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Achille Serrao e la poesia neodialettale napoletana
Luigi Bonaffini
Nel saggio introduttivo alla regione Campania, nell'antologia Dialect Poetry of Southern Italy. Texts and Criticism, New York: Legas, 1997, Dante Maffia ricorda che per comprendere pienamente le
ragioni che portano alla poesia napoletana del Novecento bisogna leggere attentamente l'introduzione
di Alberto Consiglio alla sua ormai classica Antologia dei poeti napoletani, uscita nel 1973. Questo
perché Consiglio va molto oltre il fenomeno prettamente letterario, ricollegandolo ai motivi storici
e sociali che lo implicano, e si chiede, dopo aver dato una vasta panoramica della poesia dialettale,
quale posto assegnare alla poesia napoletana nel quadro della letteratura italiana moderna,
accomunandola a quella russa presovietica, a quella dei negri d'America, alla poesia contemporanea
inglese. Poesia rivoluzionaria?, si chiede ancora. La sua risposta è "Certamente sì. In quanto la sua
intima disperazione implica l'aspirazione a un migliore avvenire. Per questo potremmo concludere
che la poesia napoletana, tra i secoli decimonono e ventesimo, è il centro di tutta le letteratura
italiana." Affermazione non paradossale, se, come fa notare Maffia, anche Tesio e Chiesa, nella loro
introduzione ai due volumi antologici Le parole di legno, mettono in risalto la posizione centrale di
Di Giacomo, affermando che "non si può avviare il discorso sul Novecento senza Di Giacomo: non
si capirebbe dove inizia la linea che nell'uso del dialetto si è svolta feconda di poesia nel nostro
secolo(1)." Nel suo saggio in effetti Maffia rivendica l'importanza di Di Giacomo, trascurata da
Mengaldo e Brevini (anche se poi Brevini ha recentemente approfondito la questione della poesia di
Di Giacomo), e rivendica al contempo una maggiore e più complessa articolazione del mondo poetico
digiacomiano, non limitato quindi all'arietta ed alla leggerezza melica, concludendo che "Di Giacomo
sta al Novecento come Porta sta all'Ottocento."
Ma quello che emerge dall'antologia di Consiglio e da altre antologie, di stretta attinenza al
nostro discorso, è la continuità, l'assiduità del patrimonio poetico napoletano attraverso i secoli:
Cortese, Basile, Velardiniello, Sgruttendio, Velentino, Biondi, Lombardo, Capasso, Palmieri, Villani,
Piccinini, Sacco, Capurro e tantissimi altri. Un patrimonio nelle cui venature, come nota Maffia, "si
possono leggere connessioni e sviluppi, indagini e scelte che hanno poi generato una poesia da
considerare in tutta la sua portata". E' noto ad esempio che i due filoni principali della poesia
napoletana agli inizi del secolo, quello realistico di Ferdinando Russo e quello melico di Di Giacomo,
guardano rispettivamente ai poeti napoletani del Seicento e del Settecento.
E questa considerazione ci porta al nostro argomento principale, cioè la poesia di Achille
Serrao, ma vista nel contesto della poesia dialettale napoletana contemporanea. Nella sua prefazione
al libro di poesie in dialetto campano di Achille Serrao, 'A canniatura, Giacinto Spagnoletti osserva
che "non parleremmo più della poesia in dialetto napoletano, oggi, se non si fosse prodotta qualche
novità importante sul modo stesso con cui questa poesia viene concepita ed attuata". E fa due nomi
significativi: Salvatore di Natale ed Achille Serrao. A questi due aggiungerei quelli di Michele
Sovente, Tommaso Pignatelli e Mariano Bàino, cinque poeti che insieme testimoniano una
trasformazione profonda nell'odierna poesia dialettale napoletana, che per motivi esposti più avanti
abbiamo voluto indicare come poesia neodialettale napoletana.
Ma quali sono gli elementi che possono accomunare questi poeti che sono poi, si badi bene,
diversissimi tra loro? Non è assolutamente possibile confondere la voce di Serrao con quella di
Sovente o con quella di Di Natale o di Pignatelli o di Bàino. Il tono, i temi, la resa stilistica, la sintassi,
il linguaggio stesso, sono fortemente personali e marcati in ognuno di essi, il che non ci impedisce
tuttavia di indicare alcune caratterstiche di fondo. Prima di tutto c'è il loro modo di porsi davanti ad
una tradizione poetica così assidua ed ininterrotta come quella napoletana, il loro modo di affrontare
la propria, irriducibile, anxiety of influence, particolarmente nei confronti della tradizione del cantabile
digiacomiano, che ha improntato tutta la poesia napoletana di questo secolo, coinvolgendo anche forti
personalità come De Filippo e De Curtis, che sono poi due dei maggiori continuatori del verismo
piccolo-borghese, come fa notare Spagnoletti. Il rifiuto secco della tradizione melica da parte di
questi poeti è un'operazione al contempo ideologica e letteraria di grande portata, con penetranti
risvolti anche antropologici, in quanto mira al recupero di una specificità culturale sepolta sotto il
peso dei modelli imposti dalla cultura egemonizzante, ma anche del bozzettismo letterario, del
folklorismo, della canzonetta e del cantabile (basti pensare all'importanza ed allo spazio concesso alla
canzone nell'antologia di Consiglio). Lo strumento essenziale alla ricostruzione di una cultura e di
una memoria personale ed autentica, come osserva Luigi Reina(2), è il neodialetto, nella misura in cui
riesce a liberarsi dalle pesanti ipoteche dell'impressionismo melico (Di Giacomo), o del
documentarismo folklorico (Russo, Viviani), ed uscire con un colpo d'ala dall'ambito di temi e motivi
tradizionalmente circoscritti e riduttivi. Rifiuto allo stesso tempo etico ed estetico della tradizione
napoletana, nota Brevini parlando di Serrao(3), perché il poeta neodialettale napoletano respinge sia
l'apologia della miseria che la cantabilità del linguaggio, e pone la sperimentazione linguistica al
centro della sua contestazione, come rileva lo stesso Serrao:
Oggi giungo al dialetto e ne assumo responsabilmente l'impiego soprattutto, da un
lato da una esigenza di concretezza operativa ed espressiva, con il proposito di
recuperare all'esistenza che conduco quei valori antropologici per troppo tempo
inespressi e addirittura relegati ai confini della vergogna familiarsociale; dall'altro, e
contemporaneamente, da un movente psicologico: la religiosa necessità di instaurare
con il padre morto un dialogo di verifica del vissuto, dei come dei perché, nell'unica
lingua in definitiva comune, di eguale lunghezza d'onda, una lingua di possibile intesa
rinvenuta nel luogo dove affondano le radici di famiglia, dove antropologia e memoria
hanno lasciato sedimenti(4).
Il neodialetto è quasi sempre per i neodialettali un dialetto periferico, marginale, lontano da qualsiasi
tradizione letteraria, spesso contraddistinto da forme arcaiche o cadute in disuso. Per Serrao è quello
di Caivano che, come ci avverte l'autore stesso, è più duro ed aspro di quello napoletano, e
contribuisce notevolmente al senso di estraneità e di spaesamento che si avverte nelle sue poesie. Per
Michele Sovente, che scrive in italiano, latino e dialetto, in quella che lui chiama "una lingua una e
trina", il neodialetto è quello marginale di Cappella. Dice Sovente:
È scaturito da un impulso interno, dal bisogno di portare alla luce schegge sonore,
barlumi di una età lontana dai contorni fiabeschi e primitivi, manifestazioni di energia
vitale, di fisicità, figure e gesti elementari, nuclei di pensiero e di visionarietà che
configurano un universo dove fascino e paura, sortilegio e smarrimento, solitudine e
fusione co la natura procedono sempre all'unisono. Da qui discende il mio
convicimento che tra latino, italiano e dialetto non ci sono divergenze o
contrapposizioni.(5)
Il multilinguismo è uno degli aspetti caratterizzanti della poesia neodialettale. Esemplare in questo
senso è la poesia di Bàino, che in Ônne 'e terra spinge le sue precedenti esperienze in lingua,
maturatesi nell'ambito del Gruppo del '93, ad una marcata intensità espressionistica, che gioca sulla
stratificazione dei piani stilistici e strutturali e sulll'intreccio di codici e lingue (italiano, latino,
francese, inglese, arcaismi, altri dialetti), ma eleggendo per la prima volta in questo volume il dialetto
a struttura portante su cui s'innestano gli altri linguaggi. La presunta missione consolatoria del
dialetto viene nettamente respinta, per poter puntare invece sulla creatività e sulla sperimentazione:
Il dialetto. Non sentito come vergine vena, come il filone non sfruttato, l'attrezzo
insolito da contrapporre a una lingua standard sempre più irreale. Non si danno oasi.
L'uso che se ne può fare è mediatissimo. L'esperienza del "basso" e del "corporeo",
anche quella, non è vivibile se non come possibilità dell'immaginazione.(6)
"La rivendicazione di Bàino", osserva Clelia Martignoni nella prefazione a Ônne 'e terra, "accentua
la libertà espressiva del dialetto, strumento non cogente più di altri strumenti, dunque sottolinea la
responsabilità creativa di colui che scrive e le possibilità sperimentali, dialettiche, contraddittorie,
perseguibili entro ogni ricerca linguistica, al di là di facili canoni." Anche per Pignatelli, pseudonimo
di un importante membro del parlamento italiano, ed una delle scoperte più recenti della poesia
napoletana, il dialetto, che è un napoletano fortemente personalizzato, è lo strumento con cui viene
esorcizzata una tradizione ormai logora e stanca, come nota Tullio de Mauro nella prefazione al libro
di poesie Pe cupià o chiarfo (Per copiare il temporale):
Egli dichiara inoltre la sua distanza, la sua volontà di distanza da una napoletanità
facilmente canora. Le scelte lessicali apparentemente divaricate tra neologismi e
arcaismi colti, giustificati e quasi assaporati nelle note al testo convergono in realtà
verso l'obbiettivo di esorcizzare una napoletanità di superficie e di facile maniera.
Non è a caso che anche Serrao aggiunge un glossario a 'A canniatura, le cui annotazioni non sono
semplici appunti filologici ed etimologici, come nota Spagnoletti, ma "veicoli a loro volta di poesia,
nel senso che da tali note si sprigiona spesso qualche verità ulteriore, che la poesia da cui dipendono
aveva trascurato."(7) L'attenzione filologica diventa lo strumento di una ricostruzione linguistica,
antropologica, memoriale di un mondo e di una cultura.
Ma non si tratta ovviamente solo della scelta dello strumento linguistico. Leggere una poesia
di Serrao, anche, e forse in maggior misura, per chi conosca la poesia dialettale napoletana, significa
avventurarsi in un territorio improvvisamente sconosciuto, disorientante, dove sono scomparsi di
colpo tutti gli usuali punti di riferimento, le abituali aspettative, le tracce rassicuranti di una continuità
lessicale e stilistica. La poesia di Serrao ha un effetto sconvolgente perché è assolutamente nuova,
senza precedenti o riscontri riconoscibili, ricrea continuamente il linguaggio nel suo intimo, spinge
la sintassi ad esiti inquietanti, a volte di estrema densità e concetrazione, ma anche di segreta armonia
ed equilibrio. È una poesia d'urto, che cancella sistematicamente ogni potenziale tendenza
all'orecchiabilità, alla scorrevolezza, alla parola facile. Gianni D'Elia osserva che Serrao "pratica un
verso libero per accumulazione, in cui il dialetto è trattato per dissonanze e stridori".(8) Ritornerò sulla
questione centrale della dissonanza, ma intanto D'Elia rileva che "la novità acustica è anche critica,
poiché incide sui significati rifiutando col canto il tema 'poetico', puntando insomma sulla prosa dei
giorni e sull'impoetico dell'esistenza". "La morale semplice ed estrema del grande valore di tutte le
cose", nelle parole di Monica Gemelli.(9) È per questo che la poesia del Serrao potrebbe definirsi "'O
cunto de''ccose piccerelle, come suggerisce il titolo di una delle sezioni del libro:
Dint'a na notte mariuncella cose
'e niente spatriate e sgrimme pur'esse ca nun tèneno
cuntarielle 'a cuntà: rilorge quacche
libbro nu lappese 'nguacchiato
'e gnostra 'mponta e 'o cantaro addereto
'a culunnetta, ruseca 'o lietto quanno
spànteco, quanno cu' maggio stréuzo
m'avoto, doce mese accreanzato
'mman'a cchillo accreanzato assaje.
In una notte mariola cose/ da niente disperse e aggrinzite anch'esse senza storie/ da raccontare:
orologi qualche/ libro una matita macchiata/ d'inchiostro in punta e il pitale dietro/ il comodino,
cigola il letto quando/ spasimo, quando in questo maggio strambo/ mi rigiro, dolce tenero mese/ una
volta tenerissimo.
E si veda ad esempio lo stesso motivo delle piccole cose che testimoniano e incarnano la sofferenza
dell'essere, la montaliana foglia che s'accartoccia nella poesia intitolata appunto 'O cunto d''e ccose
piccerelle:
Chiù assaje 'e ll'at'anno s'arrepecchia 'a fronna
azzelisce s'abbocca comme vó
Ddio ('o Ddio 'e tutte 'e ffronne)):
Racconto delle piccole cose - Più dell'altr'anno aggrinzisce la foglia/ rabbrividisce s'inclina come
vuole/ dio
E così i "patimienti" in Michele Sovente, nella poesia "I riggiole" (Le piastrelle):
Senghàte trèmmano 'i riggiòle
quanno ce cammini, tutt''a casa
abballa, na casa ca 'ncuorpo tène
tanta patimiénti, sèggie e spiécchie
se gnótteno póvere e vvócche sgrignate.
..pe ssótto
i riggiole 'mbaranza se mòveno
e scòccano 'i ccòse (o ll'ómbre?)
r''u piano accanto.(10)
Le piastrelle - Tremano lesionate le piastrelle / appena ci cammini, tutta la casa / balla, una casa
che ha in seno / tanyti patimenti, sedie e specchi / inghiottono polvere e bocche oscene / ... sotto le
piastrelle a schiere si muovono / e schricchiolano le cose (o le ombre) / del piano attiguo.
Vrénzole (brandelli, cose di poco conto) è poi il titolo della prima sezione di Ônne 'e terra di Bàino,
frammenti di una realtà avvilita da una vana scansione temporale:
se só' ddrogate 'e ragne
'int 'a sta casa: a 'nu pizzo
d''a felìnia só' pignuole (uh!,
'nzin' afflezione), a n'ato
làssano 'o vvacante
si sono drogati i ragni / in questa casa: in un punto / della tela sono meticolosi (uh!,/ fino al
tormento), in un altro / lasciano il vuoto.
Serrao, ci avverte ancora Spagnoletti, taglia corto coi precedenti illustri della linea Russo-Di
Giacomo, per ricollegarsi con i grandi momenti della lirica napoletana, da Basile al Capurro, non a
caso citati in epigrafe a 'A canniatura. La genealogia letteraria di Serrao sarebbe dunque Cortese-Basile-Sgruttendio-Capurro, ma non, beninteso, nel senso riduttivo di "influenza", quanto di recupero
di una tradizione forte e ricca, e di una espressività a volte ruvida ed intensa, che segnano i migliori
risultati della grande poesia napoletana. Nei poeti neodialettali campani il superamento della
tradizione si muove in direzione di una maggiore possibilità di elaborazione, di assolutezza, di
polivalenza, di intertestualità, di annullamento della contrapposizione natura-cultura, poesia alta e
poesia popolare, del concetto stesso di bilinguismo e diglossia. Il dialetto si carica di multivalenze,
di risonanze, di rimandi intertestuali, forza la realtà con uno scarto verso l'ansia metafisica, la
concitazione barocca, come in Serrao, o l'irrazionale linguistico, il surreale, come in Sovente, o
l'espressionismo dedalico e babelico, come in Bàino. Tommaso Pignatelli, sono parole di Vittoriano
Esposito, "rompe con la tradizione melica d'ispirazione propriamente popolare e perfino con quella
d'intonazione alta, per farsi interprete dei bisogni più riposti dell'anima, adottando moduli e
accorgimenti tipici della lirica moderna, dall'analogia alla trasparenza metaforica, dalla simbologia
allusiva alla polivalenza dell'imagine, dal 'brivido sonoro' alle più arcane suggestioni musicali."(11) Ma
questo superamento significa soprattutto svincolare la poesia dai referenti culturali del linguaggio,
in un processo continuo di reinvenzione, di estraniamento.
Si veda ad esempio il paesaggio emblematico di Serrao (ed anche la Napoli tetra di Bàino),
che non conosce la solarità napoletana, ma è sempre cupo di pioggia, freddo, neve, e non solo "perde
ogni fragranza vegetale, ma diviene materia delle ferite dell'anima, piaga che suppura nel vuoto",
come osserva Pietro Civitareale:(12)
C'è rummasa 'a scumma d''a culàta mo'
na chiorma 'e muscille che s'aggarba
pezzulle 'e pane sereticcio quacche
"silòca" 'nfacc'ê pporte arruzzuta
e 'o viento nu viento ahi na mal'aria
'a quanno se ne só
fujute tutte quante secutanno 'o ciuccio 'nnante, 'e notte
cu''a rrobba 'a robba lloro ('o ppoco pucurillo ca serve e tene)
e 'a pòvere s'aiza 'int'a stu votafaccia
pe' ll'aria che se tegne d''o janco d''a petrèra.
Mal'aria - C'è rimasta la schiuma del bucato ora/ una marmaglia di gatti che assapora/ pezzi di
pane muffo qualche/ "affittasi" sulle porte arrugginito/ e il vento un vento ahi una mal'aria/ da
quando se ne sono/ fuggiti tutti seguendo l'asino avanti, di notte/ con la roba di casa (il poco poco
che serve e si mantiene)/ e la polvere si solleva in questo voltafaccia/ nell'aria che si colora del
bianco della pietraia
Un altro elemento della poesia neodialettale napoletana, così evidente nel componimento
appena letto, è la densità fonica e semantica del verso, come necessario correttivo a qualsiasi rischio
di facilità ritmica, e mi pare che la grande novità di questa poesia si manifesti in gran misura proprio
al livello fono-sintattico. Si leggano ad esempio questi versi di Tommaso Pignatelli:
A squatre, comme si l'èbbreca do jaio
avissa già stennechiato 'e scelle e sciazziasse,
accunciate 'ncoppa a palanche gialanti,
'ncoppa'a ièstrece e fummo,
e nu trase e gghiésce spuntuto ch'allicuorda
o còcere de cantine 'e tutti puórti...(13)
A frotte, come se 'era glaciale / avesse già disteso le ali e lerciasse, / issate su pali giganti, / su
voluttà di fumo, / e un andirivieni aspro che ricorda / la cucina delle trattorie di tutti i porti...
Nota de Mauro che "è soprattutto il ritmo con le sue fratture, con gli addensamenti ed i rallentamenti
sapientemente alternati, a tener lontana ogni facile melicità."(14) E si veda Sovente:
Chiuóvo sbattuto 'ncasato
'int''u muro, 'a càucia
tremma, se ne care nu piézzo
uócchie e mmane ammarciano
'nzieme, nu sgarretiélle abbasta
pe se sentì comme fò male
'u martiéllo (15)
Chiodo picchiato pigiato / nel muro, la calcina trema, / se ne stacca un brandello, / occhi e mani
lavorano insieme, / basta un piccolo errore / perché si senta come fa male / il martello.
In Bàino la foltezza del dettato viene intensificata dalla infrazione e sovrapposizione dei piani
sintattici e strutturali, dallo scontro di materiali incongrui, dalla deformazione parodica:
a)
jute pe' ll'aria, sottencoppa, asciute d'asfardo cu 'a capa
'nvacanza e vacante a ff'à nu stracchimpacchio 'e carnumma
ciacèlla accisaglia accedetorio,
a ffà maciéllo e chianca e scannatorio-scennufregio.(16)
a) andate per aria, sottosopra, uscite dall'asfalto con la testa / in vacanza e vuota a fare una
balordaggine di carnume / carnina ecidio uccisione, / a far macello e macelleria e scannatorio-strage.
È però con Serrao che la sintassi raggiunge i risultati stilistici più interessanti, mediante un
verso lungo mobile e vario, capace di concentrazioni e contrazioni violente, di forte percussività, ma
anche di suprema leggerezza, di sognanti sospensioni, di pause e soste meditative in cui "si spegne
ogni sonorità" (Maffia), ma che si caricano di risonanze profonde, di quella tristezza esistenziale (la
pecundrìa) che Spagnoletti contrappone alla tradizionale malinconia napoletana, riconosciuta dallo
stesso Consiglio come caratteristica fondamentale dello spirito partenopeo. Franco Loi, ravvisando
l'importanza dei puntini sospensivi in Serrao, invita a farne uno studio sistematico, proprio perché
i puntini sono il segno grafico della "canniatura" (la fessura) che dà il titolo al libro, sospensione tra
sogno e realtà, passato e presente, meditazione e subconscio. Ma per il verso lungo di Serrao, per la
sua capacità di orchestrazione sintattica, si veda ad esempio la poesia "Trasette vierne", fatta di un
solo periodo:
Trasette vierno...
Trasette vierno ca 'ntosseca ll'aucielle, pure
d''o malaùrio, quanta aucelluzze
se fida 'e 'ntussecà picciuse
pe' na cucchiatella 'e semmente e 'a ggente
vascia, me darraje na voce
ggente d''a mia 'e piède dint'â neve
'nfì a che 'a neve se mantene toma
'ncopp'a stu muojo 'e pacienza arresugliato
cu' ll'uocchie 'a luntano...
e nce siente 'e spicà
'o silenzio si attòcca, nu sisco
'e vocca
a malappena na tagliata d'aria.
E arrivò l'inverno - E arrivò l'inverno che avvelena gli uccelli, perfino / del malaugurio, quanti
passeri/ ce la fa ad amareggiare lamentosi/ per un mucchietto di semi e la gente/ povera, te ne
accorgerai gente mia con i piedi nella neve/ fino a quando dura la neve quieta/ su questo moggio
di pazienza raspato/ con gli occhi da lontano.../ e lì senti crescere il silenzio semmai, un fischio/ di
bocca/ a malapena uno sfregio d'aria.
Bisognerebbe a questo punto riprendere il discorso sulla dissonanza, a cui si era fatto cenno
prima. Quasi tutti i critici che si sono occupati di Serrao hanno messo in risalto la presunta asprezza
del suo dettato, la densità fonica, la voluta frantumazione del ritmo, e Serrao stesso definisce duro,
distonico il dialetto di Caivano. E questa è certo l'impressione che si ha da una prima lettura, che però
adesso, dopo una frequentazione più approfondita e costante, mi sembra ascrivibile ad un equivoco
fondamentale. Avendo tradotto in inglese 'A canniatura, mi considero in un certo senso un lettore
privilegiato di Serrao, proprio perché per me tradurre una poesia è il modo migliore per capirla
veramente, ma certo non in un senso intellettualistico. È il modo più sicuro per entrarvi dentro, per
assimilarla visceralmente. Una volta tradotto un libro di poesie, le poesie stesse si possono col tempo
anche dimenticare, ma quello che rimane indelebilmente, inconfondibile ed irriducibile, è la voce del
poeta, il ritmo, la musicalità, la qualità sonora del dettato. Ognuno dei poeti che ho tradotto
(Campana, Luzi, Sereni, Pierro, Rimanelli ed altri), mi ha trasmesso una sua voce assolutamente unica
ed inconfondibile, e posso quindi dire che la qualità principale del dettato di Serrao che ho
interiorizzato non è affatto di dissonanza, di durezza, ma un senso profondo di armonia, di equilibrio
ritmico, di modulazione compositiva. È innegabile che ci siano delle resistenze foniche, densità
consonantiche, distorsioni sintattiche, ma esse sono il controcanto di una fondamentale misura ritmica
su cui si adagia la tonalità di base, quella tristezza esistenziale di cui si parlava. E questo è verificabile
ad ogni passo, in ogni pagina del libro. Basti leggere la bellissima poesia "Na rosa rosa" per
constatare di quale leggerezza ed eleganza sia capace il verso di Serrao:
Na rosa rosa
Po' me parlate cu' na lengua nova
e antica, na maglia 'e lana p''a staggione
malamènte e senza 'e vuje che só ...
'Nfì a Padua chiove 'ncasa a cchiovere
'nfì a Padua 'e sciumme speretate schiantano
chiuppe e ggranate
uno addereto a ll'ato 'e munacielle
'e Ddio ...
E senza 'e vuje che só, 'ngrillato
'a nu scuncierto 'e terre
che ne sarrà 'e sti mmane
c''a tantu tiempo astregno dint'ê mmane
p'artèteca, chi 'o ssape na pacienza ca nun serve
cchiù...
Ma senza 'e vuje só nniente e dicìteme no
nun è overo ca sulo fatte a vvino
dint'ô bbicchiere s'acconcia 'a vita
addó na rosa rosa sciurèva, 'e figlie
(ma p'ê cchiammà, p'ê ffa saglì, sapìsseve ...)
e 'a casa, pure 'a casa lassa 'o puorto
carriata 'a nu lenzúlo 'e viento...
Po' 'e ccanzone, chelle a ffronna 'e limone 'e quann'èremo
verrille sona chitarra sona nc'è rummasa
na corda, si me parlate cu' na lengua nova
e antica, na maglia 'e lana p''a staggione
malamènte e stu pparlà me sisca dint'ê rrecchie
cu "ât" e "is" 'nnante a nu bbicchiere
'e vino
addò na rosa rosa sciurèva...
Una rosa rosa - Poi mi parlate con una lingua sconosciuta / e antica, una maglia di lana per la
stagione / invernale e senza di voi che sono //Fino a Padova piove, acqua a dirotto / fino a Padova
i fiumi invasati sradicano / pioppi e melograni / uno dietro l'altro i folletti / di Dio ...// E senza di
voi che sono, allarmato / da uno sconcerto di terre / che ne sarà di queste mani / che da tempo
stringo nelle mani / per il tremito, forse per una pazienza che non serve / più .../ Ma senza di voi
sono niente e ditemi no / non è vero che solo da ubriachi / s'aggiusta la vita in un bicchiere / dove
una rosa rosa fioriva, i figli / (ma per chiamarli, per farli salire, sapeste...) / e la casa anche la casa
salpa / sospinta da un lenzuolo di vento... // Poi le canzoni, quelle a fronna 'e limone di quando
eravamo / ragazzi sona chitarra sona nc'è rummasa / na corda, se mi parlate con una lingua
sconosciuta / e antica, una maglia di lana per la stagione / invernale e la vostra parlata mi fischia
nelle orecchie / con "ât" e "is" davanti a un bicchiere / di vino /dove una rosa rosa fioriva
Bisogna aggiungere che Serrao è maestro della chiusura forte, la disposizione a raccogliere
in uno o due versi il senso intimo di uno stato d'animo o di un componimento, ed in questo diventa
ancora più evidente quel senso di misura a cui si è accennato, che è anche capacità di concentrazione,
e che genera versi di una limpidezza petrarchesca. Faccio solo un paio di esempi, ambedue da poesie
dedicate al padre:
da "'O vide 'e venì"
po'
'a rusàta d''o suonno torna a frémmere
vicino ê llamparelle d''a campagna una ne stuta una
se mantène 'mpilo 'mpilo e vene
juorno lassa fa Ddio lucente.
poi/ la rugiada del sogno torna a fremere/ accanto ai focherelli di campagna, uno ne spegne uno/
a malapena resiste e si fa/ giorno grazie a Dio luminoso.
L'ultimo verso è forse uno dei più belli del libro, e non a caso è un endecasillabo un po' dissimulato,
il che richiederebbe tutto un discorso sul modo in cui Serrao sovverte montalianamente il verso
tradizionale alternando il verso ipermetro ad un endecasillabo non sempre immediatamente
riconoscibile od individuabile, ma certamente presenza ritmica costante e sistematica. Come del resto
si nota nell'altra chiusura magistrale, dalla poesia "Acussí trase vierne..."
Signò, t'arraccumanno 'a pecundrìa
'e chistu munaciello aggarbato
e ll'àsteme d''a mia 'nfronte d''a mia
sott'ê ppapelle...
Signore, ti affido la malinconia/ di questo folletto gentile/ e i segni della mia in fronte della mia/
sotto le palpebre...
L'endecasillabo diventa poi il verso determinante nelle ultime interessanti prove di Serrao, appena
pubblicate, che sono per lo più traduzioni di Belli e principalmente di Catullo, e qui bisognerebbe
almeno segnalare l'importanza della traduzione per questi poeti. Le poesie di De Natale sono quasi
tutte traduzioni dal francese, Sovente traduce dal Belli, Bàino traduce in napoletano Góngora,
Frénaud e Sereni.
Va infine chiarito un altro equivoco di fondo, in cui a mio avviso è caduto anche Brevini,
quando dice che la materia della poesia di Serrao "è spesso di tipo autobiografico, ma isolata in una
luce di singolare impersonalità... Non c'è l'io, ma il dolente premere di una realtà che chiede di essere
detta."(17) Sull'antisoggettivismo di Serrao si sono soffermati in molti, e tuttavia, come per la questione
della dissonanza, mi pare che questa impersonalità sia soltanto apparente, di superficie, e che nel
profondo si avverta invece tenace l'angoscia dell'io, che colora di sé tutto il libro, e do quindi ragione
a Maffia quando afferma che "la voce di Serrao è alta, dolente, personalissima, come se avvertisse
che nella parola deve immettere quanta più soggettività è possibile, in modo da dare una coloritura
tangibile e riconoscibile ad ogni parola ed ad ogni espressione, ad ogni pensiero e immagine".(18)
Il discorso su Serrao, per concludere, mi ricorda alcune considerazioni da me fatte tempo fa
su Campana, che ho letto assiduamente e quindi tradotto in inglese. Il nome di Campana non è affatto
casuale quando si parla di Serrao, particolarmente per quanto riguarda l'aspetto fono-sintattico, ma
anche per la spinta verso l'assoluto che segna la poesia di entrambi. Dicevo di Campana che
l'apparente avanguardismo e frantumazione del verso nascondevano un bisogno profondissimo di
armonia, che si univa alla necessità di recuperare il meglio della nostra tradizione letteraria. Penso che
lo stesso si possa dire di Serrao, che con le sue poesie in dialetto si va ormai affermando come una
delle voci più alte della poesia italiana contemporanea.
LUIGI BONAFFINI
Brooklyn College
Opere in dialetto
Mariano Bàino, Ônne 'e terra, Napoli: Tullio Pironti Editore, 1994.
Salvatore Di Natale, da I novissimi, Torino: Einaudi, 1972
Tommaso Pignatelli, Pe cupia' 'o chiarfo, Roma: Aise, 1994.
Achille Serrao, 'A canniatura, Roma: Editori & Associati, 1993.
--'A canniatura/The Crevice, traduzione di luigi Bonaffini, New York: Peter Lang, 1994.
--'O ssuperchio, Roma: Grafica Campioli, 1993.
--'Semmènta vèrde, Roma: Edizioni dell'Oleandro, 1996.
Michele Sovente, da Via terra, a cura di Achille Serrao, Udine: Campanotto, 1993.
NOTE
1. 1.Mario Chiesa-Giovanni Tesio, Le parole di legno. Poesia in
dialetto del '900 italiano (Milano, Oscar Mondadori, 2vv., 1984),
p.36.
2. 2."La poesia neodialettale", saggio introduttivo all'antologia Via
terra, curata da Achille Serrao (Udine: Campanotto Editore, 1992),
p. 13.
3. 3.Prefazione a 'O ssuperchio, di Achille Serrao, (Monterotondo:
Grafica Campioli, 1993).
4. 4.Diverse Lingue, n.9, gennaio 191, pp. 19-21
5. .Enne, n.89, 9/15 dicembre 1991, p. 23.
6. .Baldus, ed. Nuova Intrapresa, n. 2, agosto 1992, p.10.
7. .Prefazione a 'A Canniatura.
8. 8.Il manifesto, giovedì, 14 ottobre 1993.
9. 9.Il mattino, 8 febbraio 1995.
10. .Da Via terra, p. 206.
11. 11."L'ignoto poeta del Parlamento italiano," Oggi e domani, n. 5,
maggio 1995, p. 25.
12. 12.Forum Italicum, V. 28, n.2, autunno 1994, p. 359.
13. 13.Pe cupià 'o chiarfo, p. 18.
14. 14.Ibid., p.5.
15. 15."'U chiuovo", Il Belli, n. 3, aprile 1992.
16. .Ônne 'e terra, p. 39.
17. 17.Prefazione a 'O ssuperchio, p.6
18. 18.Rivista italiana di letteratura dialettale, n. 6, luglio-dicembre 1993, p.33.
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