Intervista

Ritieni che abbia ancora qualche consistenza il dibattito sull’antagonismo fra lingua comune e dialetti prescelti come lingua della poesia?

Il dibattito, e l’antagonismo che ne è stato la causa, sono secondo me dovuti a una impostazione del problema che non mi sento di condividere.
Tale antagonismo qualifica la lingua comune non soltanto perché comune a tutti gli abitanti del territorio nazionale, ma anche perché ritenuta banalizzata e banalizzante, non più capace quindi di esprimere poesia.
Il dialetto, per le sue doti di (presunta) maggiore aderenza al vissuto, di spontaneità, di malleabilità, si presterebbe invece a divenire idioletto, e dunque lingua della poesia : di qui la scelta di molti a suo favore. Ma io ritengo che la lingua di ogni poeta, anche di coloro che scrivono in italiano, sia un idioletto, cioè una lingua sentita capace – dal singolo poeta – di esprimere al meglio ciò che, in un momento particolare della sua esperienza, egli vuole comunicare.
Sarà, dunque, un’alternanza di italiano e di dialetto, o soltanto e sempre uno dei due; perché di lingua della poesia si possa parlare sarà necessario comunque che – al di là delle parole, del dialetto, dell’italiano, del plurilinguismo – ci sia poesia.

Si insiste oggi sulla perdita dei parlanti come motivo che discrimina negativamente la diffusione della poesia dialettale rispetto a quella in lingua. Pensi sia questo indiscutibile fenomeno a determinare la scarsa divulgazione della poesia vernacola o piuttosto che la causa di ciò vada individuata in una più ampia motivazione attinente alla poesia « tutta »?

La mia esperienza è limitata alla poesia nei dialetti del Veneto, ma ritengo che la situazione non sia diversa nelle altre regioni.
Prima di rispondere devo precisare che per me (e non solo per me) poesia dialettale è sinonimo di poesia popolare, quella che nel Veneto ha ancora ampia diffusione : alla radio e in giornaletti locali, anche in antologie. I livelli sono diversi ma lo stile è sempre ottocentesco, e il contenuto si rifà, in genere, a quello dei cantori della piccola patria. Diversa è la poesia in dialetto; dagli anni Sessanta essa è sempre scritta in un idioletto, in una lingua che non è mai quella dei parlanti il vernacolo della zona cui appartengono i singoli poeti. È una lingua personale e inattuale, sia che trascriva quella soltanto orale degli anziani ancora viventi, spesso illetterati, sia che ricorra ad arcaismi; quando la base è il dialetto di oggi, esso è sovente ricco di neoformazioni, di apporti da altre lingue (classiche e/o moderne) e linguaggi.
La poesia, se è tale, lo è al di là della lingua di espressione; la poesia in dialetto è poco diffusa perché ristretto è il numero di coloro che leggono poesia.
Detto questo, è possibile che anche un lettore di poesia non si senta invogliato ad avvicinarsi a un testo per lui di difficile comprensione, del quale non ritiene soddisfacente la « traduzione ».
Ritengo che la poesia in dialetto dovrebbe essere accompagnata da indicazioni per la pronuncia atte a permettere al lettore di cogliere, per esempio, il ritmo, i giochi di suoni; la traduzione (a cura dell’autore o di un altro poeta) dovrebbe poi essere un’altra poesia, in italiano : come si fa partendo da una lingua straniera, quando il buon traduttore non si limita a tradurre una parola dopo l’altra, ma si preoccupa soprattutto di ricreare il ritmo, di trovare alternative che mantengano le caratteristiche del testo originale.

Credi possa essere condivisa la formula di dialettalità negata, proposta da P.V. Mengaldo, che individuerebbe l’atteggiamento di chi, pur possedendo la necessaria attrezzatura, respinge la tentazione di scrivere poesa in dialetto « ritenendo che i giochi vadano giocati più difficilmente e rischiosamente in lingua »?

Come nego che l’italiano sia divenuto banale, sfibrato, al punto da non permettere più il suo utilizzo come lingua della poesia, così ritengo che il dialetto non possa, di questa, arrogarsi in esclusiva le carattersitiche. Ma vale anche il contrario; ritenere che « i giochi vadano giocati più difficilmente e più rischiosamente in lingua » vuol dire pensare al dialetto soltanto nei termini (e nei limiti) che sono rimasti validi grosso modo sino alla metà del Novecento.
Non posso fare altro che riprendere quanto ho già detto in precedenza : fare poesia è certamente anche un’operazione intellettuale, ma non è soltanto questo. La poesia nasce da un colloquio con se stessi, da una riflessione sulla propria esperienza, dalla ispirazione (termine del tutto fuori moda, immagino). Se questo è vero, la scelta della lingua di espressione sarà guidata dal desiderio di far aderire – quanto più possibile – il pensiero alle parole che lo traducono.
Il poeta che « pur possedendo la necessaria attrezzatura respinge la tentazione di scrivere in dialetto » non rappresenta, secondo me, un caso di dialettalità negata, ma piuttosto testimonia la scelta istintiva del mezzo che sente, in quel momento, più congeniale.
(Tutto questo non nega, naturalmente, che – a livello più o meno conscio – una personale idea sul valore della lingua e su quello del dialetto possa influenzare la scelta del singolo poeta).

Su faccende di dialettalità poetica dell’ultimo Novecento aleggia il fantasma di Pasolini, al quale si fa di solito risalire la svolta cosiddetta « neodialettale ». Reputi condivisibile la proposizione critica? Se sì, quali consideri i termini della svolta che per alcuni versi sembra rinviare all’esperienza cinque-secentesca?

Che nel modo di fare poesia in dialetto ci sia stata, a un certo punto, una svolta, e che – dopo l’affermazione di Contini – Poesie a Casarsa sia stato considerato discrimine tra due periodi, è indubbio. Ma si dovrà arrivare agli anni Sessanta prima di ritrovare le caratteristiche – di stile e di contenuto – dei cantori della piccola patria soltanto nella poesia popolare.
Che cosa distingueva la nuova poesia? Intanto la lingua, che si discostava volutamente dalla koiné, che era un dialetto periferico, quasi sempre sino ad allora soltanto orale; e poi – soprattutto – il passaggio dal noi all’io, dal regionalismo al metaregionalismo.
La produzione degli anni Sessanta e Settanta ha visto il dialetto utilizzato come lingua della poesia o della realtà (per usare termini coniati in quegli anni); una lingua del passato che per la sua verginità meglio sembrava prestarsi a diventare preziosa, una lingua che permetteva di fermare nel tempo i segni di una civiltà che andava scomparendo.
Ma sono passati gli anni; con lo scorrere del tempo il paese e il passato hanno sempre più assunto valore di metafora, e la linea di divisione tra le citate motivazioni per l’uso del dialetto si è fatta indistinta.
Chi scrive poesia in dialetto negli anni Ottanta e Novanta, sia che usi soltanto una lingua del passato, sia che di questo riproponga – insieme alla lingua – attrezzi e mestieri e tradizioni, nel sottolineare lo stato di abbandono, di disintegrazione, esprime comunque il disagio esistenziale, la complessità e la problematicità della vita, anche la consapevolezza dei limiti della parola come strumento di comunicazione, come mezzo capace di esprimere poesia.
Forse soltanto negli anni più vicini a noi (anni che sembrano concludere la « svolta »), si può parlare di « neodialettali ».