Cecilia Bello

L’«officina polisemica» di Cesare Ruffato

Il viaggio poetico di Cesare Ruffato attraversa largamente e con puntualità di tappe la seconda metà del secolo, dal 1960, anno della sua prima raccolta, Tempo senza nome , fino ai recenti anni Novanta, al 1996 di Etica declive, e al 1998 di una silloge voluminosa, compatta, densa, Scribendi licentia, corpo quasi integrale della sua produzione poetica in dialetto, resa pubblica a partire dal 1990, ma risalente nella pratica privata già al 1960.

Le prime tre raccolte di poesia, Tempo senza nome, La nave per Atene, Il vanitoso pianeta - rispettivamente del 1960, ’62, ’65 - appaiono ancora debitrici, ma in maniera progressivamente scalare, alla temperie culturale della lirica italiana del dopoguerra, ermeticamente quando non simbolisticamente connotata. Ruffato vi mostra infatti una certa tendenza effusiva, spesso legata a dettagli, situazioni, elementi di natura o di paesaggio - uccelli, vento, mare, cielo, nubi, torrenti, sassi - indubbiamente concreti, “reali”, ma portatori comunque di una forte carica evocativa, di un notevole potere di suggestione:

Si spande un asfalto teso
sulla terra sabbiosa che ammucchia
barriere di bosso e di tabacco,
fa da serpe ai pagliai lacerati.
Il mezzogiorno, limpida Pomposa,
appiattisce i silos, i tetti
accaldati, affonda le pinete,
i nostri globi. Si scavano voci
nei canali, nuovi guadi, arrampicare
il vertice. Lontano intride
il “fall-out” un mesenchima
infranto. Il getto alle falangi
è duro, il giorno,
un diaframma il mare.

È molto forte qui il carattere sensibile, quasi tattile delle immagini; accanto ai dati di natura, mai assunti semplicemente o serenamente come tali, ma in certo senso “discussi”, fatti slittare o cozzare tra loro, compaiono i segni dell’attività umana che quei dati mette in opera: nell’esempio sopra riportato è l’«asfalto» che mima una «serpe» sinuosa, sono i «pagliai», «i silos, i tetti», è il «fall-out», la ricaduta di particelle radioattive che segue le esplosioni nucleari, elemento qui tanto più sinistro in quanto intride «un mesenchima / infranto», un tessuto embrionale qui colpito nella sua integrità, evidentemente ferito. Numerose sono le spie di una negatività subdola: l’asfalto-serpe, le «barriere di bosso e di tabacco», l’atmosfera di soffocamento del mezzogiorno che «appiattisce» i silos e «affonda» le pinete, il getto «duro» alle falangi, il mare che è liquido «diaframma», sottile piano separatore. Già in queste prime raccolte l’attenzione coloristica alle sfumature della luce, alle ore del giorno, agli eventi biologici dichiara, oltre ad una grande sensibilità e puntualità d’osservazione, anche una rilevante propensione a non risolvere la poesia nel circolo semplificante del sentimento, del flatus elegiaco.

Certamente «gli esordi di Ruffato sono nell’ambito lirico, ma non in una sostanza crepuscolare come qualcuno vi ha veduto; vi è un intimismo di fondo, è vero, ma vi è anche la vocazione a rompere questo intimismo», una vocazione che di fatto amplia lo statuto della poesia, portandola ad assumere una pluralità di istanze che poi si faranno, negli anni, contestative, sociali, civili, etiche.

Dopo i primi tre libri di poesia, Ruffato inaugura una nuova stagione caratterizzata da un approccio alla scrittura poetica di più individuabile originalità: nel 1969, infatti, con la raccolta Cuorema Ruffato raggiunge un notevole grado di autonomia rispetto alla tradizione, immettendo nella propria scrittura quella pratica lucida, mirata e tenace della sperimentalità verbale che diventerà poi la cifra caratteristica del suo modo di intendere ed esercitare poesia. L’anno di pubblicazione è di certo uno dei più significativi per le contestazioni culturali, politiche e sociali in Europa ed in Italia; nel panorama letterario italiano, inoltre, il ’69 rappresenta un momento al tempo stesso delicato e radicale. È l’anno in cui la neoavanguardia tocca il suo culmine - culmine anche come compimento e superamento di alcune, almeno, delle sue istanze - è un momento ancora molto al di qua del riflusso delle “parole innamorate” degli anni Settanta, è un anno ancora in grado di produrre e gettare semi di rinnovamento e di polemica, di denunciare necessità di aperture su ampi fronti. Ruffato, con Cuorema e, qualche anno dopo, con Caro ibrido amore (1974), si dimostra non solo sensibilissimo ai fermenti innovativi ed alle molteplici spinte contestative di quegli anni, ma si dimostra anche scientemente capace di agire dall’interno di quelle spinte e di quei fermenti, capace di appropriarsene in maniera fattiva, di esserne, piuttosto che influenzabile spettatore, impegnato e compromesso attore in persona. L’adesione ai moti di polemica e di contestazione avviene, nei suoi versi, non come riflesso dell’epoca, ma come assunzione in proprio, in quanto poeta, di quelle istanze e contemporaneamente come discussione dello stesso ruolo del poeta, della funzione e delle possibilità d’intervento e d’impatto della scrittura. Sul finire degli anni Sessanta, si apre quindi, per Ruffato, una fase di feconda e duttile sperimentazione poetica. Dall’abolizione del punto fermo, che trasforma i componimenti di Cuorema in una «esuberante “colata” linguistica, in cui l’impalcatura sintattica è sostituita dalla tecnica del montaggio», al plurilinguismo ed ai numerosi composti - vere e proprie parole-baule o parole-valigia - di Caro ibrido amore. È una fase interessantissima, questa della prima e già profonda e matura sperimentazione di Ruffato, una fase complessa di tentativi e tentazioni di parola, di ibridazioni, mescolanze, contaminazioni dei dilaganti luoghi del consumo e dei drammatici teatri della guerra - erano peraltro gli anni del Vietnam e ce ne sono ben tracce nei versi. Entrambe le raccolte sono volutamente storicizzabili, ancorate saldamente alle opere ed ai giorni di quegli anni: discutono temi complessi e largamente umanitari. Cuorema nasce sulla forte suggestione del primo trapianto di cuore, realizzato da Christiaan Barnard:

Tre Dicembre 1967

Ospedale Groote Schuur di Cape Town

Christiaan Barnard dà l’annuncio

il primo trapianto di cuore nell’uomo

i fautori dei cuori artificiali anticipati

dai fautori del trapianto di cuore umano

a buon punto la tecnica chirurgica

ormai più di cento i trapianti in vari paesi

ma numerose questioni

di ordine biologico etico giuridico

attendono risoluzioni

scienziati autorevoli esprimono

pareri non sempre concordi

protesteranno sursum corda

cuore-mamma ce n’è uno solo

che fa la vita tentazione

padrone assoluto dell’uomo

buttafuori sangue aria rifiuti

quando alla morte viene pesato

Anubi controlla l’indice segnato

questi leggiadri odorosetti cuori

furono già ninfe pastori tesori

e più saranno nel mondo intero

muta polpa da cimitero

Avanzamenti della scienza, interventi chirurgici, dubbi morali e pratici, discrepanze d’opinioni, questioni di morte e vita; interesse per le nuove prospettive e, insieme, scetticismo, questo sembra dire un testo tutto intessuto di dati e chiuso quasi in tono di filastrocca, con tanto di rima baciata (pesato:segnato, cuori:pastori:tesori, intero:cimitero). Questioni non univoche che la poesia non pretende di risolvere, ma certamente sa di dover porre con forza all’attenzione. Già il titolo del libro presenta più livelli, più possibilità di lettura: Cuorema, oltre ad apparire formato sulla base suffissale -ema comune a molti termini della linguistica che indicano unità di valore distintivo - fonema, morfema, semema, monema -, è anche curiosamente, ironicamente consonante con “patema”; Cuorema ha poi, di certo, un trasparente sentore scientifico, da termine nosologico, analogo, come appare, ad enfisema, esantema, eritema, empiema, eczema; con una meno ovvia suddivisione, inoltre, si può ottenere “cuo-rema” unione di cuore e rema, che in greco significa “parola”, sì da ottenere - tra le altre aperture polisemiche del titolo - anche “cuore-parola”, o “parola del cuore”, “poema del cuore”. Caro a tanta tradizione lirica come sede di ogni fremito sentimental-emotivo, qui desublimato e ricondotto al suo valore di organo vitale dal recente trapianto, che lo ha reso «pezzo di ricambio nell’officina / forma combustibile cifra dono», il cuore protagonista di questa raccolta viene ad oggettivare in sé i nodi problematici del progresso, le stratificazioni culturali e storiche, le aspettative nel futuro:

Povero cuore non sei fatto solo per amare
ma per soffrire imbrunire insenire ammalare
come un prato verde rischi d’intristire
se humi e sole tardano a venire

***

In testamento consegnare il cuore
a un dabbene metamorto non compos sui
così nel fragile esistenziale
non c’è più stile ma metavivere
in attesa di farsi dono o di riceverlo
e veramente un nostro frammento
potrà legarsi monile tessera della banca degli organi
elevazione dell’indice sopravvivenza


i miei vasi si venderanno all’asta
non mi preoccupa il prezzo
ma le mani del venditore
e le case degli acquirenti

Un po’ di noi si continua morendo
io in te o tu in me sarebbe tenerezza
perseguire astutamente fine bellezza
dadaschermaglia ad occhi aperti sacrificio comunicante
saresti disintegrazione integrante.

Come poi in altre raccolte, Ruffato tocca qui temi di profonda importanza umana, che appartengono all’ambito delle più delicate questioni etiche, sociali e civiche, e lo fa attraverso immagini che sono esatte, naturali, anatomiche, limpide e al tempo stesso complesse perché strutturate su un ampio orizzonte umanistico. I frammenti di noi, gli organi espiantati e reimpiantati, congiungono morte e vita: disintegrando un corpo possono ossimoricamente integrarne un altro, divenirne parte consustanziale. E questo passaggio, tangibile perché dovuto ad un reale organo pulsante e vivo, eppure lievissimo perché impalpabile ed impredicibile, è “discusso” nei versi di Ruffato in successioni di argomenti e visioni matericamente e poeticamente oggettivati.

Assunta e messa in campo questa incipiente vis sperimentale, Ruffato ha continuato negli anni Settanta a coltivare una scrittura dai connotati individualissimi, in antitesi sempre più netta rispetto ai ritornanti rigurgiti del neoromanticismo, semmai tangente - se si vogliono cercare contiguità - ad alcuni aspetti della scrittura della neoavanguardia, senza però per questo rientrare effettivamente a farne parte.

Tra le prove di maggiore incisività sperimentale va considerata la raccolta Minusgrafie, apparsa nel 1978 con prefazione di Aldo Rossi, programmaticamente orientata alla minorità, al minuscolo (reso estensivamente anche nell’uso dei caratteri tipografici e nell’assoluto azzeramento di qualsiasi segno d’interpunzione), dedicata a quanto pertiene alla marginalità, al represso. Qui il lavoro di sperimentazione nella stringa del verso e nel corpo stesso, minuto delle parole si fa ancor più tenace, insistito. Diviene cronico. La parola arriva ad essere sezionata, scomposta nei suoi componenti radicali, divisa nei suffissi veri o presunti da barrette oblique - «in/visibili» (p. 117) -, ma anche dai trattini e dai due punti: «ri:sata-sacca-salta» (p. 61). Non esiste più unità semantica lampante e integrale: pare di trovarsi davanti ad un’attività di laboratorio: tanto scientifica, esatta, tersa, quanto impietosa, priva di sentimentalismi e di moventi o di sbocchi lirici. La polisemia raggiunge forse in questa raccolta il suo grado più alto. Si moltiplicano i neologismi, le neoformazioni di verbi di derivazione sostantivale o aggettivale - «granchiano» (p. 57); «viastridendo» (p. 81) che è gerundio di un lemma che è a sua volta una neoformazione; «canticando» (p. 86); «cespugliano» (p. 96); «mollicano» (p. 100); concrescono su se stesse le catene di lemmi uniti da trattini «fumo-fame» (p. 24) ai limiti del paragramma; «semplice forma d’uomo-bestia-pianta» (p. 29) relazione triplice di carattere filosofico, sorta di nucleo “plenibiologico”, comprensivo delle tre diverse forme di vita; «estrusione-soffiaggio-laminazione» (p. 86); e le parole-baule come «semibeatità pacesperanza», «uomointegrototale / mutatarealtàsociale», «il musoaforisma del pianeta orridaincozza» (p.71); «libertàverità rotundofluidopermanente» (p. 77); «brecciabugia nelle deduzionipastoie» (p. 79); «luminesigenza», «lunazioneselceluna» (p.85); «bacioallegoria», «verticipupe» (p. 86); «paginecontraddizione» (p. 87); «ginandria» (p. 89) “ermafrodita” congiunzione di due traslitterazioni dal greco combinate in modo inverso rispetto alla sindrome di androginìa; «il geroglifico lirico geroparenchima» (p. 109) con evidente suggestione allitterativa e sovrapposizione di due diverse discipline e metodi di lettura: scrittura come tessuto; antichi segni decifrati da un archeologo, come tessuto biologico letto da un anatomico. Sono costruzioni stranianti, catalizzatrici di attenzione, per lo più hapax legòmena, che, accorpando e addensando lemmi in concrezione, danno vita ad inedite unità di significati e significanti. E l’uso unico di queste parole-contenitore risponde probabilmente ad un preciso rifiuto di voci definitorie valide per sempre; piuttosto Ruffato crea parole superabili, ampie nella loro capacità di comprendere e moltiplicare i significati, ma in certo senso non compiute, ancora deformabili, ibridabili in sempre nuovi accostamenti, nell’ansia di una ricerca che procede oltre se stessa, che non smette. Talvolta, poi, le parole-baule possono anche funzionare sintatticamente come aggettivazioni sostantive, come attributi o apposizioni: «abeti tuberi zeffiriguizzi vertigo / ma le paludi sargassimitraglia / plastiche interlocuzioni fresche lezioni d’anatomia» (p. 72). Fanno parte della stessa tendenza alle neoformazioni alcuni avverbi presenti sempre come voci uniche nei versi di Ruffato: «geostroficamente» (p. 57); «glomerularmente» (p. 59); «plagentemente» (p. 113). In termini linguistici e sintattici Minusgrafie è una raccolta densa in cui è difficile avvertire e catturare un senso unico: tenendo conto del livello di complessità dovuto alla mancanza di concatenazioni sintattiche ineccepibili, inequivocabili e alla presenza del lessico medico, del latino, di microincastonature di altre lingue europee, si può forse solo cercare di accerchiare i possibili significati e parasignificati, di cogliere la polisemia diffusa, tutti gli ulteriori sensi che si sviluppano dalla non univocità dei sensi. È una poesia ragionativa ma non fredda, quella di Ruffato, una poesia che detiene fermamente i propri strumenti e con quegli strumenti continuamente discute, in un inappagato processo di messa a fuoco del reale ambiguo e sfuggente. A sottolineare la distanza dal lirismo di marca tradizionale concorre qui anche la scelta - sempre di registro basso, minore - di un verso non altisonante di lunghezza e natura realmente prosastica. Un esteso verso da argomentazione che riesce a contenere ed esprimere i temi dolenti a cui Ruffato dà voce: rischi ecologici, aspetti di antropologia e sociologia, problemi vasti come il Terzo Mondo. In opposizione a tanta poesia autoriflessiva, accartocciata sulle pieghe dell’io, Ruffato pratica una poesia che discute del «piano anagogico plenario della popolazione», che di quel piano enumera con disillusione «effetti compromessi logiche / interne», e principi di intervento, o ipotetici e possibili accordi:

(ecco gli elementi principali raccomandati o
suggeriti dal comitato d’azione: a) detendere
dal trentotto al trenta per mille il tasso di
natalità nei paesi in via di sviluppo; b) costi
tuire un dipartimento “guardia” delle tendenze
demografiche; c) crociate per maternità e paternità
responsabilizzate; d) più ampio spazio di azione
alla donna nel tempo del mondo degli orologi
e del maneggio; e) educazione infantile più diversi
ficata e estesa; f) parità dello status socio-legale
per tutti i bambini nati; g) limitazione dei consumi
con sfruttamento più razionale delle risorse e
più equaordinata distribuzione dei beni e ali
menti; h) fine delle guerre di aggressione e di
ogni forma di discriminazione)
per le vaghe storielle e tutte creature barzelle
prediche lampanti sulle vie del signore
procaritatisannozero

La dimensione etica, allargata al consesso civile, appare dominante nei versi di Ruffato: non a caso uno dei tratti tipici della sua poesia è proprio il superamento della soggettività del poeta, la decostruzione della figura di poeta che dice “io” e lo intende a tutto tondo, con i suoi sentimenti straripanti, le sue involuzioni psicologiche esibite. La poesia di Ruffato - paradossalmente anche quando torna si lega ad alcuni tragici nodi della sua biografia - non è mai risolta nel circolo stretto, limitante del soggetto. E questa riduzione dell’io è stato uno dei tratti tipici della poetica della neoavanguardia, con cui - si è già detto - la scrittura di Ruffato mostra più di un punto di contatto. Antonio Porta aveva professato una vera «avversione per il poeta io» ed aveva predicato e messo anche bene in pratica in senso tutto stravolto, e sbieco, e rovesciato una vera «vocazione all’oggettività» in senso eliotiano, e si trattava spesso di vocazione sadica, di oggettività crudelissima. Certo il modo di deprimere l’io è diverso nei due casi: nella poetica neoavanguardistica ha una forte, predominante connotazione protestataria e di rottura, con sbocchi in esiti surrealisti, nella poetica di Ruffato risponde più ad una sua innata propensione all’esterno, ad una necessità etica insopprimibile, e non appare comunque principio irrinunciabile, come poi hanno dimostrato raccolte successive in cui tornano - sempre sotto rigorosa sorveglianza - alcuni dati biografici. Dando séguito ad un’indicazione di Aldo Rossi che presentava Cesare Ruffato come un «guastatore (si vorrebbe dire dinamitardo)», Ernestina Pellegrini ha infatti proposto di inserirlo «tra i guastatori dell’io della letteratura italiana contemporanea, insieme a Gadda, a Pizzuto e ad altri sperimentatori intenti ad uscire sistematicamente e furiosamente “fuori di sé”».

Ruffato procede nella sua irrequieta e feconda sperimentazione anche negli anni successivi a Minusgrafia: del 1983 è Parola bambola, che segna un ulteriore «sviluppo dello sperimentalismo sul versante della sottigliezza retorica», ricco, com’è, di soluzioni e ricercatezze stilistico-retoriche e morfosintattiche. Questa raccolta intitolata alla parola - parola con cui giocare, parola feticcio - è forse quella che con più articolazioni riflette in senso metapoetico, metalinguistico sulla scrittura. Tre sezioni delle nove che compongono la raccolta hanno un titolo tanto esplicito da assumere trasparente valore didascalico: Nei dintorni dell’enunciazione, Il nome eunuco, Proposizione ellittica. Non solo si ritrovano numerose, multiformi figure retoriche nei testi, ma gli stessi termini della retorica, che ha dalla sua un aspetto di storica scientificità, vengono direttamente usati all’interno del testo in figurazioni di secondo grado: «rosse aporie parodie / metafore sulle agognate progressive / bricolando fochettìo rancione» (p. 59) in costruzione sinestetica; «metonimie pipistrelle» (p. 73); «sciarpe paragramme» (p. 88); «effusioni chiasme e diverse» (p. 103).

Altro volume di poesia sempre intitolato alla parola, all’unità basilare della comunicazione scritta e orale, è Parola pìrola, la prima raccolta interamente in dialetto data alle stampe da Ruffato che, dopo un solo privato testo poetico dialettale del 1960, aveva pubblicato unicamente una sezione in dialetto, Minusgrafia dialettale, nel volume dedicato alla sua città natale, Padova diletta.

La estesa produzione in dialetto di Ruffato è ora compresa nel grande -già citato - volume Scribendi licentia, che riunisce le sue raccolte più importanti: Parola pìrola, I bocete, Diaboleria, Smanie, seguite da Sagome sonambole, Vose striga, Giergo mortis. Se la scrittura in dialetto può apparire oggi minoritaria rispetto alla gran massa di pubblicazioni che ci sommerge con nuove uscite editoriali quasi quotidiane, va considerato che non poche voci poetiche proprio nel Novecento hanno adottato come mezzo espressivo il dialetto - il riferimento va, come è ovvio, seppur di necessità parziale, almeno ad Andrea Zanzotto, Giacomo Noventa, Franco Loi, Luigi Meneghello, Ferdinando Bandini. Ruffato oltre ad aver frequentato il dialetto come parlante, nell’uso concreto domestico e spicciolo dell’espressione orale, se ne è servito inventivamente come poeta, utilizzando il dialetto alla stregua medesima dell’italiano, mantenendo la sua scrittura in versi sperimentale anche nel dialetto, che appare contaminato da termini tecnici, scientifici, da parole dell’italiano mediale, da neologismi, da latinismi e provenzalismi. Per quanto il dialetto indubbiamente rappresenti un ritorno alla lingua materna, al parlare ed ascoltare dell’infanzia e delle prime espressioni ai confini del preverbale, nell’operazione compiuta da Ruffato si sommano due aspetti: lingua materna da un lato e lingua sperimentale, e quindi modernissima, proiettata al nuovo, al futuro, alle neoformazioni, agli accostamenti inediti, dall’altro. È una licenza di scrivere davvero globale, quella che si assume Ruffato, una libertà di scelte di parola, di costrutti sintattici, di ritmi fluidi o spezzati, che davvero risponde lucidamente ad una impellenza etica personale, ad una sorta di scribendi necessitas. Anche il dialetto diviene quindi, nell’uso che Ruffato ne fa, una «officina polisemica» in cui appaiono recuperati termini del linguaggio post-industriale, lacerti mistilingui, termini letterari e triti, ed in cui si accampa una grande varietà di toni e soluzioni retoriche: sarcasmo, ironia, giochi verbali, figure etimologiche. Il dialetto diventa in se stesso figura di una eversione dalla norma comunicativa: «Ruffato imprime al dialetto la tensione dello straniamento (...). Il suo diventa un gesto di esorbitanza, di cui il dialetto si trova ad essere, nel contempo, il soggetto e l’oggetto». Si tratta di un gesto concretamente storico: recupera una lingua nelle sue antiche radici culturali sia popolari che dotte e al tempo stesso reagisce in maniera forte all’appiattimento della comunicazione globale, della comunicazione che livella l’italiano in una lingua da telegiornale senza più connotazioni, una lingua artefatta in nome di una falsa egualità linguistica. L’intento dichiarato di Ruffato è quello di «correggere» la riduzione del dialetto a «caro estinto», e quella forse ancor più subdola e rischiosa a «testimone fragile intoccabile e incontaminato di una verginità sociale ed esistenziale», per farne invece una lingua capace di accogliere «avversità innovazioni e trasfusioni linguistiche, un veicolo espressivo che concede non solo di aderire ma di forzare la realtà». Si mantengono, quindi, quei caratteri di complessità del testo, e di plurilinguismo, anche nella produzione in dialetto, che, per questo si fa dialetto largo, non circoscritto alle mura patavine. Se infatti il dialetto di Ruffato ha una primitiva base urbana, è pur vero che egli ha messo in campo «una quantità enorme di termini e idiomatismi che si riferiscono tanto ad attività extraurbane quanto intraurbane, allargando così in modo particolarmente acuminato la sua tastiera, e su queste basi costruendo, attraverso il neologismo o le parole-coagulo, ecc., e nella sua poesia poi accettando sullo stesso piano anche il toscano, dal netto e limpido allo sbavato o “impettito”». Un idioletto sensibilmente vitale, dunque, che nel suo strutturale aprirsi a diverse lingue risponde pienamente ad una antica osservazione di Contini, che riconosceva Padova come «capitale del plurilinguismo (...) e capofila di una lunga tradizione di ribellioni linguistiche».

Nella scrittura in dialetto Ruffato si dimostra comunque poeta che riflette sui propri mezzi: non si limita ad assumere il dialetto, cerca di indagarne le ragioni, metalinguisticamente scrive sullo strumento espressivo che ha scelto: nel testo che apre Diaboleria Ruffato parla di una «capatina pèpola / sul dialeto no par delucidare / ma co la fraca de lampra passion / dei cavalieri pal tesoro del Graal». La radice etimologica dia-legomai è «maniera de parlare d’ogni omo / co termini afiliai»; adottare il dialetto significa scansare «la lengua buro / cratica de lege», per adottare una «ecolingua» che ha un aggancio radicale, corporeo con la realtà e quindi penetra, «s’indrenta / de più nele robe vere a priori». Sono testi che hanno una grande carica espressiva, sia nel linguaggio cangiante - perché il ricorso al dialetto non è naturalistico, quanto espressionistico -, sia nei referenti che vengono dal vissuto quotidiano con suggestivi innesti fiabeschi: ci sono lucidi e disingannati riferimenti all’infanzia, al mondo delle fiabe, compaiono «ponti levatoi», «pezzi di carbone nella calza della strega».

L’indagine insistita del mezzo espressivo, delle possibilità comunicative approda anche nella versificazione in dialetto ad una riflessione metalinguistica che abbranca e mette ripetutamente in gioco la parola e tutti i suoi travestimenti: Parola pìrola - che significa parola fuoco, parola rogo, ma anche parola piroetta - comprende infatti una sezione che è intitolata Parola polena, proprio ad indicare metaforicamente una parola che fende le acque, che sembra far da pilota ma che serve anche, e forse soprattutto, da elemento decorativo del grande vascello della comunicazione, come effettivamente erano le polene: sculture decorative antropomorfe (in figura di ibridi mostri o di sinuose sirene) spesso cariche di valore superstizioso. E infatti in questa sezione, che rimane una delle più significative, i testi sono proprio intitolati alle varie funzioni della parola, alle tante facce che questa può assumere, in molteplici personificazioni sintomatiche di danni sociali diffusi: Parola malà, Parola denaro, Parola droga, Parola sui trampoli, Parola sguardo. La parola sguardo, ad esempio, dopo una burrasca lirica ha tentato «el raporto / dialetico co l’immagine, el tufo nel metatesto» con apparato tagliente e acuminato come punta di diamante per eliminare le muffe di un pianeta malato, coticoso «che vomita el falso».

L’attenzione all’attualità, a questo pianeta dai troppi disastri ecologici e dalle troppo frequenti guerre, è dominante in Ruffato ed anche il dialetto è imperativamente chiamato a farsi carico di questi mali, è piegato ad esprimere l’oggi, tutti i molteplici traumi del presente.

La scelta dell’espressione poetica è sempre presa di posizione, e Ruffato è un autore dotato di un rigore consolidato e di una tagliente fermezza nel volgere lo sguardo alle cose, agli uomini, e ai loro comportamenti. È un poeta capace di inoltrarsi nei «dispetti della scrittura» con una affinata abilità percettiva, e intendo qui i cinque sensi, quelli attraverso cui innegabilmente - con forzata sincerità - passano, devono passare tutte le esperienze umane. L’ultima raccolta in lingua, dopo la lunga attività in dialetto, Etica declive, è un altro, alto esempio di questa sua forza incisiva, di questa perspicuità di visione e di resa letteraria, sempre intrisa di riferimenti, colta, complessa, misurata, sorvegliata. Una raccolta che sempre mescola vari livelli linguistici, immette lacerti di provenzale e termini medici in un tessuto che deforma spesso polemicamente le normali prospettive di osservazione della realtà. Abbiamo allora un «edema religioso» (p. 23), una «bontà sfinterica» (p. 63), «l’emorragia della tristezza» (p. 57), il «senso / varicoso» (p. 64), «l’ematoma cerebrale come modello / di intrigo vasale» (p. 34). È un libro “declinante”, Etica declive, libro che prende atto e nel contempo denuncia la discesa, la malattia dell’etica, della saldezza sociale, e pertanto l’assunzione dei termini medici, qui, si fa particolarmente sostanziale, programmatica ancor più che in altre raccolte. La morale decade crudamente, penosamente come decade un corpo fisico senescente o ammalato.

La tessitura dei testi è saldissima: sfugge alle codificazioni, ma è compatta, è “stesa” come mani di colore in maniera netta, senza sbavature, procede attraverso un dipanarsi di immagini perfettamente scontornate, senza aloni:

Biondocereo in una palla di vetro
tra i pochi di questo tipo perdenti
a sfumatura ironica insistente
che per la sorte non se ne può niente.

Classica carogna di precoce
primavera fanatizza demonìo
giustiziere linfoide nel getto cardiaco.
Il sangue è una pila ingorda
di stantuffi al plastico becchini
fuoco e fiamme non bastano a virare
il malefico quale sia veramente.

La leucosi strazia il letto vasale
putiferia le bave dei pioppi
paesaggio iella non distingue l’orlo
soggetto oggetto, ingruma gli strisci
ematici, spara sulla microstoria.

Appaiono qui congiunti in una compagine stilistica complessa, e piena di raffinati accorgimenti retorici e di immagini distillate, temi esistenziali, spine personali, temi civili di ampia estensione e rilevanza. Nella congerie ormai vastissima dei critici - diversi per formazione, per generazione, per cursus di attività - che hanno offerto negli anni i propri contributi ad una lettura sempre più attenta della poesia di Ruffato, si può indubbiamente individuare una notazione comune o vicina: l’aver riconosciuto con forza di esempi e di argomentazioni la coerenza sostanziale del discorso poetico di Ruffato, che non è mai incline alle mode, ma sempre proprio, generato/scavato nel profondo, viscerale eppure decantato. Ha scritto, tra gli altri, Vincenzo Bagnoli che la sua scrittura «riesce a tendere al tempo stesso al duplice traguardo di una “chiarezza” e di una “funzione critico-conoscitiva”». E questo duplice traguardo è raggiunto da Ruffato grazie ad un modo di guardare la realtà e di risponderle che è al tempo stesso naturale, biologico, corporeo, eppure anche culturale, sovrastrutturato, sostenuto dal nodo fertile delle sue conoscenze scientifiche ed umanistiche. Nodo che appare evidentissimo in uno straordinario lavoro di cura del testo e di traduzione compiuto da Ruffato sul Liber medicinalis di Quinto Sereno Sammonico, testo su cui splendidamente si sono soccorsi, integrati, “inquietati” il medico ed il poeta. Ruffato, infatti ha sempre scritto e lavorato nel pieno convincimento di una «mancanza di separazione tra le discipline»; ha veramente interpretato, reso manifesto quello che lui stesso definisce il «tramonto della famosa inconciliabilità fra scienze umanistiche e scienze naturali», senza però, per questo arrivare a nessuna soluzione pacificante: non si tratta mai di una fusione tra i saperi, piuttosto di un’utile frizione. Anche nell’approccio alla scienza, nello sguardo esaminatore che Ruffato volge verso le cose e verso la natura non c’è serenità, c’è invece attenzione al difforme, alle dissonanze, alla malattia; c’è la morte - che sempre è biologica e morale - con tutto il suo universo livido e marcescente intorno, c’è il male, la follia, il dolore, e tutta la difficoltà di superarli:

La solidarietà può smollare
obiezioni di coscienza. Il decalogo
del soccorso ai neoplastici traballa
precetti palliativi. Risciaqui
orali per i forti odori, enfasi
per l’idea del male reversibile
frizioni degli estremi per gabbare
la sofferenza fobica incompresa.
Agli insensati vanno evitati
dispetti impressioni offensive
sugli organi dei sensi con clemente
complicità del parentado. Stanno
fuori gioco il mentire soffice
la dura sorte, il canta che ti passa
la speranza sul ponte della vita.
Il desiderio del corpo sano
acceca la numerologia clinica.

Come esiste una tensione, un rapporto dialettico tra scienza ed humanitas, nella cultura e nella scrittura di Ruffato, esiste anche una tensione fortissima, altrettanto dialettica e feconda, nei suoi versi, tra la norma (sia essa retorica, stilistica, metrica, letteraria in senso lato) e l’infrazione a questa norma. È l’urto fra i dati acquisiti tramite la cultura e quelli acquisiti tramite l’osservazione diretta, la sperimentazione in proprio; l’attrito fra parole consolidate dall’uso o dalla tradizione e parole di nuovo conio. Forse uno dei tratti più costantemente vitali, eleganti ed innovativi della poesia di Ruffato, fino ad Etica declive, è proprio questo slittamento tra codice e sovvertimento del codice, per cui ci troviamo contemporaneamente di fronte ad aggettivazioni quasi classiche per quanto si stagliano nitide - «a ridosso della chiesa il chiostro / dorme nel coro del sole, amico / anche per cigni neri e specchi» (p. 53)-, a citazioni letterarie o anche cinematografiche - «L’amor che move il sole e l’altre stelle» (p. 18), «per lo gran mar / de l’essere» (p. 55), «l’arancia meccanica civile» (p. 22) -, a cadenze di lingua provenzale - «il ritratto si diluisce nel vento / tout m’a mo cor, e tout m’a me / e se mezeis’e tot lo mon» (p.61)-, a metri della tradizione ed insieme a rotture di quei metri, a termini o sintagmi in qualche modo “perturbanti” la linearità del testo, che è linearità anche di significato, univocità della parola scritta. Decisamente stranianti e culturalmente assai stratificati sono i trapassi semantici de «il mattino / gregoriano transustanzia un poco / il satis tecnologico all’ombra / dei carboni di Hiroshima» (p. 22).

Ciò che Ruffato sa bene è che la poesia innegabilmente non conclude: ai suoi versi non chiede mai significati fermi, scrive in modo da creare diversi, possibili riferimenti incrociati della sintassi, addensa sulla pagina una «materialistica complessità nominale e fisiologica», procede per gettate semantiche, per sospesi, lunghi ponti metaforici. La poesia può dare significati plurali, può metterli in attrito. Mentre legge, interpreta, tenta e ritenta di svolgere il gomitolo, il «gemo ansioso della vita» (p. 18), Ruffato sa che la scrittura, «la penna» pur dovendo fronteggiare il male, di fatto, poi, svela solo in parte, non risolve:

Mai punctim ci si svela
da ecoli massacro questi testi
cavandone solo lacerazioni.

Poesia come sapienza del silenzio
indubbio brindisi fra le nuvole.
La si leggerà questa mia e quando
non si svela con la penna.