Elettra Bedon

Al di là della veste

Per Scribendi licentia di Ruffato:

una proposta di lettura


I edizione ottobre 2000

Coedizione Hebenon Terziaria

© ASEFI s.r.l.

Via San Simpliciano, 2 – 20121 Milano

Tel. 02-86463056

Fax. 02-804179

e-mail info@asefi.it

Internet www.asefi.it

Printed in Italy

ISBN 88-86818-43-2

INDICE

Introduzione p. 9

I. Parola pìrola p.14
II. El sabo, I bocete p.22
III. Diaboleria p.30
IV. Smanie, Sagome sonambule p.43
V. Vose striga p.55
VI. Giergo mortis p.63
VII. Varianti p.70
VIII. Traduzioni p.79

Conclusioni p.86

Note biobibliografiche p.89



INTRODUZIONE

Il volume Scribendi licentia viene proposto come un’antologia che raccoglie quanto Ruffato ha scritto fino a oggi in dialetto: i libri, le poesie apparse su riviste, alcuni inediti. Noi lo consideriamo piuttosto un’opera, perché è possibile – anzi, facile – individuarvi un filo conduttore (e in che cosa esso consista diremo più tardi) che ne fa, appunto, un tutto unico.
Non si può parlare (scrivere) della produzione in dialetto di Cesare Ruffato senza prima chiarire alcuni punti. Innanzitutto è importante sottolineare che il poeta non considera il suo scrivere in dialetto di minor valore rispetto al suo esprimersi in lingua; sia all’interno di testi che attraverso apporti teorici egli ne ha esplicitato le valenze positive. È da notare poi che le caratteristiche essenziali della sua scrittura poetica non vanno incontro a notevoli cambiamenti passando dalla lingua al dialetto: né nella forma, né nel contenuto.
È necessario qui aprire una parentesi per parlare di queste caratteristiche, il che è compito particolarmente arduo, non perché sia difficile identificarle, ma perché ogni etichetta risulterà inevitabilmente riduttiva, non potendo ragguagliare esplicitamente sulla complessità, sull’originalità di quanto ricopre. Con estrema sintesi si può dire che – per quanto riguarda la forma – i testi di Ruffato sono caratterizzati da una ricerca esperienziale (tra l’altro da multilinguismo, creazione di neologismi, destrutturazione della sintassi) che rivela come l’autore abbia sempre tenuto conto della processualità evolutiva nella sfera intellettuale – specialmente in letteratura, nella psicoanalisi – per assorbirne, filtrarne, utilizzarne gli eventi in modo marcatamente originale. I suoi temi di fondo, poi – e non cambiano nel tempo – sono la riflessione etica e la protesta civile: ancora una volta Ruffato appare immerso, partecipe, coinvolto nel mondo in cui vive.
Sembra importante rilevare un’ulteriore caratteristica del poeta Cesare Ruffato, e cioè la misura e il pudore dei sentimenti (mentre caratteristica dell’uomo è la cultura). Questo porta a ipotizzare che la cultura sia diventata – più o meno consciamente – schermo alla manifestazione dei sentimenti, sempre forti, tanto da sembrare a volte eccessivi.
I primi testi in dialetto, pubblicati, appaiono in Padova diletta (1988), un libro che – insieme a Floema della pietra dello stesso anno – chiude un lungo e fruttuoso periodo di produzione poetica in italiano. Sin dalla pubblicazione della prima raccolta (Tempo senza nome, 1960), non sono mancati interventi critici che hanno accolto, accompagnato, discusso e commentato questa e tutte le successive: La nave per Atene (1962), Il vanitoso pianeta (1965), Cuorema (1969), Caro ibrido amore (1974), Minusgrafie (1978), Parola bambola (1983), Trasparenze luminose (1987). Ancora in italiano sarà Prima durante dopo, apparso nel dicembre 1989, che può forse essere visto come cerniera tra un primo e un secondo periodo del percorso poetico di Ruffato. Percorso che – come si è detto – dagli anni Sessanta a oggi ha un andamento unitario sia nei confronti della forma che del contenuto, ma che potrebbe essere scandito in due periodi; nel secondo, la lingua di espressione è prevalentemente il dialetto, e i temi di fondo ruotano intorno a uno stesso fulcro, a una presenza: la figlia Francesca, morta tragicamente nel luglio del 1989.
A due anni dalla pubblicazione di Padova diletta , dunque, con Parola pìrola (1990) Ruffato inizia un periodo di produzione in dialetto; si fa l’ipotesi che il primo ricorso a questo mezzo di espressione sia stato istintivo (utilizzare uno strumento che si sentiva capace di maggiore aderenza a ciò che voleva essere detto), e che soltanto in un secondo tempo, attraverso una riflessione che avrebbe portato a Diaboleria (pubblicato nel 1993 ma scritto subito dopo Parola pìrola) esso sia stato scelto consciamente, perché rispondeva anche ad altre esigenze.
Le singole poesie e le raccolte che sono seguite a Parola pìrola, e cioè El sabo (1991), e I bocéte (1992) sembrano essere tutti tentativi di comunicare con Francesca, di farla rivivere; Francesca, questa figlia unica, cui il padre si sentiva legato da un affetto intenso e da molti interessi comuni.
Nel 1996 il poeta tornerà all’italiano con Etica declive; come è stato notato, il lettore attento non può non riconoscere che in questo libro Ruffato ha ripreso – se pure con variazioni – brani di Prima durante dopo: «Etica sembra risultare dal ravvicinamento, volontario, dei momenti (episodi, circostanze) che hanno segnato il periodo di gestazione del libro edito nel 1989». Per la costante presenza di Francesca, Etica declive appartiene di diritto al secondo periodo della produzione poetica di Ruffato, anche se il mezzo di espressione è l’italiano.
Nel 1998 Cesare Ruffato darà alle stampe Scribendi licentia, un libro in cui si trovano, come si è detto, oltre alle raccolte in dialetto dei primi anni Novanta anche numerosi inediti. È di questo volume che si vuole parlare nel presente lavoro.

I titoli, in Ruffato, non sono mai occasionali. Scribendi licentia, questa frase di Cicerone, sembra doversi intendere non soltanto come libertà di scrivere, ma anche come responsabilità di farlo, in completa aderenza al modo in cui l’autore considera da sempre l’atto poetico, che deve «costringere riflessioni forti nei limitati spazi a disposizione della parola». Riflessioni etiche, quelle che rappresentano il «tenace filo conduttore che aggrega tutte le sue opere», che – insieme alla presenza di Francesca – fa del volume qualcosa di più della raccolta de «la maggioranza dei testi poetici in dialetto di Cesare Ruffato», come recita il risvolto di copertina.
Questa interpretazione sembra anche suggerire una chiave di lettura, un invito – prima di tutto – ad andare al di là del dialetto, al di là dello stile, a non ritenere che siano questi gli elementi unificanti, ciò su cui il lettore deve concentrare l’attenzione, come la maggior parte dei critici ha fatto in passato.
È vero, la scrittura di Ruffato è «sempre tesa ad ampliare e moltiplicare i rapporti tra le parole, a demistificarne il dettato, dilatando il linguaggio sino ad includervi tutto: dal registro colloquiale a quello alto, dalle lingue morte agli stereotipi»; in lui «il dialetto diventa lingua privilegiata […] di un’operazione sperimentale, con cui gli elementi translinguistici, i lessemi tratti dal latino più o meno maccheronico, neologismi […] termini tecnici mutuati dal vocabolario scientifico […] espletano […] la teatralizzazione della parola, figura adulterata, disseminata, dilatata, implosa, contaminata, resa connotativa, transitiva»; «è un dialetto reinventato, che trascina un gran numero di materiale allotrio, proveniente da un vastissimo bagaglio culturale e intellettuale», che ha «una inventività e creatività che lavora pertinentemente sui significati […] [una] sintassi aggiuntiva e elencatoria […] [una] semantica di forte ambiguità […] la costruzione di immagini paradossali e stranianti […]. La densità teorica e metalinguistica […] costituisce una notevole acquisizione rispetto agli standards dialettali». «Ruffato procede […] per accumulo e deformazione. Il suo dialetto è forzato e deformato, incrociato e contaminato con altre lingue, compresa quella tecnico-scientifica»; «c’è, all’interno della lingua poetica di Ruffato, uno scompenso […] fra il significante, la catena sonora che ora nel dialetto espande e talora fa esplodere le sue cariche fonosimboliche, e il significato. Il significante è continuo, il significato discontinuo: la comunicazione passa […] solo a tratti»; il suo dialetto «per le molte invenzioni lessicali, per i termini presi da ogni campo della comunicazione […] sia da quello elevato della scienza […] sia quello raffinato della cultura umanistica, o quello derivante da una destrezza polisemica […] e da un plurilinguismo che tocca per rapidi flash il latino, il maccheronico, l’antico provenzale, lo spagnolo, il francese e altre lingue […] si coglie come infittito, dilatato, acceso, iperreale». Ruffato sembra aver trovato «proprio nel dialetto il modo di dilatare ulteriormente i suoi campi linguistici», utilizza «un dialetto singolarissimo dove è rispettata sia la tradizione popolare del colorismo dialettale per poi contaminarla con la davvero diabolica potenza d’invenzione espressiva che contraddistingue sempre Ruffato in dialetto come in lingua». Tutte queste osservazioni sono pertinenti, ma non è questo l’aspetto che ci interessa: vogliamo andare al di là della veste, arrivare al «sentimento che seppur negato dalla struttura esplorativa della lingua rimane il filo tenace del suo [di Ruffato] fare poesia». Vogliamo anche mettere a confronto i testi che appaiono in Scribendi licentia con quelli originali, avvertiti che essi «sono stati oggetto di assillante revisione e selezione», e inoltre fare qualche osservazione sulle traduzioni fornite dallo stesso Ruffato.


I

PAROLA PÌROLA

La chiave di lettura di Parola pìrola può essere trovata a pagina 11, dove il poeta si rivolge a Francesca:

Voria darte … […]
… l’anema de la parola […]
nel darse la man credemo de scursare
la distansa, ma el ris-cio de voler
massa … […]
xe tanto grande e scuro
‘na note che mai se supera […]

(Vorrei darti / l’anima della parola / nel darci la mano crediamo di accorciare / la distanza, ma il rischio di volere / troppo / è tanto grande e oscuro / una notte che mai si oltrepassa)

Francesca, la parola: le due protagoniste principali di questa raccolta. Ma non le sole, perché la storia comincia addirittura con Adamo ed Eva, e sembra a volte disperdersi in rivoli che vanno in direzioni diverse. Perché Ruffato usa tutto, usa di tutto: le notizie di attualità riportate dai giornali, l’osservazione di se stesso (anche dei propri malanni, e le idiosincrasie, e i giudizi – sempre passionali –, e i ricordi). Eppure non è difficile riportare ogni apparente dispersione a Francesca, o alla parola – a volte a una sovrapposizione delle due.
Così, per esempio, la Monega Eurialina – nello stato di isolamento, di depressione in cui vive – richiama Francesca, e Ruffato lo dice: «Come ti la svaga la so macina…» (Come te svaga la sua macina), e lo ripete poco più avanti: «antonomasia de ti-ela dolse / scavessacolo…» (antonomasia di te-lei dolce / indisciplinata, p.14). Ma, nella pagina seguente, comincia anche già a parlare della parola: «La verità … siglese mistico», incomprensibile come il linguaggio delle sigle, o come il linguaggio mistico. Il personaggio evocato (e la persona ricordata) nella loro fragilità portano alla mente del poeta – per contrasto – la fermezza di Giovanna d’Arco – (a pagina 18, «la pulzella»); ma l’attenzione ritorna sui quotidiani atti umilianti della vita della monega, e sulla vita di Francesca:

Anca ti mea lux del luto
d’amor testimone te netavi le scale
dei ufici per tetare la simia […] (p.19)

(Anche tu mia luce del lutto / testimone d’amore pulivi le scale / degli uffici per allattare la scimmia)

(tetare la simia, ancora un esempio della varietà di linguaggi che Ruffato utilizza: qui è quello degli stessi drogati).

La sovrapposizione di Francesca ed Eurialina si fa più frequente:

… un provenzale nostro
esperanto … […]
le noti de gelo m’insunio
quando – sì papà me meto prometo –
e ancora l’eco daldelà speto […] (p.21)

(un provenzale nostro / esperanto / le notti di gelo mi sogno / quando – sì papà mi cimento prometto / e ancora l’eco dall’aldilà aspetto)

e «Umilmente insieme rimemo ‘na cobla / tensonada… / Penin schincà…» (Umili insieme rimiamo una stanza / a più voci… Pennino spuntato…): ancora Francesca, non ancora morta ma usurata, spuntata, come un pennino che non scrive più. Nei versi conclusivi della prima sezione il poeta sembra staccarsi da Francesca/Eurialina e ripiegarsi su se stesso:

[…] no so se inamorarme […]
de le mascare che semo
o goderme in pase i vostri mondi
de ilusion … (p.24)

(non so se innamorarmi / delle maschere che siamo / o godermi in pace i vostri mondi / di illusioni),

cercare il reale, sempre equivoco (mascare), o accettare l’illusione: quella creata da Francesca, o dalla monega, o da chiunque non possa sopravvivere se non in un mondo fuori dalla realtà.

Nella sezione Parola polena protagonista indiscussa sembra essere la parola, «Nata da parolo sior spenotà e da ‘na parolezza squinzi» (Nata da parolo signore spennato / e da una parolezza ninfetta…, p.25), ma non ci vuole molto a capire che il poeta pensa a Francesca, parla di/con Francesca. Il malà nel titolo della prima sottosezione (Parola malà) sembra sollecitare il sovrapporsi dell’una all’altra, e le caratteristiche della parola appena nata sono presumibilmente quelle di Francesca infante:

… muleta da la cuna […]
disapetente sprussa vocali […]
Gàrula spuma … (p.26)

(testarda sin dalla culla / disappetente spruzza vocali / Garrula schiuma)

Anche i sintomi della malattia sono sovrapponibili, ma adesso il poeta parla di Francesca adulta: «scominsia il malessere alergia…» (inizia il malessere allergia, p. 27),

formighesso, fame de aria, paura
palpitassion … […]
… Se riva presto
al bruto male labirinto bianco
sabia mobile … (p.28)

(formicolio, fame d’aria, paura / palpitazioni / Si giunge presto / al brutto male labirinto bianco / sabbia mobile)

E che dire della Parola matita? Quale ritratto più pregnante di una giovane avviata all’annientamento di se stessa, e pure ancora così desiderosa di trovare un aggancio, una ragione per continuare a vivere, che ciò che si legge a pagina 29, questo «legneto / scortegà o massa uà» (legnetto / scorticato o troppo affilato), questo segno leggero cancellato dalla stessa mano che lo traccia: «grafite del trato de la man / che spotica scancela» (grafite del tratto della mano / che despote cancella), e che vorrebbe possedere le qualità «de scritura che dura» (di scrittura durevole)?
In Parola coi busi (a pagina 30) Ruffato sembra aver dimenticato Francesca: ora è lui di fronte alla parola, e alle immagini che gli si presentano alla mente. «Nel sogno» si fa parola, quella che, in Parola morbin (a pagina 32) viene «rustegando el silensio sotovose» (rusticando il silenzio sottovoce); il poeta cerca di dominarla: «me rabalto e prostro» (io cado e mi prostro), mentre vuole «basare / la venuta de la vose nel dominio / del parlato» (baciare / la venuta della voce nel dominio / del parlato). A pagina 33 sembra essere il titolo (Parola denaro) a determinare il testo che riporta soprattutto ricordi d’infanzia, e che soltanto nell’ultima parte fa intervenire la riflessione adulta: «denaro se scortega anca in donare» (denaro si scortica anche in donare, p.35).
In Parola droga è il secondo lemma che domina il quadro, che suscita le immagini: «Parola» che «smorsa l’istinto de vita» (che spegne l’istinto di vita, p.35). La scomparsa di Francesca ha lasciato al poeta solo resti:

Me resta in man … […]
un paro de borsete ratrapie
libri notai, camise smarie […]
scarponsini scalcagnai … (p.36)

(Mi restano in mano / un paio di borsette striminzite / libri chiosati, camicie scolorite / scarponcini sciupati);

guardare, toccare ciò che le è appartenuto sembra quasi obbligare al colloquio diretto:

Dormi ne i me spigoli … […]
ombra stuà de vose […]
… fame esistere. (p.36)

(dormi nelle mie punte / ombra spenta di voce / fammi esistere)

Nella sottosezione Parola sui trampoli la parola, per evadere dal «piano, fracà / da la sicità che sementa la tera / e dal paltan co strussia la piova», si slancia verso l’alto. È così gratuito leggervi, ancora una volta, il rispecchiamento di quello che poteva essere lo stato d’animo di Francesca, oppressa da ciò che stava vivendo?:

Nel slancio verticale ghe preme
sgrinfiare un tempo perso o dissipà […]
In alto un poco de silensio bersalia
‘na porta su ‘na zona no conossua
forse quela che sgrafa e spense i desideri […]
In ritardo la se incorse de l’aria
rarefata che sbaca el cogito … (p.37)

(piano, compresso / dalla siccità che cementa la terra / e dal pantano quando imperversa la pioggia / Nello slancio verticale le importa / afferrare un tempo perso e dissipato / In alto un po’ di silenzio bersaglia / una porta in un luogo sconosciuto / forse quello che graffia e spinge i desideri / In ritardo si accorge dell’aria / rarefatta che rende dispnoico il pensiero).

«La se cata n’altra» (Si ritrova diversa, p.38)
Parola sigà propone un alternarsi delle voci del padre e della figlia, ma è anche colloquio con la parola, sovrapposta a Francesca:

… - papà no perderte subito
no molarme …
perché desso so … […]
‘sto trobar …
no basta a inlemmarne spire
de idee che s’incarna e ferma
la vose …
alora scoltame, mando su le nuvole
l’urlo …
sperando de dresfare el me gelo … (p.39)

(- papà non perderti subito / non lasciarmi / perché ora so / questo poetare / non basta a farci lemma spire / di idee che si incarnano e arrestano / la voce / allora ascoltami, mando sulle nuvole / l’urlo / sperando di sciogliere il mio gelo)

La parola (Parola sguardo) è ancora una volta personificata, sullo sfondo del «pianeta / coegoso che vomita el falso»; «la ga tentà el raporto / dialetico co l’imagine / el tufo nel metatesto» (ha tentato il rapporto / dialettico con l’immagine / il tuffo nel metatesto); vuole «che i no la creda più cassetòn / valisa frigida impenetrabile del discorso / ma musina de contati» (non la ritengano più un cassettone / un baule frigido impenetrabile del discorso / ma scrigno di contatti, p.44). Vuole essere «poema essensiale», ancorché «a la deriva». Tutto un discorso sulla parola, ma le righe conclusive della sottosezione riportano a Francesca: «Da crepare per non sentirse più / forma de son, no savere più / de esistere…» (Morire per non sentirsi più / forma di suono, non sapere più / di esistere, p.45).
In Parola fiaba – come nella sottosezione precedente – c’è contrapposizione (e qui anche più forte) fra un primo piano dove protagonista è la parola, e lo sfondo, dove

Se crea un vodo patìo torno
la fabula scaltrìa dal comercio
fantamachina metalisà de fumeti
calcomanie sponcià de violensa
e mostri … (p.46)

(Si crea un vuoto patito intorno / alla fabula scaltrita dal commercio / fantamacchina metallizzata di fumetti / calcomanie iniettate di violenza / e mostri)

È la storia fantastica della parola: «‘na volta / casete fatine vosete / cosete putine» (Una volta / casette fatine vocine / cosette bambine); «Un tempo / la dansava su le boche» (Un tempo / danzava sulle bocche); adesso

Taiussà da semiologi …
la ga sbandonà … […]
… el labirinto sempre manco
navegà da la vose del dialeto […] (p.48)

(Microtomizzata da semiologi / abbandonò / il labirinto sempre meno / navigata dalla voce del dialetto);

si ritrova in un mondo di

… progresso escaroso
prepotente egoista, matopatoco de auto
gnoranterie astruserie loterie
un caos che sbrana sità, incendia
el verde sensa remission. (p.49)

(progresso pieno di escare / prepotente egoista, del tutto pazzo per auto / ignoranza astruserie lotterie / un caos dilania le città, incendia / il verde senza pietà)

Eppure è stata «parola poetica», quella che «nomina in sordina i malani de l’anema» (p.50), ma per descrivere ciò che è diventata ora non c’è che la «fiaba facezia» di Baldassar Castiglione, in cui «le parole … si gielavano in aria e vi restavano ghiacciate» . Parole non più capaci di servire alla comunicazione:

Nel congelarse … le deventa
fantoci fantasmi de luce … […]
Se le ga …
… vose umana le pole rifarse
piene … […]
se no le more … (p.53)

(nel congelarsi diventano / fantocci fantasmi di luce / Se hanno / voce umana possono ripristinarsi / globali / altrimenti muoiono)

È soltanto la storia fantastica della parola o – di nuovo – l’immagine di Francesca (e della difficile comunicazione che a un certo punto il padre ha avuto con lei) s’intrufola nella storia e finisce per prendere il sopravvento? Leggiamo queste righe:

Fabulava tute le sostanse, el nostro
ovoduro, la to ovomaltina
el saverte dono ogni matina. (p.48)

(Erano favola tutte le sostanze, il nostro / uovo sodo, la tua ovomaltina / il saperti dono ogni mattina)

e più avanti, a pagina 50: «illa tanto esperta de lagreme»; e infine l’ultima parte:

Dove e come vivere …
sensa combinare la distansa co la speransa […]
robando el più possibile la vose del silensio
scoltare el respiro de la parola … (p.55)

(Dove e come vivere / senza combinare la distanza con la speranza / rubando il più possibile la voce del silenzio / ascoltare il respiro della parola):

in cui il poeta sembra domandarsi come continuare a vivere se non riuscendo a collegare la distanza creata dalla scomparsa di Francesca con la speranza che qualcosa di lei sia ancora vivo; la speranza di farla rivivere attraverso la parola. Si fa ora più chiara la sovrapposizione Francesca / parola, ambedue oggetto inafferrabile di desiderio. Parola chiamata alla vita, corteggiata arricchita plasmata, che non si lascia mai compiutamente afferrare, piegare, a ciò che si vorrebbe esprimere; parola che giunge da mondi interiori, calata in codici incomprensibili – e se si tenta di interpretarla non ne resta che l’eco, la scia verbale. Eppure l’eco è già qualcosa, anche l’illusione è consolante, il colloquio è già legame.
All’inizio del libro, a pagina 11, il poeta aveva scritto: «Voria darte … l’anema de la parola… nel darse la man credemo de scursare / la distansa»; la ripetizione della parola distanza, nell’ultima parte, ci dice che il poeta sente di aver terminato il suo lavoro, che il cerchio si è chiuso.


II

EL SABO

I BOCETE

El sabo si presenta come un alternarsi di ricordi, di riflessioni sul passato e sul presente. Il passato è l’infanzia del poeta, che fa da contrasto alla triste attualità. Sia nei ricordi che nelle riflessioni c’è Francesca, confermando che con questo libro Ruffato continua un discorso iniziato, il colloquio ideale con lei, sempre presente. Il richiamo al Sabato del villaggio, da una parte giustifica e accompagna i ricordi d’infanzia (vissuta in ambiente rurale), ma insieme permette di parlare di quel sabato, il giorno della morte di Francesca. Il poeta lo dice quasi all’inizio: «un sabo co do musi» (un sabato con due volti, p.60), bifronte, la gioia e la disperazione. Fornisce anche un identikit di se stesso, forse proiezione di quelle che sa essere le caratteristiche della propria personalità – fossero o meno già presenti nel bambino che

… ghe ne combinava a sportae […]
… non se lassa
incolare insupare, disposto
a deraliare treni e poemi. (p.61)

(ne combinava a iosa / non si lascia / incollare inzuppare, incline / a deragliare treni e poemi)

Lo «sbarbatelo» di allora è diventato adulto, vuole «ridare la vose a chi / se sofega in giorni e megalopoli / el scrive parole autistiche» (ridonare la voce a chi / soffoca in giorni e megalopoli / scrive parole autistiche, p.62). «El sabo … xe cambià» (Il sabato è mutato, p.63), e si arriva a una dedica a Francesca scomparsa: «se desso so dire fare qualcossa / ringrassio te semensa sen sufrensa» (se ora so dire fare qualcosa / ringrazio te seme, sete pazienza, p.65).
I prodromi della tragedia droga di Francesca introducono il poeta nel girone morte:

… - babbo la me esistensa xe
‘na gran passion svodà de ogni senso -
E mi a ribaterghe de no […] (p.68)

(babbo la mia esistenza è / una forte passione vuotata di ogni senso / E io a controbatterle di no),

ma nella morte degli altri si vede la propria morte, la morte fa riflettere sulla propria vita:

‘na serie de morti de la so morte,
de violenza, scrite nei giornali […]
Ecatombe da teremoti, tifoni
vendète pestilense … […]
Quele singole naturali fa
poca bota … […]
… in ospedale
drio el paravento […] (p.69)

… Quele violente …
le fulmina la megola. (p.70)

(Una serie di morti della propria morte, / di violenza, scritte nei giornali / Ecatombe da terremoti, tifoni / vendette pestilenze / Le morti singole naturali fanno / poca risonanza / in ospedale / dietro il paravento; le morti violente / fulminano il midollo)

Dal discorso generale Ruffato torna all’improvviso al pensiero dominante («De sabo ogni morte se someja» di sabato ogni morte si somiglia), e alla disperazione che Francesca deve aver vissuto:

… distanti
ben dal savere inissio e fine
de le robe, effati da lo spassio
pien de sènare che ne ciucia
ne le so sfese … (p.73)

(lontani dal sapere inizio e fine / delle cose, parlati dallo spazio / pieno di cenere che ci succhia / nelle sue fessure)

Adesso che Francesca è stata richiamata in primo piano ogni ricordo la ingloba, o si rispecchia, o contrasta con l’esperienza di lotta e di sofferenza che a lungo ha unito e tormentato padre e figlia:


Le pene … […]
Tante morti cee …
che no copa de colpo … (p.75)

(le pene / tante piccole morti / che non uccidono di botto).

Le pene: rendersi conto dei trucchi che Francesca metteva in atto:

… dando a intendere
de cavarse fora dal tritume
co premura e diamante (p.79)

(facendo credere / di sottrarsi dal tritume / rapidamente e puntualmente) ;

sapere la sua sofferenza («Tuto el so corpo nei ciodi de Cristo», L’intero suo corpo nei chiodi di Cristo), illudersi di poter intervenire in modo risolutivo («Quante volte per miracolo go salvà / ciao a luni sta bona», Quante volte per miracolo ho salvato / ciao a lunedì sta buona). E ritrovarsi ogni volta sprofondati nell’amarezza, a ribellarsi, a inveire contro

la morte … […]
‘na piaga cronica da butar via
anca lo stampo … (p.85)

(la morte / una piaga cronica da espellerne / anche lo stampo)

La rete di parole che il poeta va tessendo per imprigionare e trattenere Francesca si infittisce ; lo sguardo resta concentrato su di lei, ma i ricordi appaiono nel campo visivo come scotomi. Il sabato viene a identificarsi con tutto ciò che è male:

… da putina …
la sbrodolava merleti gatognao
col biberon spuaceti
manine piagole co le busete […]
e proprio un sabo
nunsio moio de frontiera
el ga … destacà la spina […]
… Adesso ciamo el sabo […]
spugna che me suga e porta
de scondon la so vose scampà. (p.86)

(da bambina / carponi sbrodolava merletti / col biberon schizzava sputi / manine burlone con fossette / e proprio un sabato / nunzio fradicio di frontiera / ha staccato la spina / Ora chiamo il sabato / spugna che mi asciuga e mi porta / di nascosto la sua voce fuggita).

e me ricordo un sabo …
tre mesi prima de la ima partensa […]
la me passava la so paura […]
pel mondo […]
e per sedarla gavaria comprà
corona solare e nuvole diamanti. (p.87)

(e mi ricordo un sabato / tre mesi precedenti la profonda scomparsa / mi confidava il suo timore / per il mondo / e per calmarla avrei acquistato / corona solare e nuvole diamanti).

Ora che Francesca non è più, nel ricordo il padre può immaginarla docile, a crescere come la si sarebbe voluta:

Desso proprio pulito la spedisse
le so parole co drento el lumin
le sonae noturne lalae, butae là
coi libri di papà
fintona de scoltarme straco
imbecandola tardi de ritorno
da la clinica. E la me riserva
dolse che ancora la cressa
sempre come mi
e no la intende cambiare. (p.90)

(Ora veramente bene lei invia / le sue parole con dentro il lumino / le sonate notturne lallate, gettate là / con i libri di papà / finge di ascoltarmi stanco / mentre la imbeccavo tardi di ritorno / dalla clinica. E mi riserva / dolce che ancora la cresca / sempre come me / e non desidera cambiare).

L’immagine dolse apre a Ruffato una serie di ricordi altrettanto solari: una vacanza insieme, in Grecia; la propria famiglia; la casa della nonna paterna; i sabato dell’infanzia. Ma è inutile afferrarsi all’illusione, si conosce troppo bene la fine tragica della storia, gli anni si susseguono impazziti sul quadrante della macchina del tempo:

Ma el sabo sabo dal sinquanta in su
ramena …
… protesta sessantottina
ani tartassai …
siringhe …
nomi de piombo pei giornali. (p.96)

(Ma il sabato sabato dagli anni cinquanta in poi / rimuove / protesta sessantottina / anni tribolati / siringhe / nomi di piombo per i giornali)

… discoteca psichedelica […]
mulin de fandonie … […]
crack e ecstasy … […]
… bolidi fracassai
… fantasmi al metadone […]
… psicomedesine … (p.98)

(discoteca psichedelica / mulino di fandonie / crach e ecstasy / bolidi fracassati / fantasmi al metadone / psicofarmaci)

Amarezza e rabbia invadono il poeta nelle righe conclusive del libro, mentre denuncia una società che si parla addosso, una società incapace di intervenire, di proteggere Francesca e tanti altri giovani, incapace di andare al di là delle parole:

E se melina coi verbi al condissionale
pignate de ponsiopilaterie
gargarismi ganzi co la parola
prevenzione, sensa el costruto
de cultura e carità.
La gioventù nel capio alchemico
nero svena el sacrifissio
cossì malamente
da no portarse gnente
pardelà da contare. (p.99)

(E si melina con i verbi al condizionale / pentole di ponziopilaterie / gargarismi furbi con la parola / prevenzione, senza il fondamento / di cultura e carità. / La gioventù nel cappio alchemico / nero svena il sacrificio / così tristemente / da non portarsi niente / nell’aldilà da raccontare).

Il colloquio con Francesca, il desiderio di renderla presente attraverso la parola, continua. Passando da Parola pìrola a El sabo, e poi a I bocete, Ruffato cambia gradualmente di atmosfera. Il discorso sulla parola, sulla comunicazione, si presenta irto, scheggiato, bruciacchiato: qualcosa è esploso, e se ne raccolgono i resti. Il secondo libro, per l’inserzione di ricordi d’infanzia (l’infanzia felice sia di Cesarino che di Francesca) ha un andamento più disteso; la morte di Francesca assale ancora brutalmente il poeta, ma è come se costui fosse riuscito a spostarsi leggermente all’indietro e un po’ di lato, rendendosi possibile una visione migliore – e più consolante – della figlia.
I bocete, infine, (e a non parlare del titolo, un diminutivo), sin dalle prime righe evoca la quiete, se non la serenità: «Aria pineta, coline zale / apanae, tortorele e sarmenti …» mentre il poeta si rivolge a Francesca chiamandola: «mio olvido bucolico magon» (Aria pineta, colline gialle / appannate / tortorelle e sarmenti / mio oblio bucolico patema, p.103). La classica invocazione alle muse, d’inizio di poema, è qui un’invocazione alla «to bambinità»; invocazione necessaria, perché chi si riconosceva disposto «a deraliare treni e poemi» (El sabo) ora, nel domandarsi «se l’esistensa xe … / parola robà da la boca de la morte» teme i limiti della propria «misera parlata / che no ghe riva a spalancarse» (la tua bambinità / se l’esistenza è / parola rubata dalla bocca della morte / …misero idioma / che non riesce a spalancarsi).
Parlare di Francesca parlando dei bambini, i nostri e quelli del terzo mondo (o comunque quelli che soffrono, che non possono vivere la propria età). In nessun altro libro come in questo il mondo di oggi – con la sua ipocrisia, i suoi contrasti – è così presente e sollecita talmente le prese di posizione di Ruffato, poeta civile. Il poeta, che ha visto la propria paternità negata dalla morte della figlia, sommerge di tenerezza, in questi testi, tutti i bambini: «Scarabei giocondi»; «Lùsole ne la nebia» (Lucciole nella nebbia); «Batufoli de carne» (Batuffoli di carne, p.113); innocenti che pagano per il mondo:

Gesù …
… li vole
masso fiorio sensa pravità
per portare a spale in su
la crose … (p.114)

(Gesù / li vuole / mazzo fiorito senza depravazione / per portare sulle spalle in alto / la croce).

I bambini «del mondo poareto» (del mondo povero, p.118) sono facile preda della morte … ed ecco che improvviso il pensiero ritorna a Francesca, ai propri tentativi di «cavarla via / scaldarla col fià» , nell’accorgersi che, alla «siora in nero» (la morte), lei «…ghe stava drio pnotisà» (per sottrargliela / riscaldarla col fiato / …lei la seguiva ipnotizzata, p.119). La sofferenza sembra colorare il mondo intorno al poeta:

‘sti alberi che la piova
de novembre cadaverica spenota
pare in crose come mi … […]
La vita lagrema sconsolà … (p.120)

(Questi alberi che la pioggia / cadaverica di novembre spoglia / sembrano in croce come me / La vita lagrima sconsolata).

Il pensiero della sofferenza dei bambini non fa che riproporre e la sofferenza di Francesca e la propria, per la morte di lei,

…Trotoleta
mio testimone aldelà te m’impiri
nel lazo … (p.128)

(Trottolina / mio testimone al di là mi prendi / nel cappio).

L’ultimo testo de I bocete sembra essere un addio alla propria infanzia, un desiderio forse di ritornare al periodo beato in cui il mondo si riassumeva nella mama, in groppa a un cavallino della giostra che si guarda allontanarsi, sicuri che ritornerà.


III

DIABOLERIA

Come si è accennato, Diaboleria rappresenta un momento di tregua, di riflessione sulla lingua che il poeta utilizza ormai esclusivamente, dopo anni di percorso poetico in italiano. Il primo testo ne dà conferma:

Se prova …
co umiltà ‘na capatina …
sul dialeto … […]
… raisa etimologica …
maniera de parlare d’ogni omo […] (p.159)

(Si tenta / con umiltà una capatina / sul dialetto / radice etimologica / modo di parlare d’ogni uomo);

«con umiltà», sottolinea, per non «imbatariarse de sofismi filo- / logici … che t’ingiassa» (cadere in congerie di sofismi filologici / che agghiacciano). Osservare il dialetto con umiltà, da una certa distanza; vedervi «forse / ‘na lengua materna che viaja / da le vissare a la metafora» (una lingua materna che viaggia / dalle viscere alla metafora, p.161), o una

… ecolingua
grembo o marsupio che abita alita
riscata el sogno …

che «s’indentra / ne le robe vere» (ecolingua / grembo o marsupio che dimora alita / riscatta il sogno / penetra / di più nelle cose vere, p.162).
«La prima fiata che me so catà / nel dialeto xe sta la vose de mama» (La prima volta che mi sono trovato / nel dialetto è stata la voce di mamma, p.163); subito dopo viene nominato il «papà»:

‘ste parole prime parentali
ne l’oro de la vita ciama
l’inconscio lalante … (p.164)

(Queste parole prime parentali / sull’orlo della vita chiamano / l’inconscio lallante).

Ruffato continua a recitare la sua professione di fede:

El dialeto corporeo xe par mi
importante … […]
… Me ricordo
co go detà mama… […]
e ninin nel specio de la lengua
invento d’imamarme… (p.165)

(Il dialetto corporeo è per me / importante / Ricordo / quando ho pronunciato mamma / e minuscolo nello specchio della lingua / invento d’immedesimarmi nella mamma).

Dai balbettamenti alle prime parole:

… go butà
… ‘na carga grìngola
de parole storpiae neologiste […]
e i termini novi…
… me ga montà
la testa da poeta in erba
espressionista … (p.166)

(ho creato / un mucchio allegro / di parole storpiate neologiste / e i termini nuovi / mi hanno montato / la testa da poeta in erba / espressionista).

Qualche anno dopo, l’inizio della scuola (e delle contraddizioni):

Dai topoi vacui del dialetto anale
direto sui banchi de le elementari […]
… Fadiga boia destegolare
la parola materna nel talian
ufficiale … […]
… Desmentegare fra le righe
coèghe mus-ciose del dialeto
che concede license e libertà
negae a la lengua rompibale (p.167)

(Dai luoghi vuoti del dialetto anale / direttamente sui banchi delle scuole elementari / Fatica enorme sbacellare / la parola materna in italiano / ufficiale / Scordarsi fra le righe / cotiche muschiose del dialetto / che concede licenze e libertà / negate alla lingua rompiballe).

E poi la constatazione, amara ma innegabile, che il dialetto parlato oggi non è più quello della sua infanzia:

… el dialeto padovan […]
… el conserva robe de péso […]
ma nacquà sgagnà spanìo sdolcinà
el ga perso l’anema … […] (p.168)

(il dialetto padovano / conserva cose importanti / ma annacquato eroso sbocciato sdolcinato / ha perduto l’anima).

Poiché l’italiano, «lenguagio comuni / cativo del barato» (linguaggio comunicativo del baratto) sembra affossato nella banalità, per il poeta non c’è che ricorrere al dialetto, ma attenzione:

… i diglottici
per salvarse ga da supiarghe
inteleto no solo sentimento (p.169)

(i diglottici / per salvarsi devono fiatargli / intelletto e non solo sentimento);

non solo, dovranno anche trovare termini appropriati, perché:

… convien che anca
el vernacolo oltrepassa i paneseli
streti e comuni de l’idioma. (p.183)

(conviene che anche / il vernacolo oltrepassi i panni / stretti e comuni dell’idioma).

Riletto nell’insieme di Scribendi licentia, Diaboleria dà ancor più fortemente l’impressione – già presente alla prima lettura – di essere stato voluto (apparteniamo al numero, forse esiguo, di persone convinte che la poesia chiede, impone di essere scritta: non deve essere la volontà del poeta a guidare). Nato – secondo noi, e lo ripetiamo – da una pausa di riflessione sull’uso del dialetto in poesia, questo libro si presenta come un’arringa di difesa e una dichiarazione di poetica; ben presto l'umiltà delle prime pagine scompare: Ruffato si attacca a temi diversi (personali, sociali, scientifici), come per dimostrare che è possibile sottoporre il dialetto a tensioni e a rendere in dialetto concetti per i quali in esso non ci sono termini corrispondenti.
Un libro voluto, che forse ci voleva, ma che ci sembra riesca solo a sottolineare che un testo di poesia – se di poesia si tratta – tale si mantiene oltre la lingua che lo sostanzia, sia essa antica o moderna, di tutti o di un gruppo ristretto. Un libro non privo di perplessità anche per l’autore, e lui stesso lo dice. Intanto nelle righe conclusive di El dialeto:

… Me smissio inretoricà
sensa idee ciare e co passiensa
voria riscrivare tuto … (p.172)

(Mi mescolo retoricizzato / senza idee chiare e con pazienza / vorrei tutto riscrivere)

e poi con le variazioni apportate all’originale, e specialmente le amputazioni, numerose e cospicue: un’operazione così estesa non è stata messa in atto da questo autore in nessuno degli altri libri.

Con la sezione Minusgrafie inizia la parte che – già nel libro edito nel 1993 – rappresentava una ripresa dei testi apparsi in Padova diletta, nel 1988. Il primo è ‘sta pianura nostro mondo che, rispetto all’originale è meno discorsivo, più lirico ed essenziale. I versi iniziali sembrano aprire a uno sguardo sereno («Su ‘sta pianura incantono la luna / … / perché le case staga ciare»), ma ciò che sembrava un quieto riandare a come era la vita nel passato si incupisce nelle ultime righe:

M’infiapo a l’odore del fogo
che se stua …
L’inverno su sta pianura
xe dassèn ‘na preson. (p.175)

(Mi affloscio all’odore del fuoco / che si spegne / L’inverno su questa pianura / è proprio una prigione).

Già il secondo brano, Smissiade strambote, porta i segni dell’intervento di Ruffato che apporta variazioni – o, più spesso, elimina versi – presumibilmente per adeguare il testo originale a un diverso modo di sentire. Il brano vuole essere una parentesi di cultura, di etica sociale, cui è affidato il compito di accompagnare, illuminandolo, il cammino dell’uomo. L’autore però non si fa illusioni, conscio che

… pena via
de ‘sti speci incantai se piomba
de bruto nel baitume de l’ambiente
abisso balordo di libertà. (p.178)

Nell’originale si legge:

… pena via
de ‘sti speci incantai se resta
de bruto impapinai dal baitume
inebriante de l’ambiente muci
de metali che cràca sfrìtega
l’abisso balordo de libertà
de la zente solo panse da rana.

In Scribendi licentia i versi sono disposti sulla pagina in modo diverso da quello dell’originale, cosicché le varianti incidono all’inizio o alla fine dei brani. A pagina 179, per esempio, il testo si conclude con «e un servèlo sensa figura da ciodi» (e un cervello senza sfigurare), seguito da un punto, mentre l’originale prosegue per altri 19 versi. Lo stesso avviene per il testo di pagina 180, al quale è stata tolta un’intera sezione di 16 versi.
Spasemanti è disposto, in Scribendi licentia, su quattro pagine. Nell’originale, ciò che ora si legge a pagina 181 era preceduto da quattro versi e seguito da cinque; il testo di pagina 182 era completato da altri nove versi; al brano di pagina 183 è stata tolta un’intera sezione di 13 versi, mentre ciò che si trova a pagina 184 corrisponde esattamente all’originale (Soffermarsi sempre e a lungo per mettere puntualmente a confronto la versione del 1993 con quella – rielaborata – del 1998 non rientra nell’economia di questo lavoro, ma sarebbe certo interessante farlo).
Spasemanti è una riflessione sulla parola; nella rielaborazione, una riflessione liberata da ogni ridondanza, divenuta essenziale, più aderente al nucleo del pensiero. Ruffato dice:

I me pensieri se poda qua e là …
su le parole … […]
… I bocaboli lissiai
francescani me torna a spiegare
ma no i basta … (p.181)

(I miei pensieri si posano qua e là / sulle parole / I vocaboli di bucato / francescani mi ritornano a spiegare / ma non bastano)

Viene in mente Parola pìrola, in cui a più riprese Ruffato ritorna all’identificazione parola / Francesca: il tentativo sempre ripetuto di afferrare la parola per afferrare e trattenere Francesca. Anche qui egli esprime il desiderio di «qualche muceto de parole ciare» (qualche mucchietto di parole chiare), perspicue, capaci di tradurre il sentire. E poiché sta scrivendo in dialetto, specifica che

davanti a la verità de la parola […]
… convien che anca
el vernacolo oltrepassa i paneseli
streti e comuni de l’idioma (p.183)

(davanti alla verità della parola / conviene che anche / il vernacolo oltrepassi i panni / stretti e comuni dell’idioma),

Perché, se le parole sono «ciare», il poeta

podaria squasi sentire la tinta
dei pensieri …
… l’anema del dolore […]
la vose del specio del silensio. (p.184)

(potrebbe quasi sentire il colore / dei pensieri / l’anima del dolore / la voce dello specchio del silenzio).

La parola specchio ritorna nel titolo della sezione seguente, Specio smemorà: uno sguardo sul mondo di oggi. I brani che la compongono segnano lo svolgersi del pensiero; nel primo (p.185) perfino il tempo atmosferico sembra contribuire al pessimismo, che trova materia per sostanziarsi anche nei due seguenti.
Con il testo di pagina 188 inizia la messa a confronto della vita di ieri – nel dialetto – con la vita di oggi; il passato torna prepotente, con La mama (p.189) e Foto de fameja (p.191). ‘Na fregola de mente (p.192) apre una serie di riflessioni sull’intelletto, mentre Nadale stravanio (p.195) parla del Natale nella società odierna, con uno sguardo nostalgico (ma ironico) sul passato. In Umanità derelita (p.199) Ruffato riflette sulle distorsioni, sulle assurdità della società attuale, e in ‘na mapeta de paroloni (p.201) – ultima sottosezione – il discorso si fa più generale, ma lo sguardo pessimistico rimane costante.
L’evoluzione e la statura (p.204) – nella presentazione grafica ancora all’interno di Specio smemorà – porta l’attenzione specificamente sul genere umano; sono quindici pagine, quindici testi, in cui più che mai sembra evidente il desiderio di questo autore di dimostrare che il dialetto permette di affrontare ogni genere di argomenti. Tutta la sezione è fortemente segnata dalla rielaborazione, sia con l'eliminazione di versi sia come variazioni apportate all'interno dei brani.
Specio smemorà, nell’originale del 1993, iniziava 19 versi prima del testo rielaborato. I primi due versi (in Scribendi licentia) sono: «El tempo arlechin guapa / co nuvoloni e diessire» (Il tempo arlecchino fa il guappo / con nuvoloni e dies irae,p.185), mentre l’originale diceva «El tempo arlechin guapa / fanfe de nuvoloni e diessire». Più sotto, «e nel giorno de la mama le torna / de cartapesta sèra cicolata» dell’originale, diventa «e nel giorno de la mama le torna / de cartapesta e cicolata» (e nella festa della mamma ritornano / di cartapesta e cioccolato). Due versi esprimono bene il pessimismo di Ruffato, nel brano di pagina 186: «Depurare disinfestare sercare / carità o amicissia no costuma» (Depurare disinfestare cercare / carità o amicizia è superato). A ciò che appare in Scribendi licentia sono state tolte all’inizio due parti (di 9 e 13 versi); nel testo, alcune variazioni riguardano la punteggiatura, ma non sono le sole. L’originale recita:

Depurare disinfestare sercare […]
la fognarìa tinta telecarosela.
La vose pura lìpega ne la bianca
mitologia, letara che no se
pronunsia o el postin mai porta.
Anca el vin tira intruli DOC. Vano
nel travisàme …

Lo stesso brano, rielaborato, si presenta così:

Depurare disinfestare sercare […]
col primato fognarìa in Europa.
La vose pura lìpega ne la bianca
mitologia, letara che no
se pronunsia o el postin mai porta.
Vano nel travisàme …

(col primato spazzatura in Europa / La voce pura sdrucciola nella bianca / mitologia, lettera che non / si pronuncia o non è mai stata recata dal postino. / Vano nel travisamento …)

Al brano che figura a pagina 187 sono state tolte le iniziali 15 righe; La mama ha lo stesso numero di versi dell’originale, mentre in Foto de fameja sono stati eliminati i primi 17. La maggior parte delle variazioni apportate a ‘na fregola de mente riguarda la punteggiatura: l’inserimento di virgole sembra suggerire una breve pausa, nella lettura, facilitando la comprensione. Le righe finali a pagina 193 sono:

regno dei mestieri più ganzi
par un saco de sistemi e zonta
quelo che no se sa.

(regno delle capacità più astute / per molteplici sistemi e si aggiunga / quello che non si sa)

mentre nell’originale erano:

regno dei mestieri più ganzi
par un saco de sistemi e zonta
acqua padre che riva zente.

Due gli interventi sul testo che ora si legge a pagina 195. L’originale recitava:

Se piomba zo da le scale
ne la stupidità de speceti regali
e bilietini per le festività

ed è diventato: «come i speceti regali e i bilietini per le festività» (come gli specchietti regalo / e i bigliettini per le festività). Più sotto, ancora nell’originale si leggeva:

su l’orinale. ‘Sta cultura boara
storpia rinunsia sempre de pensare
rifletere e remedia a lengua
bassa bofae de spagheti bocai
de cheno che i se smàndola.
In siesta e in frìtola li socore
l’assessore del trafico tornidore

La rielaborazione ha portato a questo risultato:

su l’orinale. ‘Sta cultura boara
rinunsia sempre de refletere
e remedia a lengua bassa
co bofae e che i se smàndola.
Ghe dà ‘na man l’assessore
del trafico tornidore

(sino al gabinetto. Questa cultura bovara / rinuncia sempre alla riflessione / e rimedia a lingua bassa / con abbuffate e che vadano al diavolo. / Dà loro una mano l’assessore / del traffico tornitore)

L’amaro che Ruffato ha in bocca gli detta i versi con cui conclude Nadale stravanio:

… el Nadale in ‘sta società
trufalda, che cambia canale
a champagne, par rimetarse in sesto
ga da contare in zalo e foresto. (p.198)

(Il Natale in questa società / truffaldina, che cambia canale / a champagne, per ripristinarsi / deve raccontarsi in giallo e straniero.)

Anche in Umanità derelita gli interventi sono all’interno del testo. Dopo sei righe senza variazioni, a pagina 199 si legge «par alsare el valore de la cinina / diversità» (per elevare il valore della microscopica / diversità), quando l’originale diceva «par tegner su el valore de la cinina / diversità»; qualche riga dopo, «va ciapà co pinse e savia umiltà» diventa «va pinsà co savia umiltà» . E subito dopo,

L’ingegneria genetica impermalìa
se buta ne la pignata de bojo
del damonio a cambiare i conotati
drento e fora de l’individuo …

diventa:

L’ingegneria genetica impermalìa
squasi s’indamonia a cambiare i conotati
drento e fora de l’individuo …

La rielaborazione di ‘na mapeta de paroloni ha suggerito a Ruffato di inserire alcune virgole, di dividere il testo in due parti, di togliere alcuni lemmi. Indichiamo qui sotto, a sinistra, l’originale e, a destra, il testo che figura alle pagine 201 e 203 di Scribendi licentia:

Casco pien de buti dopo franse Casco pien de buti in corte de
l’ecologia […]
trodi gàtoli in corte de l’ecologia sotosora sofisticà dai sciensiati
sotosora fa bum imborià insembrà co termini galeoti
de lissia insembrà co termini galeoti

Produssion e volante va sofegai Produssion e volante va sofegai
qualche altro libro serio va qualche altro libro serio va digerio
digerio par inventare mondi par inventare mondi diversi più beli.
diversi più beli.

(Cado pieno di germogli nel cortile dell’ecologia / sottosopra sofisticata dagli scienziati / mescolata con termini galeotti / Produzione e volante vanno imbavagliati / qualche altro libro serio va digerito / per inventare mondi diversi più belli).

Nel libro edito nel 1993 l’ultima sezione è intitolata L’evoluzione La statura La veste. In Scribendi licentia il terzo titolo è stato eliminato, così come anche quasi tutto il testo che lo illustrava. Sono rimasti soltanto i dieci versi che ne costituivano la quarta parte, mentre non figurano più i precedenti 50.
Il tutto è diviso in una introduzione, e in tre sottosezioni: L’evoluzione, El nostro antenato, La statura. Come risulta chiaro dai titoli, si tratta di una riflessione sull’evolversi della specie umana; che l’approccio voglia essere scientifico è tradito dalle espressioni usate. Si veda per esempio, a pagina 205, «La sciensa se sforsa de sponciare / senso e ragni in tuti i busi» (La scienza si sforza di pungere / senso e ragni in tutti i buchi), e «…tempo de la creassion big bang» (tempo della creazione big bang); alla pagina seguente «el bojore se lentava… / L’universo / traversa i ani de galassie e stele / dove se crea materia matrice / de pianeti vita e inteligensa» (la temperatura si allentava / L’universo / attraversa gli anni di galassie e stelle / dove si crea materia matrice / di pianeti, di vita e intelligenza). A pagina 201 Ruffato ritorna al suo atteggiamento intriso di pessimismo:

Tanti aneli de la caena come
sempre manca e la vita funsiona
de come e de cossa gnente perdona
e a ognuno dona un metro
de tera sora …

(Tanti anelli della catena come / sempre mancano e la vita funziona / di come e di cosa niente perdona / e a ognuno dona un metro / di terra sopra.)

Con lo sguardo che ripercorre i millenni, Ruffato si rende conto che l’uomo di oggi ha ancora le paure dell’uomo primitivo, perché la vita è macchina matrigna:

… Noaltri […]
… coémo le so paure rabiose
nei suori dei pori, le mole
de la machina mostruosa che matrigna
ne butarà su la crua strada […] (p.214)

(Noi / coviamo le sue paure rabbiose / nei sudori dei pori, le molle / della macchina mostruosa che matrigna / ci scaglierà sulla cruda strada).

Abbastanza importanti i tagli che sono stati praticati. L’introduzione (p.204) inizia con «Provo ciuciare l’anema» (Tento di succhiare l’anima), verso che viene dopo 19 altri, nell’originale. Tra il verso undicesimo e il dodicesimo ce n’erano altri quattro. A L’evoluzione (p. 205) sono state tolte le prime cinque righe, e altre undici tra il terzo e il quarto verso. De La statura (p. 215) sono rimasti i primi tre versi e gli ultimi due (ne vengono eliminati 12), uniti da un verso che non figura nell’originale: «Ma tien sempre el dito coi so segreti» (Ma resiste il detto con i suoi segreti).


IV

SMANIE

SAGOME SONAMBULE

Dopo l’intervallo di Diaboleria – e siamo grosso modo a metà volume – con Smanie inizia la serie delle poesie in dialetto che per la prima volta si trovano raccolte e pubblicate insieme. I nove testi che compongono questa sezione sono spesso suddivisi in più parti; in generale si tratta di riflessioni – profonde – sulla vita: la vecchiaia che si avvicina, il dolore, la morte. Riflessioni pacate, quasi trascurate, con qualche punta di ironia; più malinconiche che tristi, perché rimane immutato uno sfondo di grave serenità.
Dopo un lungo brano (intitolato a A ahi) in cui parla, alternativamente, del passato (con ironia) e dell’attualità (con acre amarezza), da Impìria in avanti la voce di Ruffato si fa più bassa, più intima. Impìria significa ‘imbuto’: le immagini iniziali sono serene – le voci del primo mattino –, poi il campo va restringendosi sempre più, fino all’ultimo verso:

… se ricuca la comedia
da novo la solfa sénare
de robe tacà a parole
fifa de perdarse. (p.229)

(si riprende la commedia / ricomincia la solfa cinerea / delle cose adese alle parole / paura di perdersi.)

Ombrìa: la propria ombra, la propria coscienza, forse il proprio esistere come un’ombra che vagola per la città, quella «Padua» che il poeta conosce da sempre, di cui sa il «vecio / parlare pedalà da la mente» (vecchio / parlare pedalato dalla mente, p.233). Ombrìa: «Verso sera la se slonga» (Verso sera s’allunga, p.230); la fine del giorno porta il pensiero alla fine della vita, e a chi è già uscito dal tempo:

Pardelà nel scuro forse sarà
bianca, pausa de vose lampra
de Francesca … (p.230)

(Nell’aldilà al buio forse sarà / bianca, pausa della voce limpida / di Francesca)

Vivere come un’ombra, mentre

se se dresfa nel sugo insaòre
de la vita che se fa pregare
sbombasa, spampana sfinission. (p.231)

(ci si scioglie nel sugo insipido / della vita che si fa pregare / sfilaccia, sparpaglia sfinimento).

Vivere

… Soto ‘sto cielo sgrafà
de rabalton el verbo volante
continua a sercare la pompa
de la verità nua e crua. (p.232)

(Sotto questo cielo graffiato / a rotoli il verbo volante / continua a cercare la fonte / della verità nuda e cruda).

Il tono sommesso continua, brano dopo brano, e i temi si ripetono: l’indebolimento del fisico, la fine della vita che si fa più vicina, e Francesca, che sembra quasi il traguardo da raggiungere. In Ociae, «montagne / de scommesse smoltòna la siora / in nero» (montagne / di scommesse incalzano la signora / in nero); il ricordo di Francesca è sempre presente ma – dice il poeta – «No bato / el loculo che la riposa più / segura ne le arte de l’amore» (Non busso / al loculo che la riposa più / sicura nei panni dell’amore, p.237).
Onge (p.238) è estremamente triste; sotto un’apparenza di umile concretezza, descrivendo le unghie consumate dalla vita il poeta parla dell’anima consumata dal dolore.
Il brano seguente – che porta lo stesso titolo della sezione – è interamente dedicato alla figlia. Nei primi cinque versi l’idea della fine della vita (implicita nel «tramonto») apre al ricordo di Francesca:

Frantumà … […]
… sensa dover
spetare el so bruto evento, la xe
andà via nel specio scuro … (p.239)

(Frantumata / senza dover / attendere il suo brutto evento è / andata via nello specchio oscuro).

Il ricordo emerge dopo una notte insonne, o durante il giorno, col buio e con la luce:

La se sconde nel denso che no core
el giorno bon drio la sveja
o st’altro sempre svejo … (p.240)

(Si nasconde nella densitità che non porta / il giorno buono dopo la sveglia / o l’altro sempre sveglio).

Nella conclusione, la presenza evocata è ora così viva che il poeta può dire: «La me varda, me meto calmo / nel so silensio che sa» (lei mi guarda, mi metto calmo / nel suo silenzio che sa, p.241).
Francesca è presente anche in Elbane (p.242); Ruffato la rievoca insieme a ricordi della propria infanzia, alla presa di coscienza che in ciascuno è «un vodo / machina storna che drento ne frua» (un vuoto / macchina storna che ci consuma all’interno), che inevitabilmente «Parole braghiere a zonta ne sfrata / da noialtri» (Parole tirapiedi inoltre ci sfrattano / da noi stessi), che la inevitabile vecchiaia è «Mareta de veci limèghe / de la morte» (Maretta di vecchi lumache / della morte, - le tre citazioni a p.246). Francesca è presente malgrado il poeta dica

Non so proprio dove fermarla forse
in foto … […]
… Nel diario
papavari strasséte muciae, bòcoi
de voseta, la piega sofrente
sul viso m’impresta giosse
de vita nova … (p.244)

(Non so proprio dove fermarla forse / in fotografia / Nel diario / papaveri, straccetti ammucchiati, boccoli / di vocina, la piega del soffrire / sul viso mi prestano gocce / di vita nuova).

Le dieci parti di Foje sono davvero come foglie che si staccano a una a una dall’albero; identiche, eppure ciascuna con una propria individualità. Sempre sottovoce il poeta racconta:

‘na sera … […]
… el silensio me caincaìna
l’anema … […]
… Le date scola scadense (p.249)

(una sera / il silenzio mi guaisce / l’anima / Le date scolano scadenze).

Nel silenzio osserva se stesso:

Vecio … […]
stilita el s’indeserta ne l’emossion
de scampare al tempo che no se fa
ciapare … […]
… No serve
fare el morto par torsela dal mulin
del deventare, el doman … […]
nel corpo caorìo no verze porte
nove el segue la so sorte. (p.251)

(Vecchio / stilita s’indeserta nell’emozione / di sfuggire al tempo che non si fa / afferrare / Non serve / fare il morto per svignarsela dal processo / del divenire, il domani / nel corpo capofitto non apre porte / nuove segue la propria sorte).

Si confessa: «El me dolore miga in pensione xe / sempre più agro» (Il mio dolore non in pensione è / sempre più stanco); «Desso scambio la so stèle par tela / piturà» (Ora scambio la sua stele per un dipinto); «Me resta ‘na streja de busi in man» (mi resta in mano un filare di buchi, le tre citazioni a p.252). Le foglie si posano a terra una dopo l’altra: si susseguono i ricordi di luoghi, di circostanze; l’essenza del pensiero del poeta traspare da frasi come

… i foji del libro
che la vita no lassa de sgorbiare
co l’inciostro bianco e la morte
ricalca co la china. (p.257)

(i fogli del libro / che la vita non tralascia di sgorbiare / con l’inchiostro bianco e la morte / ricalca con l’inchiostro di china)

e anche

… me ripesco
in un desso scontà, un passà
drento la sorgiva megòla del doman.
El me tempo forse no xe che …
… un manco
del fià del tempo temporum. (p.259)

(mi ripesco / in un presente scontato, un passato / interno al midollo sorgivo del domani. / Il mio tempo forse non è che / un minus / del fiato del tempo temporum.)

Conclude la sezione Soni perlai, un inno alla «so vose» (la sua voce, p.261), evocata forse dal ritrovare parole scritte da lei.

In Scribendi licentia, Smanie è datata 1995; Sagome sonambule, che si trova subito dopo, porta la data 1993-1997. Segue poi Vose striga (1990-1997), e infine Giergo mortis (1997). Queste date fanno presumere – da una parte – che in Ruffato lo scrivere poesie in dialetto fosse diventato istintivo e naturale come il respirare, al di là del progetto di raccoglierle / pubblicarle , e – dall’altra – che nel momento di scegliere e ordinare il materiale per Scribendi licentia egli abbia tenuto conto di motivi ispiratori più fortemente presenti in alcune, che volevano quindi essere evinte dall’insieme e raggruppate in sezioni omogenee.
Sagome sonambule sembra essere invece la raccolta di testi eterogenei – anche al loro interno – forse riprese e rielaborazioni di prove precedenti (è ben nota la tendenza di questo autore a rileggersi, a riscrivere, prima di sentirsi soddisfatto del risultato.)
Delirio sigàla (p.267), per esempio, inizia come testo sulla voce: «La voce camina su e zo parole / nunsie de poesia» (la voce cammina su e giù parole / annunciatrici di poesia); la voce, che è «miomao muinelo co l’aldelà» (miagolio continuo con l’aldilà), che si condensa nel dialetto («la sgorga parola idioma), sgorga parola e idioma).

El lenguagio spotico
la governa imbraga sòfega
ma va a finire ch’el so dire
se basa sul bocabolo e su la recia
de un son de l’ombra de st’altro
perché a dire se xe sempre in do (p.267-8)

(Il linguaggio dispotico / la guida imbavaglia soffoca / ma si conclude che il suo dire / si basa sul vocabolo e sull’ascolto / di un suono dell’ombra dell’altro / dal momento che a dire si è sempre in due).

Il lemma voce ne richiama altri: «oralità», per esempio, e «telefono», «maniera ariosa de impenire vodo / e solitudine» (un modo aereo di riempire vuoto / e solitudine, p.268). Interviene la riflessione amara: sia orale che scritto

Un lenguagio co drento el so senso
che sapia dire donde el riva e capirse
pare ch’el manca. (p.269)

(Un linguaggio con il proprio senso interno / che sappia dire da dove giunge e comprendersi / non sembra esistere).

Poi il pensiero scivola sulla morte, «La sagoma che … ocia» (la sagoma che sbircia) che il poeta allontana affrontandola a viso aperto, con ironia: «so ben / bindolarla, vinso da tre ani poker / al buio da smato» (so bene / abbindolarla, vinco da tre anni a poker / al buio per divertimento, p. 270), conscio che

No serve sderenarse su natura e fato
del nostro buto embrionale
par farlo co artifissi imortale. (p.271)

(Non serve scervellarsi su natura e destino / della nostra gemma embrionale / per renderla con manipolazioni tecniche immortale).

Francesca, cui il pensiero ritorna di continuo, è presente anche in questo brano, e con lei ritornano la voce e il dire dell’inizio:

Indirme par rivare più in là […]
… par volerme inrobare
robarme a mi sensa el to va ben
stavolta smamo … […]
Go sempre tentà par ela parole
de lissia …
… pai altri parole trucae
de verità … (p.273)

(Penetrare nel dire per giungere più in là / per volermi fare cosa / rubarmi a me stesso senza il tuo consenso / questa volta smammo / Ho sempre tentato per lei parole / di bucato / per gli altri parole truccate / di verità).

Parure liquida (p.275) appartiene al filone della poesia civile, che spinge Ruffato a scrivere sulle contraddizioni, le assurdità, i mali della società attuale. Il suo sguardo sembra sottolineare – con una specie di amaro accanimento – l’aspetto grottesco, miserevole, delle persone e dei fatti. Qui l’occasione è l’«esodo boada obbligo de l’ano» (esodo a valanga obbligo dell’anno, p.276), la villeggiatura obbligatoria che è esodo, fuga.
Negli altri quattro testi che compongono la sezione è il padre che parla alla figlia. In Fumeto bianco le dice «Ma forse te si / ancora qua co mi» (Ma forse sei / ancora qui con me, p.280), e aggiunge «Voria sentire sospirare el silensio» e «noare ne le lagreme in fondo» (Vorrei sentire sospirare il silenzio / nuotare nelle lagrime profonde, p.281). Francesca è diventata «ramai piata realtà / fantasma da fora» (ormai piatta realtà / fantasma all’esterno, p.282) e


L’io vodo scuro de l’universo […]
… rompe e sfesa
el dolore … (p.285)

(L’io vuoto oscuro dell’universo / disturba e fende / il dolore).
(Che questo brano – e altri della sezione – appartengano a un periodo meno recente è suggerito anche dalla presenza del multilinguismo, in seguito quasi completamente abbandonato).
Otobre de zali (p.286): dal colore dell’autunno sembra che il giallo si diffonda, come veleno, a contaminare il mondo. Sappiamo che il giallo era il colore preferito di Francesca, e non stupiscono quindi gli abbinamenti che Ruffato fa con questo colore. Parte dalla «Luna nova … de otobre», che evoca caldi ricordi d’infanzia, ma passa quasi subito a «fiumi foreste … bassini / sbarossà / (fiumi foreste bacini / malridotti, p.288), a

man ch’insende de splosivi
dadi bische lotarie
farine e late bestiari dirotà
ai cristiani … (p.289)

(mani acide di esplosivi / dadi bische lotterie / farina e latte per il bestiame dirottati / ai cittadini).

Il giallo / veleno continua a propagarsi, a contagiare:

… droghe … bessi onti
carità fintòna … […]
… spetri del mondo de fame
mare nostru morto da catrame […] (p.289)

(droghe, denaro sporco / carità ipocrita / spettri del mondo di fame / mare nostrum morto di catrame).

E su tutto la consapevolezza di essere sulla terra soltanto di passaggio, un puntino su quella

… roda che mena
ramena opare lunari stagion
le ombre de noaltri cossita curti
che ne taca de pi a sora morte (p.291)

(ruota che conduce / dimena opere calendari stagioni / le ombre di noi così corti / che più ci aderiscono a sorella morte).

Gialla «la pramosìa de gloria» (il desiderio di gloria, p.291), giallo «el sunio de tornare d’aldelà» (il sogno di tornare dall’altro mondo, p.292). «Soto do vose zale» (sotto due voci gialle) i segni dell’età che avanza:

… no te
spandi più la polpa del mondo,
in naftalina co le maje
el creapopoli s’infiapa … (p.295)

(non / versi più la polpa del mondo, / in naftalina con le maglie / il fallo si affloscia).

La rabbia amara si è riversata, come il giallo, su tutto ciò che suscita disgusto, indignazione, sofferenza. Ora Ruffato è più calmo, il colore tante volte nominato si abbina a «campi de formento» (campi di grano), a «biade e panoce» (biade e pannocchie), a «i girasoli» (le tre citazioni a p.296); si abbina a Francesca che gli dice

… vegno
a parlarte donde pramo tornare
nell’aldelà … (p.297)

(vengo / a parlarti da dove desidero ritornare / nell’aldilà).

Sono gli ultimi versi del brano; l’ottobre del titolo ritorna nel verso «Otobre ponsabondo se scolta» (Ottobre meditabondo si ascolta), la sensazione che rimane al lettore è quella del silenzio.

La parola vuoto, per Ruffato, non sembra evocare il silenzio, ma piuttosto un susseguirsi di suoni artefatti, come nella dizione esagerata di certi attori (il birignao, appunto). Lo si evince dal titolo del penultimo brano di questa sezione, Birignao nel vodo. «Le parole / se lagna de le robe» (le parole / si lamentano delle cose), «el tempo se svoda» (il tempo si vuota),

… el cuore
… no sa co chi
osare nel stufo mulin che struca
todo el so sangue … (p.298)

(il cuore / non sa con chi / gridare nello stufo mulino che spreme / tutto il suo sangue).

È ancora di Francesca che il poeta parla, di lei – consumata dalla stanca macina della vita; di lei, che «xe tuto spirto» (è tutto spirito, p.300). Il canto de «La sigàla» che «se sgola» (la cicala / si strugge) gli evoca «echi sgrignenti de aneme andae» (echi rabbrividenti di anime scomparse, p.301), mentre dice a se stesso:

recogo idee, sgorbio suni
m’ insìmbolo edera de la memoria
spalanco parole sui generi
de un silensio …
… che vardascolta …
el bandolo … del nostro cinevita. (p.301)

(ricompongo idee, pasticcio sogni / mi faccio simbolo edera della memoria / spalanco parole sui generis / di un silenzio / che guardascolta / il bandolo del nostro film vita).

Idee, sogni, e il rivivere la sua grande disgrazia:

… Lingua
suito torpet, lachrimae volvuntur
inanes …, le robe
se fa bara … […]
poca forsa par llorar e manco
sbrochetando par bevir. (p.304)

(La lingua / subito si paralizza, scorrono lacrime / vane, le cose / si fanno bara / poche energie per piangere e meno / rabbrividendo di freddo per vivere).

Sempre rivolta a Francesca è l’invocazione che chiude questo brano:

no dolerte perché so solo […]
Svodo cremà dai pensieri
nel più lontan esilio me spense
el magon del sito … […]
… la vita che no se rende
a cargarse da la morte. (p.306)

(non addolorarti perché sono solo / Vuoto cremato dai pensieri / nel più lontano esilio mi eccita / lo struggimento del silenzio / la vita che non smette / di caricarsi dalla morte).

Laconica continua il discorso su / con Francesca, ed è ancora un esempio di multilinguismo. Oltre all’italiano e al dialetto il poeta ricorre al provenzale, non soltanto utilizzandone alcuni lemmi ma anche creando un’atmosfera da amor cortese (fin’amor e amor de lonh). Il brano, e la sezione, si concludono con questi versi:

Svampia creatura non ce l’hai fatta
a passare dal principio del piacere
a quello di realtà. Mi darai
un cenno, una mano per l’aldilà. (p.310)

(svampìa: svanita)


V

VOSE STRIGA

Tre lunghi componimenti – ricco ciascuno di suddivisioni – fanno parte di Vose striga. L’autore, che aveva già dedicato due raccolte alla parola (Parola bambola, in italiano, nel 1983, e Parola pìrola, in dialetto, nel 1990), punta ora la sua riflessione sulla voce. La voce che precede la parola, se per questa s’intende il grafema, ma che in realtà la sostanzia. Il pensiero – che nasce nel silenzio – attraverso la voce (il suono) diventa parola.
Ciao vose è il primo componimento; in esso Ruffato traccia la storia della voce, dalla sua origine («l’idea d’un son vose / scominsia ne la scorsa servelare», l’idea di un suono voce / inizia nella corteccia cerebrale, p.317) al suo vario modo di esprimersi a seconda del sesso e dell’età della persona cui appartiene, e degli stati d’animo, e di ciò che il pensiero riveste. Al di là di tutte le variabili, resta la constatazione che

No gh’è figura che co la vose […]
… no conta el magon de la pasta
umana … […] (p.318)

(Non c’è figura che con la voce / non racconti il dispiacere della materia / umana).

«La vose rauca e ransa xe come / l’orbo che vole drentare nel specio» (La voce roca e rancida è come / il cieco che vuole entrare nello specchio), come chi vuole compiere qualcosa di impossibile; eppure l’autore non desiste:

Ma st’altro ieri … […]
… un supieto birbo me ciama
… e mi a tirarlo vivo […]
a despiegarlo sigo de aquila
a farse st’altro novo par entrare
in onda giusta che se fa capire […] (p.319)

(Ma l’altro giorno / un soffio bricconcello mi chiama / ed io a resuscitarlo / a spalancarlo grido d’aquila / a farsi nuova alterità per entrare / nell’onda giusta che si fa comprendere).

La vose … […]
Cota da luce imbiancà la devien […]
… el smissioto
de lengue raise in solfe che riva
… a fruare le corde
del dolore e de la paura. (p.322)

(La voce / Rapita da luce immacolata diviene / il miscuglio / di lingue radici in melodie che giungono / a consumare le corde / del dolore e della paura).

La vose … […]
… Infiabà la dise
la sua torno la mapa dei nostri
geni … (p.323)

(La voce / ormai fiaba dice / il suo parere sulla mappa dei nostri / geni).

E ancora la nota amara: la voce è «Nerbica ne la so fralità par dire / el dolore rerum» (Energica nella sua debolezza per dire / il dolore delle cose, p.324). La voce si fa parola, ma non sempre per questo quello che esprime diventa comprensibile:

El mondo del son barluma …
… [el] so scontento
par no bastare a capirse. (p.326)

(Il mondo del suono barluma / [il] suo malessere / per l’insufficienza di capirsi).

Vose striga raccoglie componimenti scritti dal 1990 al 1997; dal tono di quelli di Ciao vose (senza parlare del multilinguismo che è ben presente) è facile capire che essi appartengono ai primi anni Novanta; nelle brevi citazioni fatte emergono lemmi come «dispiacere», «dolore», «paura», «malessere», e quell’ «insufficienza di capirsi» , quel dover riconoscere i limiti della parola, che per lungo tempo hanno rappresentato quasi un’ossessione per Ruffato. È difficile comunicare anche perché condizionati dal modo di guardare alle cose – che varia dall’uno all’altro – il che fa sì che uno stesso vocabolo possa avere connotazione diversa per chi lo pronuncia e per chi lo ascolta.
Che l’autore seguisse questa linea di pensiero è suggerito da quell’«orbo che vole drentare nel specio», richiamato da «Alice» di pagina 327. La voce si «svena» nel contesto verbale; «rancontrandola», bisogna «pulsarla de novo amore» (incontrandola / pulsarla di nuovo amore, p.328).
La voce / suono assume anche il significato di voce / poesia, nel ritornare al triste pensiero dominante:

Tabida, languida ne le grespe
de mente e corpo, ramai angossà
… vose viola …
in visita dei sepolcri … (p.330)

(Struggente, languida nelle rughe / di mente e di corpo, ormai angosciata / voce viola / in visita dei sepolcri).

Il pessimismo di Ruffato non manca occasione per esprimersi («no spetarse dal prossimo / el bis de la vita», non attendersi dal prossimo / il bis della vita, p.331), ma altrettanto fa il suo senso di dignità, di coscienza del proprio valore: «Mejo ‘sto giorno d’alta carga drento / che secoli de festa» (Preferibile questo giorno di alta carica interna / che secoli di festa, p.332). La propria voce / poesia è «Enimistica», è «alfabeto altro», è «lapis drento in libaro spirito» (Enigmistica / alfabeto altro / sismografo interno in libertà di spirito, p.333); denuncia

l’universo sbregà da pianti urli
co zente grama in guerre civili
religiose, spotiche idiossie
poarame, stupre nefande crudeltà. (p.334)

(l’universo lacerato da pianti urli / con gente grama in guerre civili / religiose, dispotiche idiozie / miseria, stupri nefande crudeltà),

denuncia la morte, che atterra e annichilisce, alla quale non c’è rimedio e consolazione, il cui «pensiero lassa peche / cristiche ben più in là de le campane / pal resurge / (pensiero lascia tracce / cristiche ben più oltre le campane / della resurrezione, p.335).
La voce / poesia

Perplessa sul mondo …
… e sui dubi
del parlare le robe, la prova
serciarle e no lassarle morire (p.337)

(Perplessa sul mondo / e sui dubbi / del far parlare le cose, tenta / di cerchiarle e tenerle in vita);

la voce / suono la sostanzia («ela intona e inverba co speciale / imaginassion metaforica de echi», si fa tono e parola con particolare / immaginazione metaforica di echi, p.338), mentre l’autore riconosce: «Ma mia vose la xe cussì fata: / né tu senz mei, né jeo senz ti» (Ma voce mia le cose stanno così / né tu senza me, né io senza te, p.341).

Che sia stata o meno elaborata nel periodo che immediatamente precede la Pasqua, Ciao vose risulta immersa nell’atmosfera della Passione; lo conferma anche il brano conclusivo, in cui «El sabosanto se specia ne l’ombrìa / macà del venare» (Il sabato santo si specchia nell’ombra / ammaccata del venerdì, p.342): per il padre, la morte di Francesca – avvenuta di sabato – ripete la morte di Cristo.

La «Voce gitana» (Vose sìngana), cioè libera e indipendente, non ancorata a una terra, «in hagg pelegrino ai tropici» (in pellegrinaggio ai tropici, p.345), sulla bocca di genti diverse accompagna Ruffato nelle sue riflessioni. Il viaggio / pellegrinaggio può essere stato reale, o compiuto sulla carta geografica, o seguendo le notizie dell’attualità: non è lo stimolo che importa, ma il pensiero da esso suscitato.
Djerba, Gerusalemme ebrea e musulmana, Damasco: voci diverse che portano però «a simbolarne tuti compagni / in facia a Dio» (a simboleggiarci tutti uguali / di fronte a Dio, p.347).
La voce «Dura / ’sta fadiga tra note savue e saente / silenzio» (Continua / questa fatica tra note conosciute e sapiente / silenzio, p.351); «veicola / el costo del dolore» (veicola / il prezzo del dolore, p.354); nel richiamare le stragi nella ex Jugoslavia, «ga ramai spirà anca la morte» (ha ucciso ormai anche la morte, p.356).

‘sta vose orfana […]
… famà de pase
patria amore civiltà, la ponta […]
drita al cuore … (p.357)

(questa voce orfana / affamata di pace / patria amore civiltà, mira / dritta al cuore).

In serbo-croato nel testo, Ruffato traduce in parole questa voce che invoca «fratelli serbi croati / mussulmani, deponete le armi», forse temendo che il peggio debba ancora venire.
Anche se la vicenda si svolge «delà Adriatico» (al di là dell’Adriatico, p.356), e intorno a sé non vede pericoli imminenti, l’autore non può impedirsi di provare un profondo senso di inquietudine («Nihil timendum video sed tamen timeo» , Non vedo nulla da temere ma tuttavia temo) – e aggiunge subito perché:

Vardo la verità farse ponte cao
silenzio e luce discorare su la palù
sul stisso ultimo che se xe. (p.359)

(Guardo la verità farsi punto limite / silenzio e luce discorrere sulla palude / sul tizzone ultimo che siamo).

La voce della sofferenza del mondo non fa che evocare, sottolineare, la sofferenza personale, che non sembra possa essere placata se non chiudendo – per sempre – gli occhi:

In fondo la nebia i oci
de la morte sbolà. Se perde el lume
in sto plasma figurale pelegate
del vodo …
che vosa l’ansa d’anema … (p.363)

(In fondo annebbiano gli occhi / della morte disorientata. Si perde coscienza / in questo plasma di figure raggrinzite / del vuoto / che gridano l’affanno dell’anima).

Nel brano conclusivo, arrivando forse a dubitare persino della propria voce / poesia, della propria capacità di tradurre il pensiero, Ruffato si osserva dall’esterno e commenta:

Lu spua gemi scuri …
… L’erba no svissia de secarse
parole despossenti siliconae
perde ennoia come el mare che s’indrìa
ne le alghe. (p.364)

(Lui sputa gomitoli oscuri / L’erba non perde il vizio di seccarsi / parole appassite siliconate / omettono il pensiero come il mare che arretra / nelle alghe).

Vose striga: la terza parte di questa sezione ne ripete il titolo. Ruffato parla ancora della voce / suono e della voce / poesia, della sua e di quella degli altri – del mondo. La sua voce che pronuncia / scrive

… salutz e versi
che me discolpa squasi rialsa i tolti
… par finire la morte.
Insensà tanto rùmego …
par la salute de ‘sto mondo … (p.367)

(saluti e versi / che mi discolpano quasi risollevano gli scomparsi / per finire la morte. / Senza senso tanto rimuginio / per la salute di questo mondo)

togliendogli il senso di colpa, annullando il potere della morte, ridando – nel ricordo – la vita a chi non vive più. Ma, per il mondo, forse tutto questo è «senza senso», è soltanto un «rimuginio»; l’autore, «Stufo / de tavarare pensieri» (Stufo / di papulare pensieri, p.368), si rende conto della mancata ricezione e confessa «No rivo a butarghela gnanca vestìa / de dialeto» (Non riesco a lanciargliela nemmeno vestita / di dialetto, p.369). Eppure «L’anema nueg / sorareale magòna l’obra poetica» , mentre chi scrive (e Ruffato parla di se stesso)

Prisone spanìo de ‘na vose andà […]
… el sfoja el libro
de la sapiensa par scovèrsare pia
licensa del vero viajo … (p.372)

(L’anima notte / surreale sollecita l’opera poetica. / Prigioniero sfiorito di una voce andata / sfoglia il libro / della sapienza per scoprire pia / licenza del vero viaggio).

Si ispira ai grandi poeti del passato («serco / peche del pastore selvadego», cerco / orme del pastore errante, p.373), risente del contrasto tra una realtà di debolezza e le aspirazioni: «Eritis sicut dii / sumus invesse ombrìa flente» (Sarete come dei / siamo invece ombre di pianto, p.374).
Per il mondo tutto questo è «rimuginio», ma l’autore non desiste, perché sa che «‘sta vose bronsa dona frégole / diamante di memoria» (questa voce brace dona briciole / diamante di memoria, p.375); sa che la voce è «‘na robità che tira / anca Dio traverso scarpie de segni» (una realtà che attinge / anche a Dio attraverso una ragnatela di segni, p.376).
Francesca, già presente nel lemma «memoria» è evocata poi da «camposanto»: Ruffato si identifica alla propria voce («La porto al simitero per la quarta / volta», La porto al camposanto per la quarta / volta, p.378), che utilizza per fermare sulla pagina i ricordi. «Vose putina», «conta / eterna del sfantà», «el dentin cascà messo là pal soldin» (Voce bambina, racconto / eterno di ciò che è scomparso, il dentino caduto posto là per il soldino, p.379). E ancora:

… mi maistre falace, ela
mago intertesto sul vecio e novo
trobar … […] (p.380)

(io maestro fallace, lei / magico intertesto sul vecchio e nuovo / poetare).

Il discorso torna ad allargarsi; in primo piano si alternano la voce e Ruffato: la voce è «Vose ciave / che verse porte site» (voce chiave / che apre porte zitte); è «goloso passin de ideali / penin diamante che gnanca parole / orche, causa causorum, schinca» (goloso setaccio di ideali, / pennino di diamante che nemmeno parole / terribili, causa di cause, spuntano, p.382); «minuèta / co genio sovrano de Bach», «cambia el timbro / se contralta su aghi de bròsema» (minuetta / col genio sovrano di Bach, muta il timbro / si fa contralto su aghi di brina, p.383). L’autore si autodefinisce

eroe morbin su l’oro d’aventura
buto alto dreit nien, lengua calin […]
… La vose
s’enansa su la me sgrinfosa speransa […]
mi no ris-cio nove parole intanto
che bombe tritòle e ufana
retorica ne destrada e barbaria.
Ela me sirena sempre savio esilio. (p.384)

(eroe inquieto sull’orlo di avventura / getto in alto puro niente, lingua fuliggine / La voce / si gonfia d’emozione sulla mia prensile speranza / io non arrischio nuove parole mentre / bombe al tritolo e pompa / retorica ci fuorviano e imbarbariscono. / Lei mi insinua sempre saggio esilio).

Ruffato parla di sé parlando della propria voce, «gossa de zefiro / sensa fi», mentre confessa «sento temensa del vodo sconto» (goccia di zefiro / senza fi, provo timore del vuoto nascosto, p.385). La sua voce si è fatta autocoscienza; si è nutrita del pensiero, del dolore, della morte; è insorta a denunciare e la sofferenza del mondo che la società del benessere non è riuscita a far diminuire, e il mancato rispetto per la natura, con le inevitabili conseguenze. Ora lo ripete:

… el clima del passà
za uncò uno do gradi alsà […]
Nuvole spetrali riflete disastri
de guere, el morire boceta roto … (p.390)

(il clima delle epoche remote / già oggi aumentato di uno due gradi / Nuvole spettrali riflettono disastri / di guerre, il morire infantile sconcio);

l’uomo si ritiene onnipotente, eppure sono «i geni» che «scarabocia el nostro fato» (i geni scarabocchiano il nostro destino).
Tra i mali del mondo per Ruffato c’è indubbiamente anche lo stato attuale della lingua, ritenuta ormai poco adatta a fare poesia; non lo consola che la «voce» (questa volta non la sua, ma quella del mondo)

… zonta
ch’el parlà pur tochetà in sigle e sesti
vive intiera ‘na so pompa aerea
e nol se lagna s’el scrito tira
drito … (p.393)

(aggiunga / che il parlato sia pure frammentato in sigle e gesti / vive intera una sua gloria aerea / e non si lamenta se la scrittura va dritta / allo scopo).

Vose striga si conclude con un ulteriore elenco di qualificazioni della voce (voce / suono e voce / poesia):

… la xe
‘na pitura, ‘na mapa fabetica
‘na porta …
el vano el pien de l’anema
‘na rason astripeta de filosofia … (p.394)

(è / una pittura, una mappa alfabetica / una porta / il vuoto il pieno dell’anima / una ragione astripeta di filosofia);

nel congedarla, Ruffato dice: «Perdendome in erre orre retorico / ghe religo in brossura l’universo» (Tergiversando nel dire retorico / le rilego in brossura l’universo), testimoniando, ancora una volta , che la propria poesia vuole persistere a dar voce agli eterni interrogativi dell’uomo – un uomo immerso nella concretezza della realtà.


VI

GIERGO MORTIS

Giergo mortis, la sezione che conclude il volume, raccoglie le poesie in dialetto più recenti, tutte centrate sul colloquio tra il poeta e la morte. Nel frattempo un altro lutto ha colpito Ruffato, rimasto a vivere solo nella casa – ma la presenza di chi non è più è costante. Colloquio con una morte personificata, che a volte è la propria morte, a volte è Francesca, o Liliana, o quella che attende ciascuno alla fine della propria strada (conferendo così alla poesia valore universale).
La prima a parlare è la morte:

scoltame m’amisted sbandona le sope
mondane stregoni e saltroni, i vati
del Parnaso me ga eleta a nunsiarte
chiete e providensa … […] (p.397)
… Nel sito
magico so qua a spetarte
co fili gusiere par ingroparte
ai me costruti … […]
Desso …
… fora buta pensieri e gegia … (p.398)

(ascoltami mio affetto abbandona le zolle / mondane stregoni e cialtroni, i vati / del Parnaso mi hanno eletta ad annunciarti / quiete e provvidenza. / Nel silenzio / magico sono qui ad attenderti / con fili asole per annodarti / alle mie essenze. / Ora / che sgorghino pensieri e paura)

e al suo invito il poeta esterna «pensieri e paura». Lo assale il ricordo doloroso di quel sabato («lume / sabatico me porta la pena / de la morte smonà», lume / sabatico mi porta la pena / della morte schifata, p.399), dice le tante volte in cui ha cercato – attraverso le parole – di dare vita al ricordo:

… go forse
invià un fumo de figure
che sostien la verità possibile
de rifare co parole anca la salma […]
… Poco me sbandono …
par capire dal libro verto st’altro
che me juta … (p.400)

(ho forse / avviato un fumo di figure / che sostiene la possibile verità / di rifare con le parole anche la salma / Poco mi lascio andare / per comprendere dal libro aperto l’alterità / che mi aiuta),

riflette sulla morte, destino ineluttabile, cui «Dio / ne parecia / co raquante morti pépole» (Dio / ci addestra / con varie piccole morti):

… noaltri tristoti se sa che anca
in vita se camufa la so facia […]
Da ‘sta sorte se sbrissa fora un fià
par tornare drento … (p.401)

(noi poveracci sappiamo che pure / durante la vita la sua faccia viene camuffata / Da questo destino si slitta fuori un poco / per ricaderci).

Il pensiero della morte lo riporta a Francesca («Ofelia / de sità», Ofelia / di città), cui sospira «Dormi cussì / resta ispirassion, ‘n’araba fenice» (Dormi così / rimani ispirazione, un’araba fenice, p.403). E un ultimo giorno verrà anche per lui, ma allora – e qui la voce si eleva di tono, a difendere il diritto alla riservatezza –

Che ‘na piera col nome cernita
e impisòca extra moenia i me ossi … […]
mi … fora me ciamo (p.404)

(Che una pietra col nome distingua / e riposi fuori mura le mie ossa / io mi escludo);

una sola cosa desidera: «Lasséme / ne la cesura a descansarme» (Lasciatemi / nel ritiro a riposarmi, p.405).

«El morente che sbandòna ràntega / mùtola el sito e se ràmpega / fin a l’aria» (Il morente che abbandona rantola / ammutolisce il silenzio e si aggrappa / persino all’aria) in un certo senso dà a chi lo assiste il tempo di prepararsi, pur prolungando la sua sofferenza; non così Francesca:

Ti te me gh’à cavà svelta el suplissio
mòcandotela nel passìn de siensa
de distaco … (p.406)

(Tu mi hai tolto rapida il supplizio / sottraendoti nel filtro della scienza / del distacco)
Il padre, che per legge di natura sarebbe dovuto partire prima di lei, non si sente di seguire la figlia per la stessa strada, né può sostituirsi a lei:

e mi invecià par lege de natura
no posso mai essare st’altro
e gnanca reditare la so morte (p.406)

(e io invecchiato per legge naturale / non posso mai essere l’altro / e neppure ereditare la sua morte).
La morte è «cortisana tempà / rapetà de smissi sère tacòni / na drita dama Alcahueta» (cortigiana attempata / rattoppata d’unguenti cere aggiunte / una astuta dama mezzana) ma «la xe pur ela ‘na parola de Dio» (è anche lei una parola di Dio, p.407), è la nostra sorella morte di san Francesco. È parte integrante della vita, anche se di lei si sa ben poco («Un’aca straca se sa de ‘sto mancare», Proprio nulla si sa di questo mancare, p.408). Nel mistero, ciò che può sembrare la fine di tutto, è una promessa d’inizio:

… In chiete
ne l’eternità beato sarà el scolto
del sbisigolìo de ‘na vita sgorgà
da morte e l’anema ne savarà
co la cognission e l’amore de Dio. (p.409)

(In quiete / nell’eternità sarà beato l’ascolto / del pullulare di una vita sgorgata / dalla morte e l’anima ci saprà / con la cognizione e l’amore di Dio).

La morte, la vita: «co ‘sti do / in mi go da speciarme e farme» (con queste due / devo rapportarmi e realizzarmi, p.410), dice il poeta. Si sceglie come vivere, si può scegliere come morire:

‘sta morte mia de mi … […]
devien squasi ‘na davis del mondo
un nostro tête-à-tête che posso
de gusto relogiare …
… o spetandola
gnorante … (p.411)

(Questa morte proprio mia / diviene quasi una coppa davis del mondo / un nostro tête-à-tête che posso / con piacere controllare con orologio / o attendendola / ignaro).

La morte,

… possibilità
che no se salta e scava el busonero
in sto mondo graneo de l’universo […]
… spugna bromba angossà
de calùsene che ne postissa
par la fine … (p.412)

(possibilità / alla quale non si sfugge e che scava il buco nero / in questo mondo granello di sabbia dell’universo / spugna pregna angosciata / di fuliggine che ci rende posticci / per la fine),

la morte, «striga che ocia tuto in luse / nera»(strega che sbircia tutto in luce / nera, p.413). Morte che si può giungere a invocare ma di cui non si può affrettare la venuta, perché

L’amor too anca nel luto me liga
a promessa de eternità, no posso
sfantarme come neve al sole
e fare spergiuro … (p.414)

(Il tuo amore anche nel lutto mi lega / a promessa d’eternità, non posso / dissolvermi come neve al sole / e fare spergiuro):

chi si è amato e non è più resta in vita finché si rimane – vivi – a ricordare;

L’anema …
… durevole co more el corpo
la se libra sapiente sora
‘ste contrade … (p.417)

(L’anima / immortale quando il corpo muore / si libra sapiente sopra / queste contrade),

… i estinti pare
destinai a reditare ‘na luse
s-cieta assoluta orbante par fare
ombrìe su ‘na strada drita tirà
dal spirito … (p.418)

(gli estinti sembrano / destinati a ereditare una luce / autentica assoluta accecante per fare / ombre su una via retta guidata / dallo spirito).

La riflessione sulla morte sembra aver portato il poeta a uno stato d’animo di accettazione, se non di serenità. Ma no, il dolore è troppo forte, la «siora in nero» gli ha vuotato la casa, il gemito non può essere trattenuto: «Ma gnente vodo e angossa / me perseita» (Ma niente vuoto e angoscia / mi perseguitano); sente la morte che gli si annida all’interno:

… so ben che la vira in mi
solo co mi e la s’inraisa del me sito
cargo de responsi mancai. (p.419)

(so bene che lei vira in me / soltanto con me si radica del mio silenzio / pregno di responsi mancati).

Da questo punto in avanti – e sono gli ultimi testi di Giergo mortis – la riflessione si fa sempre più accorata (scorata):

Nassita e morte parole insupae
de pianto che taca e distaca
la spina del ciaro e del scuro
el resto tuto ‘na papa … (p.420)

(Nascita e morte sono parole intrise / di pianto che inseriscono e disinseriscono / la spina della luce e del buio / il resto è tutto una pappa).

Di fronte al pensiero della morte, non solo tutto ciò che si fa nel corso della vita perde consistenza (diventa «pappa»), ma anche la nascita – che pure di per sé è promessa e gioia – non è che un evento negativo, perché tutto ciò che nasce morirà. Anche l’idea di una vita dopo la morte, che in altri momenti è sembrata portare al poeta una qualche consolazione, perde terreno, e il «convento» rimane soltanto il luogo dove il silenzio permette di meglio lasciarsi andare ai ricordi:

… Mah!
se vaga un fià co sen in convento
a contemplare ciami enti silensi (p.421)

(Mah! / ci si ritiri un poco con sete in convento / a contemplare richiami enti silenzi).

«In casa me vissio col sacro»(In casa mi vizio con il sacro): tutti gli oggetti che sono appartenuti, che sono serviti a chi non è più, hanno assunto un carattere sacro; fanno sentire ancora più forte la nostalgia di ciò che è stato e che non potrà più essere, una nostalgia che quasi disincarna, che crea la sensazione di vagare per il mondo bendati, che quasi fa regredire all’infanzia, quando tutto sembrava possibile:

… magie che m’imbòvola el servèlo
su dove se marcia e bàgola co la benda
‘na nova gnegna d’un amore
che me fantasma …
me leva qualche metro sora i copi
ceo … che s’imbarlùma
de suni … (p.422)

(magie che mi vertiginano il cervello / su dove si cammina e si gironzola bendati / una nuova nostalgia d’un amore / che mi rende fantasma / mi solleva di qualche metro sopra i tetti / infante che si abbaglia / di sogni).

«Tuto m’insusta» (Tutto mi cruccia), continua il poeta nello stesso testo, e conclude: «squasi che l’anema me gabia saludà / za fiapo e prossimo a catàrmela» (quasi l’anima mi abbia lasciato / già appassito e vicino ad andarmene).
La vita continua, ci sono ancora occasioni di incontro, di distrazione, ma non incidono nel profondo, non rappresentano che «lusinghe ociae da londi sbecae d’ilusion» (lusinghe sguardi da lontano scheggiati d’illusione). Niente può rendere meno penosa la tristezza:

… Desso «est ma vie trop pesande
a porter …
mors, de ma vie me delivre!» …
Dove parole e figure no riva
el mistero sbassa seje e sipario
la peripatetica nera mena
el gnente …
l’estremo cao icse de ognun. (p.423)

(Ora «la mia vita è troppo ardua / da tollerare / morte, liberami dalla mia vita!» / Dove parole e figure non sono sufficienti / il mistero abbassa ciglia e sipario / la tenebrosa peripatetica conduce / il nulla / l’estremo limite incognito di ognuno).

Il volume percorso tutto dal desiderio di far rivivere Francesca attraverso le parole, si conclude con l’amara constatazione che «parole e figure non sono sufficienti». Gli ultimi (bellissimi) versi sono l’umile riconoscimento che di fronte al mistero della morte non resta che abbassare la testa, lasciando a lei l’ultima parola.


VII

VARIANTI

Nel capitolo dedicato a Diaboleria ci si è soffermati – oltre all’analisi dei testi – sulle varianti testuali nei confronti del libro pubblicato nel 1993. Si riprende ora l’argomento varianti per gli altri tre libri apparsi nei primi anni Novanta (gli unici che ci permettano tale esercizio, essendo pressoché totalmente inediti gli altri testi presenti in Scribendi licentia.)
Mettendo a confronto l’originale con quanto appare nel volume-antologia, si nota che il testo rielaborato è spesso più breve; a volte sono stati eliminati dei versi, a volte interi testi. In altri casi si tratta della sostituzione di un vocabolo, o di una diversa sintassi. Una presunta maggiore attenzione alla leggibilità del testo ha portato – nella rielaborazione – ad aggiungere virgole, accenti, congiunzioni, mentre il dialetto si è arricchito, anche nella presentazione grafica, di termini più propri, che hanno sostituito lemmi in italiano nell’originale.

In Scribendi licentia, la sezione Parola pìrola comprende 53 testi, uno per pagina. Di questi, nove non presentano alcuna variante rispetto all’originale; in quattordici sono stati eliminati dei versi – all’inizio, alla fine o all’interno dei testi, mentre ne manca uno intero, di ventotto versi. Molto più numerose (45) sono le amputazioni che hanno permesso – mantenendo lo stesso concetto – di allontanarsi da testi in genere più discorsivi, anche se spesso più ricchi dal punto di vista espressionistico (rime, assonanze, consonanze, coloriture idiomatiche). Notevole anche il numero dei testi (37) in cui la variante è rappresentata dall’inserimento di un vocabolo diverso da quello presente nell’originale.
Alcuni esempi permetteranno di rendersi conto del lavoro di rielaborazione compiuto da Ruffato (lavoro che comprende, come si è detto, anche l’aggiunta di virgole, di congiunzioni).
«… tristessa madonera / efusiva a caturare ‘na onda / per surfare chimera a la sponda» a pagina 31 dell’originale*, perde l’ultimo verso in Scribendi licentia** e diventa: «…tristessa madonera / efusiva a caturare ‘na onda» (p.3).
La lettura del primo testo de La monega Eurialina fornisce un buon esempio di varianti intervenute a diversi livelli. L’originale recita:

……………………
che ga grotesco el nome balbetà
sarcofago de perpetua preson
o clausura de convento
ciodo fisso che no mola soasa
la fronte dai cavei invasa
laetitia … […]
… intanto
i cavalieri in sofita sfilsando
galete … […]
siere de foreste sfese de parole. (p.43)

A pagina 13 di SL si legge invece:

…………………………
che ga grotesco el nome balbetà
la fronte dai cavei invasa
laetitia … […]
… intanto
i cavalieri in sofita sfilsava
galete … […]
siere de foreste, sfese de parole.

Qualche pagina dopo, il brano:

tinte psichedeliche pan dei sensi
fandonie de la rassa consorela
bela facia dasbon.
Sgorga in ela … […]
infante molesina soferente de nessun
un desio … […]
Sul duro stramasso in lau
co travegole nebieta de assunsion
ghe speta vilanamens i radici paciai
da le novissie scotolone punture de malizia. […](p.48)

in SL diventa:

tinte psichedeliche pan dei sensi.
Sgorga in ela … […]
infante soferente de nessun
un desio … […]
In lau co travegole ghe speta
vilanamens i radici paciai
da le novissie punture de malizia. […] (p.18)

(come si può notare rileggendo i testi al completo, nell’originale mancano tutti i segni di interpunzione.)

E ancora:

… donare
parola de ‘na volta malandà
usà per falsi interessi e bareta fracà
bronsa cuerta de la vose rauca.
In cao al mese … […] (p.74)

dell’originale, diventa:

… donare
parola de ‘na volta malandà.
In cao al mese … […] (p.35)

A pagina 91 del libro pubblicato nel 1990 vi è un testo che dice:

Fa xe smontà fiapa, vo e la no tira in su
ruspie de morcia le ga bisogno
de netarse e de cola sana
per stropare i busi, tornare a l’orto
prodego de giossete timide
de brosema a le cascatele de la fantasia
fiume. La mente spoitisà se sgramegna
dal bitume del progresso escaroso
scoreson vilan prepotente egoista
frinfron de rapresentansa matopatoco
de auto festival loterie gnoranterie
un caos che … […]
El latino solidifica el so perno
co bu al posto de vo e da sola
la rimanda l’eco de la vose materna
rinsaldà…

La rielaborazione ha eliminato le prime sei righe e ha apportato alcuni altri cambiamenti:

La mente spoitisà se sgramegna
dal bitume del progresso escaroso
prepotente egoista, matopatoco de auto
gnoranterie astruserie loterie,
un caos che … […]
El latin la solidifica, fabula
che rimanda più antico
l’eco de la vose materna
rinsaldà … (p.49)

Esempi di sostituzione di lemmi, o di forme di italiano dialettizzato, con vocaboli maggiormente aderenti al dialetto, non mancano; «sincerità» (p.36 OR) diventa «lamprità» (p.9 SL); «che sta per arivare o rumega / e quando la se dà la xe già» (p.38 OR) si legge «che sta per rivare o rùmega / e quando la se dà la xe za» a pagina 11 di SL .
«Ormai rassegnà a figurare» (p.52 OR) diventa «Ramai rassegnà a figurare» (p.21 SL); i lemmi «foie» e «intorno» (p.76 OR) sono cambiati in «foje» e «torno» (p.36 SL); «quando» (p.77 OR) è corretto in «co» (p.37 SL), mentre «desfare» (p.79 OR) si legge «dresfare» a pagina 39 di SL.
Non mancano altri esempi delle diverse varianti, ma si ritiene sufficiente quanto citato per ragguagliare sia sul tipo di intervento che sul risultato raggiunto.

Se si guarda al numero di testi che sono stati ripresi integralmente, e a quelli che hanno subito delle varianti, dopo Parola pìrola bisogna citare I bocete, pubblicato nel 1992. Dei 53 testi presenti in Scribendi licentia, dieci mostrano amputazioni di versi iniziali, o conclusivi, o all’interno degli stessi; in ventuno il numero dei versi è ridotto, rispetto all’originale, ma il concetto espresso rimane invariato, mentre ne sono stati eliminati – per intero, quattro (di 15,13,16 e 25 versi). Cinque testi non hanno subito varianti; in trentadue si nota una sostituzione di vocaboli, o una diversa sintassi, rispetto all’originale. (La presenza di una versione completa in italiano al posto del glossario fornito per Parola pìrola e per El sabo, e l’inserimento della punteggiatura in un solo testo testimoniano nell’autore un orientamento verso una maggiore leggibilità, una maggiore apertura al lettore).
Anche per I bocete è interessante il confronto – come esempio – di alcuni testi dell’originale con gli stessi come appaiono in Scribendi licentia. Nel primo offerto, le varianti riguardano la sintassi, la sostituzione o l’eliminazione di lemmi o di interi versi:

Paron sparuo del simitero pesto Al simitero pesto sparuo
el nostro … […] el nostro … […]
sensa poderlo versare conversare sensa poderlo conversare parola robà da la boca parola robà da la boca de la morte
barbajo torbelo, la morte barbajo torbelo del prima
de prima che conta streta contà co la me misera parlata
co la me misera parlata che no … […]
che no … […] agiografia de agape pien. (p.104 SL)
agiografia de agape pien
lente no comodabile che varda. (p.10 OR)

Il lavoro di rielaborazione si è concentrato sulle varianti citate, ed eccone altri esempi:

………………… …………………
da oseleti e rose, sagra de vaseti da siamanaria capilare
capilari, capriolini vispi che pende e barata col cielo
che pende e barata col cielo poesia … […]
poesia … […] i condensa filastroche ne l’agro
i condensa l’agro filastroche brunbrun … […] (p.114 SL)
brunbrun … […] (p.20 OR)

A pagina 27 dell’originale troviamo:

Relogi delicati co problemi
de la teta a la meta, manco
conossui dei prìpoli che mesura
a menadeo el cressare in grembo,
nel totoboom … […]
question de banchi e careghe in scala […]

La rielaborazione porterà a:

Relogi delicati co problemi
nel totoboom … […]
question de banchi in scala […]

E ancora:

Me spico de più Me spico in rosegoti de blu
in rosegoti de blu da le mensole … […]
da le mensole … […] el muro nel scuro vanessente.
el muro nel scuro trasparente. […] (p.124 SL)
[…] (p.32 OR)

Analogo procedimento si nota in un altro testo:

……………… …………………………
Seleghete contrie de secoli Seleghete coa eventi virtuosi.
vodi coa eventi virtuosi Raquanti s’imbossola in modeli
de più
laboratori che sbrega la tela nobili … […] (p.128 SL)
spazio tempo permalosa. Raquanti
s’imbossola in modeli de più
nobili … […] (p.36 OR)

Un altro esempio, sempre sulla stessa linea:

…………………… ……………………
suto e caivo che dimora no dà. rogna caiva che dimora no dà.
Gratando la rogna no xe tanto Ben vegna el deéto boceta
da sperare nei bori de la cassa che scrive in cielo stanze
europea e peota, mejo el deéto de sapiensa sensa botoni.
boceta che scrive in cielo (p.135 SL)
stanze de sapiensa sensa botoni. (p.44 OR)

Oppure anche:

………………………… …………………………
tanto el fià. In pansa cavoli tanto el fià. In pansa de gusto
e verze borbota coi pomodori fruti robai … […]
sboja spiriti furenti. De gusto … Un posso
fruti robai … […] de linfe bocete a brasseto
… Un posso co la natura. (p.148 SL)
boceta de linfe a brasseto
co la natura. La Lidia s-cieta […] (p.57 OR)

Come si vede, il verso conclusivo in Scribendi licentia è solo una parte di verso nell’originale, dove sarà seguito da altri sette.
L’ultimo esempio riguarda l’unica sostituzione di un lemma in italiano con uno in dialetto (mentre in altri due casi – a pagina 20 e 44 dell’OR e 114 e 135 di SL – «cielo», in italiano, è rimasto immutato):

…………………… ……………………………
… bagneto bagneto.
pajasseti de neve al sole. Luna Luna insonà se stua su albari
insonà se stua su alberi felpai. felpai. La vose se scolta.
La vose se scolta. Dal giornale […] (p.154 SL)
Dal giornale […] (p.67 OR)

Dal punto di vista delle varianti apportate, El sabo si presenta in modo abbastanza diverso. In Scribendi licentia i testi assommano a 42, contro i 53 sia di Parola pìrola che de I bocete. Di questi, ventuno non presentano alcuna variante nei confronti dell’originale, ma il numero dei testi amputati (cinque, di 21,14,8,15,17 versi) è il più alto, di fronte a quattro in I bocete e soltanto uno in Parola pìrola.
Sempre rispetto agli altri due libri, inferiore è il numero dei testi cui sono stati tolti versi. È da rilevare, poi, che molti sono i lemmi in italiano – o con grafia italiana – nell’originale che sono sostituiti da altri più aderenti al dialetto: «taio» (p.22 OR) / «tajo» (p.60 SL); «sincere» (p.23 OR) / «s-ciète» (p.61 SL); «ormai» (p.25 OR) / «ramai» (p.63 SL); «adesso» (p.27 OR) / «desso» (p.65 SL); «someia» (p.33 OR) / «someja» (p.70 SL); «sveia» e «dentro» (p.54 OR) / «sveja» e «drento» (p.86 SL); «coionava» (p.56 OR) / «cojonava» (p.87 SL); «fameia» (p.63 OR) / fameja» (p.95 SL).
Proponiamo ora la lettura di alcuni testi originali e rielaborati, fianco a fianco:

1)
Capita termini sordi spiritai Serti termini sordi spiritai
che gnanca el solito capucino gnanca el solito capucino
‘na bireta … […]. ‘na bireta … […].
su ‘na scachiera … su ‘na scachiera …
fare ombra al giro de le carte pietà sfissio e sicumera
ma giusto … […]. ma giusto … […]
Ciari quelo che stava euforico Ciari l’euforia là rara e quelo
là in apelo e quelo in espansion in espansion pensà da l’anema
pensà ne la prova del vestitin fià del vento, vose del tempo
de l’anema, fià del vento banca … […]
vose del tempo desso de le so fotografie […]
banca … […] (p.72 SL)
adesso de le so fotografie […] (p.35 OR)

2)
………………………… …………………………
pien de colone de senare pien de sènare che ne ciucia
che ne ciucia ne le so sfese ne le so sfese, tondi efendi
de sfiga. […]
tondi efendi de sfiga. […] del so calvario …
del so calvario … nel sole del so forno.
inforcando il sole co la giacheta Pandoli …
a parola persa nel so forno. ne la crisi de ‘na idea de l’essere
Pandoli … come libro torah incatabile.
ne la crisi de ‘na idea (p.73 SL)
de l’essere come libromastro
unità centrale de ‘na spansada
s-centrà psichica e morale. (p.38 OR)

3)
El mare nostro, ontume eutrofico El mare nostro nol fa pel so sabo
e s-ciapi de carne incremà, nol fa de isole isolae e del sale de l’Egeo.
pel so sabo de isole isolae Se ferma … […]
e del sale de l’Egeo. insassarse, tirarme monumento.
Se ferma … […] Spero che ela pur strigà da intrighi
insassarse, tirarme monumento gabia infilà la rota giusta
scortegà vivo che no ghe va. pal roto de la cufia. (p.89 SL)
No se pole da soli sbarare el tetro
disastro ecologico de la miniera
industriale che morba la porazente
de l’est, scaenà de fresco ma a carità
e quela de l’ovest sempre più taconà.
Strigai dai intrighi xe più penoso
infilare la rota giusta,
spero ela nel roto de la cufia. (p.58 OR)

4)
………………………… ………………………….
a entrare nel punto de la situassion a entrare nel punto de la situassion.
A la vinoteca a stomego vodo Illa in tuti i modi rosa
trincando nel giro de testa insaoriva i colori al tramonto.
a lengua imbranà, la rosa Fotogenica … […]
insaoriva i colori al tramonto. Nuvole sempre nuvole, nate
Fotogenica … […] dal seren. (p.97 SL)
Nuvole sempre nuvole
nate dal seren. (p.67 OR)

Come si è già accennato, la rielaborazione è una delle caratteristiche di Ruffato, sempre teso – a ogni rilettura del proprio lavoro, sembra – alla ricerca di una maggiore aderenza tra il pensiero e le parole che lo traducono. Forse però ci sono anche altre ragioni; nella conclusione ci proponiamo di avanzare qualche altra ipotesi.


VIII

TRADUZIONE

Non si può considerare completa un’indagine esegetica su Scribendi licentia se non si fanno alcune osservazioni sulla versione italiana dei testi, che l’autore fornisce a pie’ di pagina.
Va innanzitutto precisato che nei primi tre libri pubblicati (Parola pirola, El sabo, Diaboleria), si trova soltanto un glossario; I bocete, edito nel 1992, è il primo a presentare, in calce, una versione italiana completa. In Scribendi licentia il testo in italiano segue quello in dialetto, anche in corrispondenza di varianti apportate; si può però riscontrare come uno stesso lessema in dialetto sia stato reso in italiano in due modi diversi, oppure come – nella versione del volume-antologia – sia stata aggiunta/tolta una parola, partendo da un identico testo in dialetto. In altri casi, in Scribendi licentia si rileva una maggiore precisione o resa fonica, o anche – tra parentesi – una breve spiegazione. Per il resto del materiale non si conosce altra versione italiana che quella del volume edito nel 1998, e le osservazioni che si faranno non potranno rendere conto che di una preferenza personale.

Perché l’autotraduzione? In generale, i poeti che vi fanno ricorso sembrano essere spinti da un duplice motivo: da una parte dal desiderio di raggiungere anche lettori che non appartengono ai parlanti la lingua di partenza e, dall’altra, di agevolare la comunicazione, completando – in certa misura – un testo la cui polisemia verbale abbisogni di precisazione e aggiustamento.
Come si è detto, l’atteggiamento di Ruffato riguardo alla sua opportunità/necessità è cambiato nel corso del tempo; sia pure nella convinzione di una «impossibile corrispondenza» tra il testo in dialetto e quello in italiano, ci sembra che il poeta palesi di aver agito seguendo il criterio di rendere più chiara, più leggibile, la propria poesia, ampliando nel contempo la cerchia dei suoi lettori.

Il desiderio di aprirsi maggiormente alla comprensione ci sembra essere, in Ruffato, non inferiore a quello di entrare in sintonia anche con i non parlanti il suo dialetto, e il passaggio dal glossario alla versione integrale lo testimonia. Il suo «padovano di città» non è infatti, di per sé, difficile da capire, anche da parte di non dialettofoni veneti, e un glossario potrebbe essere sufficiente. (La difficoltà, se mai, sta nello stile – i neologismi, i verbi parasintetici, ecc. -, nella complessità del processo mentale che porta, sulla pagina, a un’aggregazione, a un’accumulazione di concetti). Se dunque il poeta in Scribendi licentia fornisce una versione italiana completa, accurata, a volte arricchita rispetto al dialetto, è presumibile sia stato spinto dagli stessi motivi che lo hanno portato nelle composizioni più recenti, in lingua, a una nitidezza, quasi una trasparenza, che non è dato riscontrare nei primi testi degli anni Novanta (e uno studio delle varianti, di come essi appaiono in Scribendi licentia, è a questo scopo illuminante).
Ma, per tornare all’autotraduzione, altrettanto illuminante è verificare su quali punti quella presente ne I bocete del 1992 si discosti da quella riportata in Scribendi licentia. Il maggior numero di interventi riguarda la scelta di un vocabolo italiano diverso, a volte per una migliore resa fonica («alone / sluseghin torno a le parole»: «alone / luccichio attorno alle parole, I bocete, p.12; «alone / baluginante attorno alle parole, Scribendi licentia, p.106, oppure «la crose del ritorno se strucava / cojonela straca»: «la croce del ritorno si comprimeva / presa in giro stanca», I bocete, p.45; «la croce del ritorno si comprimeva / derisione stanca», Scribendi licentia, p.136); altre per una maggiore precisione («che ‘na pacheta / macia de blu e sconde»: «che un piccolo trauma / fa una macchia blu e nasconde», I bocete, p.19; «che un piccolo trauma / macchia di blu e nasconde», Scribendi licentia, p.113, o anche «I tochi ciari del vespro»: «I tocchi chiari del vespro», I bocete, p.55; «I rintocchi chiari del vespro», Scribendi licentia, p.146), o per una più grande adesione all’italiano di oggi («come ch’el mondo futuro / se despìca»: «come che il mondo futuro / si stacchi», I bocete, p.35; «quasi che il mondo futuro / si stacchi», Scribendi licentia, p.127, ma si veda anche «grisantemi requiem lagreme»: «crisantemi requiem lagrime», I bocete, p.56; «crisantemi requiem lacrime», Scribendi licentia, p.147, e «co la pena del mondo»: «colla pena del mondo», I bocete, p.60; «con la pena del mondo», Scribendi licentia, p.150).
Sempre nel senso di una maggiore chiarezza, sono varianti come quella che figura, per esempio, a pagina 108 di Scribendi licentia:

Me restava sui guanti l’alito
aeternitatis, tanti mi ombra
e i pianti macabri de so mame

in cui il verbo al singolare nel dialetto rimane tale anche con un soggetto plurale, come in questo caso. In italiano, però, non è così; «Mi rimaneva sui guanti», (I bocete, p.14) diventa opportunamente «Mi rimanevano sui guanti» in Scribendi licentia. Troviamo un altro esempio a pagina 154: «sofegà da ‘na pigna de scoasse / che snatura il cielo» è reso con «soffocato da piramidi di rifiuti / che snatura il cielo» in I bocete, p.67, mentre il verbo diventa «snaturano» in Scribendi licentia.
Numerosi sono poi i casi in cui, tra parentesi, l’autore aggiunge una spiegazione, sia a proposito di termini che appartengono strettamente al lessico del dialetto (si veda, per esempio, a pagina 129, «nel zogo de la borea» che viene reso letteralmente in I bocete, p.37, ma che in Scribendi licentia porta l’aggiunta: «(gioco locale consistente nel bocciare da lontano il pallino)», o di prestiti da una lingua straniera (come a pagina 137: «da corte in wit balarini»: «cortesi in wit traballanti», I bocete, p.46; «cortesi in wit (arguti) traballanti», Scribendi licentia.

Ruffato parla di «impossibile corrispondenza» tra originale in dialetto e versione italiana, eppure scorrendo Scribendi licentia si nota che, in grande maggioranza , i testi possono considerarsi equivalenti. Si avverte invece una discrepanza – almeno all’orecchio di chi scrive – in alcune composizioni in cui il testo in dialetto e la traduzione in italiano appartengono a due periodi diversi. Si fa qui riferimento a Parola pirola, a El sabo, e a Diaboleria, rispettivamente del 1990, 1991, 1993, la cui prima versione italiana completa appare in Scribendi licentia, pubblicato nel 1998. Ben precise ragioni portano a preferire l’originale o l’autotraduzione: di esse si renderà conto negli esempi che seguono.
Parola pirola e Scribendi licentia iniziano con il testo intitolato «Orca Eva e sorbole». Leggendo in dialetto e subito dopo in italiano le prime due pagine, ci si rende conto di quanto più calore, e ironia, emergano dal testo originale, mentre la versione italiana è fredda, controllata, priva di istintività:

La xe tuta colpa mia e no vorìa
ch’el t’inciodasse ti Adamo, cossì
a la spiageta del peoceto Eva
che rebaltà devien orgiosa Ave
ex abundantia cordis dissoluta
e molesina de lusso se inculpa
le vissere de tristessa madonéra
……………… (p.3)

«È tutta colpa mia e non vorrei / che ti inchiodasse Adamo, così / alla spiaggetta del pidocchietto (piccola spiaggia dei poveri sul Brenta) Eva / che capovolta diviene orgiastica Ave / ex abundantia cordis dissoluta / e molle di lusso s’incolpa / il cuore fondo d’icona triste di madonna»…»

Nella pagina seguente l’originale prosegue sullo stesso tono:

Adamo scavegiòn e bon dal fàssino
sconto la prega de fare penitensa
e s-ciafesarse la pansa e le ciape.
Vorìa ociarli a novanta gradi
ma ghe rimeto la vena blu rabiosa
la pele del buso del canociale
intimo e me inadamo.
Desso più che mai lu xe stupidoto
condìo in fresca salata o coto
pensiero debole, el se inàfia
de profumi e saòni che pìssega
…………….

«Adamo capelluto e buono dal fascino / nascosto la prega di fare penitenza / e di percuotersi il ventre e i glutei. / Vorrei guardarli a novanta gradi / ma ci rimetto la vena blu rabbiosa / e la pelle del lume del canocchiale / intimo e mi inadamo. / Ora più che mai lui è sempliciotto / condito in fresca insalata o cotto / pensiero debole, si sparge / di profumi e saponi irritanti / …»

A pagina 32, con il titolo «Parola morbin», si trova un’altra composizione il cui originale in dialetto presenta una ricchezza di giochi di suoni e un’allegria picaresca che non sono presenti nell’italiano:

La parola col morbin in corpo
scacià el demonio sensa vèndarghe
l’anema la se rivoltola
fuso morbido de sùcaro. […]
Me rabàlto e prostro, ghe mostro
acqua fresca, serco de calmarla
serpente incantà
apena la dòndola onda de maraveja […]
La silaba la sfiancà porta male
el saco del pensiero per dove
quando come no se sa
e nel colmo de la strùssia
la se destàca lassàndo staltre pa ro
decerebrae, ‘na pora copia mi e ti
co le do altre imbarassàe.

«La parola in stato di eccitazione / scacciato il demonio senza vendergli / l’anima si rigira / fuso morbido di zucchero. / Io cado e mi prostro, le mostro / acqua fresca, cerco di calmarla / serpente incantato / dondola appena onda di meraviglia. / La sillaba la sfiancata regge male / il sacco del pensiero per dove / quando come non si sa / e nel colmo dello struggimento / si stacca lasciando le altre pa ro / decerebrate, una povera coppia io e tu / con le altre due in imbarazzo. / »

Il testo che si legge a pagina 65 (appartiene a El sabo) inserisce nel dialetto alcune parole in provenzale; preferiamo la versione italiana che traduce sia l’una che l’altra lingua, lasciando un’impressione di maggiore completezza:

Mi attraggo il tuo fluido denso
che mi puoi dare, magari
una mossa della fronte alta composta
un dolce cenno di sorriso negli occhi
una meta fine corteggiata dalle stelle
finte di teologia
scambio di vedute lontanissime
che ha lasciato il mio cuore gioioso
ad una ribalta fioca rappezzata.
E se ora so dire fare qualcosa
ringrazio te seme, sete pazienza
per il filtro dei sentimenti
l’elettivo groviglio
il filo bizantino che mi porta
di notte il giorno
dentro sempre un cuore e corpo nuovi.

«Me tiro el to fluido denso / quelo che te me poi dare, magari / ‘na mossa de la fronte alta bastida / un dous ceno de soriso sui oci / ‘na meta fina blandida da stelle / schinchete de teologia / scambio de vedute lontanissime / che ga laissat mon cor jauzen / a ‘na ribalta fioca rapetà. / E se desso so dire fare qualcossa / ringrassio te semensa, sen sufrensa / pel filtro dei sentimenti / l’eletivo intorcolamento / el filo bizantin che me porta / de note el giorno / dinz sempre un cor e cors novi.»

Un quarto e ultimo esempio – ma sarebbe possibile farne parecchi altri – è preso da Diaboleria, dalla composizione intitolata «El dialeto». Nelle diciassette righe che si leggono a pagina 171, Ruffato propone dei paragoni al dialetto; i primi versi sono senz’altro più ricchi nell’originale (si noti come ‘latte’ al femminile aggiunga verità e immediatezza a un discorso sul dialetto:

El xe pien de late fresca intiera
de gusti oltre ai radicali
e minutaje oligominerali
che ne taca a le legi de siensa
a scoltarlo el serve squasi da prete
operaio e da cura…

«È pieno di latte fresco intero / di gusti oltre ai radicali / e piccolezze oligominerali / che ci agganciano alle leggi di scienza / ad ascoltarlo serve quasi da sacerdote / operaio e da terapia…»

In altri invece è migliore la resa in italiano:

Mente, sorgente della lingua, lievito
narciso, gemma di falsa ignoranza
goccia di tempo bello, caldo pennello
nicchia di povera filosofia che si carica
della sostanza dell’anima
cosa o ente o concetto assoluto
libero e mobile da non stecchire»

«Mente, pompa de la lengua, lievito / narciseto, buto de falsa gnoransa / giossa de tempo belo, caldo penelo / nichia de pora filosofia che se / carga el costruto de l’anema / roba o ente o conceto assoluto / siolto e mobile da no stechirse.»

Come si è accennato, le ultime osservazioni non riflettono che il gusto personale, e vengono offerte al lettore come possibile stimolo a una verifica individuale.


CONCLUSIONI

All’inizio di questo lavoro abbiamo identificato nelle riflessioni etiche, e nella costante presenza di Francesca, il motivo unificante che percorre Scribendi licentia al di là del dialetto e dello stile.
Con l’eccezione di Diaboleria che, come si è detto, è essenzialmente una pausa di riflessione, un mettersi alla prova di Ruffato, quasi a voler dimostrare che anche il dialetto ha la possibilità di dire tutto, ogni raccolta ripropone Francesca, e la lettura che ne abbiamo fatto nei capitoli precedenti lo dimostra.
Quanto alle riflessioni etiche, esse si rinvengono su due versanti diversi: in quella che si è chiamata poesia civile, cioè nella constatazione dei mali della società attuale, non disgiunta dalla forte indignazione che essi suscitano in Ruffato, e in un pensiero – espresso in tono più sommesso, quasi una meditazione – sui temi eterni della vita, della sofferenza, della morte.
La verificata presenza di queste costanti nelle singole raccolte ci permette di ipotizzare un percorso evolutivo che parte dai primi anni Novanta e arriva al 1998, data di pubblicazione di Scribendi licentia.
La critica sociale è presente in Parola pirola (1990), in El sabo (1991), in I bocete (1992), e ancora in libri che raccolgono testi di un periodo più lungo, come Sagome sonambule (dal 1993 al 1997) e Vose striga (dal 1990 al 1997). Essa scompare in Smanie (1995) e in Giergo mortis (1997), in assoluto le due raccolte più liriche, in cui predomina invece – come in alcune composizioni di Sagome sonambule e di Vose striga – la riflessione sul mistero della vita e della morte: quasi che il passare del tempo abbia permesso al pensiero poetico di attingere a un livello più profondo della propria consapevolezza, concedendo all’espressione di diventare più limpida e trasparente (più lirica, appunto).
Un altro motivo per considerare Scribendi licentia più un’opera che un’antologia (come si è detto nella prima pagina) è il fatto che le composizioni che vi appaiono, e che erano già state pubblicate, hanno subito delle varianti. Lo scopo di Ruffato era senz’altro quello di riunire in un solo volume «la maggioranza dei testi poetici in dialetto […] divenuti impegno creativo editoriale nel decennio 1989-1998», ma gli interventi compiuti sugli originali dicono che, nel rileggerli, l’autore deve aver sentito il bisogno di meglio adeguarli a una diversa sensibilità (particolarmente nei confronti dei valori estetici e poetici).
Parola pirola e Diaboleria mostrano il maggior numero di varianti. Il primo è stato pubblicato nel 1990 e il secondo nel 1993, ma si sa che sono stati scritti uno di seguito all’altro. Sui cinquantatré testi di Parola pirola, soltanto nove appaiono in Scribendi licentia esattamente come nell’originale; sui sessanta di Diaboleria, soltanto tre: questi due libri sono indubbiamente quelli che più hanno subito interventi per adeguarsi alle nuove esigenze di Ruffato. Quanto al tipo di variante cui il poeta ha fatto ricorso, si rileva alto – in Parola pirola – il numero di composizioni in cui sono stati amputati versi (all’inizio, alla fine, all’interno), e ancora maggiore quello in cui l’autore ha riformulato il proprio pensiero, spesso riducendo il numero dei versi, e/o sostituendo lessemi. In genere è stato lasciato da parte tutto ciò che risultava ridondante, non necessario all’economia dell’insieme ; l’impressione (e resta valida anche per gli altri libri degli anni Novanta) è che l’autore abbia scelto, in molti casi, di sacrificare il colore – che sembra quasi connaturato al dialetto – a favore dell’ariosità.
In Diaboleria sono state eliminate cinque intere sezioni, oltre a gruppi di versi in dodici testi; si tratta ancora di ridondanza, che include però anche una insistita, non necessaria nel contesto, critica sociale.
El sabo ha subito il minor numero di varianti; su quarantadue composizioni, ventuno riprendono integralmente l’originale. Nessun gruppo di versi è stato riformulato, e soltanto in cinque testi sono stati amputati dei versi. È il solo libro in cui figurano varianti che riguardano la resa grafica del dialetto, o la sostituzione di lessemi di dialetto italianizzato con altri più propri. Da un insieme già notevolmente pulito sono state tolte cinque intere sezioni, fino a raggiungere un risultato di grande equilibrio.
I bocete, che pure risulta pubblicato un anno più tardi, rappresenta un passo indietro: su cinquantatre testi, soltanto cinque sono rimasti invariati; quattro intere sezioni dell’originale non sono state riproposte; l’entità delle composizioni amputate di un certo numero di versi si apparenta a quello di Parola pirola e di Diaboleria, mentre sono numerosi i gruppi di versi ridotti e riformulati, e i singoli lessemi sostituiti.
Ci sembra dimostrato, nell’insieme, (senza scordare che non sempre le date di elaborazione e quelle di pubblicazione coincidono) che – come si accennava – nel decennio 1989-1998 Ruffato ha percorso un cammino verso una maggiore pulizia estetica, con il risultato di aumentare la leggibilità della sua poesia. Ma ci sono altri motivi ad appoggiare questa opinione, e vengono messi in evidenza da una lettura di Scribendi licentia che segua l’ordine cronologico di elaborazione. In Smanie (1995) e in Giergo mortis (1997), intanto, le riflessioni etiche passano dalla critica sociale al pensiero profondo – quasi meditazione – sulla vita, la sofferenza, la morte. La presenza di lessemi stranieri, poi, si rarefà: in Smanie si notano pochissimi vocaboli in latino, ancora meno in provenzale. Nell’ultimo libro della raccolta, una manciata di parole in provenzale dà l’idea di fiori lasciati cadere da un cesto allo scopo di impreziosire il sentiero che si sta percorrendo, mentre le poche espressioni in latino sono quelle entrate nella lingua di tutti i giorni, come «lupus in fabula», o «extra moenia».
E infine l’autotraduzione, fornita anche per i libri in cui al momento della pubblicazione esisteva solo un glossario, arricchita di spiegazioni tra parentesi quando il lessema in dialetto non ha corrispondente in italiano, completata dalla traduzione da lingue straniere.
Nell’accingerci al presente lavoro era in noi forte il desiderio di fornire elementi che permettessero una lettura di Scribendi licentia, (della poesia di Cesare Ruffato), diversa da quella compiuta – in genere – dai critici. Ci auguriamo di esserci riusciti.


NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE

Cesare Ruffato, padovano, ha frequentato gli studi classici e universitari conseguendo nel 1949 la laurea in Medicina e la libera docenza in radiologia (1958) e in Radiobiologia (1964). Ha pubblicato, oltre ad opere scientifiche specifiche delle suddette discipline (fra le quali, particolare per l'impronta prevalentemente letteraria, La medicina in Roma antica. Il "liber medicinalis" di Q. Sereno Sammonico, UTET, Torino 1996), i seguenti testi di poesia: Tempo senza nome, Rebellato, Padova 1960; La nave per Atene, Scheiwiller, Milano 1962; Il vanitoso pianeta, Sciascia, Caltanisetta 1965; Cuorema, Rebellato, Padova 1969; Caro ibrido amore, Lacaita, Manduria 1974; Minusgrafie, Feltrinelli, Milano 1978; Poesia Transfigura, Campanotto, Udine 1982; Parola bambola, Marsilio, Venezia 1983; Trasparenze luminose, Società di poesia, Milano 1987; Padova diletta, Panda, Padova 1988; Prima durante dopo, Marsilio, Venezia 1989; Parola Pìrola, Biblioteca Cominiana, Padova 1990; El sabo, Biblioteca Cominiana, Padova 1991; I bocete, Campanotto, Udine 1992; Diaboleria, Longo, Ravenna 1993; Lo sguardo sul testo, Campanotto, Udine 1995; Etica declive, Manni, Lecce 1996; Scribendi licentia, Marsilio, Venezia 1998; Saccade, Libro italiano, Editrice Letteraria Internazionale, Ragusa, 1999; e i seguenti testi di critica: By Logos Espo-Esproprio transpoetico (con S. Ramat e L. Troisio), Lacaita, Manduria 1979; Folia sine nomine. Il nome taciuto (con L. Troisio), Seledizioni, Bologna 1981; La trasparenza dello Scriba (con L. Troisio), Vallardi, Milano 1982. Suoi testi sono stati pubblicati nell'“Almanacco dello Specchio”, Mondadori, Milano 1974. Di Ruffato sono state tradotte e pubblicate raccolte antologiche in croato (Odabrane Pjesme, con testo a fronte a cura e traduzione di R. Blagoni, Istituto italiano di cultura, Zagabria 1996), inglese (Selected Poems of Cesare Ruffato, con testo a fronte a cura e traduzione di S. Centa, Gradiva, New York 1996), portoghese (Poesias escolhidas, con testo a fronte a cura e traduzione di V.X. Provenzano, Panozzo, Rimini 1997), svedese (Dikter, traduzione e saggio introduttivo di Gertrud Olers-Galli, Zindermans, Göteborg 1999), spagnolo (Poesías escogidas, Traducción e introducción de Nuria Pérez Vicente, Huerga & Fierro editores, Madrid, 2000) e testi singoli in tedesco, francese, friulano e in qualche altro dialetto. Molti sono ormai gli interventi critici sulla sua produzione, tra i quali: Luciano Caniato, L'occhio midriatico. L'«interpoesia» di Cesare Ruffato da Parola bambola a Diaboleria, Longo, Ravenna 1995; Francesco Muzzioli, La poesia di Cesare Ruffato, Longo, Ravenna 1998; Massimo Pamio, Parola etica. La poesia di Cesare Ruffato, Edizioni NOUBS, Chieti 1999; AA.VV., Cesare Ruffato, Testimonianze critiche, «La Battana», Fiume, 3 (num. speciale 1997); Maria Lenti, Cesare Ruffato: La parola e il labirinto, in «Studi Novecenteschi», XXIV, 53 (giugno 1997), pp.7-38; AA.VV., Steve per Ruffato, a cura di Carlo Alberto Sitta, supplemento al n.15 di «Steve» (dicembre 1997), Modena, Edizioni del Laboratorio; AA.VV., Poetica di Cesare Ruffato, Quaderno n.5, suppl. a «Testuale», 23-24 (1997-1998); Cesare Ruffato, poesie (con un saggio di Daniela Forni, Cesare Ruffato e l'invenzione della lingua), in «Avanguardia», Anno IV, n.10, 1999, pp.3-32; AA.VV., Scritti su Cesare Ruffato, I quaderni di Hebenon, suppl. a «Hebenon», n.4 della Seconda Serie, ottobre 1999; AA.VV., Letture critiche su Cesare Ruffato, I quaderni di Hebenon, suppl. a «Hebenon», n.5 della Seconda Serie, aprile 2000.

Elettra Bedon, nata a Padova, dopo aver completato gli studi in Italia si è trasferita a Montréal (Canada) dove ha conseguito, presso l’Università Mc Gill, un Dottorato di Ricerca, approfondendo gli studi sulla letteratura in lingua veneta del ventesimo secolo. Ha pubblicato, sia in Italia che in Canada, romanzi per ragazzi, saggi su poeti in lingua veneta, poesie e novelle. Ha curato la sezione Veneto in una antologia di prossima pubblicazione dedicata alla poesia nei dialetti dell’Italia settentrionale. Le sue pubblicazioni sono: Il filo di Arianna (letteratura del XX secolo in lingua veneta), Longo ed., Ravenna, 1999; Con altre parole (poesia), Montfort & Villeroy, Montréal, 1998; Storie di Eglia (narrativa), Montfort & Villeroy, Montréal, 1998; Mio zio l’investigatore (ragazzi), Montfort & Villeroy, Montréal, 1998; Vi racconto di Gesù (ragazzi), EMP, Padova, 1991; Ma l’estate verrà ancora (ragazzi), La Scuola ed., Brescia, 1985. Ha inoltre pubblicato saggi e racconti sulle riviste italiane La Battana, Libri di Steve, Quaderni di Hebenon, Diverse lingue, e – a Montréal – su Viceversa, Moebius, XYZ, Arcade, Arts cinéma lettres, Imagine.







Finito di stampare nel mese di ottobre 2000

dalla Tipolitografia l'Artigiana di Grosso Sategna,

Via Torino 6, 10010 Burolo

per conto dell’Associazione Culturale Hebenon

via De Gasperi 16, 10010 Burolo (Torino - Italy)

e della ASEFI Editoriale s.r.l. di Milano

1 C.Ruffato, Scribendi licentia, Marsilio, Venezia 1998.
2 Molti e diversi sono stati gli interventi di Ruffato al riguardo. Si cita soltanto l’ultimo in ordine di tempo: Intervista ad Achille Serrao, in Presunto inverno, Caramanica, Marina di Minturno (LT) 1999.
3 E.Bedon, Francesca: immagine esemplare del «declive» dell’etica, in Steve per Ruffato, Edizioni del Laboratorio, Modena 1997, pp. 126-40.
4 ibidem, p.127.
5 L.Caniato, L’occhio midriatico, Longo, Ravenna 1995, p.34.
6 ibidem, p.103.
7 L.Borsetto, Dire la complessità in dialetto, in Quaderni Veneti n.22, 1995, p.142.
8 M.Pamio, Parole di legno bruciano: poesia recente di Ruffato, in Hortus n.15, 1994, p.120.
9 F.Muzzioli, Lo sperimentalismo di Cesare Ruffato, in La Battana n.110, 1993, p.48-9.
10 E.Pellegrini, Sulla poesia di Cesare Ruffato, in Otto / Novecento, n.3-4, 1993, p.169.
11 G.Folena, Lessico e stile della poesia di Cesare Ruffato, in studi novecenteschi, n.43-44, 1992, p.306.
12 R.Turci, Pagine per Parola pìrola di Cesare Ruffato, in Il lettore di provincia, n.82, 1991, p.50.
13 P.Civitareale, La poesia come scienza della parola, in Testuale, n.23-24, 1997-98, p.43.
14 S.Verdino, Interrogazione al linguaggio, in Testuale, n.23-24, 1997-98, p.133.
15 N.Majellaro, Scribendi licentia di Cesare Ruffato, in AA.VV., Scritti su Cesare Ruffato, I quaderni di Hebenon, 1999, p.58.
16 C.Ruffato, Scribendi licentia, Marsilio, Venezia 1999, p.IX
17 C.Ruffato, Diaboleria, Longo, Ravenna 1993, p.32.
18 ibidem, p.33-4.
19 ibidem, p.35.
20 ibidem, p.36.
21 ibidem, p.37.
22 ibidem, p.38.
23 ibidem, p.44.
24 ibidem, p.45-6.
25 ibidem, p.53.
26 ibidem, p.54.
27 ibidem, p.57.
28 ibidem, p.59,61.
* da ora in poi indicato con OR
** da ora in poi indicato con SL