiorno d'Italia, è
l'aspetto lirico amoroso/erotico di speciale timbro che essa offre, e uno in grado di evocarti alla
mente il timbro lirico della poesia arabo-persiana, oscuramente morbido.
Nel suo saggio sulla poesia di Albino Pierro,57 citato nella bibliografia essenziale della
Storia della Letteratura Italiana di Cecchi e Sapegno e nell'Edizione Einaudiana dell'opera di
Pierro, Jovine analizza il poeta di Tursi in Lucania ma pare anche che scruti se stesso, poeta di
Castelmauro, Molise. Durante i nostri svariati incontri non si è mai perso tempo nel discutere
anche di questo soggetto, fingendo a noi stessi di meravigliarci nel notare e speculare di quanto
s'intersechino, ampliandosi, le varie culture. "E cioè i letti dei fiumi delle culture linguistiche," con
precisione scandisce Peppe Jovine. Aggiungendo che "non c'è da escludere che le lingue slave e
albanesi, diffuse in molti paesi del Mezzogiorno, abbiano fatto da tramite, da veicolo della cultura
popolare orientale."
Jovine alludeva e allude oggi alla psicoerotomachia, la sua, sempre evidente nelle sue
forme di racconto, in prosa e in versi. Vi trovi anzi, in essi, un suo più che naturale veicolo
espressivo nell'infittimento della metafora, in un linguaggio ch'egli definisce "connotativo", nel
senso che si radica nella struttura semiologica del dialetto. E finalmente, in una delle nostre
conversazioni su "linguaggio estraniato", dialetto vale a dire e voci filtrate da altri linguaggi
riconoscibili per lessicali analogie, mentr'io gli confermavo che mia madre era canadese del
Québec, e suo padre, ossia mio nonno, americano di New Orleans, Louisiana, sia pure di lontana
origine molisana, Giuseppe Jovine mi rivelò che sua madre era albanese e una sua zia slava. E
recitò versi, sentiti recitare durante la sua infanzia:
Sa disc vedisja e dish veja te gropa
e dich nde me qa namurata;
Si tvoi serce neceda moj
jena noz cu ti obrat;
na tvoje noge cu po stat,
ja cu umbrit di si ti;
Jovine sostiene che certe immagini, come quelle vampiristiche di Pierro, per esempio, di
nuotare come l'ubriaco nel sangue dell'amata per morirci dentro, si ricollegano al parossismo
verbale e figurativo tipico dei dialetti.
"Ascolta," gli dissi. "Ascolta questi versi."
Tu m'è dàte tutt'ù córe,
j nèn sàcce che t'àje dàte;
J sònghe sc_tàte fèrtenàte
de recéve cuisc_te nóre.
Se tu te muóre, j sò muórte,
nge sc_tà cóse d'è jì nnànze:
me ze chiàtre ógne crejànze
se tu nge sié, e nèn me puórte.
A móre è puórte e repuóse:
cu tté, merì, è a sc_tésse cóse.
"Che ne pensi?" chiesi.
"Potrebbero essere versi di Pierro o anche miei, nel tono e nell'intenzione materica." lui
rispose. "Ma questo è dialetto tuo, Giose. Son versi tuoi?"
"Omaggio, voglio sperare, a Francesco e a Giuseppe Jovine che, sia pure in forme diverse,
hanno cantato l'amore e la morte dalle nostre parti, il Molise," riposi.
Lowell, Massachusetts.
Mercoledì, 1 Aprile 1998