INTERVISTA AD ACHILLE SERRAO
di Annalisa Buonocore


Durante il lavoro di tesi ho avuto modo di entrare in contatto, a mezzo di posta elettronica, con il poeta Achille Serrao che ringrazio per la sua cortese disponibilità. Ad alcune domande il poeta ha di recente risposto. In questa "appendice" alla tesi riporto le parti essenziali del nostro dialogo epistolare.

Domanda: Il professore Luigi Bonaffini del Brooklyn College ha tradotto e pubblicato in inglese tutte le sue poesie in dialetto. Analizzando le versioni inglesi, ho notato come l'ottimo lavoro di traduzione di Bonaffini nasca da un'acuta e sensibilissima comprensione del suo speciale rapporto con il codice dialetto nella composizione poetica. Quest'analisi critica ha portato il traduttore a puntare sul codice linguistico, e ad individuare uno "stile" del dialetto, mostrando come la bellezza delle poesie dialettali e neodialettali risieda in parte in alcune caratteristiche tipiche del codice dialettale che lo standard non possiede. Le peculiarità del vernacolo che lei vuole restituire nelle sue opere sono anche dovute al fatto che esso si sviluppa su un piano prevalentemente orale?

Risposta: Mi trova d'accordo sul riferimento alla "oralità" e soprattutto allo "stile" del dialetto. Aggiungerei un accenno alla "intraducibilità" ( o, quanto meno, la forte resistenza alla traduzione) di alcuni lemmi o passaggi poetici dialettali (mi riferisco, naturalmente, al mio dialetto, ma sono certo che il discorso è molto più generale). In questi casi, che per mia e per fortuna di molti altri poeti l'abilissimo Bonaffini riduce al minimo, il codice mostra uno "spessore semantico" che ammette, in altra lingua, solo la perifrasi. Mi viene in mente, per esemplificare, il participio aggettivale "appuccenùto" ( che vuol dire: "raggomitolato su se stesso per paura o per malore") che è difficilissimo rendere.

Domanda: Quello dell'intraducibilità è sicuramente il tema principale della poesia neodialettale. Credo che i neodialettali cerchino la poesia in quegli elementi del dialetto più intimamente legati alla realtà vernacolare e quindi più difficilmente traducibili. Proprio a proposito del termine da lei usato: "appucenuto", pensa che sia possibile trovare in un'altra lingua un termine corrispondente che abbia lo stesso contesto di uso, che condivida la stessa realtà, le stesse situazioni in cui i parlanti lo ascoltano e imparano ad usarlo?

Risposta: L'intraducibilità ( o la cauta approssimazione al) dell'originale dialettale è stata e continua ad essere assillo personale. E' rarissimo trovare in lingua italiana termini "che condividano la stessa realtà dialettale, le stesse situazioni in cui i parlanti ascoltano il dialetto e imparano ad usarlo", come lei giustamente mi scrive. A differenza della lingua comune che viaggia (si evolve) sempre e da sempre senza bagaglio, il dialetto porta sulle spalle un tascapane (na sporta) zeppo di antropologia, cultura, storia, memoria, suoni (come prescindere dai suoni!?) etc.; a me pare. Il dialetto, "evidenza verbale" carico di sostanza, concretezze, di una realtà che lei ha ben colto nella complessità delle sue componenti.

Domanda: Il suo lavoro di composizione poetica è anche metalinguaggio, un modo per recuperare le forme poetiche, "significative", già presenti nel codice delle cose umili, della semina, dei racconti. Il dialetto, soprattutto per un neodialettale, è "lingua della poesia" proprio per quegli aspetti che lo contraddistinguono come "lingua della realtà". L'elemento poetico del dialetto è nella sua immediatezza e concretezza?

Risposta: È verissimo che il dialetto è "lingua della poesia" proprio per quegli aspetti che lo contraddistinguono come "lingua della realtà". E', questo, un dato essenziale: credo non possa darsi poesia in dialetto che ne prescinda. Il che mi induce ad escludere dal novero di questa molte operazioni con punti di fuga dominanti verso la "letterarietà" (ammesse, al contrario, anzi consacrate da buona parte della critica). Ciò non vuol dire, tuttavia, "ancorare" la poesia dialettale al "realismo" di cui s'è nutrita alla fine dell'Ottocento e per buona parte del Novecento. Tutt'altro. Escluso tale ancoraggio e verificata, insieme, la sussistenza del cordone ombelicale lingua locale-humus antropologico e quant'altro, i suoni innanzitutto si impongono come dato imprescindibile della poesia: donde la possibilità di valorizzare l'aspetto fonosimbolico del discorso poetico e ammettere come "sperimentalmente" (nella accezione generale del termine, non certo storica) possibile la riflessione sul codice dialettale. La personale riflessione, peraltro, viene da molto lontano. Non c'è verso che abbia scritto, privo di (li chiamerò per comodo in tal modo) "echi" delle generazioni linguistiche pregresse, della lingua usata e delle forme di cui si sono nutrite e di cui io stesso sento la necessità di nutrirmi "conservando" e "archeologicamente" ricuperando. Avverto, in altre parole, una profonda esigenza di "verifica" o "controllo" e di reimpiego di ciò che linguisticamente "era", se il reimpiego "serve" alla efficacia significante, al suono, alla struttura intera del testo poetico. In questo forse riconoscendo un aspetto di "letterarietà" del mio lavoro. Insomma, credo che il poeta dialettale abbia notevoli responsabilità di approfondimento, di conoscenza e perfino "applicative", non solo in relazione alla "parlata" del contesto in cui opera, ma anche al patrimonio linguistico appartenuto alle generazioni pregresse. Il dialetto è un carro pieno di masserizie: ammette il televisore fra i beni di trasporto, ma anche 'o strummolo

Domanda: La sua poesia va letta come un'opera destinata all'oralità. Dall'oralità di nuovo all'oralità attraverso la scrittura.

Risposta: Sì, la poesia, naturalmente in dialetto, va letta come opera destinata all'oralità (donde, d'altra parte, proviene). Chi sa che la scrittura, insieme al compito di trasmissione delle idee che le è proprio, non risponda per la poesia in dialetto anche ad una necessità di "conservazione", di certificazione del patrimonio linguistico in via di depauperamento e, in alcuni casi, addirittura di estinzione. E con il patrimonio linguistico, quanta cultura e antropologia etc. andrebbero perduti se... Se così può essere ( e secondo me è), non mi sentirei di condividere la posizione di Giacinto Spagnoletti espressa su "Poesia" del settembre 1993:" Il problema che si pone oggi per la poesia neodialettale è superare la barriera del dialetto reale". Una affermazione che produrrebbe, nella migliore delle ipotesi, lo "snaturamento" della funzione scritturale, nella quale -dicevo- mi pare implicito (e essenziale) il compito conservativo della lingua e non solo. Superare il dialetto reale (parlato) significherebbe scrivere una poesia nella quale l'uso del codice non farebbe "differenza": Perché scrivere proprio in dialetto? La scelta del codice ( o l'esser scelti, come sostenuto da alcuni ) è motivata da una esigenza elementare, che è quella colta lucidamente da Raffaello Baldini: "Ci sono cose in poesia che possono essere dette solo in dialetto". Oralità, dunque, e destinazione all'oralità, ma attraverso la scrittura che può certificare la situazione linguistica corrente, ma anche "ricuperare" (come le ho già detto) - e in moltissimi neodialettali accade - speleologicamente lemmi addirittura arcaici ad uso il più vario nella funzionalità del testo.

Domanda: Tra il recupero della letteratura popolare e la restituzione sul piano orale, c'è il passaggio attraverso l'interiorità. Il risultato è un misto di discorso interiore e di costruzioni di letteratura orale. Metrica novecentesca (ad esempio tracce di strutture a chiasmo, queste ultime mediate, credo, dalla poesia napoletana del seicento, recuperabili sul piano metrico, semantico, sintattico ecc.), sintassi poetica novecentesca (flusso di pensiero) e forme della tradizione letteraria orale coesistono nella sua opera?

Risposta: È proprio la scrittura ad attestare l'avvenuta elaborata "interiorizzazione", a offrirne insomma "la prova testuale" (testamentaria, se vuole, in molti casi oramai). Sono con lei in pieno accordo per quanto attiene agli elementi con-correnti nella mia poesia: dalla metrica novecentesca ( geniale quell'aver colto le strutture a chiasmo mediate dalla poesia napoletana del Seicento ) al flusso di pensiero.

Domanda: Lei parla di una maggiore "ricchezza" del dialetto. La sua particolare ricchezza è dovuta anche alla presenza di forme letterarie nella lingua dell'uso, o, come ho avuto modo di notare, alla presenza, in questo codice, della scrittura nell'oralità?

Risposta: Concordo su quanto mi scrive a proposito della "ricchezza" del dialetto dovuta alla presenza di forme letterarie nella lingua dell'uso, ma prima ancora io vedo e sento ricchezza nello stesso "consistere" concreto e virginale (e intraducibile spesso) del lessico, parola per parola, la ricchezza che può consentire forme come " 'A meglia parola è chella ca nun se dice".