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Giose Rimanelli e la poesia dialettale negli Stati Uniti
Luigi Bonaffini
La letteratura italiana, ci ha ricordato Gianfranco Contini, è l'unica grande letteratura
nazionale per la quale il dialetto è una parte integrante ed ineliminabile. Questa profonda verità,
troppo spesso dimenticata in passato, ed offuscata dal persistente pregiudizio del dialetto come
strumento espressivo inadeguato ed "inferiore," si è venuta affermando con indiscutibile
perentorietà negli ultimi decenni, grazie ad una inaspettata e quanto mai rigogliosa fioritura di
poesia in dialetto, che rappresenta senza dubbio uno dei fenomeni più importanti e caratterizzanti
della letteratura italiana del secondo Novecento, e che ha rimesso in discussione il concetto stesso
di letteratura dialettale, poggiando anche su un proliferarsi senza precedenti di studi, di convegni,
di libri, di dibattiti. La poesia dialettale si apre varchi sempre più ragguardevoli nella grande
editoria e soprattutto nell'attenzione del pubblico di lettori e di critici, scoprendosi nel frattempo
depositaria di ricche tematiche che vanno oltre i fenomeni strettamente letterari, e riguardano
l'antropologia, la psicolinguistica, la psicologia, la sociologia, la semiotica.
Echi di questi fermenti culturali sono sopraggiunti negli Stati Uniti soprattutto ad opera di
Hermann Haller, che nel 1986 ha pubblicato The Hidden Italy (Detroit, Wayne State University
Press), la prima antologia bilingue di poesi dialettale, e di Gaetano Cipolla, direttore della rivista
bilingue (siciliano-inglese) Arba Sicula, specialista di poesia siciliana e traduttore di L'origini di lu
munni (1985), Don Chisciotti e Sanciu Panza (1986) e Favuli murali (1988) di Giovanni Meli.
Negli Stati Uniti esiste da lungo tempo una tradizione di poesia dialettale di ascendenza popolare,
quasi sempre legata ad un uso nostalgico della dialettalità volta al recupero di una identità
minacciata e di una realtà antropologica abbandonata ma mai dimenticata, e quindi ancorata alla
tematica dell'emigrazione e ai problemi dell'acculturazione, compreso quello fondamentale della
lingua. Predomina spesso il processo memoriale, il ritorno al paese natale, al luogo d'origine, dove
i grumi esistenziali si dissolvono nella rivisitazione spesso agiografica, nella riappropriazione di
una di perduta dimensione culturale, con toni che non si discostano mai troppo dall'osservazione
diretta della vita paesana. Spesso il dialetto viene strumentalizzato a fini moraleggianti e gnomici,
in componimenti contraddistinti da un malizioso ed arguto scetticismo, in cui massime e detti
vengono assimilati al repertorio personale, sempre però in chiave umoristico-burlesca. Poi c'è
tutta la tematica che ruota intorno alla necessità di adattamento e di inserimento in una realtà
straniera, che trova nella lingua (l'inglese, ma per estensione anche il linguaggio letterario),
l'ostacolo più impervio e gravoso. Le espressioni italo-americane(1) che spesso lardellano il testo
sono le tracce visibili, testuali, con remoti rimandi pascoliani, di questo arduo processo di
acculturazione. I più recenti esponenti di questa poesia dialettale di emigrati sono i siciliani
Vincenzo Ancona (Malidittu la lingua / Damned Language, New York, Legas 1990) e Nino
Provenzano (Vinissi / I'd love to come, New York, Legas, 1994), il cui mondo poetico rientra per
lo più nell'ambito della poesia dialettale tradizionale (ricordi, lavoro, quadri d'ambiente, affetti
familiari), ma arricchito dal continuo confronto di due culture diverse, dal quale scaturiscono
considerazioni sul mondo moderno, sulla condizione dell'emigrante, sui continui tranelli, quasi
sempre linguistici, in cui s'imbatte la persona poetica un po' spaesata e ingenua. Il compromesso
idiomatico, il nodo linguistico che il poeta dialettale deve cercare di sciogliere spesso riguarda
solo il dialetto e l'inglese, e non tocca l'italiano, che rimane essenzialmente fuori dall'orizzonte
culturale del testo. Una simile vena umoristico/moraleggiante percorre le poesie in dialetto
napoletanodi Nino Del Duca, assiduo collaboratore del giornale italo-americano "America Oggi",
che ogni domenica pubblica un suo componimento mistilingue (dialetto, italiano e qualche
anglicismo) in cui il poeta offre i suoi commenti bonariamente ironici sugli aspetti più vari della
vita di una grande città americana.
Ma si può dire che la poesia dialettale contemporanea (o poesia neodialettale, secondo la
definizione di Brevini), approda finalmente negli Stati Uniti con la pubblicazione di Moliseide
(New York, Peter Lang Publishing, 1992) di Giose Rimanelli. Non si tratta più di poesia
popolare italo-americana imperniata sul bozzettismo ed i quadri di costume o di poesia dialettale
italiana riportata in antologie, ma di uno scrittore italiano che vive in America e decide di scrivere
un libro di poesie nel suo dialetto molisano, svicolandolo dai temi tradizionalmente legati alla
poesia dialettale, il bozzettismo, il colore locale, il sentimentalismo archeologico, con piena
coscienza di tutte le possibilità espressive dello strumento prescelto, e completamente in sintonia
con i presupposti formali e linguistici e con le tecniche più avanzate della poesia dialettale
contemporanea. Dialetto "migrante", lo definisce Luigi Reina, in quanto radicato nella soggettività
dell'emigrante/emittente "impegnato a recuperare una sua lingua di 'cultura' che in qualche modo
lo riconcilii con la contemporaneità e con la 'natura' senza soccombere al rischio della
regressione."(2)
La poesia dialettale di Rimanelli ha quindi ben poco in comune con l'opera degli altri poeti
dialettali operanti negli Stati Uniti(3), (a parte Joseph Tusiani, come si vedrà più avanti, il quale
rimane però fedele a tematiche e forme poetiche più tradizionali) e s'inserisce invece con
perentorietà e con pienezza di risultati nel ricco filone della poesia neodialettale contemporanea. Il
poeta dialettale contemporaneo non è più legato al municipio, alle tradizioni locali, alla cultura
regionale, alla cultura del folklore espressa dall'antica civiltà contadina ormai scomparsa, ma è una
persona colta, che ha fatto le stesse esperienze letterarie e culturali del poeta in lingua, che
conosce altre lingue e altre letterature, s'interessa ad altre forme d'arte e di comunicazione come la
musica o il giornalismo(4). Spesso vive lontano dal luogo natio, e rimane quindi estraneo alla cultura
letteraria regionale, riscoprendo la lingua materna dopo notevoli esperienze letterarie ed
esistenziali, ormai purificata da condizioni e implicazioni psicologicamente e culturalmente
subalterne. Questo decentramento culturale gli permette di inserire esperienze culturali
eccentriche nel corpo della poesia dialettale, ed è proprio la tensione che si crea tra l'ampiezza
delle esperienze culturali ed il mezzo linguistico periferico e locale che caratterizza la poesia del
neodialettale. I riferimenti culturali non sono più le letterature regionali, ma le letterature straniere
francese, inglese, americana in un orizzonte culturale ormai illimitato, che è poi l'habitat
naturale in cui si muove l'opera di Rimanelli. Seguendo le indicazioni di Brevini, che distingue tre
gruppi di poeti dialettali - quelli che scrivono solo in dialetto, quelli che approdano al dialetto
dopo un'esperienza in lingua e quelli che alternano i due codici - Rimanelli si colloca senz'altro
nel terzo, gli "autori in cui l'esercizio della poesia avviene all'interno di un orizzonte di tipo
sperimentale, sfruttando tutte le risorse legata alla variazione alessandrina dei codici".(5)
Per Rimanelli l'interesse per il dialetto significa prima di tutto ricerca di linguaggio poetico.
"Non si comincia dal dialetto (da una tradizione) per trovare la poesia, ma si scopre il dialetto
mentre si cerca la poesia."(6) Non è una tradizione locale che nutre e sottende l'uso del dialetto, ma
un linguaggio letterario, e il rapporto determinante è tra il dialetto ed il linguaggio poetico
(l'italiano, ma anche altre forme di linguaggio, come si vedrà più avanti). Questo è vero per tutti i
maggiori poeti dialettali (Giotti chiamava il dialetto "lingua della poesia"), e quello che Pancrazi
ha detto di lui si potrebbe ugualmente riferirsi a Rimanelli: "Il suo dialetto stesso sembra più una
'écriture d'artiste' che un linguaggio popolare."(7)
Moliseide, nota Giuseppe Jovine nella sua postfazione, è una fuga verso le origini, sia
letterarie che esistenziali, e per questo assume un ruolo determinante nell'opera di Rimanelli. Una
fuga verso le origini, verso l'essere. La sua terra di nascita, il Molise, è la metafora di un universo
perduto, un luogo nel ricco paesaggio della fantasia e della memoria dove il legame essenziale con
la propria interiorità è ancora recuperabile, dove il linguaggio ancora affonda le sue radici
nell'esperienza e nel vissuto. Ma è anche un luogo dove si può affrontare l'antico trauma della
separazione, la lacerazione, la perdita di un'identità comunitaria, il dislocamento culturale. Una
ricerca delle radici linguistiche ed esistenziali per alleviare il dolore della ferita, mai rimarginata,
dello sradicamento, "l'antica / ansietà delle partenze e dei ritorni" ("Corona"), oltre che un
tentativo di riappropriarsi di una specificità culturale, di riconoscere la dignità intangibile della
persona umana di fronte ad una cultura dominante universalmente omologante ed indifferente.
Questo ritorno alle origini, così centrale all'opera più recente di Rimanelli e impulso
motivante delle poesie di Moliseide, nasconde un regresso controllato, intenzionale, un ritracciare
ed un riordinare la propria vita alla luce di una coscienza più profonda e più piena. Un regresso
"lungo i piani dell'essere," tramite "il regresso da una lingua ad un'altra - anteriore ed
infinatemente più pura," come Pasolini ebbe a dire del suo proprio "ritorno"(8). Un regresso verso il
mondo mitico dell'infanzia, con la sua promessa di una lingua arcaica e materna (come in
Zanzotto, Noventa, Pierro). Inevitabilmente, in Rimanelli a questo bisogno di ritornare alla
sorgente del linguaggio si unisce la ricerca di un'altra fonte originaria, alla radice stessa della
tradizione letteraria romanza, cioè la poesia religiosa e la poesia trovadorica provenzale. Questo
secondo bisogno, più espressamente letterario, è condiviso da molti poeti dialettali, quali Pierro,
Baldassarri, Guerra, Bolognesi, Giacomini, Scataglini. Ma da Pasolini soprattutto, come fa notare
Contini quando collega il poeta agli antichi trovatori del Friuli, "che intendono competere con i
trovieri Provenzali, i notai meridionali, il Minnesang Austro-Bavarese"(9). Lo stesso Pasolini dedica
La nuova gioventù, la raccolta di tutte le sue poesie dialettali, a Contini, "sempre 'con amor de
loinh'," e poi cita una stanza del trovatore Peire Vidal: "Ab l'alen tir vas me l'aire / Qu'e sen venir
de Proensa: / Tot quant es de lai m'agensa." (Quando respiro tiro verso di me l'aria / che sento
venire da Provenza: / tutto ciò che viene di là mi da' gioa).
In Rimanelli, però, questa compulsione a ritornare alle fonti letterarie è congenitamente,
inestricabilmente legata alla sua propria formazione culturale, alle sue prime, e decisive,
esperienze letterarie. Nella sua prefazione a Monaci d'amore medievali, un'interpretazione
moderna di poesie d'amore scritte in latino da monaci medievali, lo scrittore ci racconta come ha
conosciuto in tenera età l'opera di questi monaci itineranti, questi "joculatores," che hanno
lasciato un'impronta indelebile sulla sua fantasia. E d'altra parte il rapporto tra le canzoni religiose
e la prima poesia trovadorica è stato ampiamente esplorato, ed è stato dimostrato che le forme
metriche e melodiche di tanta lirica provenzale derivano dalla canzone religiosa contemporanea(10)
.
Sappiamo anche dalle "vidas" dei trovatori che parecchi di loro avevano ricevuto un'educazione
canonica, e che quindi erano ben istruiti nelle forme delle canzoni religiose(11)
. Rimanelli ha
espresso più volte il suo grande amore per la lirica provenzale e, data la sua importanza per la
letteratura occidentale, non sarebbe difficile trovare dei precedenti in altre lingue. Un ruolo
determinante ha svolto naturalmente Ezra Pound, un altro espatriato che è stato condotto dal suo
studio della poesia provenzale, durato tutta la vita, ad insistere con molta energia sulla
contemporaneità di certi valori medievali, in particolare di certi aspetti tecnici della poesia delle
origini, ed è proprio attraverso Pound (che Rimanelli conosceva) che la suggestione dei provenzali
è generalmente giunta ai dialettali, come nota anche Brevini: "Come quei 'fabbri del parlar
materno', anche i nuovi poeti, suggestionati dal mito delle origini romanze, si compiacciono di
condurre sulla soglia della scrittura gli idiomi delle loro origini...nella parola dialettale il poeta
avverte quella capacità di restituire la presenza delle cose, quella pronuncia salda, priva di echi ed
aloni, caratteristiche appunto della letteratura delle origini, che aveva ugualmente a che fare con
una lingua vergine, non ancora usurata(12)."
Anche per Rimanelli l'interesse per la poesia trovadorica è squisitamente letterario, e
rimane sedotto dall'incessante sperimentalismo dei trovatori, dalla loro fede nel potere
autogenerante della parola, nella sua capacità di stabilire nessi, rapporti inattesi con altre parole, di
rispecchiarsi in innumerevoli permutazioni e identificazioni analogiche. Rimanelli sa bene che il
gioco d'amore dei trovatori è in effetti amore del gioco, un fissarsi sul piacere combinatorio della
parola, e che il vero oggetto della loro passione non è la donna, ma il linguaggio stesso, in un
processo continuo di semantizzazione segnica. "È il linguaggio dialettale stesso" - sono parole di
Giambattista Faralli - "a porsi come l'unico e solo referente, generatore, con la sua fisicità grafica,
con i suoi meccanismi fonici, con la sua sintassi e il suo intrinseco ritmo, di emozioni, scatti
memoriali, percezioni sensoriali e psicologiche, fantasmi dell'immaginazione." (13) Moliseide è nata
dalla stessa passione, e attinge profondamente al complesso apparato retorico del "gay saber" e
della poesia medievale, dal piacere combinatorio della parola in tutte le sue molteplici
manifestazioni: paronomasia, anafora, assonanza, consonaza, rima interna, allitterazione, chiasmo,
omoteleuto, distici (coblas capfinidas), terzine, ritornelli. Se c'è una figura retorica predominante
e caratterizzante in Moliseide, è certamente la figura della ripetizione, che percorre la gamma
intera delle sue possibili manifestazioni, dal livello fonetico (paronomasia e omoteleuto) a quello
strutturale (anafora interstrofica e ritornello). L'anafora, come elemento sia musicale che
strutturale, è un tratto ricorrente e sistematico in tutto il libro:
Me so' ddèrmute dént'u córe tije.
Me so' perdute dent'a móre tije.
Me so' sènnate nè chèsette e i figlie...
Mi sono addormentato dentro il cuore tuo. / Mi sono perduto dentro l'amore tuo. / Mi sono
sognato una casetta e i figli...
La ripetizione anaforica spesso diventa un principio organizzativo, un elemento strutturale di
rilievo, come nel caso dell'anafora interstrofica, ("Fragile," "Ballata di Joe Selimo," "Terminale,"
"Ballata della gente ingorda," "Ballatella di ottobre," "Ballatella del tozzo di pane," "Notti
molisane," "L'acqua"). Come, per esempio, in "Farà giorno":
Farà giorno sul tuo cuore di giunco
come il miele che scioglie
la fragranza del sole.
Farà giorno sulle rughe d'argilla
come il rovo che vibra
nell'opaco fragore.
Questa terra, questa terra ci trova
come fili di pioggia
aspettando l'aurora.
Questa terra questa terra ci muove
come bufali e spuma
per immense pianure.
Da notare anche che questa poesia è una malcelata versione moderna dell'"alba" provenzale. La
prevalenza di questo tipo di anafora infonde a Moliseide un particolare andamento melodico e
caratteristiche cadenze ritmiche, modulate su un registro tonale insolitamente ampio, dalla sobria
malinconia di "A vije du Molise," all'agile giocosità di "Kawasaki Blues," al pastiche goliardico e
plurilinguistico di "Ignis."
Un altro tipo comune di ripetizione anaforica che potrebbe risalire ai trovatori è il
ritornello, l'elemento strutturale di base della "balada" - non si dimentichi che Moliseide è una
raccolta di canzoni e ballate, molte delle quali sono state musicate, e che quindi molte poesie sono
state concepite come componimenti musicali - come stanno a testimoniare le tante "ballate" del
libro: "Bèllàte du Mèhàre," "Bèllàte du Puórk," "Ballatella della mangiatoia," "Ballata
della gente ingorda," "Ballatella delinquente," "Ballata del tozzo di pane,""Bèllàte de Rita,"
"Ballatella d'autunno," "Ballatella di ottobre," "Bèllàte da lèscèrte" e così via. Tuttavia
l'importanza del ritornello in Moliseide gravita su un'altra fondamentale, ma meno lontana,
derivazione: il ritornello è anche l'elemento strutturale di base di un altro tipo di poesia e di
canzone orali accentuative chiamato "Blues", in cui la ripetizione non ha una funzione solamente
decorativa o espressiva, ed è anch'esso un ritorno alle origini, ed uno dei generi musicali del
secolo che ha avuto risonanze più vaste. Un genere che Rimanelli conosce bene, egli stesso autore
di pezzi di blues e jazz, la cui linfa vitale attraversa e alimenta molti di questi componimenti
dialettali, alcuni dei quali hanno dei titoli tanto rivelatori quanto tecnicamente opportuni ("Kalena
Blues", " Kawasaki Blues").
Mentre la poesia provenzale è una forte sottocorrente che attraversa tutta Moliseide,
affiorando qua e là in malcelati adattamenti moderni della lirica trovadorica, "Amore di donna
lontana", per esempio, è un'interpretazione rimanelliana di "Amors, de terra lonhdana", di Jaufré
Rudel , esistono modi più sottili mediante i quali questo libro si modella sulla poesia trovadorica,
e qui si fa riferimento all'ostinazione con cui Rimanelli registra la cronistoria di ogni singola
poesia, a cui aggiunge sempre luogo e data. I primi canzonieri dei trovatori, per lo più scritti in
Italia da uomini come Ferrari de Ferrara, generalmente contenevano "vidas", profili autobiografici
dei poeti, e "razos", un resoconto della situazione storica che sottende la composizione di una
particolare lirica. Che le intenzioni storicizzanti di Rimanelli si possano far risalire a delle fonti
così antiche è meglio evidenziato da un confronto con gli altri suoi libri di poesia, Carmina
Blabla, Monaci d'amore medievali e il recente Arcano, dove la "razo" non si limita a luogo e
data, ma include una sorta di auto-esegesi, una concisa spiegazione dell'occasione autobiografica a
cui si ispira il componimento.
Dalla rassicurante intimità degli oggetti quotidiani allo straniamento di immagini
surrealistiche, da incubo, lo sperimentalismo di Rimanelli, la sua disponibilità al rischio, è forse in
nessun luogo tanto evidente come in Moliseide, e se il tema predominante del libro è l'amore, i cui
oggetti sono vari e molteplici, dalle colline del Molise ai numerosi "senhals" che s'incontrano ad
ogni passo, il linguaggio del desiderio per Rimanelli, come per gli antichi trovatori, alla fine è, e
rimarrà sempre, un desiderio mai appagato di linguaggio.
La diffusione della poesia dialettale, molto di pù di quella in lingua, dipende dalla
disponibilità delle traduzioni. D'altra parte la traduzione della poesia dialettale in inglese,
certamente per motivi che riguardano la sua condizione tradizionale di presunta subalternità e di
limitata diffusione, ma anche per via di difficoltà oggettive inerenti alla traduzione stessa, data la
scarsa conoscenza dei dialetti da parte dei traduttori anglofoni, è stata generalmente trascurata, in
special modo per quanto riguarda la poesia più recente, meno conosciuta. Tuttavia alla poesia
dialettale negli ultimi dieci anni è stata rivolta una discreta attenzione, particolarmente dopo la
pubblicazione della pionieristica antologia di Haller. È uscita nel frattempo un'antologia in
edizione trilingue della poesia dialettale molisana, ed un'altra ancora di poesia dialettale del
meridione, anch'essa in edizione trilingue(14). Recentemente sono apparse diverse traduzioni di
poeti dialettali ( Jovine, Serrao, Guerra, Pascarella, Di Giacomo, Trilussa, Ancona, Martoglio(16)),
che in genere la critica sulle riviste di italianistica ha accolto favorevolmente (ma nessuna
attenzione da parte della critica americana, come del resto succede per la poesia in lingua). Altre
sono in corso di stampa (Giacomini, Zanzotto, Pierro, Cirese), una chiara indicazione che
l'interesse per la poesia dialettale va crescendo anche fuori d'Italia.
La traduzione della poesia dialettale in inglese presenta problemi particolari, relativi
soprattutto alla premessa molto discutibile che vede il dialetto come deviazione rispetto ad un
linguaggio standard(17). Infatti la maggior parte dei traduttori non solo rifiuta il concetto di dialetto
come linguaggio deviante ed eccentrico, ma lo considera invece il luogo della naturalezza e della
spontaneità, la norma linguistica di una determinata comunità e quindi secondo un criterio
metodologico solo in apparenza paradossale l'esatto contrario di deviazione. Nelle poesie in
dialetto molisano di Moliseide, che recano a fronte la mia traduzione inglese, il problema del
dialetto è complicato dalla estrema letterarietà del testo, sistematicamente contaminato da
riferimenti alla poesia trovadorica, alla poesia latina medioevale, alla poesia americana e francese,
al jazz e ai blues. È un testo caratterizzato dal plurilinguismo e pluristilismo e da una ricca varietà
di soluzioni metriche, dal verso libero alla ballata, dall'endecasillabo al doppio settenario, con
abbondanza di rime ed assonanze. Il dialetto è quindi il tronco su cui si innestano le più svariate
esperienze linguistiche e letterarie ed il traduttore è costretto a seguire gli intricati percorsi testuali
della parola poetica, nella consapevolezza che la difficoltà maggiore risiede più nella
stratificazione culturale e letteraria del testo e nella ricerca di un risultato anche ritmicamente
adeguato, che rispetti il movimento interno del verso, che nello specifico dialettale. L'intraducibilità del dialetto, cioè la sua opacità semantica, è proporzionale all'uso gergale,
fortemente idiomatico della parola, circoscritta al colore locale, municipalistico. D'altra parte la
traducibilità del dialetto dipende appunto dall'eliminazione degli elementi più strettamente gergali,
delle punte idiomatiche troppo accentuate, come accade in Giotti, in Marin ed in Noventa(18). Ma
anche in Moliseide il dialetto evita uno spessore troppo marcatamente idiomatico, anche perchè vi
predomina la componente musicale, la rima e l'assonanza, a cui male si adatterebbero un
linguaggio volutamente disarmonico ed una sintassi frantumata e concitata. Prendiamo ad
esempio la prima strofa della prima poesia di Moliseide:
Quanne t'èzzíccche a i vríte du pènziére
e fóre chiagne u sole, ze fa' nòtte,
u sanghe te ze chiátre, sie' strèniére:
a vije da terre tíje dónde sta'?
Quando t`avvicini ai vetri del pensiero / e fuori piange il sole, si fa notte, / il sangue ti si gela,
sei straniero: / la via della tua terra dove sta?
Da notare, oltre alla sapiente orchestrazione melodica ed alla forte evocatività delle immagini, la
prima in particolare, che in questa strofa non c'è nessuna parola o espressione dialettale che
presenti particolari difficoltà per il traduttore, proprio perchè mancano gli idiomatismi troppo
accesi; è invece nel tono che esse si annidano, nella modulazione ritmica e nella struttura metrica,
per cui nella traduzione è stata per necessità scartata la rima, che avrebbe inciso notevolmente
sulla possibilità di seguire la sottile linea melodica del testo:
When you get near the glasspanes of your thoughts
and outside the sun weeps, and darkness falls,
your blood turns into ice, you are a stranger:
the road back to your land, where can it be?
Diverso il discorso per il campano Achille Serrao, che nel suo libro di poesie, 'A canniatura(19),
anch'esso pubblicato negli Stati Uniti con la mia traduzione inglese, usa non il napoletano, ma il
dialetto periferico di Caivano, molto più duro e aspro del napoletano. Alla resistenza dello
strumento linguistico si aggiunge il programmatico antisentimentalismo di Serrao, il cui testo
risulta perciò estremamente denso, volutamente antimelodico, refrattario, granuloso - anche se
poi l'antimelodicità è solo di superficie - mirante ad armonie più sottili, più intime. Cercare di
rendere in inglese la densità del dettato di Serrao risulterebbe in una ricerca forzata di suoni
consonantici e di ritmi spezzatii, da cui verrebbe fuori un inglese artificioso, inesistente. La mia
strategia in questo caso è stata invece di cercare di catturare la tonalità di base del testo, l'intensità
della malinconia che si nasconde sotto l'apparente impersonalità della voce narrante. Inoltre c'è il
problema della precisione filologica di Serrao, che ha aggiunto un glossario per spiegare le sue
scelte linguistiche. Faccio un esempio dalla poesia "'Nu tiempo c'è stato":
Nu tiempo c'è stato ch''e pparole
nun cagnavano ll'aria, addu nuje
frièvano cu' ll'uoglio
d''a jacuvella aréto 'a vocca, attenùte
pe' ppaura, cummeniènza che ssaccio...
Un tempo c'è stato che le parole / non cambiavano l`aria, da noi / friggevano con
l`olio / dell'astuzia dietro la bocca, trattenute / per paura, convenienza, che so...
Chi conosce abbastanza bene il napoletano, probabilmente avrà difficoltà solo con "jacuvella," che
nel glossario in appendice viene spiegata così:
Jacuvella s.f.: "intrigo, astuzia, vezzi, moine". Etim.: dal francese Jacques=
Giacomo, che ha il significato metaforico di "sciocco, semplicione," almeno
a datare dal Sec. XIV (nel 1358, infatti, i contadini in rivolta furono detti
spregiativamente Jacques Bonhomme; il nome personale "Giacomo," nella
sua forma latina Jacobus ha dato Jàcovo in napol.; l'espressione Jàcovo
Jàcovo ("vacillare") è derivata dal nome Giacomo; lo stesso nome di
Coviello, maschera farsesca napoletana che vale "buffone, cialtrone," è
Giacomo in forma diminutiva.
Non essendo possibile rendere nella traduzione, neppure in minima parte, la ricchezza connotativa
della parola, non mi è rimasto che arrendermi e tradurre "l'uoglie d''a jacuvella" semplicemente
con il poco soddisfacente e generico "the oil of cunning," puntando invece sull'asciuttezza e
compattezza del dettato:
There was a time when words
didn't change the air, around these parts
they fried in the oil
of cunning, held in the mouth
by fear, expedience maybe...
Nell'ultimo libro di poesie dialettali di Rimanelli, I rascinije (Faenza, Mobydick, 1996).
strettamente collegato a Dirige me domine, Deus meus(20) per la centralità della figura paterna e del
motivo della morte, il dialetto assume caratteristiche fonosintattiche abbastanza diverse, ed appare
più denso, più refrattario, sintatticamente più complesso, con punte idiomatiche di notevole
durezza, impervie ed aspre, metodicamente evitate nella prima raccolta, e con ampie aperture
verso la discorsività, per cui Serrao, nella sua prefazione al libro, parla di un "tono di 'crudeltà' (o
crudezza) in più, finora sconosciuto alla pratica dialettale del nostro autore"(21). La problematica
della traduzione si avvicina a quella discussa innanzi parlando dello stesso Serrao, con la
differenza che Rimanelli si attiene spesso, ma non sempre, a forme metriche ben definite, che
richiedono in inglese un verso che possa approssimarle. Nella traduzione si è inoltre tentato di
riprodurre la resistenza del dettato, che punta sull'infoltirsi dei gruppi consonantici:
E' tànde marejènde sc_tè jernàte
che me vevésse ù féle èmmaudìtte.
Velésse sc_tenècà dù cuórpe suónne
e scuórne mmendènàte èsse, chi cìppe
e i frùsce de sc_tù viérne nù chènnìte.
E' tanto amara questa giornata /che mi berrei il fiele maledetto. /Vorrei stonacare dal corpo
sonno /e vergogna ammonticchiati lì, con gli stecchi /e le foglie di quest'inverno nel canneto
This day's has turned so tingling bitter
that I am up to quaffing cursed bile.
I would unplaster from my body sleep
and shame heaped up in it, with winter's
twigs and fronds down in the canebrake.
Come siè visto, nella sua poesia dialettale Rimanelli si cimenta con una grande varietà di
schemi metrici: versi bisillabi, trisillabi, quadrisillabi, quinari, senari, settenari, ottonari, novenari,
decasillabi, endecasillabi, versi ipermetri, verso libero, versi misti. Ma più comuni sono i settenari
e gli ottonari, che sono poi una rilettura, in chiave sperimentale, della poesia popolare (è implicito
che mentre molti componimenti sembrano echeggiare la poesia popolare, la letterarietà stessa del
testo esclude ogni possibilità di raffronto o derivazione diretti). Un tratto saliente di molti
componimenti è la cesura medievale, che divide il verso in due emistichi, producendo così doppi
quaternari, quinari, settenari, ottonari:
Càntène i galle, vólene i ciélle.
Z'è fatte juórne: che t'aje dice?
Sèmbe tu vié chi vràcce tése,
u cuórpe'èccise ni suonne mije.
Cantano i galli, volano gli uccelli. / Si è fatto giorno: che devo dirti? / Sempre tu vieni con le
braccia tese, / il corpo ucciso nei sogni miei.
Pur essendo versi di dieci sillabe, questi non sono propriamente decasillabi, ma quinari doppi
separati da una forte cesura. Ciò significa che non possono essere resi semplicemente come
decasillabi in inglese, se si vuole approssimare il ritmo dell'originale. La soluzione adottata è il
doppio dimetro giambico con cesura:
The roosters sing, the birds are flying.
Daylight has broken: what can I tell you?
You always come with arms outstretched,
your body slain within my dreams.
Un'altra complicazione di non poco conto, dal punto di vista del traduttore, sta nell'uso che
Rimanelli fa della rima, impiegata frequentemente, spesso con uno schema preciso, e può essere
doppia, tripla, quadrupla e addirittura quintupla:
U Tiémpe du rèllògge me fa víve:
vússe stu cuórpe da mètín'a sére.
Quànne me férme súle, cu pènziére,
è sèmbe 'n àtu Tiémpe che me véve.
Dèmàne rèchèmènze cu pèssate.
Squèrdàte sònn'i suónne ch'è sènnàte?
Il Tempo dell'orologio mi fa vivere: / spinge questo corpo dalla mattina alla sera. / Quando mi
fermo solo, col pensiero, / è sempre un altro Tempo che mi beve. / Domani ricomincia col
passato. / Dimenticati sono i sogni che hai sognato?
Tutto ciò complicato dall'uso non rado della rima interna, inclusa la cosiddetta rima leonina:
Ottobre sei folle di foglie già frolle.
Riporti stremati colori e sapori.
Qui la rima leonina - "folle" prima della cesura in rima con "folle" - è inoltre complicata dalla rima
imperfetta di "foglie" e dalla forte allitterazione-assonanza folle/foglie/frolle.
Dovrebbe apparire chiaro, anche da questa breve e casuale campionatura, che la
schermaglia verbale di Rimanelli mette a dura prova il traduttore, e mentre si è cercato di
rispettare il più possibile l'uso della rima, in alcuni casi è sembrato che avrebbe inciso sulla
naturalezza del ritmo, e così è stata scartata di sana pianta, come ad esempio nella prima poesia
già menzionata.
La difficoltà specifica della traduzione del dialetto è inerente a quella della sua subalternità
e della sua dipendenza da altri codici, in cui, specialmente di fronte alla scomparsa del suo
universo antropologico e la conseguente contrazione della dialettofonia, cerca gli strumenti del
proprio arricchimento; una problematica che poi si complica notevolmente quando alla diglossia
italiano/dialetto si aggiunge un terzo codice (uno degli elementi fondamentali che contraddistingue
l'opera di Rimanelli e le conferisce una larga misura di eccentricità rispetto a quella degli altri
dialettali), la cui presenza è inglobante, determinante, e minaccia pertanto di sopprimere qualsiasi
espressione diversa da sé. Forse il significato più profondo della poesia dialettale, come osserva
Brevini(22), sta proprio nella sua lotta mortale contro l'imposizione di una superlingua livellatrice,
che a livello nazionale (l'italiano) emana dai mass media e dai centri produttivi del Nord, portatrice
di valori legati esclusivamente alla produzione ed al consumo, ed a livello sovranazionale
(l'inglese) mirante al monoculturalismo globale, all'azzeramento di qualsiasi particolarismo etnico
e culturale, alla massificazione totalizzante. L'attuale regresso del dialetto come lingua
strumentale davanti all'inarrestabile dilagare dell'italiano standard è in effetti un fenomeno
complesso e, per certi versi, apparentemente contraddittorio, in quanto è proprio nel momento di
più forte contrazione che esso va assumendo una sempre più spiccata funzione letteraria,
accelerando un processo già in corso al principio del secolo con di Giacomo, e poi maturatosi con
Marin, Giotti, Noventa.
Da una parte, quindi, l'inglese è la lingua imperiale, planetaria, irrinunciabile; dall'altra, in
Rimanelli, è lingua d'elezione e di studio, dell'identità scissa, delle prove narrative che porteranno
all'American Book Award con Benedetta in Guysterland. E infine, anche lingua veicolare e
strumentale, della quotidianità e del lavoro. L'unico altro scrittore di rilievo emigrato negli Stati
Uniti per il quale un terzo codice abbia un peso così determinante è forse Joseph Tusiani, poeta e
celebre traduttore di poesia italiana in inglese, ma anche autore di diversi volumi di poesia
dialettale.(23) Al centro della vasta opera di ambedue scrittori, che sono i maggiori rappresentanti
dell'esperienza dell'emigrante in America, oltre al tema fondamentale dell'emigrazione, si colloca
pertanto una lunga ricerca dominata dal problematico interplay di diversi codici linguistici, che
interagiscono e si complementano non senza inevitabili conflittualità e disagi, ma sempre nello
spazio di una sorvegliatissimma sensibilità linguistica: l'italiano, lingua dei primi studi e della prima
formazione culturale; l'inglese, non lingua acquisita per semplice processo di acculturazione, cioè
lingua dell'emigrazione, ma oggetto di ricerca e di studio, e in seguito assurta a strumento
espressivo privilegiato per Tusiani, che d'altro canto pubblica anche poesie in italiano, mentre
Rimanelli si limita dapprima a incursioni intermittenti sul terreno dell'inglese, la cui presenza è
tuttavia pressante in gran parte della sua opera, fino all'approdo definitivo di Benedetta in
Guysterland; e poi il dialetto, la prima lingua, la vera lingua originaria, la più profonda, la lingua
materna, sulla quale si sono successivamente sovrapposte le altre, ma senza poterla sopprimere e
nemmeno scalfire nella sua unicità, nella sua ricchezza affettiva, nel suo ruolo insostituibile di
veicolo memoriale. C'è poi da aggiungere che per entrambi gli scrittori, e questo li distingue
nettamente da tutti gli altri(24), interviene un quarto codice, il latino, anch'esso determinante per la
loro formazione culturale e poetica. Tusiani ha conseguito fama internazionale con la sua poesia in
latino, mentre Rimanelli è l'autore di Monaci d'amore medievali, e la poesia latina classica e
medievale sottende gran parte della sua opera poetica, specie quella in dialetto. Il ricorso al latino
e al dialetto, anzi, seguono strade parallele, volte entrambe, ma in modo diverso, alla ricerca di
una purezza espressiva impossibile nei due codici dominanti, saturi di letteratura e contaminati da
infinite stratificazioni culturali: il latino offre la promessa di un linguaggio antico, preromanzo,
non compromesso dal processo di omologazione e di appiattimento che caratterizza le lingue delle
società post-industriali, al cui livellamento espressivo il dialetto oppone invece una parola
concreta, fortemente connotata, sovraccarica di significati affettivi, pura di impronte letterarie; il
perfetto antidoto, idealmente, ad una sovraeccedenza di cultura.
Su un piano più prettamente personale, il ritorno al dialetto rappresenta un tentativo di
ricongiunzione tra memoria e collettività, io soggettivo e comunità, in una ricerca inquietante,
necessaria, della patria perduta dopo lo strappo, la lacerazione, il dislocamento culturale. Ernesto
De Martino, uno studioso caro a Rimanelli(25), ha fatto notare come il pianto funebre rappresenti il
controllo rituale del dolore con cui l'uomo ha imparato a difendersi contro l'inevitabilità della
morte. Ma anche l'emigrazione è una morte dell'essere, una perdita ed uno strappo che "aprono la
porta alla straniazione del mondo", e la scelta del dialetto è anche un atto di autodifesa, il dolore
che diventa rito, un tentativo di "proteggere il proprio precario esserci". Inoltre il rischio della
perdita di una patria culturale riguarda non solo le società arcaiche o primitive e gli emigrati, ma
tutto il mondo borghese moderno, come conseguenza del disagio provocato dallo "spaesamento",
dalla "perdita di domesticità", dal "naufragio del rapporto intersoggettivo".(26) Per lo scrittore
emigrato questo disagio rimane un trauma originario mai risolto, una ferita profonda solo in parte
medicata dall'orgoglio che nasce dall'appropriazione di un'altra cultura e di un'altra lingua,
dall'ampliamento degli orizzonti culturali, dalla crescita intellettuale ed artistica, ed il ricorso al
dialetto acquista quindi significati ancora più profondi che per il poeta dialettale che vive in patria.
Il nodo esistenziale del poeta lontano ha origine proprio nello scompenso che si crea tra
ampiezza di esperienze culturali ed il vuoto lasciato dalla frattura originaria, dall'impossibilità di
sanare l'incrinatura che si è formata là dove c'erano stati l'appartenenza, l'identificazione, il
riconoscimento, il collegamento con la comunità dei vivi e dei morti. È da questo scompenso che
nasce l'esigenza di riscoprire il legame comunitario e di recuperare a tutti i costi un proprio
autentico radicamento culturale. Il dialetto si offre quindi come lingua comunitaria, legata al
vissuto, al concreto, ad una reale collettività di parlanti in senso antropologico, e come il mezzo
più idoneo a rappresentare l'esperienza di partecipazione ad una coralità. La scelta del dialetto non
costituisce una scelta solamente estetica, ma è una dichiarazione sullo "stato caotico del cosmo,
inafferrabile e incomprensibile nella sua totalità estesa, ma ancora in qualche modi decifrabile in
una economia curtense(27)". Il dialetto pertanto garantisce al poeta la possibilità di ritrovare
un'autentica specificità culturale, di coniugare vicenda individuale e destino collettivo, e concede il
rassicurante riconoscimento che non tutto il mondo deve essere esperito come estraneità e
separazione, perché esiste un mondo proprio in cui la ferita originaria può, almeno per qualche
attimo, rimarginarsi, e dove l'alienazione può trasformarsi in partecipazione, anche se questo
mondo esiste ormai solo nella memoria dell'io poetante.(28) Il dialetto è soprattutto la lingua della
memoria, il tramite necessario tra passato e presente, tra il dentro e il fuori, il filo che lega ad un
mondo svanito per sempre. È l'unico strumento con cui testimoniare un universo antropologico
perduto non solo attraverso il distacco, ma obiettivamente scomparso, una civiltà cancellata
eppure ancora superstite come sistema di valori e di contenuti umani, come struttura profonda
ancora operante.
Tuttavia per Rimanelli il dialetto rimane soprattutto il linguaggio del desiderio, di ciò che
non esiste più e che vorrebbe esistere, della memoria che si stempera in modulazione ritmica, della
parola che si rivela tutta nell'atto stesso del dirla, nella sua forza di ripercussione psichica ed
emotiva. Ed è proprio questo desiderio che permette a Rimanelli di rinnovarsi, di ritrovare la voce
poetica che "s'impone come canto primevo e primario, come voce - appunto - del desiderio e
dell'uno, insieme di madre e di padre, di idiomatico e di universale"(29). I risultati più alti della
poesia dialettale di Rimanelli si hanno forse nello scarto inaspettato verso un canto di estrema
semplicità e purezza, che sembra nascere dal profondo dell'essere e del tempo, un canto funebre
appunto, misurato sulla lenta modulazione del blues:
Patreme,
u patre mije ze n'è iute,
ze n'è iute èrréte'a pòrte,
èrréte'a porte ze n'è iute
Mio padre, / il padre mio se n'è andato, / se n'è andato dietro la porta, dietro la porta se n'è
andato.
La lamentazione con cui si chiude il libro rappresenta il controllo rituale del patire, la disperazione
che diventa liturgia, ma è anche la riconferma definitiva dello status del dialetto come "lingua
profonda", veicolo insostituibile della memoria e dell'emotività.
Luigi Bonaffini
Note
1. Per uno studio del linguaggio degli Italo-Americani, vedi Hermann Haller, Una lingua perduta e
ritrovata, Firenze, La Nuova Italia, 1993.
2. Il dialetto migrante di Giose Rimanelli, in "Il Veltro", 3-4, anno XL, maggio-agosto 1996,
p.253.
3. Due poeti residenti in America che manifestano una simile tendenza allo sperimentalismo nella
loro poesia dialettale sono Aeodato Piazza Nicolai (La doppia finzione, poesie in lingua e in
dialetto ladino, Chicago, Insula, 1988) e Luigi Ballerini (Che oror l'orient, Bergamo, Pierluigi
Lubrina, 1991).
4. Queste osservazioni provengono da La maschera del dialetto, a cura di A. Foschi e E. Pezzi,
Longo, Ravenna, 1988, p.64.
5. Brevini, Le parole perdute, Torino, Einaudi, 1990, pp. 125-126.
6. 3.Cfr. Chiesa e Tesio, introduzione a Le parole di legno, Milano, Mondadori, 1984, p. 12.
7. 4. Ibidem
8. Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1973, p.137.
9. Per l'importanza della poesia medievale e dei trovatori per la poesia dialettale contemporanea cfr. Chiesa e Tesio, Le parole di legno, cit., p.18.
10. Kendrick, Laura, The Game of Love, Berkeley, University of California Press, 1988, pp. 137-39.
11. vedi Guido Errante, Marcabru e le fonti sacre dell'antica lirica romanza, Firenze, 1947.
12. Brevini, Parole perdute, cit., p. 63.
13. Introduzione a Giose Rimanelli, in Dialect Poetry of Southern Italy, a cura di Luigi Bonaffini,
( New York, Legas, 1997).
14. (15)
15. The Hidden Italy, edited and translated by Hermann Haller,
Poesia dialettale del Molise. Testi e critica / Dialect Poetry from Molise Texts and Criticism,
trilingual edition, edited by Luigi Bonaffini, Giambattista Faralli and Sebastiano Martelli, Isernia:
Marinelli Editore, 1993.
16. Abandoned Places, di Tonino Guerra, curato e tradotto da Adria Bernardi, Toronto,
Guernica, 1997; Love Poems, di Salvatore Di Giacomo, tradotto da Frank Palescandolo, Toronto,
Guernica, 1997; 'A canniatura / The Crevice, di Achille Serrao, edizione trilingue, curato e
tradotto da Luigi Bonaffini, New York, Peter Lang Publishing, 1995; Lu pavone- La sdrenga /
The Peacock - The Scraper, di Giuseppe Jovine, edizione trilingue, curato e tradotto da Luigi
Bonaffini, New York, Peter Lang Publishing, 1994; The Poetry of Nino Martoglio, curato e
tradotto da Gaetano Cipolla, New York, Legas, 1993; The Discovery of America, di Pasquale
Pascarella, curato e tradotto da John Du Val, Fayetteville, The University of Arkansas Press,
1991; Malidittu la lingua / Damned Language, di Vincenzo Ancona, curato e tradotto da
Gaetano Cipolla, New York, Legas, 1990; Tales of Trilussa, curato e tradotto John Du Val,
Fayetteville, The University of Arkansas Press, 1990;
17. Per la problematica della traduzione dal dialetto, rimando al mio saggio Traditori in provincia.
Appunti sulla traduzione dal dialetto, in "Italica" 72.3 (estate 1995), pp. 209-227.
18. 16.Cfr. Brevini, Le parole perdute, cit., pp. 236-243.
19. 18 .Achille Serrao, 'A canniatura / The Crevice, curato e tradotto da Luigi Bonaffini, New York,
Peter Lang, 1995.
20. Campobasso, Edizioni Enne, 1996.
21. ivi, p.7.
22. Franco Brevini, Poeti dialettali del Novecento, Torino, Einaudi, 1987, p. X.
23. Làcreme e sciure, San Marco in Lamis, 1955; Tìreca tàreca, Quaderni del sud, 1978; Bronx,
America, Lacaita Editore, 1991
24. Il poeta dialettale Michele Sovente scrive in dialetto, italiano e in latino, in quella che lui
chiama "lingua una e trina", ma non in inglese.
25. Vedi il capitolo "Il morto non è morto" di Dirige me domine, Deus meus su Morte e pianto
rituale nel mondo antico di De Martino: "De Martino sottolinea che la morte di una persona cara
e necessaria è l'evento che può provocare il tracollo dell'instabile bilancia: essa appare uno
scandalo irreversibile, una crisi senza orizzonte, una definitiva vittoria sull'incipiente coscienza di
sé, e apre la porta alla straniazione dal mondo, al delirio di negazione, al furore distruttivo omicida
e suicida. Ma proprio sull'orlo del rischio estremo, egli osserva, l'uomo impara a difendersi, a
proteggere il proprio precario esserci: nasce il controllo rituale del patire, il pianto collettivo. Il
rito, e le molte tecniche di cui si sostanzia, può ora percorrere tutta la tastiera della disperazione ,
ma appunto in forma rituale, cioè controllata."
26. Brevini, Le parole perdute, cit., p.406
27. È quello che dice F.P. Franchi dell'uso del dialetto da parte di Zanzotto, in Lingua, dialetto e
culture subalterne, a cura di G. Di Biasio, Ravenna, Longo Editore,1979, p. 95.
28. Cfr. Brevini, Le parole perdute, cit., pp. 149-150.
29. Giovanni Tesio, nella postafazione a I rascinije, p.44.
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