Elettra Bedon

IL FILO DI ARIANNA

PRESENTAZIONE

Il titolo di un libro nasce a volte quando questo è compiuto, e può rispecchiare esigenze di mercato, suggerite dall’editore, o può nascere prima, come un programma.

Il filo di Arianna appartiene certamente, in parte, a questo orientamento, in quanto vuole essere guida nel labirinto della letteratura del XX secolo in lingua veneta (labirinto creato, per la poesia, soprattutto dallo stragrande numero delle presenze). Ma, essenzialmente, esso riflette lo stato d’animo - un misto di gusto per l’avventura, di ricerca di senso, di sfida - di chi, nato a Padova ma vissuto lontano da questa città e dal Veneto nei primi anni della formazione, non ha mai imparato, né parlato, il dialetto.

Il nucleo di notizie che forma la base de Il filo di Arianna è stato raccolto seguendo alcuni principi informatori (esclusione delle zone del Veneto non appartenenti alle province di Padova, Rovigo, Treviso, Venezia, Verona, Vicenza; non menzione della poesia cosiddetta popolare; concentrazione sugli autori sconosciuti - o quasi - a livello nazionale), perché rispondenti a bisogni, e limiti, di chi scrive.

Quella che in passato era chiamata Venezia Euganea - e, in particolare l’area che comprende le province di Padova e Rovigo - è stata la zona di primo insediamento dei Venetici. Questo è il motivo che ha portato all’esclusione della Venezia Giulia e della Venezia Tridentina, insieme a differenze di lingua, ma soprattutto di tradizioni culturali che caratterizzano queste zone. Le province di Trento e di Trieste, dunque, sono citate nel capitolo in cui si parla della produzione letteraria, in dialetto, delle altre regioni italiane, ma in esse non si è compiuta la ricerca approfondita effettuata invece in quelle sopra citate.

La letteratura cosiddetta popolare, sia lirica che non lirica, è spesso in stretto contatto e interdipendenza e con la lingua e con la società in cui vivono gli autori che vi si dedicano. Riteniamo interessante lo studio di queste interrelazioni, ma esso esula dagli scopi del presente lavoro.

Una ragione ‘affettiva’, dunque, per la prima esclusione, e una di metodo per la seconda. Ma perché limitare le pagine dedicate agli autori più conosciuti, sia in Italia che all’estero, proprio quegli autori di maggiore richiamo che potrebbero togliere a Il filo di Arianna la catalogazione tra i libri di solo interesse locale?

La risposta è duplice. In parte essa è contenuta nella domanda; questi autori hanno pubblicato, spesso, presso case editrici maggiori, e su di essi esiste un numero rilevante di saggi critici. Chi si interessa di letteratura in dialetto li conosce già, e può al più essere curioso di leggere che cosa se ne dice in questo libro. La seconda parte della risposta vuole contestare, invece, che un libro che si occupa soltanto (o prevalentemente) della letteratura nella lingua di una delle regioni italiane, non possa essere di interesse nazionale.

Concesso che ci si muove all’interno di un campo per ‘addetti ai lavori’, non si vede perché chi legge antologie di poesia in dialetto non potrebbe essere interessato a conoscere meglio gli autori che ha già incontrato, a scoprirne (e apprezzarne) di nuovi, ad augurarsi - magari - che una ricerca del genere venga compiuta per la letteratura nella lingua della propria regione.

Si è parlato di antologie, e questo permette un aggancio con uno dei criteri che ha guidato questo lavoro. Degli autori citati (e particolarmente di coloro che hanno scritto in veneto dagli anni Sessanta a oggi) non si presenta soltanto un elenco di opere, ma anche qualche esempio della loro produzione. Si vuole - da una parte - sostanziare quanto si va dicendo, e - dall’altra - dare al lettore l’opportunità di rendersi conto delle caratteristiche, di stile e di contenuto, di ciascuno. Allo stesso modo, si è avuto cura di guardare all’insieme di questa produzione, nell’intento di cogliere il ‘peculiare’, quel qualcosa di inconfondibile che si ripeterà da un lavoro all’altro, permettendo di intendere il respiro dell’intera opera.

Altri criteri guida, per la poesia, sono stati quelli di sottolineare il passaggio al metaregionalismo, nonché di mettere a confronto la produzione in veneto con quella nelle lingue di altre regioni italiane, rilevando i punti di contatto, le convergenze.

Infine, ma non meno importante, è a questo punto opportuna la precisazione che, nel corso del libro, si parlerà di dialetto nella accezione più comune in Italia, e cioè ogni volta che si tratterà di una lingua diversa dall’italiano, ma parlata nel nostro paese. Si sa naturalmente che, in senso proprio, dialetto è la variazione di una lingua comune, e che le lingue parlate nelle diverse regioni italiane non sono variazioni dell’italiano.

Dal punto di vista grafico, nei testi citati i suoni sono stati trascritti tenendo conto delle indicazioni del Manuale edito nel 1995 dalla Regione Veneto, essenzialmente allo scopo di ottenere una presentazione uniforme, dato che i singoli autori - e a volte uno stesso autore in periodi diversi - hanno seguito personali sistemi di trascrizione.

Vorremmo che gusto per l’avventura, ricerca di senso, sfida, fossero anche le componenti dello stato d’animo di chi si accinge a leggere Il filo di Arianna, nella speranza che esso sia ritenuto guida valida per uscire dal ‘labirinto’.

TRASCRIZIONE DEI SUONI

Si tiene conto delle indicazioni del Manuale della Giunta regionale del Veneto*, e in particolare:

[c’] indica la [c] palatale quando si trova in fine di parola

[dh] indica la fricativa sonora interdentale (come [th] inglese in ‘father’).

[j] indica la [g] palatale (che si lascia quando l’autore l’abbia preferita).

[s] indica la [s] sorda o la doppia [s].

[s-c] indica la [s] sorda + la [c] palatale (le due consonanti sono da pronunciare distinte).

[tz] indica la [z] affricata sorda alveolare (come [z] italiana in ‘marzo’).

[z] indica la [s] sonora.

[zh] indica la fricativa sorda interdentale (come [th] inglese in ‘thin’).

L’accento tonico sarà indicato per ogni lessema, al fine di evitare ambiguità ed errori di pronuncia. La [o] indica la [o] chiusa; quando vi cada l’accento tonico, sarà indicata con [o’].

* AA.VV. Grafia veneta unitaria, Battaglia T., Ed.La Galiverna,1995.

1.

NARRATIVA IN DIALETTO :I PRIMI DECENNI DEL SECOLO

Come è ben noto, a partire dalla pubblicazione di Poesie a Casarsa di Pasolini, e della sua recensione da parte di Contini, cominciò in Italia un periodo di rinnovato interesse per la poesia in dialetto. Saggi critici si succedevano uno all’altro; si compivano ricerche, si pubblicavano antologie. Si diffondevano concetti come la scansione tra un ‘primo’ e un ‘secondo’ Novecento (anche se, in realtà, il ‘primo’ termina intorno agli anni della fine della prima guerra mondiale, e il ‘secondo’ non doveva cominciare - pienamente - che con gli anni Sessanta); quello secondo cui il dialetto era utilizzato in quanto ‘lingua della realtà’, o perché si prestava a essere ‘lingua della poesia’. Diventava di uso comune il concetto di poesia ‘dialettale’, da contrapporre a quella ‘in dialetto’ (distinzione che fa capo a Pancrazi), e quello - correlato - del passaggio dal ‘regionalismo’ al ‘metaregionalismo’.

Ma su tutto ciò si tornerà più avanti.

Ci si vuole ora soffermare sui generi non lirici, che hanno avuto il merito - tra l’altro - di mantenere la presenza del dialetto come lingua scritta durante il periodo in cui nessuno, praticamente, scriveva poesia se non in italiano.

Sin dalla fine dell’Ottocento, narrativa in dialetto veniva pubblicata su giornali cattolici o di ispirazione socialista; ambedue le ideologie si rivolgevano al ‘popolo’; ambedue riflettevano l’atmosfera di scontro ideologico tipica dei primi decenni del nostro secolo. (Da notare, peraltro, che il pubblico cui il messaggio era rivolto non poteva recepirlo direttamente, in parte per l’ancora diffuso analfabetismo, ma soprattutto per una legge valida ancora oggi, per cui sa leggere il dialetto senza difficoltà chi è abituato a leggere in italiano).

Per la diffusione di questa narrativa in dialetto non mancavano le occasioni. Per quel che riguarda i settimanali diocesani, per esempio, a Treviso si leggeva la Vita del Popolo nelle osterie, e quando le famiglie si riunivano per il filò; l’Operaio cattolico di Vicenza veniva distribuito ogni domenica alla porta della chiesa; altri settimanali venivano letti la sera dei giorni di festa, in riunioni presiedute dal parroco.

Negli anni intorno alla prima guerra mondiale, e fino agli anni Trenta, circolarono gli scritti di colui che viene considerato il primo romanziere in lingua veneta: monsignor Giuseppe Flucco. Nato a Venezia, vissuto per molti anni a Padova, trasferito poi a Thiene (in provincia di Vicenza), monsignor Flucco collaborò ai giornali diocesani L’ancora della domenica (1897-1901) e La difesa del Popolo (1908-a tutt ’oggi) di Padova. In essi furono pubblicati, a puntate settimanali, diverse storie umoristiche in dialetto; la dedica dell’autore a Fric Froc imboscà (una di queste), ne rivela lo scopo principale: Al popolo/ perché/ esilarato lo spirito/ si avvantaggi nel bene.

Nel 1942, sempre alla Difesa del Popolo, iniziò la collaborazione di un altro sacerdote, don Angelo Bertolin, che divenne famoso con lo pseudonimo di Giacometo. Per oltre venticinque anni don Bertolin intese difendere la civiltà contadina di cui era figlio.

Sia i racconti di Flucco che quelli di Giacometo riscossero grande successo, tanto che furono raccolti e pubblicati in volume.

La principale motivazione del ricorso al dialetto, per la prosa della prima metà del secolo, viene a essere - come per la poesia dello stesso periodo e come per il teatro - un’apertura comunicativa e comunitaria, con l’aggiunta di quella costante della letteratura in vernacolo che è di poter dire quello che in lingua sarebbe meno accettabile.

Di monsignor Flucco sono in circolazione ancora alcuni romanzi; si tratta sempre di ristampe, ma riferimenti interni permettono a volte di risalire alla data della prima edizione.

Passemo tragheto, per esempio, risulta scritto nel 1910. In quattordici capitoli sono raccontate avventure e disavventure di Momoleto, ventenne veneziano, al tempo in cui Venezia era ancora sotto la dominazione austriaca. Il giovane (descritto come impulsivo, prepotente, presuntuoso, piuttosto vigliacco, e dal fisico disgraziato) deve consegnare un armadio alla moglie di un generale austriaco. Invece della mancia che si aspetta riceve delle frustate; si ribella, ferisce accidentalmente un ufficiale, deve nascondersi e poi fuggire da Venezia per evitare l’arresto. Si imbarca su una nave che, toccata la Sicilia, approda poi all’Africa settentrionale.

La maggior parte del racconto è dedicata a quanto gli succede in quel periodo, finché - avuta notizia di essere stato graziato - ritorna a casa. La vicenda si conclude quando, scoperto che la madre e la fidanzata sono morte e che la sorella si è fatta suora, in un brevissimo capitolo (intitolato Finiamola che ze ora), il giovane muore all’ospedale. Nel lettore rimane l’impressione che Flucco - dopo aver inventato tante mirabolanti avventure - non sapesse più come venir fuori dalla situazione. In effetti, Momoleto non vive di vita propria, è stato soltanto il pretesto che l’autore ha trovato per raccontare, per lasciarsi andare alla fantasia (qualche volta alla truculenza, alla grossolanità). Una volta rientrato a Venezia non poteva continuare a vivere.

Il susseguirsi di personaggi e l’intrecciarsi di storie sono anche l’occasione, per Flucco, per esprimere idee e convincimenti (per non chiamarli pregiudizi) che riflettono puntualmente la mentalità dell’epoca. Sono prese di mira le donne « alla moderna, senza principi religiosi, senza cognizione del dovere, senza cervello »; gli attacchi contro l’occupante straniero e l’esaltazione del comportamento di un gruppo di missionari potrebbero trovar posto anche nel testo di un autore di oggi, mentre risulterebbe inaccettabile il razzismo indiretto espresso nei confronti dei « mòri ». Passemo tragheto è in fondo un libro di avventure, in cui la comicità è basata più che altro sulla goffaggine, l’incoerenza, l’ignoranza, la codardia di Momoleto: più che ridere con lui, si ride di lui.

Quanto al linguaggio, il libro è scritto a diversi livelli. C’è il veneziano scorrevole dell’autore, in cui trovano posto frasi in italiano letterario, e c’è il veneziano scorretto dei personaggi, nonché il loro presunto italiano (e spagnolo, e francese, e tedesco). Si ritrovano puntualmente in questo libro le caratteristiche segnalate da Quinto Antonelli nel suo saggio Il dialetto nei giornali veneti1, e cioè la tendenza a provocare il « riso di esclusione » attraverso giochi di parole, associazioni foniche (specialmente la paronomasia), e ad attribuire a determinati personaggi un linguaggio aberrante, risultato di tentativi inadeguati di sfuggire al codice dialettale.

Fric Froc imboscà, completato nel maggio del 1919 (come si evince dall’ultima delle molte intromissioni dell’autore nella vicenda) presenta personaggi che il lettore doveva conoscere già, perché protagonisti di racconti precedenti. Fric Froc, uomo sui sessant’anni, ritorna dall’America con Anzoleto che vuole arruolarsi nella guerra contro l’Austria. In 102 capitoli (e in più di seicento pagine) sono narrate le sue vicende; anch’egli si presenta volontario, diviene l’attendente di un capitano medico veneziano, e passa la maggior parte del suo tempo a Padova, salvo brevi periodi a Thiene, a Venezia e in prima linea. Firmato l’armistizio, Fric Froc si ammala gravemente e muore. (Morte improvvisa come quella di Momoleto, ma qui il personaggio viveva al di fuori delle sue avventure; forse l’autore lo ha fatto morire per significare di non volerlo riprendere in seguito).

Il libro presenta capitoli che - scorrevoli e autonomi, tanto da poter ben figurare come ‘puntata’ settimanale - all’interno di esso risultano un po’ stucchevoli e ripetitivi, rivelando la ricerca continua, da parte dell’autore, di pretesti per andare avanti, settimana dopo settimana.

Inserito nell’esercito, Fric Froc (poco intelligente, puntiglioso, goffo, pauroso e presuntuoso, ma buon cristiano) ha diverse occasioni di esibirsi in quell’italiano aberrante cui si è fatto cenno. Quando vuole ben figurare pronuncia strafalcioni come « Mulisìpio » per municipio, « Parfètto » per prefetto, « Marasiàl » per maresciallo, « Carbonièr » per carabiniere, « Telèfrico » per telegrafo, « acquarèla » per querela. Nella frase « bàstano l’acùme » (basta l’acume) si osserva anche un caso di sovracompensazione, nel cambio di persona del verbo. (È da notare infatti che, in veneto, si usa la terza singolare anche per la terza plurale). Come si è accennato, Fric Froc è un buon cristiano e prega in...latino: « De parfo’ndi scramàvi de dòmino » e « Rè che n’etèrna do’na ei Dòmina ».

Non è dato sapere quanti di questi neologismi facessero parte veramente del linguaggio del popolo, e quanti siano creazioni di G. Flucco. È plausibile che appartenessero all’uso popolare le formule latine, cosi come le parole per corrispondenti italiane non presenti nel dialetto (come, per esempio, querela). In certi casi il neologismo sembra creato a partire da una parola che, in dialetto, ha un suono simile o vicino, e significato ben conosciuto; si vedano i colli « Lugàneghi » (Euganei) da /lugànega/, una salsiccia bianca di uso molto comune, o « stella cogométa » (cometa), da /cògoma/, il bricco nel quale si faceva il caffè. Il linguaggio - il veneto nella sua varietà veneziana - è storpiato dai personaggi e molto italianizzato dall’autore (per esempio, sono mantenute le doppie, [m] non diventa [n] prima di [p/b], ecc.). Esso è certamente uno degli elementi suscitatori del riso; l’altro è la presenza di situazioni in cui il lettore ride alle spalle del protagonista.

Anche in questo caso il racconto umoristico serve a far passare ‘messaggi’ che il lettore dovrà interiorizzare. Monsignor Flucco, un testo dopo l’altro, continua a manifestare la sua misoginia, che si rivela in frasi come « E lu bada a le donne? Cosa vo’rlo che le capìsa... », mentre in altri casi essa è mascherata, dato che si mescola a una critica ai ‘tempi moderni’, o a giudizi d’ordine morale.

Poiché le vicende narrate si svolgono presumibilmente negli ultimi due anni di guerra, non mancano attacchi ai profittatori, a imboscati, nonché alla prevaricazione dei caporali, durante l’addestramento militare, o alla differenza di trattamento riservata agli ufficiali nei confronti della truppa.

Quanto alla morale, si passa da giudizi sui bestemmiatori a commenti sulla leggerezza dei costumi; dall’affermazione che ci sarà un castigo sicuro per chi si sia sempre comportato male, al fervorino rivolto ai giovani, che devono prendere in moglie « to’ze bo’ne, oneste [...] che ga religio’n, che rispetta so mare », mentre queste dovranno scegliere « to’zi de sèsto ».

Interessante, perché testimonianza non solo di un periodo storico, ma anche dell’atmosfera particolare creatasi per il mescolarsi di soldati provenienti da regioni diverse, la trascrizione di canzoni in italiano, in veneto, in friulano, in napoletano.

La vicenda di Saldi in pope è ambientata nei primi anni del Novecento, ma la redazione è forse posteriore a quella dei due precedentemente citati, almeno a giudicare dalla maggiore organicità, dallo stile più sorvegliato. Nel complesso il libro si presenta come una sapiente mescolanza di comicità e di sentimenti veri. La storia è a lieto fine: i buoni vengono premiati e i cattivi si ravvedono. C’è qualche attacco alle donne,al governo e alla sua politica, ma questi elementi non prendono mai il sopravvento. I personaggi sono ben tratteggiati, emergono vivi dalla pagina; la comicità si basa essenzialmente sul modo di parlare, e di comportarsi, di questi. Specialmente di Tita e di Fioravante descritti, sì, come ignoranti e un po’ presuntuosi, ma ambedue - fondamentalmente - generosi e di ‘sani principi’. Il linguaggio, (a parte i numerosissimi esempi di italiano aberrante) è un misto di veneziano e di padovano.

L’alternanza di comicità e di « sentimenti veri » è segnalata anche dal linguaggio; l’autore racconta in una prosa fluida, armoniosa, che cambia quando vengono inseriti intermezzi comici. Allora la struttura - che è sempre solida, nel senso che dialoghi e racconto si alternano con naturalezza - sembra disintegrarsi; l’italiano aberrante assorbe tutto lo spazio, diviene fine a se stesso (o, meglio, all’effetto comico). Esempi di questo ‘gergo’ sono « disprèso » (la lettera spedita per espresso); « fiorénza » (influenza); scuola « alimentare » (elementare); la Corte « de Asìsi » (d’Assise); « la Cadèmia » (l’Accademia). Quest’ultima divisione tra articolo e lessema si trova anche, per esempio, in « el relògio » (l’orologio), « la rénga » (l’aringa), « la Mèrica » (l’America).

Altri neologismi sono creati per metatesi, o per sostituzione di una lettera con un’altra (spesso le liquide): pubblico diventa « pùbrico »; conclusione, « concruzio’n »; pretende, « parténde » e permesso « parméso »; bersagliere, « bresalgièr », profondo, « parfo’ndo »; spropositi, « sparpòziti ».

Questi « sparpòziti » non devono alludere a debolezza mentale, come nei racconti precedenti, ma a ignoranza, e si pensa abbiano suscitato il riso delle persone più istruite (non si dimentichi che i giornali diocesani avevano largo pubblico nelle parrocchie rurali, ma circolavano anche nelle città).

Anche a giudicare soltanto dai pochi testi ancora in circolazione (si sa che Flucco ha scritto altri racconti e testi per il teatro, oltre a un libretto di versi), ci si può rendere conto che questo autore possedeva una salda preparazione classica, sulla quale ha appoggiato una istintiva facilità alla scrittura.

2.

PERCHÉ IN DIALETTO? INIZIA IL CAMBIAMENTO

Sempre nell’ambito dei settimanali diocesani, anzi della stessa Difesa del Popolo di Padova che aveva pubblicato i racconti umoristici di monsignor Giuseppe Flucco, a partire dal 1948 operò don Angelo Bertolin, che intendeva continuare la tradizione del suo predecessore. L’uso del dialetto, in questo autore, fu motivato dal bisogno di opporsi - in qualche modo - a quel processo di estinzione rapida della civiltà contadina che si vedeva avvenire intorno, e da quello di ricreare, quanto più perfettamente possibile, quei ‘bei tempi’ in cui la vita quotidiana era intrisa di religiosità.

Giacometo fu consacrato scrittore nel 1948, l’anno delle battaglie elettorali, quando si dedicò a una accesa campagna anticomunista. Filone politico, dunque, al quale fece seguito quello che sottolineava il mutamento dei costumi sociali. Con l’avvicinarsi degli anni Settanta, la distensione tra Chiesa e comunismo trovò Giacometo incapace di adattarsi al clima nuovo che i giornali diocesani erano chiamati a sostenere; come scrisse in un articolo (ottobre 1968), non aveva « più tòcio in te la péna » (più inchiostro nella penna).

Dal gennaio 1963 al luglio 1964, in trentasei puntate, la Difesa del Popolo pubblicò El brìvido de la castagnàra granda, considerata la sua opera letteraria più importante: un lavoro che riflette i mutamenti socio-culturali degli anni Sessanta. In una nota (« Na specie de prefasio’n ») che apre questo Raco’nto lo’ngo - come lui voleva fosse chiamato - don Bertolin enuncia ciò che si prefigge il suo fare giornalismo: presentare delle storie che servissero da specchio ai lettori, in modo che potessero confrontarsi con una immagine ideale.

Nel caso de El brìvido i protagonisti, pur rappresentando ciascuno tutta una categoria che condivide uno stesso modo di essere, di agire, di pensare, non sono stereotipi; l’autore riesce a farli vivere, muovere, con mano sicura. A differenza dei racconti brevi, di impianto satirico, in cui norma e deviazione sono sottolineate anche attraverso la caricaturizzazione dei personaggi con caratteristiche negative, nei confronti dei quali scatta il « riso di esclusione », in questo romanzo non vi sono macchiette; i protagonisti hanno - degli esseri umani - qualità e debolezze, momenti di entusiasmo e di depressione, testardaggini e ripensamenti.

Attraverso le vicende di una famiglia rurale, si osservano i cambiamenti avvenuti anche nei paesi, a livello economico e sociale, a causa della rapida industrializzazione del Veneto, negli anni Sessanta. In una casa colonica, recentemente ristrutturata, vivono i rappresentanti di tre generazioni: l’anziana proprietaria, vedova; il figlio Giacinto, con la moglie; la nipotina adolescente, terzogenita della coppia, nata ad anni di distanza dai fratelli, già fuori casa.

Giacinto e la madre rappresentano la tradizione; sua moglie (descritta come persona che ci tiene a ben apparire, schiava delle opinioni diffuse dai rotocalchi e dalla televisione) è un esempio di ‘genitore moderno’; Desy, l’adolescente, lavora come operaia nella città vicina e - assetata di libertà - è pronta a cogliere tutte le occasioni.

Forte dell’appoggio della madre che ha in lei cieca fiducia, Desy si incontra con un militare siciliano. Rimasta incinta, e abbandonata dall’innamorato, rifiuta di abortire, riapre il dialogo con il padre, e fa tesoro dell’esperienza per acquisire una nuova maturità.

Ci sono tutti gli elementi del romanzo popolare (comprese storie parallele che si intrecciano a quella principale), ma in certe pagine Giacometo va oltre i limiti di questo genere. Già nel secondo capitolo l’autore fa riferimento al sentimento di appartenenza( che è tutt’uno con quello di identità) quando descrive le sensazioni di chi abbia passato anni lontano dal luogo natale; al ritorno c’è il bisogno di controllare che tutto sia rimasto immutato, e perfino all’abbattimento di un albero ormai marcito « te te ribèli e te protèsti, come par on afronto parsonale ». Un altro esempio è la descrizione della morte della vecchia madre di Giacinto (con le tradizionali pratiche cristiane che l’accompagnano) e della penitenza che costui si impone, sentendosi responsabile della deviazione della figlia; essi possono essere (e magari sono) fatti anacronistici, ma si inseriscono così puntualmente nella verità della vita di quei personaggi, e sono trattati con tale delicatezza, da far ritenere che qui Giacometo si riveli artista.

Nella conclusione, il grande castagno - simbolo della famiglia - crolla improvvisamente in un inverno di neve e di nebbia, il giorno del battesimo del figlioletto di Desy. Giacinto non se ne rattrista: la primavera seguente ne pianterà due, che cresceranno con il nipotino.

In questo libro, a parte i limitati interventi della madre di Giacinto, che si esprime in dialetto rustico, gli altri personaggi parlano già un dialetto che è molto vicino a quello di città, ma che mantiene tuttavia le caratteristiche che - ancora oggi - distinguono il parlare dei non acculturati. Frequenti sono le metatesi, la sostituzione della liquida [l] con [r], della labiale [v] con [b], l’interpretazione popolare delle formule religiose latine. Il dialetto, in questo romanzo, non è usato a fini di comicità, ma come una delle componenti che caratterizzano un personaggio, lo rendono vivo; insieme, è anche espressione di quel sentimento di appartenenza, di fedeltà a una tradizione, che permette - e garantisce - il senso di identità.

Giacometo, parlando per immagini (il modo da sempre usato per entrare in rapporto diretto con chi guarda/ascolta, al di là della cultura), lo ribadisce.

L’altro genere in cui si trova prosa in dialetto è il teatro. Il teatro veneto è sempre stato essenzialmente veneziano; in quanto tale si esprimeva nella lingua che formava la base sulla quale si era modellata la koiné veneta. Lingua comune che rispecchiava il considerare il teatro come fatto sociale, come specchio di valori, di abitudini, di tradizioni (tra cui era compresa la lingua di espressione) comuni al pubblico cui si rivolgeva.

A differenza del genere lirico, che è sembrato esaurirsi con l’inizio degli anni Cinquanta, e che è rinato poi - con diverse motivazioni - un decennio più tardi, il teatro in veneto conobbe una notevole fioritura dagli anni dall’unificazione alla fine del secolo, e nei primi decenni del Novecento, scomparendo poi a poco a poco.

Durante la seconda guerra mondiale le produzioni in dialetto furono prese di mira; disposizioni del Ministero della Cultura Popolare, fatte pervenire ai giornali, li invitavano a non occuparsi di tali sopravvivenze del passato che la dottrina fascista condannava.

All’indomani della liberazione il teatro in dialetto si dimostrò incapace di rinnovarsi, di ristrutturarsi secondo parametri diversi. È vero che l’istituzione del premio teatrale Giacinto Gallina, nel 1948, fu l’occasione - per alcuni autori - di proporre nuovi copioni, ma la sua ultima edizione (1956) mise fine a un rinnovamento che non aveva avuto il tempo di consolidarsi. Il cinema, e specialmente la televisione, facevano sempre più concorrenza al teatro; i giornali dell’epoca videro nella morte del grande attore Cesco Baseggio, nel gennaio del 1971, il segno della morte anche del teatro veneziano. Ma - come scrive Nicola Mangini nel suo Teatro veneto moderno 1870-1970 (testo importante ed esauriente per conoscere nei dettagli il periodo) - esso da anni in realtà non esisteva più: non c’erano stati nuovi commediografi, né nuove Compagnie capaci di imporsi a livello nazionale.

La maggior parte dei copioni messi in scena durante il periodo della ‘fioritura’ rientra negli schemi tradizionali del teatro veneto (opportunamente chiamato dialettale); essi presentano personaggi spesso al limite del farsesco, sono divertenti, a lieto fine; sono contraddistinti da un dialogo vivace e spiritoso. Soltanto le opere di Eugenio Ferdinando Palmieri e di Gino Rocca (più un paio di quelle di Giuseppe Bevilacqua) presentano elementi che ne le distaccano, rendendole più aderenti alla vita contemporanea, più problematiche.

Palmieri si fece conoscere negli anni Venti, quando la Compagnia Bianchini mise in scena la sua prima commedia,Strampalata in rosablu, e, nelle stagioni successive, La dama inamorada e Tic Tac!. Della prima, in cui a una storia contemporanea si mescola - interpretata dalle Maschere - la vicenda di un matrimonio contrastato, l’autore stesso dice:

[...] La scrivo - non sono ancora ventenne - per far ciarlare, anzitutto, la passione che mi vincola alle Maschere [...] anche per agitare nel Teatro Veneto le placide acque del convenzionalismo, anche per ribellarmi [...] a un repertorio in cui i borghesi dei vaudevilles di nuova fabbricazione si alternano con i personaggi ottocenteschi delle vicende di vecchia costruzione [...] La Grande Guerra [...] annunzia, o conferma [...] la fine e il principio d’un modo di far poesia, pittura, letteratura narrativa e drammatica [...]2

Si è voluto fare questa lunga citazione perché essa testimonia - insieme alla conoscenza dei fermenti che percorrevano il contemporaneo teatro in italiano - della presa di posizione di Palmieri a favore di un teatro la cui lingua, considerata di livello più basso di quella nazionale, non doveva condizionare il contenuto. (La presenza, che si può giudicare incongrua, delle Maschere veneziane, nonché il desiderio di innovazione presente in Palmieri, fa venire in mente la Turandot di Carlo Gozzi, in cui lo stesso tipo di eterogeneità può essere visto come sovversione del realismo illuminista, quando non addirittura della struttura teatrale tradizionale).

In quasta commedia Palmieri - pur giovanissimo - dimostra di possedere già saldamente le caratteristiche che si ritroveranno nelle opere successive. Infatti in essa si alternano parti in cui prevale uno stile allegro, vivo, scanzonato, ad altre più serie, meditate, dove vicende e personaggi sono l’occasione per riflessioni sulla natura umana, sulla vita. Anche l’ambiente si riproporrà: quello di ricchi agricoltori, o possidenti terrieri, in cui prende avvio e si evolve un contrasto di generazioni, tra ‘vecchi’ legati alla terra e al passato, e ‘giovani’ proiettati verso un futuro dove conterà soltanto il denaro, insieme alle ipocrisie, ai compromessi di una società i cui valori sono cambiati.

Prima di essere riscoperto, nella stagione 1933-34, Palmieri vide rifiutati dalle grandi Compagnie diversi copioni. Forse fu questo smacco che lo portò a tentare la strada dei grandi successi dell’epoca (un nome fra tutti: Nina no far la stupida), scrivendo La corte de le pignate e L’ostaria del Moro Bianco, senza riuscire comunque ad affermarsi.

Gino Rocca aveva scritto - nel 1914, per la Compagnia di Ferruccio Benini - El sol sui véri; dal 1924 iniziò una stretta collaborazione con Gianfranco Giachetti, che nel 1926 metteva in scena Se no i ze mati no li volémo, un copione che rivoluziona dall’interno gli schemi tradizionali del teatro veneto. Nella storia di tre vecchi amici che, in un paese del Veneto, per mantenere il diritto a una eredità, tornano a comportarsi in modo sconsiderato, come avevano fatto in gioventù, Rocca comincia a liquidare il mito della provincia semplice e generosa, creando personaggi torbidi e presuntuosi.

Difficile catalogare l’opera teatrale di Gino Rocca, orientato verso esperienze diverse. Fu testimone del suo tempo, ma esplorò i sentimenti dei suoi personaggi più che sottolinearne la problematicità. Suoi temi dominanti quelli che riguardano la vita di relazione: l’amicizia, la fedeltà, l’amore.

I personaggi di Rocca vivono in una società materialista e superficiale che soffoca in essi gli impulsi positivi, condannandoli a un mondo dominato dall’egoismo. Innovatore nei temi e nello stile, tradizionale nelle strutture, Rocca - autore anche di copioni in italiano - fu comunque tra coloro che contribuirono a rinnovare il teatro. Nelle sue commedie si trovano delle costanti; i personaggi hanno la tendenza a ripiegarsi su se stessi, cercando una via d’uscita dai propri problemi attraverso sogni e fantasie. Presentati a volte inizialmente come macchiette, sono in seguito fatti uscire dai limiti della caricatura quando l’autore ne evidenzia la profondità umana. Quanto alle situazioni, si ritrova da un testo all’altro l’attribuire a un gesto, a un’allusione, maggiore importanza che non all’esplicitato.

Come si è detto, la critica si accorse di E.F.Palmieri soltanto a partire dalla stagione 1933-34, quando in opere come La fumàra, I lazzaroni, Quando al paéze mezogiorno so’na, manifestò una vena sarcastica e un forte risentimento morale.

La fumàra segna il ritorno all’ispirazione originaria di Palmieri. Scritta in un dialetto veneto di fondo polesano, essa propone come protagonista principale il Polesine (quello cantato da Gino Piva in Cante d’Adese e Po). La nebbia (la « fumàra ») è parte integrante del paesaggio, ed è anche immagine dello stato d’animo dei protagonisti - confuso, indistinto, contraddittorio, in un paese di provincia dove niente può restare segreto, dove nessuno si domanda se le ‘chiacchiere’ non siano invece calunnie.

Nello stesso dialetto è scritta I lazzaroni, per ammissione dell’autore ispirata, nei primi due atti, dalle sue precedenti raccolte di versi e, nel terzo, da un racconto pubblicato nel 1933. Con Quando al paéze mezogiorno so’na, Palmieri dichiara la sua intenzione di rappresentare situazioni emblematiche sin dalle indicazioni per la regia: « Nel Veneto, ma non è necessario. Anno 1936, ma non è indispensabile ».

Protagonista è una famiglia di proprietari terrieri, in provincia, ma scomparsa è la forza morale che permetteva - per esempio a Paro’n Toni de La fumàra - di mantenersi integro e inattaccabile (se non dalla sofferenza, certo dai compromessi). Qui non si salva niente e nessuno; ciascuno agisce cercando un proprio tornaconto. I giovani non sono peggiori dei vecchi, il passato non ha saputo trasmettere valori (neanche quelli considerati convenzionali) ma soltanto la cupidigia, il moralismo. La satira è amara, graffiante.

Scandalo sotto la luna (titolo in italiano, come esigeva la politica del fascismo) è considerata, dallo stesso Palmieri, il suo copione d’addio, in parte per l’esaurirsi di un suo bisogno di esprimersi attraverso la poesia e il teatro, e in parte per proseguire la carriera di critico teatrale, senza sentirsi limitato dal fatto di essere - a sua volta - commediografo.

3.

POETI DEL PRIMO NOVECENTO, POETI DELLA TRANSIZIONE

Come è ben noto, la scansione del secolo in due periodi, per quel che riguarda la poesia in dialetto, si deve a Franco Contini, che nella recensione a Poesie a Casarsa di Pasolini indicava in quella raccolta lo spartiacque tra, appunto, un primo e un secondo Novecento.

Essa non è applicabile, come si è visto, alla produzione teatrale; per quel che riguarda la narrativa, gli elementi che la caratterizzano (esemplificati negli scritti di monsignor Flucco e di Giacometo) si ritroveranno, dopo la metà del secolo, soltanto a livello dialettale. Un solo autore (Flaminio De Poli, se ne parlerà più avanti) esce da questi schemi; ciò che costituisce la sua assoluta originalità è di aver portato una riflessione su se stessi, sulla vita, a esprimersi in prosa, nel linguaggio ruvido e nei modi di vita dei contadini, raggiungendo un duplice risultato: da una parte, ha ridato vita a un passato di cui stanno scomparendo gli ultimi testimoni, e - dall’altra, al di là delle incrostazioni, delle deformazioni dovute al linguaggio, ad abitudini e tradizioni diverse che a volte falsano la percezione - ha evidenziato nelle emozioni e nei sentimenti dei contadini quelli di una comune umanità.

I poeti che scrissero in veneto nella prima metà del secolo usarono - in genere - la lingua più uniforme della koiné. Vissuti tra Otto e Novecento, influenzati prevalentemente da Pascoli e Carducci, ci hanno dato componimenti caratterizzati dall’aderenza al soggetto popolare, espressa nella forma ottocentesca della descrizione di un paesaggio, di una scena, di una situazione, nonché da quella - di ispirazione socialista - che riprendeva i temi della lotta contro lo sfruttamento e la miseria, per un maggiore rispetto delle classi sociali subalterne.

Facciamo l’esempio del veronese Berto Barbarani, la cui carriera fu lunga e apprezzata dal pubblico e dalla critica; pur padrone di una lingua poetica fluida e melodiosa, non riuscì a evitare i limiti tipici della provincia italiana di fine Ottocento. Anche il suo amore per la povera gente, che lo portò a scrivere I pitòchi (1896), rimase a livello di un socialismo umanitario che vedeva la soluzione delle disuguaglianze sociali nell’aiuto reciproco, nei buoni sentimenti.

Oppure il veneziano Domenico Varagnolo, che per l’abbondanza della produzione, la versatilità (autore lirico, ma anche commediografo e critico teatrale), la notorietà in ambito locale, non merita un riconoscimento minore di quello attribuito a Barbarani. La sua lingua è dolce e armoniosa, e si accorda perfettamente con l’oggetto della sua espressione poetica. Oltre ai temi legati alla tradizionale poesia vernacolare, nei suoi componimenti si trovano anche i fatti e le emozioni della prima guerra mondiale.

O ancora il polesano Gino Piva; sulla base delle nebbie, delle acque, dei campi del Polesine, Piva evoca la vita dura, faticosa, segnata dalle tragedie, di contadini e pescatori, non per spingerli alla lotta, non per suggerire soluzioni fondate sui ‘buoni sentimenti’, ma per fare della loro esperienza quasi un paradigma, una metafora, della condizione umana.

Il lavoro dei tre autori citati appartiene - come si è detto - alla tradizione ottocentesca. Ce ne sono altri, però, più o meno coetanei, che pur continuando quasi sempre quella tradizione, presentano anche delle innovazioni, delle forme di sperimentazione, oltre a contenuti diversi. Tenuto conto che è fenomeno verificatosi anche in altre regioni, si ritiene importante mettere in evidenza quell’autore, o quegli autori, che possono essere visti come cerniera tra i due periodi in cui si scandisce il Novecento. Ci si soffermerà ora, quindi, su questi ‘poeti della transizione’, passando da quelli le cui sperimentazioni sono più timide ai due per i quali - secondo noi - si può cominciare a parlare di metaregionalismo, nel senso che, conservando la coralità attraverso la lingua regionale, sono già avviati verso l’espressione in prima persona.

Egidio Meneghetti, veronese, è uno di quei poeti (come Noventa, per esempio) che hanno pubblicato tardi rispetto alla data di elaborazione dei propri componimenti. Benché la maggior parte di essi sia in rima e in forme metriche chiuse, non mancano liriche in versi liberi e senza rima; in entrambi i casi, frequenti sono le allitterazioni. La sua è una poesia di partecipazione e di sentimenti, che raggiunge la maggiore intensità nei testi ispirati alla guerra partigiana. Il dialetto cui fa ricorso è un po’ più grezzo di quello di città, trascritto in una grafia personale e incerta (dove, per esempio, [s] sta sia per il suono sordo che per quello sonoro).

Livio Rizzi è polesano, e il Polesine è al centro della sua poesia: vi si parla di contadini, di terra coltivata, di pericoli, di miseria. Nei componimenti si sente l’empatia: egli non si limita mai a una descrizione esterna. Nella presentazione a Poesia per la me gente, Palmieri lo chiama « torototèla », cantastorie, e infatti il ritmo dei testi - in genere lunghi - è quello del racconto orale. La rima è presente; la maggior parte dei ‘racconti’ è in endecasillabi, ma non manca il verso libero. Il dialetto è quello di Rovigo città; come già in Piva, anche qui si nota la ricerca della koiné.

La maggior parte della produzione del padovano Giulio Alessi è in italiano. Versi in dialetto si trovano, con il titolo Scarpìe del cuore (Ragnatele...), nella seconda parte di Cara città (1956). Altri, sempre a seguito di una prima parte in lingua, in Addio Padova (1969). È infine completamente in dialetto la raccolta edita nel 1971, Lùzole su l’ara (Lucciole sull’aia). Nella sezione in dialetto padovano di Cara città, Alessi riprende i temi della prima parte in italiano; così farà anche in Addio Padova. Nell’un caso e nell’altro il linguaggio, divenuto più corposo, accentua gli elementi realistici della parte in lingua. In generale, la tensione lirica cala fino al livello della prosa, mentre il tono moralistico si fa più insistito. In Lùzole su l’ara l’autore riprende alcuni temi e atteggiamenti delle raccolte precedenti. In un dialetto che esalta le proprie qualità espressive nel lessico, nella sintassi, oltre che nei timbri fonici, Alessi punta sul colloquiale, indugia nei modi del parlato e del dialogato, accentua con ironia il moralismo, polemizza contro il conformismo, l’ipocrisia, la corruzione dei costumi. Il dialetto è il padovano di città; come in tutti gli altri autori citati sinora, mancano i segni caratteristici della pronuncia veneta (per esempio [n] invece di [m] prima di [p], come in /tenpo/,/senpre/,/canpagna/). Il dialetto sembra utilizzato soltanto per dare colore locale a descrizioni di luoghi, di personaggi. In certi componimenti l’anafora, la rima interna, le assonanze, creano musicalità; per altri non sembra di poter parlare neanche di prosa poetica. Si tratta della rivisitazione del passato; il dialetto vuole essere lingua della realtà, ma si tratta spesso di una realtà di miseria, quando non di sordidezza.

Rizzi ha pubblicato nel 1949, Meneghetti nel ’55, Alessi dal ‘56. Forse troppo a ridosso del periodo - iniziatosi con gli anni Sessanta - in cui si è consolidato il cambiamento fondamentale, da parte dei poeti, in tutta Italia, nel modo di scrivere in dialetto, perché le loro timide innovazioni possano essere considerate significative. Ma i due autori di cui ci si occuperà ora si sono fatti conoscere molto prima, e colui che secondo noi presenta maggiori tratti di originalità (rispetto alla produzione dei suoi contemporanei) ha iniziato a pubblicare nel 1923-24, e la sua ultima opera è del 1939.

Eugenio Ferdinando Palmieri, commediografo, ben noto critico teatrale, ha scritto anche poesia in dialetto; Poesie, pubblicato nel 1950, contiene testi scritti tra il 1931 e il 1934, alcuni dei quali rielaborati. Dei polesani Palmieri è il più libero, il più estroverso. Anche se l’ispirazione è comune - il Polesine con i suoi eccessi di clima, la miseria dei suoi contadini - l’entusiasmo, l’esuberanza, la vitalità che immette nel dire lo rendono diverso dai suoi conterranei. In parte egli rimane aderente alla rima e alla metrica tradizionale, ma è capace di innovazioni.

È da notare, per esempio, che le frequenti inarcature fanno spesso diventare interne le rime, e di altra misura i versi endesillabici, permettendo alla lettura del testo di andare in senso opposto a quello della presentazione grafica. Ciò che colpisce in Palmieri è il ritmo, in certi componimenti quasi da filastrocca, da racconto orale in quelli in cui i versi sono più lunghi.

Infine, unico nel Veneto (se si esclude De Poli con il suo La Degora, che però graficamente è presentato come un poemetto), e tra pochissimi altri in Italia, con Distante Palmieri scrive un poema in prosa. Il poeta parla della città della sua infanzia, così come la ripensa essendoci lontano. La presentazione grafica è quella di un testo in prosa diviso in strofe che del poema in prosa hanno le caratteristiche, così come indicato da Suzanne Bernard nel suo Poème en prose3. Il ripetersi del nome della città, la presenza di assonanze, consonanze, allitterazioni, la ripetizioni di frasi, testimonia « d’une organisation rythmique fondée sur le retour, la répétition ». I modi in cui il poeta si identifica con la sua città (« Devénto ti, Rovighéto »; « son un tòco de cièlo »; « son ‘na piàtza »; « son un balco’n »; « son el siléntzio d’un viale »; « son la doménega sul ponte de la Boàra »), contribuiscono « à présenter le poème [...] comme un récit [...] situé, en quelque sorte, hors du temps »; i mezzi tecnici del racconto sono utilizzati « en vue d’une fin déliberément poétique, c’est à dire intemporelle. Pour cela le poète s’installe dans l’irrationel ».

Il veronese Dante Bertini, benché fosse (o, magari, perché era) contemporaneo del largamente conosciuto e apprezzato Barbarani, si esprime in modo notevolmente diverso da questi. Per Bertini si è parlato di originalità: essa si basa su due elementi. Il primo è il dialetto che egli usa, quello della bassa veronese; per la prima volta, dunque, il dialetto non è quello dei grandi centri, non ha tradizione alle spalle. Secondo elemento, lo stile. In alcuni componimenti, e in parte di altri, Bertini ricorre a versi sdruccioli (disarmonici, ma non sgradevoli, malgrado il giudizio negativo di Pasolini nel suo Poesia dialettale del Novecento, per il quale erano « da secentista in fregola, praticamente illeggibili »). Nei suoi testi è frequente il verso libero; la rima non è sempre presente. Non si ritiene possa essere considerato un grande poeta, ma la sua voce è caratteristica: è quella del racconto orale, di cui ha il ritmo e la cadenza.

Bertini racconta episodi della Bibbia (la sua poesia religiosa è sentimentale ed emotiva), o della mitologia greca. Quando resta nella tradizione - per quel che riguarda la forma - questa è più spesso aderente a quella del Due-Trecento (canzoni e canzonette, frottole, contrasti, strambotti) che a quella dell’Ottocento.

Se si dovesse definire con una sola parola l’originalità di Bertini, si potrebbe dire apertura. La sua poesia infatti non ha niente della chiusura sul locale, ma è aperta a tutti i suggerimenti, sia dal passato che da autori a lui contemporanei, suggerimenti che ‘tradurrà’ in sperimentazioni. Scorrendo i vari componimenti ci si accorge che ciò che è pensato come racconto è in genere in versi endecasillabici (benché non manchino i settenari, gli ottonari), e la rima a fine verso è ricorrente.In altri testi la rima non appare (ed è in genere quando il verso termina con una sdrucciola), e la metrica non obbedisce più alle stesse regole.

Ma Bertini crea una nuova forma chiusa; in Campagnola, per esempio (19 strofe di quattro versi ciascuna), il numero di accenti ritmici - diverso dall’uno all’altro - si ripete dalla prima strofe all’ultima con regolarità estrema. È una personale interpretazione di metrica barbara, come si può osservare da queste tre strofe (prima, seconda e ultima):

Tànto che mi me piàze quando l’èrba l’è tènara
in pasàndo l’aprìl, a fàr le schirivòltole
sul prà de drio la càza, ciopetàndo
al par de un àzeno.

E fàrme su le bràghe fin de so’ra le pùpole
cavarme tzo’ descàltzo e via, col còr in grìngola
longo el rivàl balantzàndo del fòso
bratzar i àlbari. [...]

Amo’r, amor, butèle! Quando l’èrba l’è tènara,
in pasàndo l’aprìl, o come sgrànda l’ànima
ris-ciàr la scapriòla col moro’zo
e andar in glòria.

(Mi piace tanto quando l’erba è tenera/ nel passar dell’april, fare le capriole/sul prato dietro casa, scalciando/ come un asino.//E tirarmi su i calzoni fin sopra i polpacci/ buttare via le scarpe e andare, col cuore in allegria/ bilanciandomi lungo il bordo del fosso/ abbracciare gli alberi.// Amor amor, ragazze! Quando l’erba è tenera,/ col passar dell’april, o come allarga l’anima/ rischiar l’incontro con l’innamorato/ e andare in gloria.)

Alcune righe a parte devono essere dedicate a Giacomo Noventa che - benché abbia pubblicato le sue poesie soltanto nel 1956 - le aveva in realtà pensate (dette, declamate) già parecchi anni prima.

Giacomo Ca’ Zorzi, aristocratico veneziano, assunse il nome di Noventa quando pubblicò su Solaria un saggio su Heine. Uomo ricco di cultura e di interessi, ricorse - in poesia - a una sua lingua, quasi a testimoniare la propria totale indipendenza nei confronti della lirica a lui contemporanea. In fondo la poesia di Noventa - i motivi ispiratori, lo stile, la lingua - riflette il suo rifiuto di una società in cui valori come onore, amicizia, lealtà, non erano secondo lui più sentiti. Poiché c’era stato un tempo in cui essi l’avevano informata, Noventa scelse di parlarne nella lingua di quel tempo, lingua in cui si poteva ancora attuare quella sintesi tra ‘aristocratico’ e ‘popolare’ - da lui perseguita - e non più possibile in italiano, la lingua della cultura letteraria del suo tempo.

Scelta del dialetto, dunque, come veicolo della polemica contro lo sviluppo del pensiero post-ottocentesco, oltre che come ritorno alle origini, e come sentita maggiore adesione della poesia all’oralità. L’operazione di Noventa è colta e raffinata; in antitesi ai poeti coevi egli si rifà ad autori classici, al filone principale della poesia sette-ottocentesca, da Goethe a Heine, ottenendo il risultato di utilizzare il dialetto in senso completamente antivernacolare.

4.

IN QUALE DIREZIONE SI EVOLVE LA POESIA?

Ai poeti in dialetto della prima metà del Novecento in genere viene imputato, soprattutto, di rifarsi al Pascoli (ma al Pascoli ‘facile’, quello della metrica tradizionale, del naturalismo tinto di affettività). Eppure, se si guarda ai poeti in lingua che hanno pubblicato nello stesso periodo, si osserva che anch’essi - nella quasi totalità - vi sono collegati (per consonanza o per opposizione), così come a D’Annunzio, a Carducci. Ci sembra abbastanza naturale che il poeta appartenente a un’epoca venga in contatto, tenga conto, dei poeti che lo hanno immediatamente preceduto. Ciò che fa di un poeta un ‘grande’ è la capacità di non limitarsi a un rifacimento pedissequo, ma di fare, del suo lavoro, il punto di partenza di una elaborazione personale. Per quel che riguarda la poesia in lingua regionale, poi, è importante sottolineare che essa - pur non rompendo mai del tutto con il passato - presenta forme di innovazione e di apertura a modelli stranieri che non si ritrovano neppure nella poesia anticipatrice in lingua nazionale.

Contini, nella recensione citata, affermava che i poeti precedenti Pasolini risentivano di un ‘ritardo’. Noi ci si vorrebbe basare su un concetto diverso. Pensiamo che per i poeti che hanno scritto in lingua veneta nella prima metà del Novecento si debba tener conto - da una parte - dell’esistenza di caratteristiche e costanti che resteranno valide almeno fino agli anni Sessanta (il mezzo tono, la ricerca di equilibrio fra tradizione e innovazione, l’immedesimarsi quasi con il paesaggio, il temperamento elegiaco), e - dall’altra - del passaggio dall’aderenza completa ai valori della piccola patria (fatto che continuerà nella poesia popolare) a temi che si orientano verso il metaregionalismo, fenomeno che diverrà una delle caratteristiche della poesia in dialetto dagli anni Sessanta in poi.

Quanto agli autori da noi citati, sembra di poter riconoscere in Berto Barbarani, in Domenico Varagnolo, in Gino Piva (già in misura minore), poeti appartenenti alla tradizione ottocentesca, mentre gli altri si aprono - chi più chi meno - a innovazioni, a sperimentazioni stilistiche, creando una poesia che è possibile leggere anche a un secondo livello, in cui la descrizione realistica di un fatto, di un paesaggio, diventa spesso il mezzo per dire ‘altro’.

Gino Piva, per esempio, manifesta un interesse filologico nei confronti del linguaggio (benché in senso inverso a quanto faranno quasi tutti i poeti dagli anni Sessanta in poi), e scrive uscendo dai limiti dei poeti vernacoli del suo tempo. E. F. Palmieri innova particolarmente nella forma (sarà da decidere, a un certo punto, per il riconoscimento come novecentesca di una poesia, se lasciarsi guidare dalla metrica, dalla lingua, o dal contenuto), ma anche nel contenuto si discosta dai cantori della piccola patria perché ciò che canta è essenzialmente una condizione umana. Dante Bertini per primo usa un dialetto e non la koiné, e si contraddistingue per l’apertura a tutti gli stimoli, alle sperimentazioni.

Poeti come questi, che si discostano dalla tradizione ottocentesca, che permettono di prevedere in quale direzione si evolverà la poesia in dialetto, sono presenti in varie regioni italiane.

In Sicilia Ignazio Buttitta anticipa, e influenzerà, la ricerca di quei poeti di altre regioni detti « populisti », dal primo Baldassarri, e Giacomini, a Pedretti, a Zanier. Oscillanti tra la tradizione municipale e una ispirazione di tipo diverso sono l’abruzzese Vittorio Clemente e il piemontese Pinin Pacòt (Giuseppe Pacotto); il dialetto di quest’ultimo presenta una componente idiomatica minima (lo stesso risultato perseguito da Piva), concludendo per sempre - in Piemonte - un certo modo popolareggiante di fare poesia.

A Milano Delio Tessa utilizza i materiali della convenzione vernacolare, ma per portarli alla dissoluzione. La sua poesia riflette i temi trattati dai futuristi, da Palazzeschi, testimoniando una ispirazione contemporenea a quella nella lingua nazionale. Giotti e Marini offrono l’esempio di una poesia che si è sviluppata completamente al di fuori della tradizione vernacolare. Il triestino Virgilio Giotti si esprime in un dialetto di tono intellettualistico, al quale applica una sintassi particolare. La sua poesia è caratterizzata così da una accentuata letterarietà, che contrasta con il sapore popolare, quotidiano, dei suoi temi.

Biagio Marin ha utilizzato, sin dall’inizio, il gravesano ( la lingua dell’isola di Grado ), un dialetto veneto rimasto arretrato nel suo sviluppo. In quella lingua immemoriale, tagliata fuori da tutto ciò che cambia nel mondo (non viene naturale un accostamento, per questo aspetto, al primo Tonino Guerra?), durante una lunghissima stagione poetica, Marin ha espresso – attraverso il microcosmo di Grado e restando sempre fedele a se stesso - gli interrogativi profondi, i sentimenti, le riflessioni, che fanno di ogni uomo un essere umano.

Al di fuori della convenzione vernacolare è anche l’opera del triestino Carolus Luigi Cergoly; di lui colpisce - al di là delle influenze di Saba e di Giotti, in un crepuscolarismo di fondo - la fascinazione per la sonorità delle parole. (L’attenzione ai valori fonici, come si vedrà, segnerà più di un poeta in dialetto dei periodi successivi).

Tra il primo e il secondo Novecento c’è un intervallo di circa vent’anni. Dagli anni Quaranta ai Sessanta si va elaborando qualcosa di nuovo; in questo periodo emergono Pier Paolo Pasolini e Tonino Guerra. Nel Veneto, in diversi autori ci sono i sintomi di un rinnovamento della forma, del contenuto (benché non sia possibile indicare un nome che faccia da chiaro discrimine).

In tutte le regioni, utilizzare il dialetto non avrà più come risultato l’andare verso il paese, la provincia (come si era verificato tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento), ma piuttosto un uscire dal tempo. Di conseguenza, anche la lingua di espressione cambierà; diventerà a volte incomprensibile (o difficilmente comprensibile) anche ai dialettofoni della stessa zona cui appartengono i poeti. Sarà spesso il dialetto recuperato dall’infanzia, a volte sarà ricostruito attraverso la ricerca di arcaismi. Si farà sempre più chiaro che il pubblico cui il poeta si rivolge è, in genere, soltanto quello dei lettori di poesia.

Dagli anni Sessanta alla fine degli Ottanta praticamente ogni regione vedrà uno o più autori scrivere in una delle proprie varietà locali, su temi diversi, che possono però essere ricondotti (e ci rifacciamo a una suddivisione ormai considerata classica) - grosso modo - a due filoni: quello più legato alla terra, di tipo espressionistico, e quello che sfuma nella metafora, nel surreale, nell’onirico, in cui il dialetto è sentito come lingua ‘preziosa’. Nell’un caso e nell’altro, però, i poeti esprimono se stessi, parlano in prima persona.

Coloro che si sono fatti conoscere più di recente sono chiamati neodialettali; nel loro lavoro, con Achille Serrao (nell’antologia Via Terra di cui è curatore) si può riconoscere, insieme al definitivo allontanamento dai temi classici del mondo popolare, la costante testimonianza della disgregazione dell’io, e - soprattutto - un ricorso al dialetto che non è diverso da quello a uno dei moltissimi codici che contraddistinguono il mondo contemporaneo.

L’adozione del dialetto in poesia da parte di poeti colti diventa uno dei fenomeni salienti a partire grosso modo dagli anni Sessanta, come si è accennato. Le linee di tendenza, nei poeti che scrivono in dialetto veneto, non sono diverse da quelle che contraddistinguono gli autori di altre regioni italiane. In tutte, la produzione in dialetto si dirada tra gli anni Quaranta e Sessanta.

Sembra fare eccezione soltanto il napoletano, che continua a essere usato in teatro, nelle canzoni, in poesia, oscillando tra una linea lirico-sentimentale (che fa capo a Di Giacomo) e una di ispirazione verista (che si rifà a Russo, a Viviani). La produzione è aderente alla tradizione vernacolare, che però da sempre era stata arricchita da motivi che l’avevano in certa misura distaccata dall’agiografia della piccola patria, presente invece nelle altre regioni. (Si veda, del resto, a conferma di una peculiarità, come manchino completamente in quella zona autori nel periodo di transizione, di sperimentazione. Bisognerà aspettare i neodialettali, a partire dagli anni Ottanta).

Due sono le regioni a presentarsi per prime alla ribalta nel periodo intermedio: il Friuli e l’Emilia-Romagna. Non c’è antologia o studio critico che non attribuisca alla raccolta del 1942 di Pasolini la funzione di ideale anello di congiunzione tra la prima e la seconda fase della poesia in dialetto. Nella sua prima prova Pasolini utilizza una lingua artificiale, che non corrisponde a quella parlata; è codice personale; egli le si avvicina con intento sperimentale.

Tonino Guerra, la cui prima raccolta appare nel 1946, viene indicato come il secondo poeta - in ordine di tempo - a scegliere il dialetto per motivi diversi da quelli primo-novecenteschi. Il poeta romagnolo scriveva nel dialetto di Santarcangelo, sentendolo come lingua-rifugio, lingua di una realtà ben definita che gli permetteva di esprimersi in prima persona.

Nelle raccolte che si sono andate susseguendo nel corso degli anni, Guerra è passato da un realismo minore a una dimensione magica e irrazionale (la stessa via che percorrerà il veneto Sandro Zanotto). La componente autobiografica all’inizio era sottolineata anche dal ricorso a un dialetto periferico; a mano a mano che il poeta registrerà la fine del mondo che lo aveva ispirato, anche il suo dialetto muterà, accostandosi progressivamente all’italiano, rinunciando ai tratti più idiomatici. In Tonino Guerra, come in molti altri poeti che lo seguiranno nel tempo, la realtà non voleva essere vista in funzione naturalistica, ma come metafora, come mezzo attraverso cui il mondo va interpretato.

Con la ripresa della produzione in dialetto si sono moltiplicati, negli anni, i saggi critici, le antologie. Molti poeti devono la loro notorietà proprio ad alcuni critici e antologizzatori, il che sottolinea il carattere elitario di questa poesia, e smentisce il mito della maggiore espressività e della più larga comunicazione permessa dal dialetto.

Ci si può domandare quanto peso abbiano avuto questi critici, a volte prestigiosi, attraverso le segnalazioni (o le mancate segnalazioni) nella diffusione della conoscenza di molti autori da parte del pubblico, nonché nella discussione sui motivi per i quali il dialetto veniva scelto come lingua di espressione in poesia. Era invalsa la pratica di intervistare, su questo argomento, gli stessi poeti, e più di un critico sembrava essersi sentito in dovere di dare la propria spiegazione. Tra le motivazioni più ripetute c’era, per esempio, il superamento dell’alienazione della società contemporanea attraverso l’uso di una lingua che alienata non era, reimmettendo in circolo ciò che era ancora vivo delle culture in via di estinzione; oppure il mito della freschezza e della verginità del dialetto, tanto più adatto a diventare lingua della poesia quanto più lontano dalla lingua nazionale e privo di tradizione letteraria; o ancora il rifiuto di un mondo di cui il poeta vedeva soltanto gli aspetti negativi, cosa che portava a elaborare un linguaggio comprensibile soltanto a pochi ‘addetti ai lavori’.

5.

DIALETTO : LINGUA DELLA REALTÀ, LINGUA DELLA POESIA

Si diceva della produzione di poesia in dialetto, a partire dagli anni Sessanta. Nel Veneto, tra i primi a ricominciare sono Dino Coltro, Sandro Zanotto ed Ernesto Calzavara (i due ultimi, amici di vecchia data). Anche Albino Pierro ha esordito, in dialetto, nel 1960, ritornando alla parlata materna riscoperta nella maturità, mentre viveva lontano da Tursi. Essa ha permesso a Pierro di esprimere, attraverso strutture arcaiche di un mondo lontano nel tempo e nello spazio, divenute simboli, una propria psicologia disgregata. I grandi temi della sua poesia sono il paese, l’amore, la morte, trattati facendo particolare attenzione alla dimensione fonica delle parole.

Sia Coltro che Zanotto esordiscono in dialetto riproponendo il mondo della civiltà contadina, quasi a fissare qualcosa che si percepisce diverrà presto solo una memoria, affidata appunto a chi ha saputo registrarla. Coltro resterà fedele alla matericità, mentre Zanotto - in una lingua divenuta personale, preziosa, darà in seguito ai suoi testi una dimensione onirica, surreale. Ambedue, pur utilizzando dialetti veneti, all’inizio non sono particolarmente scrupolosi né nella trascrizione dei suoni né nella scelta dei lemmi. Nelle raccolte successive, però, lo diverranno; è questa una condizione estensibile ad altri poeti.

Come fa rilevare il Chiesa in un saggio4 , ritoccano la grafia, per esempio, Pierro, Raffaele Baldini, e il siciliano Giuseppe Battaglia, mentre altri pongono un’attenzione particolare nell’adottare, di un dialetto, i termini che più lo caratterizzano.

Diversa l’esperienza di Calzavara; è egli stesso a spiegare le proprie motivazioni, e a indicare perché si sia mosso nella direzione dello « sperimentalismo »5 . Nato e cresciuto nel dialetto, a poco a poco esso è divenuto parte della sua natura, della sua stessa struttura mentale, quasi filtro per concepire il mondo. Lo richiamava all’infanzia (la propria e quella del genere umano), l’età in cui prevale l’istinto sulla ragione, l’inconscio sul conscio, la parola « primordiale » su quella letteraria. Nel dialetto trovava meglio le tracce di una cultura arcaica, prelogica e prescientifica, che lo portava più facilmente all’asintatticità, all’alogicità, all’isolamento dei verbi, delle preposizioni, degli avverbi, in quello « sperimentalismo » da lui sentito come adeguamento spontaneo alle necessità espressive determinate dai nuovi parametri del mondo moderno.

Diverso anche il tipo di dialetto; Calzavara non temeva di desacralizzarlo esponendolo all’influenza di altri linguaggi, non andava alla ricerca di termini desueti. Come più tardi Ruffato, quando - all’interno di una copiosa produzione in italiano, per alcuni anni si esprimerà in dialetto - egli lo considerava « cosa viva che può e deve continuamente rinnovarsi ».

Le linee di tendenza che - comuni a tutte le regioni italiane - si sono delineate a cominciare dagli anni Sessanta, indicano il ricorso al dialetto come risultato di una serie di motivazioni (che non raramente si intersecano nell’opera di uno stesso poeta). Si è già accennato al desiderio di registrare lingua e tradizioni che andavano scomparendo, come pure quello di lasciarsi andare a esplorazioni di un mondo situato in una dimensione diversa. Vi si aggiunga il proposito di dare voce a chi sembrava non averne, di trascrivere - nei termini che si sentivano più efficaci - un discorso interiore, di provarsi in personali ricerche fono simboliche. E poi il filone del metalinguaggio: parlare del dialetto, in dialetto.

I critici avevano parlato di lingua della realtà e di lingua della poesia come risultato di una duplice motivazione; da un certo punto in avanti, però, questi termini non possono essere mantenuti se non dopo una redifinizione. Dopo Pasolini è venuto Zanzotto, con la sottolineatura forte di una discesa, attraverso la lingua, « dentro l’aldilà degli avi » (per usare una espressione di Luciano Caniato), nel dominio, quindi, della lingua della realtà (se non si vuole limitare questo filone al mero mimetismo nella parlata e nel contenuto).

Diremo lingua della realtà, dunque, quella utilizzata per rendere i valori e le tradizioni della società di cui era l’espressione, e lingua della poesia quella « squisita » (nel senso che il poeta si eleva a una sfera tutta sua in cui la comprensione dei lessemi e dei sentimenti non è più essenziale), che permette di fare poesia sperimentale, carica di tensioni innovative. Appartenenti a quest’ultimo filone riconosceremo gli autori che si servono del dialetto come farebbero di una lingua straniera, utilizzandolo come un fattore di stile, mentre coloro che, attraverso il dialetto (che pure potrà rappresentare anche un elemento di stile), vogliono evocare, riproporre il passato, saranno visti come facenti parte dell’altra categoria.

Nei capitoli precedenti si è parlato separatamente di prosa, di teatro, di poesia. Al momento di occuparci della produzione letteraria in lingua veneta dagli anni Sessanta a oggi, ci si è resi conto che gli autori che si intendevano citare hanno dimostrato, spesso, di trovarsi a proprio agio tanto nel genere lirico che in quello non lirico, scrivendo in veneto ma anche in italiano.

È sembrato dunque inopportuno settorializzare opere che vanno invece considerate nel loro insieme, perché l’analisi dell’interdipendenza tra generi, tra linguaggi, può contribuire a mettere in luce aspetti diversi della personalità degli autori.

Si è già nominato Coltro, e ora a lui si ritorna. Dino Coltro - il cui lavoro di ricerca e di documentazione antropologica ne ha fatto un ben conosciuto saggista - in poesia si è espresso nel dialetto della bassa veronese (ma aveva iniziato con l’italiano, allora ritenuto mezzo necessario per inserirsi nella letteratura ‘riconosciuta’). Graduale è stato il passaggio dalla lingua nazionale - a un certo punto sentita insufficiente per esprimere ciò che voleva dire - al dialetto, che colmava il bisogno di ancorare la propria poesia a parole che avevano l’eco di un mondo che stava scomparendo.

Dopo due raccolte in italiano che rivelano un temperamento poetico, sensibile alla natura, nonché l’influenza di letture fatte, Sloti de tera (Zolle..., prima edizione nel 1960) raccoglie trentacinque componimenti in versi liberi, non rimati. Nella grande maggioranza si tratta di quadretti, descrizioni della natura, di situazioni, di personaggi; sono per lo più ricordi d’infanzia, ma non mancano alcuni testi di ispirazione sociale. Nel 1969 Coltro torna all’italiano, con La lucerna del filò, che mostra - al di là della lingua utilizzata - la scelta, l’intenzione dell’autore. Infatti, salvo alcune poesie d’amore, tutte rievocano, con l’infanzia, il passato. Non si tratta però di componimenti convenzionalmente nostalgici; accorati, sì, ma lucidi: lucida è la consapevolezza che quanto viene ricordato non esiste più, che non si può tornare indietro, ma che purtanto è di quel passato che il poeta si sente costituito. Egli sa che - specialmente perché ha fatto una scelta di vita diversa, perché ha studiato - è tagliato fuori dal mondo della sua infanzia, ma sa anche che là sono le sue radici. (Una consapevolezza del genere ha tormentato, come si vedrà, anche Flaminio De Poli, e Luciano Cecchinel).

Nella prima metà degli anni Sessanta Coltro si è trovato a scrivere utilizzando contemporaneamente i due codici. Leggendo le poesie di quegli anni si può osservare il procedere - lento ma continuo - compiuto dal poeta nel senso dell’impegno sociale, attraverso la rievocazione della propria infanzia di figlio di braccianti, e quindi del mondo contadino di un passato ancora prossimo. Le poesie in dialetto raccolte in Zerumi de fenile (Cascami di fieno, 1967) rappresentano la seconda parte di una ideale « Saga del bracciante » iniziata con Sloti de tera. La presa di coscienza che esporre le proprie radici fosse determinante per la propria storia, ha portato Coltro - da questo punto in avanti - a esprimersi, in poesia, soltanto in dialetto.

Si può osservare che mentre i versi in italiano rieccheggiano - nello stile - la poesia loro contemporanea (e specialmente Ungaretti), quelli in dialetto sono colati nello stampo dell’oralità. Come nella precedente raccolta in dialetto, in Zerume si trovano quadretti che riportano l’infanzia, e testi di ispirazione sociale, ma per la prima volta compaiono delle riflessioni - quasi un sostare del poeta davanti all’argomento scelto per trarne valori universali. Il titolo della raccolta è tratto da un verso che descrive i braccianti, contadini dal futuro perennemente incerto, lasciato al volere dei « paro’ni »:

[...] sémo tzerùme de fenìle
che se pèrde ne la po’lvare
drio i muri de i pòrteghi
de i nostri paro’ni.

(siamo cascami di fieno/ che si perdono nella polvere/ vicino al muro dei portici/ dei nostri padroni)

Essa si apre con il proposito di ascoltare la « voze » che viene « da ‘l còre de la tèra » (dal cuore della terra), e si conclude con il racconto di un sogno: il nonno, il passato. E con il desiderio - che si sa vano - di potervi ritornare; vano perché il nonno non c’è più, perché « da tèmpo te gh’a la boca/ sarà da la tèra » (da tanto hai la bocca/ riempita di terra).

La terza parte della « Saga del bracciante » apparirà con il titolo Le zurle (I maggiolini). Le due sezioni in cui è divisa parlano del disagio dei braccianti oggi inurbati (‘ncò, oggi), e dell’abbandono delle cose materiali, resti del passato (jeri).Il bracciante inurbato si trova in situazioni che lo sconcertano, lo destabilizzano. Da questi componimenti sono spariti i quadretti; si tratta sempre di riflessioni, a livello esistenziale.

È finita la vita comunitaria (« ’ncò/ se vive da noàntri soli »; oggi/ si vive da soli); non più lavoro nei campi, ma nelle officine, dove « Drènto/ se vede fila de machine/ no se pol parlarghe insieme/ come fazéa me nòno/ co le cavàle » (Dentro/ si vedono file di macchine/ non ci si può parlare insieme/ come faceva mio nonno/ con le cavalle); non più le voci della natura ma il rumore assordante degli opifici (« de tuto ‘l ciàso de ‘l lavoro/ ne resta drènto ‘n stordimento/ paura/ de èsare difarenti »; di tutto il frastuono del lavoro/ ci resta dentro stordimento/ paura/ di essere diversi). Non più gli orizzonti ampi della campagna:

La paga l’è tre òlte la polénta
e la legna del vècio contrato salariale,
ma no ne basta par comprarse
na féta de luna che ne impìna
l’anima ne le nòte de la cità.

(la paga vale tre volte la polenta/ e la legna del vecchio contratto salariale/ ma non basta per comprarci/ uno spicchio di luna che ci colmi/ l’anima nelle notti in città).

Nei componimenti della seconda sezione ritornano i quadretti per parlare del mondo di ieri: gli usi, le tradizioni, le superstizioni, le esperienze vissute. Il testo conclusivo è immagine del frantumarsi delle illusioni, e ripete in altro modo quanto detto nell’ultimo componimento della raccolta precedente: indietro non si può tornare.

L’ultima fatica in poesia di Dino Coltro uscirà - dopo un lungo periodo dedicato prevalentemente al suo lavoro di antropologo e di etnologo - soltanto nel 1989. Ciò che colpisce - subito - dei testi di questa raccolta, è il linguaggio, molto più ‘rustico’ di quello delle precedenti. Un linguaggio arcaico, sentito quasi come sacro, « Me parlare pitòco/ che sempre in boca me gusto/ te sì l’ultimo sao’re de na òlta/ che ancora me resta » (Mio parlare contadino/ che sempre in bocca risento/ sei l’ultimo sapore di una volta/ che ancora mi resta). È proprio attraverso il linguaggio che rivive il ricordo, « spincristo ficà in ogni pensiero », non attraverso un raccontare ma attraverso ciò che ne è ancora intessuto: filastrocche, giaculatorie, il ricordo dei « vèci nati ne la tèra », del padre (« Come ié no’ve le to parole bupà/ adeso che no te ghe si pì »; Come sono nuove le tue parole papà/ adesso che non ci sei più). L’immagine del padre si presenta attraverso le parole, rendendo efficacissima l’identificazione tra dialetto e radici.

Nel 1973 Coltro aveva pubblicato anche un’importante opera di narrativa, in un italiano miscidato di dialetto: I lèori del socialismo. Protagonista del libro è il nonno dell’autore, e la sua storia è quella di tanti, quella di una « Italia dimenticata », come scrive lo stesso Coltro nella presentazione.

Come risulta evidente dalla breve analisi delle raccolte in dialetto, Dino Coltro appartiene al filone della riappropriazione del passato attraverso l’uso della lingua in cui si esprimeva quella civiltà; forte è anche però l’intento sia di dar voce a chi non l’aveva, sia di sottolineare i valori positivi (e in fondo universali) di quel mondo.

6.

NARRATIVA, MA NON ROMANZO POPOLARE

De Poli sembra condividere le motivazioni di fondo di Dino Coltro. Il suo dialetto è quello parlato - più di mezzo secolo fa - a Carceri, una frazione di Este, in provincia di Padova. Questo autore è arrivato a utilizzarlo dopo che per quasi vent’anni aveva scritto esclusivamente in italiano; lo ha fatto a seguito di un periodo di riflessione sulle differenze (di mentalità, di costumi, di tradizioni) che esistono tra genti cresciute in regioni diverse, giungendo a una riscoperta della sua terra d’origine.

A una prima osservazione sembra di poter dire che poco leghi, o avvicini, le scritture in dialetto a quelle in italiano, al di là del fatto di comprendere - ambedue - prosa e poesia. In queste si trovano romanzi (alcuni più o meno autobiografici, altri in cui - a volte nei modi del grottesco - l’autore esprime il suo giudizio sul mondo), saggi, libelli politici, e poesie improntate alla riflessione su se stessi, sulla vita. In quelle, nel linguaggio dei contadini, è il loro mondo che emerge; il lettore ne vede i colori vivaci, ne sente gli odori forti. Ma una lettura più attenta mette in luce negli scritti in dialetto - sia nelle poesie che in alcuni lavori in prosa - lo stesso tipo di riflessione riscontrato nelle poesie in italiano.

Quando si è fatto conoscere come poeta in dialetto, nel 1970, De Poli aveva dunque già pubblicato cinque raccolte di poesia in italiano, a cominciare dagli anni Cinquanta. Legato ancora a forme e contenuti che risentivano delle letture fatte, nelle prime, presto De Poli ha acquistato una propria voce, improntata a un ritmo sicuro, caratterizzata dalla brevità dei componimenti, dalla presenza del verso libero, da rime occasionali (spesso interne). Le opere integralmente in dialetto - quelle che rappresentano anche le cose migliori di Flaminio De Poli - sono dei primi anni Settanta.

Il poemetto El toro è un esempio perfetto di armonia; scritto in endecasillabi, con l’andamento del poema epico, descrive la furia di questo animale che semina terrore sull’aia di una casa colonica, finché l’intervento di un vecchio contadino che si prende cura delle bestie non risolve la situazione. Diviso in dodici parti (di cui le più lunghe hanno ulteriori divisioni), intervallato da versi più brevi (in genere gli interventi in prima persona), il racconto si snoda in vari movimenti, come una sinfonia.

Chi racconta è un bambino, e alla descrizione della furia del toro si accompagnano ricordi, riflessioni. All’inizio vi è l’aia bruciata dal sole; si sente un rumore, e il grido della madre (« Scàpa!/ présto!/ e cùri via!/ »; Scappa!/ presto!/ e corri via!). Da tre giorni nella fattoria c’era un’aria strana, si avvertiva quasi una presenza magica, che ai contadini « la ghe sponciàva el fianco » (gli pungeva il fianco). Il toro è come l’incarnazione di una « gran paura/ ch’i se portava so’rda in te la testa/ oramai da tanti ani » (una grande paura/ che si portavano come un dolore sordo nella testa/ ormai da tanti anni).

Il primo verso del movimento seguente è un colpo di piatti (« Sacraménto!/ el toro a l’inprùvizo el pio’nba in co’rte/... » Sacramento!/ il toro all’improvviso piomba nell’aia). Una cagnetta e il suo piccolo abbaiano tra le zampe del toro che incorna il cucciolo, lanciandolo a infilzarsi sui denti di un rastrello. La luce del sole è sempre accecante; benché sia estate, le gocce di sangue che cadono dal corpicino del cucciolo fanno venire in mente al bambino « i gozhòti/ de i inverni frédi/ che casca da i cupi inpirolà de jazho » (i goccioloni/ degli inverni freddi/ che cadono dai tetti inghirlandati di ghiaccio). Nel poemetto continuano ad alternarsi i momenti in cui è descritta la furia distruttrice del toro, e quelli di intervallo nell’azione. In questi, l’animale è ancora al centro del quadro, rabbioso; i contadini se ne stanno nascosti, le donne occhieggiano dalle persiane socchiuse. Poi il toro ricomincia a correre, a distruggere.

Infine, tornata la calma, dopo che il toro - ammansito - è stato di nuovo legato, al bambino vengono in mente immagini di pace, di quiete, di serenità, con le quali si conclude il poemetto:

[...] Naséa la luna so la stala,
da destànte
sprénde le stéle in fo’ndo al po’zho
e pì distànte
ormai da on’ora
i salta i pisi par amore
fuòra de l’aqua su da la Degòra.
Se sénte a péna i grigj in ti i spagnàri
e pì distànte
i ozèj ch’i spèta el sole in ti i so gnari.

(Nasceva la luna sulla stalla/ da lontano/ splendono le stelle in fondo al pozzo/ e più lontano/ ormai da un’ora/ i pesci in amore saltano/ fuori dall’acqua della Degora./ Si sentono appena i grilli nei campi di erba spagna/ e più lontano/ gli uccelli che aspettano il sole nei loro nidi.)

Nello stesso anno esce anche La Degòra, racconto in forma poetica (si potrebbe dire una serie di poemi in prosa, se non fosse per la presentazione grafica). L’autore in diverse occasioni parla in prima persona; racconta della propria infanzia in campagna, di usi e tradizioni di quel periodo. Un paio di volte fa il paragone con la vita attuale nelle campagne, dove la natura ha subito il degrado.

A lettura conclusa rimane l’impressione che per De Poli il passato non sia da rimpiangere perché allora tutto era bello, tutto aveva valore (come sembra dire Coltro), ma piuttosto perché - di quel tempo - sembra essersi perduta la dimensione umana, la capacità di vivere in armonia con il proprio destino sulla terra, consci che vi è qualcosa al di là degli accadimenti materiali.

L’ultimo ricordo evocato, che conclude il ‘racconto’, è quello della morte della nonna. Era inverno, pioveva, il biroccio si era impantanato e non era stato possibile andare a chiamare il prete. La vecchia donna è assistita dal marito che le sta accanto con tenerezza, che la conforta:

[...] Sta ténta, Gèja,
no te gh’è da ver paura
se trata de on momento;
mi a so qua [...]
Sta calma, dormi,
sco’lta el vénto che ne indormetza
fèrmate qi
te ghe laorà:
te ghe laorà!
basta cusì.
Fuòra ghe ze chiéte [...]
va co le àneme benedéte
do’ ca tra puòco vegnarò anca mi [...]

(Ascolta, Teresina,/ non devi avere paura/ si tratta di un momento/ io sono qui/ Sta calma, dormi,/ ascolta il vento che ci fa addormentare/ fermati qui/ hai lavorato:/ hai lavorato!/ adesso basta./ Fuori c’è quiete/ va con le anime benedette/ dove tra poco verrò anch’io…)

Gli ultimi versi sono un inno alla sapienza contadina (« Quiji che naséa in te le brècane i murìa cusì;/ de la vita e de la muòrte i savéa tuto/ parché i vedéa le bèstie i àlbari e l’erba/ fare istéso... »; Quelli che nascevano in posti dimenticati da tutti morivano così/ della vita e della morte sapevano tutto/ perché vedevano gli animali gli alberi e l’erba/ fare lo stesso).

Da la Tore a le Valtele è la prima (e unica) raccolta di poesie in dialetto di Flaminio De Poli. In essa non viene soltanto fatto rivivere un passato contadino; vi si trovano anche riflessioni sulla vita, quelle che rendono una voce poetica universale, al di là della lingua che la esprime, perché inerenti la condizione umana.

Dal punto di vista dello stile, come da quello dell’argomento, i testi si differenziano uno dall’altro. Sembra di notare, però, un elemento unificatore (almeno per molti di essi): una metrica basata sull’alternarsi di sillabe atone e toniche, in cui l’accento ritmico non coincide con quello tonico. (Si è notata questa tendenza a basarsi sul criterio dei piedi metrici piuttosto che su quello sillabico la prima volta in Sandro Zanotto, e lo si ritroverà in diversi altri poeti che si sono fatti conoscere negli anni successivi).

La poesia conclusiva della raccolta è una « fòla », il dialogo tra S. Pietro e Dio, dove il « boàro » viene a rappresentare tutti gli sfruttati dal Potere:

[...] san Piéro el ghe domanda al so Signore
« dho ghe metémo i òci al me boàro? »
« De so’ra del naso ma so’to la fronte » [...]
« Lo’ra el vàrda davànti
cofà tuti quanti! [...]
« piantà su i dhenòci »
« Ma le stùpie lo òrba
co ‘l para el varsùro » [...]
« Lo’ra ze mèjo de so’to a i calcàgni,
che ‘l vàrda par tèra,
ghe pénsa le zgiàvare
a farlo nar drito,
no co’gna che ‘l véda pulìto ».

(san Pietro domanda al suo Signore/ dove mettiamo gli occhi al bovaro?/ Sopra il naso ma sotto la fronte/ Allora guarda in avanti/ come fanno tutti!/ piantati sulle ginocchia/ Ma le stoppie lo acciecano/ quando spinge l’aratro/ Allora è meglio sotto i calcagni/ che guardi per terra/ ci pensano gli zoccoli/ a farlo andare diritto/ non c’è bisogno che ci veda bene)

Questi primi anni Settanta sono intensissimi di lavoro in dialetto, per De Poli, e rappresentano anche - in assoluto - il punto più alto raggiunto dalla sua produzione, sia in poesia che in prosa. Per questa, in particolare, De Poli sembra vivere un periodo di grazia; mai più in seguito i suoi scritti saranno così necessari, così essenziali.

Nanin de la Degora è un romanzo diviso in dodici capitoli, di cui ciascuno è un racconto completo e indipendente. (Si avrà conferma in seguito che è proprio il racconto a essere la misura perfetta di questo autore). Protagonista di tutti i racconti è Nanìn, che soltanto nell’ultimo viene esplicitamente identificato: un giovane contadino che aveva l’abitudine, la sera, di sedersi sulla soglia di casa e di rimanere là a pensare, a riflettere. Più che altri personaggi è presente un coro: gli altri componenti della famiglia, i vicini, il prete; qualche volta l’uno o l’altro parla in prima persona, più spesso entrano nella storia attraverso il pensiero, il ricordo del protagonista.

L’atmosfera di pensosa pacata riflessione creata nel primo racconto rimane immutata in tutti gli altri, nei quali il protagonista - partendo sempre da un accadimento concreto - si lascia andare a riflettere sul significato della vita.

Nel lavoro seguente, Prediche de Santo e altra jente, si trovano otto « prediche » alternate a otto racconti che le precedono e che - nella maggior parte dei casi - ne sono l’occasione. Le prediche sono tenute, la sera in chiesa dopo il lavoro, da Santo, un contadino che i suoi compaesani hanno incaricato di sostituire il prete (rifiutato perché parla italiano, e perché gli si devono pagare le decime). Ancora una volta, in un linguaggio semplice e concreto, muovendosi all’interno delle conoscenze e dei valori della civiltà contadina del passato, De Poli riesce a fare di essa metafora, lasciando al lettore l’impressione che egli senta, forte, la fondamentale uguaglianza degli esseri umani (uguali nei sentimenti, nelle emozioni; si ritroverà questo aspetto nel veneziano Attilio Carminati).

Dopo Psalmi (1972), poesie in italiano, De Poli ritorna al dialetto con Le sandane (I vimini): dodici racconti in cui si alternano prosa e ‘poesia’ (messa tra virgolette perché si tratta di versi che ripetono la cadenza dell’oralità, in cui la rima a fine verso è spesso presente). Nel racconto conclusivo l’autore spiega il perché della raccolta e dei lavori precedenti in veneto, « Co sto libro finìse la storia de la Degòra ». Le località che hanno visto De Poli bambino non esistono più; i punti di riferimento hanno cambiato destinazione (« La to’re langobàrda la ze deventà on monumento nazhionale »); le costruzioni sono in rovina e abbandonate. Si conclude anche la storia di chi ha vissuto in quei luoghi, gente che - forse perché legata strettamente, condizionata, dai ritmi della semina e del raccolto, dall’alternarsi delle stagioni - sembra aver posseduto una saggezza che aiutava a vivere. La religione, pur così mescolata a superstizioni, riti magici, credenze, era tuttavia fortemente radicata nell’esperienza personale, e da essa indissolubile.

Da questo punto in avanti la parabola artistica di Flaminio De Poli diventa discendente, e per diversi motivi. Intanto l’autore non scrive più niente di originale: sia in dialetto che in italiano in genere riprende fatti, personaggi, di lavori precedenti. Per quel che riguarda il dialetto, si nota trascuratezza (e incoerenza) nella trascrizione, e insistenza su particolari che sembrano affossare il mondo contadino nel fango e nel letame (cosa che De Poli aveva, in passato, rimproverato ad altri). Inoltre, la parte programmatica (politica) diventa predominante, rendendo ininteressante la lettura. Detto questo, è altrettanto doveroso aggiungere che la produzione successiva di De Poli è tutt’altro che senza valore; dispiace che il tipo di lavoro che si sta compiendo non permetta di attardarsi, fornendo esempi che meglio figurerebbero in un saggio monografico.

Ci si può domandare quale sia la reale portata dei lavori in dialetto di Flaminio De Poli. La prima osservazione riguarda la lingua, che limita la diffusione di opere in cui una riflessione profonda sulla vita viene presentata in forma semplice, essenziale, vicina all’esperienza quotidiana. Sembra di poter dire, però, che è proprio la lingua ad accrescerne il valore, facendone documento scritto di una parlata che era stata sino ad allora soltanto orale, testimonianza di un mondo che, col cadere in disuso di attrezzi, mestieri, tradizioni, sarebbe scomparso dalla memoria collettiva.

7.

LA POESIA DEL SECONDO NOVECENTO :

AUTORI NOTI E MENO NOTI

Si accennava al convincimento profondo di Carminati che gli uomini siano fondamentalmente uguali. Stimoli a fare poesia sono stati per lui il senso religioso, l’amore per gli altri e la conseguente sofferenza per la difficile comunicazione nella società odierna, il desiderio di impegno sociale; tutto ciò potrebbe riassumersi nel dire che in questo autore - passato da una poesia in versi liberi di tono lirico, ricca di immagini e di potere evocativo, a una in cui ha predominato la narrazione - c’è sempre la tendenza a vedere l’uomo (l’umanità, spesso una dolente umanità) inserito nella storia, in rapporto con la storia.

Non stupisce quindi di trovare - nella sua produzione – testi ispirati ai graffiti di Capodiponte, in Valcamonica; riduzioni di episodi del Vangelo e della Bibbia; dolenti riflessioni sull’incomunicabilità nel mondo di oggi; scene della Venezia del Settecento; la traduzione del lavoro di FranVois Villon, di brani di Tristan Corbière, della Chanson de Roland; e quel Robert FranVois Damiens che gli è stato ispirato dalla vicenda (tortura, processo e condanna a morte, nel 1757) dell’attentatore alla vita di Luigi XV.

A questo uomo che è denominatore comune, appartiene anche una molteplicità di stati d’animo; prevalgono quelli improntati a gravità, ma non mancano la tenerezza, la serenità, e poi l’ironia caustica, il duro sarcasmo. A volte è l’autore in prima persona a parlare, a volte è un personaggio, ma a essere espressi sono i sentimenti di una comune umanità. In un dialetto veneziano in cui non mancano gli arcaismi (di cui va alla ricerca in Calmo, in Caravia, quando nella lingua di oggi trova soltanto il veneto italianizzato), Carminati è giunto, con la sua più recente pubblicazione (El putelo e ‘l fiume), a riproporre sia i temi di fondo, sia la poetica, sia le misure metriche della sua lunga carriera (la prima raccolta è del 1973).

Accanto a un tono narrativo, ritmato dall’endecasillabo, che ha caratterizzato molte opere, si ritrova il verso libero; accanto al monologo, all’allocuzione, la pensosa riflessione. Come esempio della coesistenza, nell’animo di Carminati (e di ciascun essere umano), delle tendenze contrapposte ad abbandonarsi fiduciosamente al ritmo della vita o, invece, a resistervi, nel convincimento di saper meglio scegliere tempi e modi, si leggano (nell’ultima pubblicazione) El mar gò in mi e Mar grando. Da una parte la consapevolezza di essere giunti alla parte finale della propria vita, ricchi di esperienza, ma non per questo liberi da rimpianti e timori (« El mar gò in mi co tuti i so mistèri/ e mi, paro’n del mar, son drìo negàrme »; Il mare ho in me con tutti i suoi misteri/ e io, padron del mar, mi sto annegando ); dall’altra l’accettazione dell’ordine naturale delle cose:

El tempo ‘vanti a mi devénta un mar
che poso navegàr come che vògio [...]
[...] Tra un fià, quel mar grando
se farà liso e de strasiànte calma [...]
Pòrtime via, ti selestiàl mar grando [...]

(Il tempo davanti a me diventa mare/ che posso navigare come voglio/ Tra un po’, quel grande mare/ si farà liscio e di straziante calma/ Portami via, tu celestial mar grande)

L’attenzione che Carminati ha sempre dedicato alla scelta dei lessemi (ricorrendo, come si è detto, a frequenti arcaismi, sia a livello morfologico che - soprattutto - lessicale), nonché ai problemi della trascrizione, uno dei maggiori per chi scelga una lingua priva o quasi di normalizzazione accettata, permette di dire che, per lui, il dialetto è lingua preziosa, lingua della poesia.

A Venezia la poesia di autori che scrivono contemporaneamente in italiano e in dialetto sembra testimoniare della presenza - in loro - di una operazione culturale più costruita. È il caso di Luciano Menetto, che ha piegato al dialetto un certo ermetismo (Luzi, Sinisgalli), usando accortamente della materia fonica, giocando sul non-senso (preceduto in questo soltanto da alcune cose di Noventa). O di Carlo Della Corte, la cui fama è assicurata dai romanzi; di Mario Ancona, di Paolo Balboni, di Eugenio Tomiolo.

Si differenzia invece Mario Stefani, che ha scritto in italiano la maggior parte della sua opera; degli ultimi anni Sessanta sono le due uniche raccolte in dialetto, scritte in un veneziano contemporaneo, trascritte ‘alla buona’, senza alcuna ricerca di tipo linguistico. A petto dei testi in italiano (sia precedenti che seguenti), tutti molto intensi, quelli in veneziano sono leggeri leggeri, come le increspature che sulla laguna fa una brezza: è come se la dolcezza del linguaggio avesse influito anche sul contenuto.

Un altro autore - ben conosciuto a livello nazionale e internazionale - che ha scritto poesia quasi esclusivamente in italiano, è Andrea Zanzotto. Il suo atteggiamento nei confronti del dialetto è in certa misura contraddittorio: nato e cresciuto in esso, e utilizzandolo ancora come lingua di comunicazione, Zanzotto si è trovato - negli anni della formazione - quasi a rimuoverlo, preferendogli la lingua. In essa scrive i componimenti (1938-1972) che saranno raccolti in Poesie, dove sovrabbonda il linguaggio aulico, dove abbastanza presto appaiono le assonanze, le rime interne, l’anafora.

All’epoca di Ecloghe, il ricorso a varie forme retoriche diventa altrettanto importante del contenuto, che comincia a incentrarsi su linguaggio e su io. In La Beltà si intensificano le figure retoriche, è un incalzare, un rincorrersi di suoni, quasi un’ubriacatura. Il linguaggio aulico è sparito; ci sono ancora singole parole auliche, ma non captano più l’attenzione. L’impressione è di una diga che sia crollata, di un’acqua che irrompa impetuosa, della traduzione immediata - senza controllo - di pensieri che si affastellano, si accavallano, premono: la lingua fatica a star loro dietro, inciampa, ripete, confonde. Ma il significato si comunica - chiarissimo.

Quel dialetto sentito « come veniente di là dove non è scrittura », come Zanzotto stesso osserva nella NOTA al Filò, proprio in questo testo viene per la prima volta messo per iscritto:

me son ris-cià, picolà in fo’ra,
fin a cavàr su da chissà onde
fin a sforzhàrme co ‘sta sécia sbusàda
co ‘sto tamìzo de maja ‘ramài masa larga
a cavàr su ‘l parlar vècio

(mi sono arrischiato, sporto in avanti/ fino a tirar su da chissà dove/ fino a sforzarmi con questo secchio forato/ con questo setaccio a maglie troppo larghe/ a tirar su la lingua dei vecchi)

La lingua che « aveva garantito per secoli un sentimento di coesione e di durata » sembra quasi imporsi, sorgendo dall’inconscio, « nell’attimo in cui la stessa fonte dell’oralità è minacciata, ed ogni inconscio, ogni matrità rischiano di essere cancellati ». Si impone in poesia, benché il poeta sappia che

la poesia no l’è in gnesùna lengua
in gnesùn lo’go - fursi -
la è ‘l pien e ‘l vo’do de la testa-tèra
che tas, o zhigna e uzma un pas pi in là
de quel che mai se podaràe dirse, far nostro [...]
Ma ti, vècio parlar, rezisti.

(la poesia non è in alcuna lingua/ in nessun luogo –forse-/ è il pieno e il vuoto della testa-terra/ che tace, o ammicca e annusa un passo più in là/ di ciò che mai si potrebbe dire, far nostro/ Ma tu, lingua dei vecchi, resisti)

Il « vècio parlar » si ripropone in Idioma, nella parte centrale di questo libro, per il resto in italiano. In esso Zanzotto parla di una gente in cui ci si riconosce, del bisogno di capire, della consapevolezza che ciascuno ha di essere.

Osservando in quali componimenti il poeta si esprime in dialetto, ci si rende conto che si tratta sempre del passato, più o meno remoto. Si comincia dalla breve descrizione di « Maria Carpèla » (la donna che andava a cucire nelle case), e si prosegue con sei brevi ritratti di persone conosciute da Zanzotto bambino. C’è poi il componimento per gli 80 anni di Montale, che « tanti ani fa me ‘véa segnà ‘na strada », uno in ricordo di Pasolini (di cui dice « ma pur ghe n’era’n fil che ‘l ne tegnéa:/ de quel che val se ‘véa l’istesa idea »), uno che rievoca il funerale di Toti Del Monte, un altro in morte di C. Chaplin.

Vi si trova il testo che figura in appendice a Il bosco del Montello (« oda rusticale » di Nicolò Zotti); in NOTA il poeta dice « Se ne parla nel libro Galateo in Bosco a cui questo componimento è un addio ». E infine Mistieròi, in cui sono presentati « tuti lo’ri, nòne, del vostro tènp », coloro che esercitavano mestieri che non hanno più ragione di esistere: il trasportatore di tronchi, il carraio, i pastori, il maniscalco, l’ombrellaio, il calderaio, l’arrotino, l’impagliatore di sedie, le filatrici, le lavandaie.

In un discorso di fondo centrato su linguaggio, identità, impossibile corrispondenza tra linguaggio e dato esterno, viene a inserirsi, ancora in modo contraddittorio, il dialetto. Contraddittorio perché, mentre il poeta sembra da una parte suggerire che sia possibile recuperare un senso all’esistenza ponendosi nei confronti del mondo in un rapporto madre/figlio (rapporto nel quale non sono necessarie troppe parole, può bastare il « petèl »), contemporaneamente nega la possibilità di crearlo, utilizzando il dialetto soltanto per parlare del passato, di qualcosa che non esiste più (come si è visto dagli esempi citati).

Nel 1996 - a dieci anni dal suo ultimo libro di poesia - è uscito Meteo, che raccoglie testi scritti in anni diversi. Nel frattempo Zanzotto aveva pubblicato poesia (anche se quasi clandestinamente) su riviste diverse. In questo libro figura anche il dialetto, in un testo che descrive un personaggio (la Tarèsa, quasi una reincarnazione di Nino), in una cantilena (Marotèi), in un titolo (Morèr Sachèr). L’autore stesso qualifica Meteo descrivendolo come uno « specimen di lavori in corso »; non una raccolta conchiusa, dunque, ma piuttosto una serie di « incerti frammenti ». Si ha l’impressione che la natura che vi appare non voglia essere letta in modo naturalistico; le grandinate e le tempeste del bollettino metereologico sembrano essere, ancora una volta, lettura del mondo contemporaneo.

Dei poeti colti che si sono fatti conoscere dagli anni Sessanta a oggi pochi hanno scritto soltanto in dialetto. La maggior parte lo ha fatto - più o meno contemporaneamente - nei due codici; altri, dopo un lungo periodo in cui la loro poesia si era espressa soltanto in italiano, sono passati al dialetto, e alla lingua non sono più tornati. In altri ancora - come Stefani, Zanzotto (i due ultimi citati) - il dialetto rappresenta il modo di espressione cui il poeta fa ricorso occasionalmente, in una produzione che è in effetti in italiano.

La stessa cosa può dirsi del padovano Cesare Ruffato: la sua espressione poetica in dialetto è relativamente recente, mentre le sue prime raccolte in italiano risalgono agli anni Sessanta. Ruffato ha sempre lavorato essenzialmente sulla lingua, miscidando linguaggi diversi (compreso quello scientifico), creando neologismi, manipolando la sintassi e la grammatica. Il suo sperimentalismo sembra basato sul concetto che il suono (e soltanto il suono) debba governare l’accostamento delle parole; lui stesso lo dichiara in Parola bambola (1983), « i suoni solo modo di riferirsi »; « nelle metamorfosi sonore impossibile sbagliarsi ».

Passando al dialetto, Ruffato non si è allontanato da quelle costanti che - per più di trent’anni - avevano caratterizzato la sua espressione poetica; il dialetto sembra essere ritenuto, essenzialmente, come il linguaggio che, in un momento particolare della sua esperienza, meglio si prestava a tradurre il sentire. Dopo alcuni testi (in seguito ripresi e rielaborati) apparsi come « Minusgrafia dialettale » in Padova diletta, dal 1990 al recente Etica declive (1996) il dialetto diviene la sua lingua di espressione in poesia.

8.

POESIA SPERIMENTALE O « ESPERIENZIALE »?

La lacerazione prodotta da un dramma familiare sembra essere stata, per Ruffato, quello ‘stacco’ necessario alla scelta di una lingua connotata diversamente dall’italiano sino ad allora utilizzato (anche Calzavara dirà « tutta la poesia ha bisogno di un detonatore esterno »).

Lo sperimentalismo di questo poeta suggerisce l’ipotesi che esso sia - possa essere - uno schermo, un meccanismo di difesa. Se così, esso rifletterebbe, nelle raccolte in dialetto, la presenza contemporanea della necessità assoluta di iniziare l’elaborazione di un lutto e un altrettanto forte bisogno di non scoprirsi. In Parola pìrola (1990), dunque, quanto si sente provenire da un magma incandescente di sofferenza è filtrato attraverso lucidità mentale e cultura, fino a diventare - come un paesaggio dopo una gelata - magicamente bello, prezioso, delicato, ma inerte. La raccolta sembra l’espressione disperata della consapevolezza non soltanto di una comunicazione malata - fatto che riguarda tutti - ma anche di una personale difficoltà (impossibilità?) a comunicare. In uno degli ultimi testi Ruffato riporta, nelle parole originali, la favola tramandata da Baldassarre Castiglione nel secondo libro del Cortegiano, quella in cui un fuoco acceso in mezzo a un fiume gelato fa sciogliere - e rende udibili - le parole che gruppi di mercanti si scambiano dalle rive opposte. Ci si può domandare se, inconsciamente, riportando l’immagine del fiume gelato, Ruffato non abbia ammesso l’esistenza di qualcosa che gelava le proprie parole, che impediva la propria comunicazione.

Diaboleria, pubblicato nel 1993 ma scritto subito dopo Parola pìrola, rappresenta un punto di sospensione nel discorso che Ruffato andava facendo, e di una nuova riflessione sugli strumenti utilizzati. È come se il ricorso al dialetto nella prima raccolta fosse stato istintivo, e in seguito il poeta avesse avvertito il bisogno di chiarire (soprattutto a se stesso) le proprie motivazioni. Il primo testo della raccolta (El dialeto) illustra bene questa riflessione. Per Cesare Ruffato il dialetto è « tesoro del Graal », atto a evitare « sofizmi filologici [...] che t’ingiàsa » (sofismi filologici/ che ti gelano). È « machineta da fòto infrarosi [...] ecolingua grembo o marsupio ». Permette di risalire alla propria infanzia, alle « prime parole parentali », ma non è più il dialetto dell’infanzia:

Nel sesto decenio
el me ze spanìo da vèro sincèro
zmisià coi libri de le docénse [...]
coi spazmi del precordio [...]
el me liga al concreto [...]

(Nel sesto decennio/ mi è sbocciato dalla parte vera e sincera/ mescolato ai libri delle docenze/ agli spasmi del precordio/ mi lega al concreto)

Negli altri componimenti della raccolta Ruffato sembra mettere alla prova e il dialetto e se stesso, affrontando tematiche esistenziali contemporanee, lasciandosi andare a una ricerca del nuovo, dell’inedito, a volte così insistita da far pensare a un certo esibizionismo. Al termine della lettura rimane la sensazione di un lavoro tormentato, forse non ritenuto definitivo, all’insieme del quale sembra possano riferirsi i versi conclusivi di El dialèto, « Me zmisio inretoricà,/ sensa idee ciàre e co pasiénsa/ vorìa riscrivere tuto » (Mi mescolo retoricizzato/ senza idee chiare e con pazienza/ vorrei riscrivere tutto).

Fin dalla dedica (a Francesca), El sabo (Il sabato, 1991) attesta di essere parte dell’elaborazione del lutto. Sabo sta per ‘ricordo’, ‘memorie’, perché è di sabato che la figlia è morta. I componimenti propongono ricordi della propria infanzia, ricordi del passato prossimo; e poi il presente: il ricordo amaro e bruciante della perdita di lei, uno sguardo distaccato e insieme desolato sulla propria vita. In essi è possibile trovare versi rivelatori, di confessione, non mascherati dalla letterarietà:

El sabo oramài remoto lunario [...]
la neve dei balòchi se sfanta
prima de rivàre o la resta dove
prima la se desfàva [...] ;
Le péne [...]
Tante morti [...]
che no co’pa de co’lpo ;
Adèso ciàmo el sabo [...]
spugna che me suga e porta
de scondo’n la so voze scampà [...] .

(Il sabato ormai remoto calendario/ la neve dei balocchi sparisce/ prima di arrivare o resta dove/ prima si scioglieva; Le pene/ Tante morti/ che non uccidono di botto; Adesso chiamo il sabato/ spugna che mi asciuga e porta/ di nascosto la sua voce fuggita)

Nella raccolta successiva, I bocéte (I bambini, 1992), Ruffato ripropone Francesca bambina, ricordi della propria infanzia, e i bambini in genere, quasi in un’ansia protettiva di paternità nei confronti dell’infanzia del mondo. Essa può essere vista, all’interno dell’opera del poeta, come hapax, dal momento che contiene - contemporaneamente - atonalità e cantabilità (dovuta questa alla presenza, oltre che di rime, allitterazioni, consonanze e assonanze, anche di diminutivi, di vezzeggiativi). Il lettore si trova a volte di fronte a versi che possono essere interpretati come la constatazione - penosa - dei limiti della parola. Si veda, per esempio, « la me mizera parlata/ che no ghe riva a spalancarse » (la mia misera parlata/ che non riesce a spalancarsi), oppure « go fruà el calendario, robe robe/ sempre robe miele fiele/ de le varie lingue, tentà enigmi [...]/ zbaco interdéto a starte drìo » (Ho consumato il calendario, cose cose/ sempre cose miele fiele/ delle varie lingue, ho tentato enigmi/ mi affanno interdetto a rincorrerti), e anche « Me sento balìn metaforico/ che spèta la bòta di parole/ strambe da machinare nel servèlo » (Mi sento pallino metaforico/ che attende la stoccata di parole/ strane da macchinare nel cervello).

Rileggendo una dopo l’altra le tre raccolte in dialetto (con l’intermezzo di Diaboleria), terminata l’ultima si ha l’impressione che il tempo abbia compiuto il suo lavoro, che il lutto sia stato elaborato, che il dolore abbia superato la fase di ripiegamento su se stesso per divenire elemento arricchente che rende possibile un nuovo inizio.

Con Etica declive, come si è detto, Ruffato è tornato all’italiano. Il lettore attento di questo poeta non può non notare che si tratta di una ripresa - se pure con variazioni - di brani che appartengono a Prima durante dopo; nel riavvicinamento, volontario, dei momenti (episodi, circostanze) che hanno segnato il periodo di gestazione del libro edito nel 1989, non si può non leggere quasi il resoconto della sua genesi. Il libro non presenta la iperletterarietà che in altre opere dello stesso autore può tenere a distanza, ma piuttosto un equilibrio perfetto tra la preziosità dello stile tipica di Cesare Ruffato e un caldo contenuto di umanità.

La critica ha sinora incentrato l’attenzione sui dati tecnico-formali della poesia di Ruffato (poeta che preferisce il termine esperienziale a sperimentale), ma ci sembra che un approccio che permetta una rilettura e una riflessione d’insieme non potrebbe che arricchire l’analisi della sua opera.

Se a Padova si sostituisce Treviso, ciò che si è detto del dialetto di Ruffato può essere ripetuto per quello di Ernesto Calzavara. Altri dati avvicinano i due poeti: ambedue lo sentono come lingua viva, soggetta a evoluzione, che accetta neologismi, miscidanze; per ambedue (come del resto per Zanzotto, tutti nati nel dialetto) il riassumerlo in poesia diventa esperienza forte, significativa.

A differenza di Ruffato, la cui prima raccolta in dialetto è del 1990, Calzavara comincia trent’anni prima. Poesie dialettali, pubblicato nel 1960, raccoglie componimenti scritti dal 1946. Contiene bozzetti, ritratti, descrizioni, accostamenti tra il poeta e vari animali, tra stati d’animo e la natura. Vi si trova una bellissima immagine (« Su la travèrsa nera de la note, salta/ le rane »; Sulla veste nera della notte, saltano/ le rane, L’istà), e un anticipo dei temi che si ripeteranno costanti negli anni: il pessimismo, la ricerca di identità, la problematicità del vivere:

No mòre mai
sto far e po’ desfàr e far de no’vo,
sto rumegàr nel granèr de la mente [...]
(La note de San Martìn)

[...] i me pensièri
ovi sentza rosa né bianco, vo’di. (La galìna)

(Non muore mai/ questo farsi e disfarsi e rifarsi/ questo ruminare nel granaio della mente; i miei pensieri/ uova senza tuorli né albume, vuoti)

Di esse lo stesso Calzavara scriverà, « A un certo punto della mia vita di poeta la poesia dialettale che avevo cominciato a scrivere non mi è più bastata ». Si interessò allora di felibrismo, di poesia moderna italiana e straniera (« francese e russa, inglese e americana »), ponendosi il problema di come introdurre le tecniche di avanguardia, le strutture formali di questa poesia in quella in dialetto.

La seconda raccolta (e, Parole mate, parole pòvare) uscita nel 1966, comincia a riflettere questa problematica (« E mi sèrco mi vago no so par dove/ par che razo’n no vedo no so/ [...]/ no morìme in man/ restè restè parole »; E io cerco io vado non so dove/ per che ragione non vedo non so/ non moritemi in mano/ restate restate parole). Anche in essa si trovano bozzetti, descrizioni, ma - a differenza delle poesie della raccolta precedente - queste hanno spesso, come conclusione, riflessioni (sempre amare, pessimistiche) sulla vita, sulla natura umana. Molto presenti gli animali, nei quali Calzavara dice di riconoscere la « congiunzione » tra il mondo degli umani e quello vegetale/minerale.

Come se uscirà nel 1974; il tono generale è diverso da quello della raccolta che la precede: qui è più leggero, è ironico, sorridente. A quelli in dialetto sono inframmezzati alcuni componimenti in italiano; molti esprimono l’atteggiamento negativo del poeta nei confronti della società moderna e dei suoi mali, alcuni parlano del dialetto (come farà non solo Zanzotto, in seguito). In Calzavara è forte la convinzione che il vero sapere sia quello degli analfabeti ,di coloro cioè che posseggono una cultura soltanto orale - e gli analfabeti parlano il dialetto. La letteratura « La ze tuta roba/ solo de quei che sa far segni/ [...]/ e i altri e le bestie no sa ». Eppure non saranno questi i segni che resteranno, ma I segni de Milio:

El mànego de la vanga
incurvà de quel tanto
dal to sfortzo
la lama del cortèlo consumàda
de più in quel sèrto punto
el to martèl batùo par tanti ani
solo da ‘na parte (e a drita l’incavo de to nòno) [...]

(Il manico della vanga/ incurvato di quel tanto/ dal tuo sforzo/ la lama del coltello consumata/ di più in quel certo punto/ il tuo martello battuto per tanti anni/ solo da una parte (e a destra l’incavo di tuo nonno)

In questa raccolta ci sono anche alcuni ‘divertimenti’, briose occasioni per accostare, ripetere suoni. È un aspetto che si ritroverà in Analfabeto (1979), in cui predomina una ispirazione di tipo religioso, o comunque misterico, mentre il poeta parla spesso dell’uomo delle origini, e dell’uomo di oggi. Si fa presente il tema della vita e della morte, e quello della necessità di un ritorno alla cultura orale (« fo’ra no ghe ze gnénte »; fuori non c’è niente); « Devènta tèra àlbaro pièra/ parla coe parole sue/ impara » (Diventa terra albero pietra/ parla con le loro parole/ impara, Bùtate drènto).

Le ave parole (Le api...,1948) contiene testi in cui sono presenti - a volte nello stesso - italiano e dialetto, francese, latino (macaronico e scolastico). L’impressione generale è che si tratti di una esercitazione di stile (di stili) più che il risultato dell’ispirazione. Il modo di guardare alla vita non è cambiato; la lingua di una cultura analfabeta è usata in un senso che nega completamente la tradizione vernacolare. L’immagine del genere umano che Calzavara trasmette è quella di « crani/ spolpài/ da le formìghe feroci dei pensièri » (crani/ spolpati/ dalle formiche feroci dei pensieri, Fintzio’n).

In Poesie nuove (1987) si trovano quelle scritte nell’intervallo di tempo che separa questa raccolta dalla precedente. Quasi tutte le poesie sono in dialetto; sguardo all’indietro, traducono lo stato d’animo di chi - arrivato avanti nella vita - sente l’avvicinarsi della morte. Si veda, per esempio, Andémo:

Ormai co ‘a stagion sémo avanti
e za su a spiagia l’autuno
rancùra le cape morte.
Masa oro par aria
masa ro’so de sera.
Supiarà venti grizi sul sabio’n.
El mar maro’n se sentirà più vècio.
Le àleghe sarà ‘na scufia de morte
sora i cavéi deventài bianchi
dee onde.
E l’àlbaro perdarà la voze dee foie.
Restar col vento?
Primavera spèta istà
istà spèta autuno, autuno inverno
Ma inverno no spèta gnénte e nesùn.
Andémo.

(Ormai con la stagione siamo avanti/ e già sulla spiaggia l’autunno/ raccoglie conchiglie vuote./ Troppo oro nell’aria/ troppo rosso di sera./ Soffieranno venti grigi sulla sabbia./ Il mare scurito si sentirà più vecchio./ Le alghe saranno cappucci di morte/ sui capelli diventati bianchi/ delle onde./ E l’albero perderà la voce delle foglie./ Restar col vento?/ La primavera aspetta l’estate/ l’estate l’autunno, l’autunno l’inverno./ Ma l’inverno non aspetta niente e nessuno./ Andiamo)

È del 1996 Rio terrà dei pensieri (Rivo interrato...). Il titolo riprende il nome di una calle veneziana; Calzavara lo definisce il suo « come si fa » perché - oltre ad alcune poesie e aforismi - contiene la sua poetica, ciò che nel tempo ha detto sul suo fare poesia, sul suo scrivere in dialetto. Un elemento che ritorna in diversi brani è l’effetto di « detonatore esterno » che ha avuto il dato biografico di essere nato nella campagna trevigiana, appena fuori di città; di avervi trascorso lunghi periodi, di aver seguito le attività rurali, « osservando la vita degli uomini, degli animali e delle piante ».

Considerando il dialetto « cosa viva che può e deve continuamente rinnovarsi », il poeta è arrivato - da una parte - a qualificare di poesia « ricercata » (o, al massimo, poesia « di ricerca ») quella dei poeti che utilizzano « vocaboli da tempo scomparsi, magari preziosi e bellissimi, ma che non si pronunciano in nessun luogo », e - dall’altra - a coniare la definizione di « post-dialetto » per quello che si parla nella civiltà industriale, succeduta a quella contadina. Attento ai cambiamenti storici e sociali, il poeta - scriva egli in dialetto o in lingua - ha un solo pericolo da evitare, dice Calzavara: « quello di trasgredire la legge superiore della necessità artistica ».

9.

L’ACCENTO RITMICO CREA UN’INEDITA « FORMA CHIUSA »

Nel 1960, insieme alle pubblicazioni di Ernesto Calzavara, di Dino Coltro, appare anche la prima in dialetto di Sandro Zanotto, La fiora del vin. Egli si era fatto conoscere l’anno precedente con una raccolta di poesie in italiano che - pur con i limiti di un’opera prima - manifestava già quelle che sarebbero diventate le caratteristiche del poeta: un solido senso del ritmo, in un andamento di recitativo.

Lungo tutto l’arco della sua vita, Zanotto - saggista, romanziere, critico d’arte, oltre che poeta - ha alternato, in poesia, italiano e dialetto; ha ripreso il veneto come Mistral a suo tempo aveva ripreso il provenzale (benché questi lo avesse fatto nel tentativo - in parte riuscito - di risuscitare la propria lingua come lingua universale), come - per usare una sua espressione - gli umanisti avevano ripreso il latino.

Come scrive Brevini in Le parole perdute, Zanotto è passato - nel tempo - da una poesia di tipo realistico-populista a una che sempre più si è orientata in senso onirico e metafisico. La sua vasta produzione non può essere analizzata se non tenendo conto di ciò che questo autore andava scrivendo anche in italiano, in poesia e in prosa, perché molti sono i richiami, i riferimenti.

Edita a Padova, la prima raccolta è formata da componimenti piuttosto lunghi di cui sono protagonisti contadini, pescatori, mugnai, lavandaie, gente che abita in paese o nelle periferie delle città. L’andamento è discorsivo (non per niente il sottotitolo è Storie venete); alcune storie appartengono alla tradizione pavana per gli espliciti riferimenti al sesso: gioiose, divertenti, esuberanti, con uno sfondo magico che deresponsabilizza.

Anche quando il poeta parla di sé, lo fa spesso utilizzando le parole e i modi di chi vive in campagna, di chi è legato alla terra, vicino alla natura. Il tenerissimo ritratto dell’inizio di vita in comune in « sta cazéta dei spo’zi » (questa casetta degli sposi) concentra l’attenzione sul terrazzino fiorito di gerani; il desiderio di una vita semplice a contatto con le cose essenziali si esprime attraverso quello di « piantare àlbari, àlbari dapartùto »; anche la ricerca del significato ultimo delle cose prende una connotazione di concretezza quando il poeta dice « Co ‘e man o’nte de tèra/ vao ste sere a sercàrlo pai canpi/ Dio che se sco’nde pai fòsi/ e el me ciàma da distante/ coi sighi del vento » (Con le mani sporche di terra/ vado in queste sere a cercarlo/ Dio che si nasconde tra i fossi/ e mi chiama da lontano/ con gli urli del vento). Soltanto in due liriche il poeta si rivela per quello che è, un abitante della città, da cui dubita valga la pena di fuggire, forse intuendo che la felicità consiste nel rimanere « dove ogni lo’go ze un ricordo ».

Le poesie de La fiora del vin sono nate in Zanotto dal desiderio di documentare letterariamente la lingua che - nelle campagne - era ancora parlata da alcuni anziani illetterati (quando non addirittura analfabeti). Quelle di El dì de la conta (1966), invece, da un interesse di tipo antropologico, che si era andato manifestando durante il periodo che l’autore ha documentato in quel diario anarchico scritto nel 66-67, ma pubblicato soltanto più di dieci anni dopo. (Si noterà come, in seguito, la ricerca di tipo antropologico sia divenuta predominante in Dino Coltro, che non scriverà più poesia dalla fine degli anni Ottanta, mentre in Zanotto sarà la poesia a divenire il mezzo favorito di espressione).

Fra le due raccolte citate esistono alcune differenze significative. La seconda ripropone, tra componimenti nuovi (che presentano versi più brevi, riprendendo le pause naturali del discorso) anche alcuni testi - rielaborati - già apparsi nella prima. I cambiamenti apportati riguardano specialmente il ritmo, che nella seconda raccolta è più sostenuto (tanto da farla considerare la prima opera compiuta, in dialetto veneto, di Sandro Zanotto). Una seconda serie di variazioni è dovuta alla ricerca dell’originario vocabolo pavano, scartando quello che apparteneva a un italiano venetizzato. Accostando le due raccolte si osserva, per esempio, che « scaravàzi » (scarafaggi) diventa « s-ciàvi »; « qualcosa » diventa « calcòsa »; « come un muso » diventa « cofà un muso »; « quealtri » diventa « staltri »; « lumiera » diventa « lumèra » (fuoco fatuo). La maggior parte dei cambiamenti è dovuta infine a una diversa trascrizione dei suoni. È noto che in veneto la [l] intervocalica ha suono debole, evanescente, tanto che chi parla dialetto tende a non indicarla, quando scrive. Per il lettore non veneto, però, il sopprimerla può ingenerare confusione; Zanotto nella seconda raccolta l’ha sempre indicata, ripristinandola là dove l’aveva omessa.

Tra le due raccolte in dialetto vi è una continuità di fondo, ma si nota una evoluzione nei contenuti; un po’ alla volta il mondo contadino diventa metafora, e si evidenzia un interesse filologico che va al di là del folclore. Sono, questi, elementi che si ritroveranno in raccolte successive, come anche il tema dell’acqua (anticipato nella seconda raccolta dal testo Aque del me paéze), in un paesaggio di acque e isole che verrà a costituire quasi una costante nel lavoro di Sandro Zanotto.

La successiva raccolta in dialetto sarebbe uscita soltanto nel 1985, ma la storia letteraria di Zanotto non si è interrotta, nell’intervallo. Attento alle avanguardie (delle quali si è molto occupato come critico d’arte), il suo lavoro ha risentito, specialmente nei romanzi, di quel filone fantastico - iniziato a Ferrara nel 1916 come metafisica - che porterà al surrealismo; è così possibile evidenziare un legame che unisce le varie opere di questo autore, al di là del genere e della lingua utilizzata.

A partire dal 1985 - a parte ciò che concerne il suo lavoro di critico d’arte - Zanotto torna esclusivamente alla poesia. Due raccolte usciranno in quello stesso anno, e nel titolo di ambedue è presente l’acqua. Aque perse contiene componimenti che sembrano scritti dal « navigatore solitario » (che del resto si chiama Sandro) del romanzo Delta di Venere. Anche questa prova si inserisce nel discorso iniziato, in poesia, con Il funzionario testimonia, per il contenuto e per lo stile. Continuano i riferimenti dell’autore ad altre proprie opere, nonché le citazioni erudite, che contribuiscono a creare un plurilinguismo che fa della raccolta una operazione colta.

Uno dei motivi di fondo è l’acqua, che scorre anche quando la si crede ferma, che rappresenta il tempo: passato e futuro, ma tutto sempre uguale, come l’acqua è sempre uguale a se stessa. L’acqua, immagine di un’altra realtà, che rende possibile – lontani dalla folla - il colloquio con se stessi, con ciò che « podaràve èsarghe » (potrebbe esserci), come il poeta dice in Drìo i scùri. Altro motivo di fondo è l’inutilità della vita; il navigatore non sa dove va (proprio l’andare per acqua - sempre uguale - dà l’impressione di « mai rivàre »); non c’è niente da dire, e anche se si dicesse qualcosa non si sarebbe compresi. Notevolmente diversa dalle due precedenti in dialetto per la lingua e per il contenuto, questa raccolta ne mantiene però la caratteristica di rendere stati d’animo attraverso esperienze concrete.

Nella raccolta Insoniarse de aque (Sognarsi di...) è ancora una volta possibile trovare trasposizioni di quanto Zanotto aveva scritto nei romanzi, e in altri lavori. L’anno seguente sarebbe uscito Lettere dall’argine sinistro, in italiano, seguito ideale de Il funzionario testimonia; in queste poesie si mescolano realtà e sogno, ricordi e giudizi. Ritornano i richiami intertestuali, soprattutto a quei luoghi che non esistono, che non possono essere esistiti, o che non esistono più.

La lettura di Loghi de l’òmo (1988), in cui il poeta non è più il navigatore solitario, né il funzionario, ma - uscito dal ruolo - un uomo, presenta più di una diversità nei confronti delle raccolte precedenti (sia quelle in dialetto che quelle in italiano). I testi sono più brevi, la sintassi è meno spezzata, sono quasi inesistenti i riferimenti a opere precedenti, mancano le citazioni colte. Il linguaggio è più semplice e naturale, il lessico più ricco.

L’ultima poesia della plaquette può essere utilizzata come chiave di lettura di tutte le altre. Zanotto, conscio del proprio valore, allude con amara ironia al fatto di essere poco conosciuto e apprezzato, e fa una differenza tra « la insoniànda del dì » (i sogni a occhi aperti) che lo caratterizza, e « quéi che se insònia/ solo de nòte » (quelli che sognano/ solo di notte), perché costoro dimenticano quanto hanno sognato appena « fa ciàro ». I suoi sogni da sveglio sono lo’ghi de l’òmo perché riportano alle radici dell’umanità, alla capacità di ricordare; fanno capire l’importanza del ricordo per ricostruire una propria storia personale, una propria identità. Se l’interpretazione è corretta, gli elementi di questa ricostruzione (letti attraverso i sogni della raccolta) sono il rapporto - nei suoi vari aspetti - con la donna; il rapporto con la lingua, i luoghi, le tradizioni (anche religiose) della propria infanzia; e infine il rapporto con se stessi, cioè il prendere coscienza di ciò cui si vuole arrivare, e dei mezzi per arrivarci.

Nel 1991 esce Non è di queste acque, riscrittura in italiano delle prime venti poesie che figurano in Aque perse. Esse sono materiale privilegiato per un confronto con la versione originale. Pur tenendo conto che il lavoro di riscrittura è stato fatto in un tempo e (probabilmente) in uno stato d’animo diverso, non c’è paragone tra la vivacità, il ritmo, la ricchezza di metafore del dialetto e la versione italiana, che molto spesso viene ad assomigliare a una esercitazione intellettuale. Accostando No go visto la sagra a Cavalli e giostre sul Po, per esempio, ci si rende conto che i due testi riflettono culture diverse, e che una è intraducibile nell’altra. Si noti come Salvanèlo (che chiunque conosca il dialetto sa essere un genietto silvestre, e basta dirne il nome per evocarne le caratteristiche, anche di comportamento) diventi « figure/ trasparenti simbologie ».

Tère vere e Spazio reale corrispondono quasi perfettamente, ma c’è una differenza che pare importante:

[...] Solo le strade
che se cono’se [...]
porta a tère vere
co cala el sol slongàndo o’nbre
che inségna el mondo no’vo.

(Solo le strade/ che si conoscono/ portano alle terre vere/ quando cala il sole allungando le ombre/ che indicano il mondo nuovo)

Questi versi vengono riscritti così, « Solo gli spazi/ ben noti/ chiudono il cerchio/ del reale, offrendo rifugio / nelle lunghe ombre del tramonto ». Nell’originale in dialetto il poeta sembra sottolineare che, al tramonto, le ombre « inségna el mondo no’vo ». Si potrebbe pensare (è un particolare che torna spesso nel romanzo Adone, per esempio) a messaggi captati su strade sconosciute. Nella versione italiana, la realtà sembra sentita rassicurante perché ben conosciuta, rifugio e protezione contro le « ombre ».

La riscrittura di Drìo i scuri, che diventa Finestre nella nebbia, fa perdere molto dell’immediatezza e dell’atmosfera magica dell’originale. « Scuri de picolo’n » (imposte di penzoloni), per esempio, diventa « imposte sbarrate », mantenendo il senso dell’abbandono, ma non quello del degrado. L’italiano suona spersonalizzato in diversi testi; la differenza significativa tra Orasio’n pal gatèlo e Preghiera sul Po, per esempio, sembra essere nella conclusione, dove « el ténpo/ ze un s-ciàpo de canèle,/ no finìse mai » (il tempo/ è un ciuffo di canne/ non finisce mai) diventa « l’eternità/ è un ciuffo di canne/ non c’è la fine ». Il tempo che non finisce mai è connotato dall’idea della persona che ne risente, mentre « l’eternità » non ha questa connotazione.

La più recente raccolta in dialetto di Sandro Zanotto, Canton del mondo, è rimasta inedita (salvo alcuni componimenti pubblicati nell’Antologia personale del 1996). La precedente è dadrìo del spècio (1993), dalla quale traspare - come dice Fernando Bandini nella prefazione - « un sentimento desolato e senza speranza, consapevole dell’irrimediabile perdita di quelle cose che attraverso il dialetto vengono nominate ».

Nei trenta componimenti della raccolta si trovano, in prevalenza, sogni e ricordi del passato, oltre a una serie di riflessioni. Già nel secondo testo il poeta si mette alla ricerca delle « tante robe/ che gavévo pèrso pai ani de la me vita » (tante cose/ che avevo perso nel corso degli anni). Una ricerca che procede a fatica, a tentoni, senza sapere bene che cosa si cerchi, come si debba fare per trovarlo (« No so’ bo’n de capire i discorsi/ che i me fa »; non riesco a capire i discorsi/ che mi fanno), procedendo - a volte - nella dimensione dell’assurdo (« i me manda su pàle scaléte/ sénsa scalìni »; mi fanno salire scale/ senza scalini), approdando a rive di non-senso (« le scale mòre in gnénte »; le scale finiscono nel niente). Subentra presto il sentimento dell’inanità di far riemergere il passato, e forse la negatività di farlo, dal momento che questa operazione contrasta con l’attenzione dovuta al presente.

Forse più di altre raccolte di poesia, apparentandosi per l’atmosfera ai due romanzi (specialmente ad Adone), questa trova spiegazione nella ‘naturalezza’ con cui Zanotto sembra essersi riconosciuto nell’avanguardia surrealista; in diversi testi, fatti concreti scivolano nell’assurdo, diventano fantasticherie, simboli. Con gli oggetti che non ci sono più muore irrevocabilmente anche la lingua che li nominava; e il pensiero va alla vita - alla propria e a quella di ogni altro essere umano. In L’istà che pasa, per esempio, il finire dell’estate fa pensare al tempo che rimane da vivere (« Le ore che ne rèsta/ co’re su pai lanpio’ni/ che se inpìsa masa presto »; le ore che ci restano/ si arrampicano sui lampioni/ che si accendono troppo presto).

Si è infine notato in questa raccolta una minore coerenza nella trascrizione dei suoni, e una minore cura nel ricercare gli autentici lemmi del dialetto, a favore di altri - più vicini alla parlata odierna, a volte calchi dell’italiano.

Bandini, nella presentazione di dadrìo del spècio, fa alcune puntuali osservazioni su questa raccolta, e riassume le caratteristiche della poesia in dialetto di Sandro Zanotto; non si può essere d’accordo con lui, però, quando parla di una « rugosa ametricità » dei versi. Una lettura accurata di tutte le raccolte in dialetto permette di dire che (anche se esistono degli scarti, specialmente nei primi lavori) i versi di Zanotto non sono « ametrici »; piuttosto, in questo poeta si osserva la tendenza a sostituire il criterio sillabico con quello dei piedi metrici, con una istintiva coerenza e regolarità che lo porta a creare inedite forme chiuse.

Dopo la prima raccolta, in cui si ha l’impressione che il poeta stia ancora esercitandosi alla ricerca di una sua voce, già nella seconda comincia a individuarsi un tentativo di strutturazione; risulta evidente alla lettura che il ritmo è creato dall’alternarsi di sillabe atone e toniche. Lo stesso vale per Aque perse, in cui l’accento tonico e quello ritmico coincidono. Insoniàrse de aque, uscito nello stesso anno, segna una svolta nei confronti delle raccolte precedenti: il criterio dei piedi metrici, piuttosto che quello sillabico, è ancora seguito, ma accento tonico e ritmico non coincidono più. Oltre a una struttura esterna - creata dalla divisione in strofe di un numero uguale di versi - è possibile dunque riconoscere anche una struttura interna, basata sul ripetersi, regolare, del numero di accenti ritmici per verso.

Non è qui possibile dare che qualche riferimento di massima: Sète to’ze mòrte, per esempio, è composta di sei quartine; gli accenti ritmici della prima (3,2,2,3 per verso) si ripetono in tutte e sei. Insoniàrse de aque, componimento di 52 versi, ha tre accenti ritmici in ciascuno di essi; in I cristiàni, dopo un distico con due accenti ritmici per verso, si nota un’alternanza regolare di versi con due o un solo accento ritmico.

Il verso che si trova più di frequente nelle poesie di questa raccolta è l’endecasillabo anisosillabico. In quelle di Loghi de l’òmo,invece, è l’ottonario anisosillabico; la struttura si basa ancora, però, sul ripetersi regolare di accenti ritmici per verso.

Dal punto di vista della metrica, le poesie di dadrìo del spècio sembrano voler riproporre - a volte mescolati tra loro - tutti gli elementi strutturanti apparsi nelle raccolte precedenti. Si trovano così, per esempio, (ma non in interi componimenti, piuttosto in alcuni versi) una coincidenza tra accento tonico e ritmico; il verso varia dall’endecasillabo all’ottonario (sempre anisosillabici); ci sono componimenti in cui tutti i versi hanno due accenti ritmici, altri nei quali è esclusivo un solo accento ritmico per verso.

Nel complesso, sembra che Sandro Zanotto, pur rimanendo fedele a una voce basata sull’accento ritmico del verso, sia giunto a una grande libertà nei confronti di se stesso, di ‘regole’ da lui stesso instaurate. Nel suo più che ventennale percorso poetico egli ha dimostrato di aver acquisito, quasi subito, e mantenuto, una ferma padronanza del ritmo, che non si interrompe mai; non c’è mai niente che strida, anche quando meno è rispettata la regolarità nell’alternanza degli accenti ritmici. In conclusione, che questo poeta segua il criterio dei piedi metrici (cosa che altri che scrivono poesia in dialetto veneto faranno dopo di lui) sembra ben dimostrabile, tanto da poter dire che esso diventa elemento fondante della sua voce.

10.

SIGNIFICATO E SIGNIFICANTE :

LETTURA IN PARALLELO CON IL MONDO IN CUI VIVIAMO

Come per Zanotto, anche per Luigi Bressan il dialetto è lingua della poesia; il dialetto di Agna, in provincia di Padova, quello ancora parlato dai vecchi. Dialetto lontano nel tempo e anche nello spazio, poiché il poeta vive da anni nel Friuli.

In Luigi Bressan non c’è stato passaggio dall’italiano al dialetto (l’italiano sembra da questo autore riservato alla prosa, come dimostrano alcuni racconti ancora inediti). Leggendo una dopo l’altra le raccolte sinora pubblicate, si ha l’impressione che un modo di scrivere poesia in cui sembrava esserci un rapporto diretto e semplice tra ciò che il poeta voleva dire e come lo esprimeva, abbia gradatamente ceduto il passo a uno scavo interiore in cui l’atmosfera onirica, la sensazione di estraneità, di incertezza, di inconsistenza evocate, nonché il lavoro di disintegrazione (o comunque di manipolazione) della sintassi - oltre a testimoniare l’evoluzione, la maturazione del poeta - portano il lettore a fare il parallelo con il mondo in cui viviamo, con una realtà incomprensibile e inafferrabile, il cui significato sembra a volte poter essere mediato solo dai significanti.

Al di là dei diversi mezzi retorico-stilistici cui Bressan fa ricorso, si coglie una immagine di profondità, di ricerca di leggere in se stessi, di scontro - a volte doloroso - con un mondo verso cui però mai il poeta manifesta un atteggiamento negativo. Nelle diverse raccolte ci sono elementi che ritornano: le rime (specialmente interne), le allitterazioni, le assonanze. Nelle poesie più recenti si nota più insistito il motivo di colore dato dalle dittongazioni, dalle metafonesi - non in senso espressionistico, però, ma piuttosto ‘prezioso’.

Ne El canto del tilio, che raccoglie cinquanta brevi componimenti in versi liberi, l’atmosfera cambia quando il poeta passa dai testi che hanno come tema la campagna a quelli che riflettono stati d’animo: in questi non si riscontra la serenità che improntava i primi. Magari è un verso, una frase; alla luce delle raccolte seguenti sembrano spia del movimento verso l’interno che le caratterizzerà. Per esempio, « tuti sémo forèsti, ‘na ‘òlta o tante » (siamo tutti stranieri, una volta o tante); oppure « La fumàra [...] ghe sémo ficà co’ a testa [...]/ tanti ghe vien da rìdare, dopo se ga paura » (la nebbia/ ci siamo ficcati con la testa/ a tanti viene da ridere, dopo si ha paura); o anche « Spèto che calcosa me cjàpa » (aspetto che qualcosa mi afferri).

La seconda raccolta, El zharvèlo e le mosche (Il cervello...,1990), contiene dodici brevi componimenti che parlano di assenza, di privazione, di lontananza, di morte, su uno sfondo di sogno, di osservazione dall’esterno. Pensieri come « resti » che tentano di costruire qualcosa (« Baso, de là de ‘a strada/ larga fa ‘l mondo/ on pasàjo de ònbre/ on ehi che no risponde »; Quaggiù, oltre la strada/ larga come il mondo/ un passare d’ombre/ un ehi senza risposta); un parlare senza essere uditi, un camminare senza sapere dove andare (« ’ndémo inanzhi discorendo/ co boche de pése,/ ‘ndémo sol no ‘ndare/ di’ pasi persi »; ce ne andiamo discorrendo/ con bocche di pesce/ andiamo sul non andare dei passi perduti).

Nei testi che appaiono per la prima volta in Che fa la vita fadìga (Che come la vita affatica) - altri erano già stati pubblicati su riviste - ha inizio un lavoro di disintegrazione della sintassi. In diversi componimenti ritorna il senso di incertezza, che non diventa però motivo di pavidità: non si sa forse dove andare, ma si rimane ritti (« Noàntri [...]/ s’ ‘edémo [...]/ vardàrse i pasi onco’ra inbriàghi./ Se fermémo scoltàre drénto ‘a testa/ sugàrse anche i pinsièri./ E stémo lì, butìlie vuòde al sole »; Noi/ ci vediamo guardarci i passi ancora ubriachi./ Ci fermiamo ad ascoltare nella testa/ svaporare anche i pensieri./ E stiamo là, bottiglie vuote al sole).

Data (1994) rappresenta il punto di arrivo di quanto è andato maturando, e in più di una direzione. Intanto, i precedenti accenni di lettura in se stesso sono diventati sofferto difficile faticoso scavo interiore; anche le poesie d’amore (quei testi in cui - nelle raccolte precedenti - l’io del poeta si rivolgeva a un tu) parlano di incomunicabilità, o perlomeno di comunicazione difficile. Poi c’è l’immissione del mondo della memoria attraverso il ricorso a quel « serbatoio lessicale primario » rappresentato dalla campagna veneta dell’infanzia del poeta, come rileva Luciana Borsetto nell’introduzione.

Bressan utilizza una lingua in cui si scontrano la mimesi del parlato (con le sue dittongazioni, metafonesi, metatesi della [r], aferesi, ecc.) e una sintassi complessa, carica di letterarietà. L’ulteriore sviluppo di questa poesia è appunto la sperimentazione, che si manifesta anche attraverso quei giochi di suoni (rima interna, paronomasia, assonanze, allitterazioni) cui ricorrono altri poeti in dialetto (e non solo nel Veneto).

Alcuni versi della prima sezione di Data (« ’e me parole / ze ovi scunti infra coà de sasi/ e senpre difarénte cueo che nase »; le mie parole/ sono uova nascoste tra i sassi/ ed è sempre diverso ciò che nasce) possono essere presi come spunto per fornire alcuni esempi - temi e realizzazioni - di ciò che il lettore può trovare in questo libro.

Gli uomini di oggi vanno, senza rendersi conto di andare, senza soffermarsi, ma « Anche no sintìre ze ‘na colpa [...]/ anche no édare che tuto sparìse/ [...] Chi dirà: ghe jèra? » (anche non sentire è una colpa/ anche non vedere che tutto sparisce/ Chi dirà : c’era?). Il poeta, invece, vuole registrare ciò che va scomparendo, compresa la lingua in cui quel mondo si esprimeva. Vuole cercare di fermare un avvenimento nel tempo, registrandolo, ma a volte prevale la sensazione di non sapere a cosa ancorarsi (« Ma tuto ze to’ndo »), o si viene presi dallo scoramento, e allora le immagini - rafforzate da lessemi che indicano privazione, negatività - evocano abbandono e solitudine:

Caza romài de vénto
paéze de caze che no fazha
pi nisùn, strade de’ ‘ndàre
senzha strada [...]

(Casa ormai di vento/ paese di case che non fronteggiano/ più nessuno, strade dall’andare/ senza strada)

La seconda sezione è intitolata Gigi (il nome ‘familiare’ del poeta); nei componimenti che la compongono ritorna spesso il passato, l’infanzia, vissuta forse già con la percezione di essere ‘diverso’. Il libro si conclude con un testo il cui primo verso è segno di ottimismo (« L’òmo restarà su la tèra »); poco più avanti, questo ottimismo si specifica nel senso della poesia:

i ozelìti no puòl morire [...]
le rame se scànbia le fòje
pur che i pinsièri le rancùra [...]

(gli uccellini non possono morire/ i rami si scambiano le foglie/ purché i pensieri le raccolgano)

Nel 1997 Bressan ha composto Voze par S. (Voci per S.), un poemetto di oltre trecento versi lunghi, suddiviso in sezioni. Accadimenti quotidiani - la pioggia e il sereno, i treni e le stazioni, la gente che si incontra - sono vissuti, percepiti, come svolgentisi in un mondo parallelo, quasi al limite della coscienza. Ma sparito è il distacco che aveva segnato opere precedenti: in questo componimento il poeta è completamente presente, dolorosamente presente, mentre riferisce - senza raccontarle - le fasi della malattia e la morte di un amico poeta.

« Ze nuda la pì lo’nga memoria » (È nuda la più lunga memoria). Tutto è filtrato dalla memoria: avvenimenti del passato vengono ad assumere lo stesso rilievo di altri recentissimi, gli uni e gli altri sullo sfondo immemoriale del tempo, in una atmosfera di pacata, trasognata, intensa malinconia (« partùto sta piòva/ che dura ‘a senpre »; dappertutto questa pioggia/ che dura da sempre).

11.

L’INDIVIDUALISMO DEI POETI VENETI

Per la poesia in dialetto, nel Veneto, non si può parlare di scuole; esistono linee di tendenza (che del resto non sono esclusive di questa regione), ed è possibile ricondurre il lavoro di singoli poeti all’una o all’altra, ma non esistono maestri, personalità che abbiano condizionato, determinato, l’espressione di altri. L’unico a fare eccezione (in certa misura, come si vedrà) è Andrea Zanzotto; per i tre poeti di cui si parlerà ora, a lui si deve fare riferimento (anche se per motivi diversi, alcuni dei quali esterni): Villalta ha scritto un saggio sulla trilogia, Cecchinel è della stessa zona, Caniato - essendo stato suo allievo- lo ha sentito come colui che ha risvegliato in lui la vocazione poetica.

È dunque Zanzotto che, con Filò, ha dissolto i dubbi di Luciano Caniato sul futuro del dialetto in poesia. La prima opera di questo autore, E maledetto è il frutto (1980), caratterizzata dalla miscidanza di lingue diverse, è andata costituendosi durante lo studio dei documenti - quasi tutti manoscritti dei secoli dall’XI al XIX - necessari alla stesura della sua tesi di laurea.

Il sottotitolo è Storia poetica del potere; come dice bene F. Bandini nella nota introduttiva, « più che una storia del potere, è una rassegna dei reperti che vi si riferiscono ».

Il contrasto tra il potere e la miseria dei contadini e dei braccianti si manifesta a poco a poco, dopo che si è parlato di storia nel senso proprio del termine. Così, il libro inizia con ciò che avvenne « In principio molto in principio - Allora - », con l’emergenza delle terre dalle acque, con il delinearsi del corso del Po, con i primi insediamenti: gli Etruschi, i Veneti, i Romani. Dal secolo X al XII il governo, su Rovigo e su parte del Polesine, fu dei Vescovi-Conti; poi di Ferrara, con periodi in cui predominarono invece i veronesi, i Carraresi di Padova, i veneziani - sino all’affermarsi definitivo del potere della Serenissima nel 1482. A Venezia sarebbe succeduta la Francia, dalla fine del XVIII agli inizi del XIX secolo, e l’Austria, sino al 1866.

E maledetto è il frutto lascia l’impressione di un quadro cui l’artista abbia lavorato con pennellate successive, che inizialmente possono apparire non facenti parte di un ‘tutto’ predeterminato. Pennellate di colore diverso, di spessore diverso: i vari codici utilizzati, gli sperimentalismi (a livello lessicale, ma soprattutto sintattico), le voci attraverso le quali il poeta si esprime. Pennellate che alla fine compongono però un quadro completo, preciso, pregnante: storia, e storia del rapporto tra dominatori e dominati.

Il primo testo in cui balza in primo piano l’invalicabile distanza che divideva possidenti e popolo è quel Contratto di affittanza, 1723 (tra un convento e una famiglia di contadini), in cui si alternano le voci di un Frate - che si esprime in tardo latino ecclesiastico, sordo a ogni argomento che potrebbe distoglierlo dalla difesa dei diritti del proprio Ordine - e un Villico che, in una lingua ruvida e smozzicata, ripete i motivi della propria miseria, con la disperazione tenace di chi tenta di non farsi ricacciare sotto la testa che aveva sollevata - per respirare - dall’acqua della palude.

Le speranze risvegliate dalla rivoluzione francese saranno presto spente; i padroni di prima, nobili ed ecclesiastici, sono pronti a riprendere il predominio. In seguito, si chiamino Austria o Savoia gli occupanti, è il Potere che continua a prevaricare. Qualcosa è cambiato, però: i figli dei contadini possono andare a scuola (anche se per raggiungerla, nel capoluogo, devono ogni giorno fare parecchi chilometri a piedi); i contadini si uniscono nei primi sindacati, partecipano alle guerre, alla resistenza – prendono coscienza dei propri diritti.

E poi l’alluvione del 1951: questa volta la sferzata viene da una forza della natura (anche se la causa prima è ancora il Potere, l’inefficienza di esso, nel corso dei decenni). Buona parte dei polesani dovrà emigrare, molti in modo definitivo (così dovrà fare Caniato, che aveva allora cinque anni, con la sua famiglia). I due testi conclusivi esprimono un medesimo concetto: rifiuto di una modernità che non è liberazione, e timore che il futuro non possa portare altro che Vocalizzi preelettorali; lasciano entrambi un’impressione di causticità, di irrisione.

Passando dalla prima alla seconda pubblicazione (La siora nostra morte corporale, 1992), Caniato sembra arrivare alla consapevolezza della necessità di recuperare il passato (il proprio, quello della propria famiglia) attraverso la lingua dell’imprinting, quella che aveva lasciato lasciando il Polesine. In tre righe iniziali (« Mi ca ve altzo na caza de puizìa/ o valtri o Dìi o me Penati o Mani/ fè che no tuto de Caniato a mòra ») il poeta indica il proprio intento.

Lo sperimentalismo che caratterizzava specialmente i testi in italiano di E maledetto è il frutto è qui quasi completamente abbandonato; il discorso si fa meno involuto, più fluido. Nella prima pubblicazione, oltre a parodie consapevoli di forme della tradizione poetica in lingua, sia nei testi in italiano che in quelli in dialetto, si era notata l’apparizione della rima, per lo più interna. Questo elemento di stile diviene quasi costante in La siora nostra morte corporale; insieme alla metrica (basata sull’accento ritmico) esso può essere visto dare vita a una nuova forma chiusa.

L’analisi attenta di tutti i testi fornisce elementi a sostegno di questa ipotesi; il numero di accenti ritmici per verso, il numero di versi in ogni strofe all’interno dei componimenti, ripetendosi, dà ordine al tutto. Dal punto di vista stilistico interessante è anche la presenza di allitterazioni, di assonanze, di rime interne; molte, disposte nel lemma finale di un verso e nell’iniziale del verso seguente, o in due lessemi contigui, in uno stesso verso, creano una catena di suoni. Ritornano spesso anche lemmi in cui emerge un fonema (per esempio [z], [s] sorda e sonora).

Il libro è diviso in più parti; il secondo dei Preànbuli è - nella presentazione grafica - un sonetto. Non è rimato, i versi sono di misura variabile, ma costante è la presenza di tre accenti ritmici per verso. Le rime interne sono frequenti:

Sénto ca s à dritzà na vòja de puizìa
e l aria dèntro la sà ‘za de niève
e tuti in frève i bisi del pensièro
i pintze sul gumièro che, fursi, l ararà
sénto che in to’ndo in to’ndo, dumìnti,
a se dezlìga dal fo’ndo del me saco
el tzùlo de spuàcio e a nàvega sul bròdo
i òci del pasà inrantanà fin jèri.
Cumìnti sto pecà, inruzenìa me man,
colègate co ela la bianca cusì bèla
regina de tetìne carta inverginà
petènala litzièra col schìnco del penìn
e mas-cia la gran mare vèrta dje parole
le sole ca me pòle fa un dio dezumanàre.

(Sento che si è drizzata una voglia di poesia/ e l’aria dentro sa già di neve/ e tutti in febbre i moscerini del pensiero/ spingono sul vomere che forse arerà/ sento che in tondo in tondo, fra poco/ si slega dal fondo del mio sacco/ il laccio di sputo e naviga sul brodo/ l’unto del passato impigliato fino a ieri./ Commetti questo peccato, arrugginita mia mano,/ distenditi con lei la bianca così bella/ regina di tettine carta inverginata/ pettinala leggera con la spuntatura del pennino/ e possiedi la gran madre aperta delle parole/ le sole che mi possano come un dio disumanare)

Dopo i sette testi che compongono la sezione che dà il titolo all’intero libro, comincia quella intitolata Du puemìti (Due poemetti), che comprende Poemin tentà e Poemin finìo (si noti la metafonesi nel passaggio dal singolare al plurale). Nel primo il poeta si rivolge idealmente alla zia Teresa (considerata matriarca della famiglia), rievocando il tempo in cui lei era viva - e quindi anche la propria infanzia - ma anche, in contrasto, il mondo attuale. Al passato appartengono le figure del padre, del nonno paterno, di tutta quella famiglia il cui pensiero lo incita a fare, anche se in modo diverso da loro (« le malte de la cà le tègno su a puizìe »; le malte della casa le tengo su a poesie). Al presente, il proprio lavoro di insegnante di italiano (che chiama « amidà camìza [...]/ ca spolpa mòrsega a dispèto/ le caze del dialèto »; inamidata camicia/ che spolpa e morde a dispetto, le case del dialetto).

Il secondo poemetto è più lungo del precedente, ma è strutturato allo stesso modo: ambedue hanno due accenti ritmici per verso. Esso inizia con una lunga sequenza dove i giochi di suoni sono occasionali. A mano a mano che si sviluppa, e molto lentamente, rime interne, allitterazioni e assonanze aumentano, per diminuire di nuovo nella parte conclusiva.

Il poeta parla della terra che ora lo ospita (Conegliano), della propria decisione di scrivere poesia nella lingua della sua infanzia, lingua « tuta gnòche e buze » (tutta dossi e buche), lingua « destinà al matzèlo/ che più gnisùn a vòle/ che più gnisùn a sà » (destinata al macello/ che più nessuno vuole, che più nessuno sa). Allontanatosi bambino dal Polesine, cresciuto in un altro dialetto, Caniato sembra quasi aver sentito di dover ripagare un debito nei confronti di una madre abbandonata:

[...] Ma mi sta lingua adèso a l ò salvà,
a l ò vestìa da spoza, a l ò lavà, netà,
a gò dà fortza, a l ò supià in poezìa,
a l ò sufrìa sul bianco de la carta [...]

(Ma io adesso questa lingua l’ho salvata/ l’ho vestita da sposa, l’ho lavata, pulita,/ le ho dato forza, l’ho soffiata in poesia/ l’ho sofferta sul bianco della carta)

Giunto alla fine del poema (« scrito ò bastantza de sto caro inferno ») il poeta ha parlato dei suoi ideali, delle sue convinzioni, delle sue donne; specialmente di « cuèla che in coste a me camìna/[...] e mai a no se repòza:/ la siòra nostra mòrte corporale » (quella che mi cammina addosso/ e mai non si riposa/ la nostra signora morte corporale). Questo « poemìn » merita il titolo di « finìo », compiuto, per un insieme di particolari che contribuiscono a dare al tutto un tono quasi solenne, da calmo sereno discorso con se stesso. Intanto la lunghezza dei versi, quasi tutti maggiori dell’endecasillabo (e tuttavia sempre scanditi da due accenti ritmici ciascuno); poi il diverso peso dei giochi di suoni all’interno del poemetto, disposti in modo che si percepisce un crescendo, un plafond, un calando. E, ancora, le citazioni di classici: Petrarca, Leopardi, Dante - e Zanzotto.

Il libro si conclude con tre testi raccolti sotto il titolo di Congedi. Dopo aver « scalà l abiso del dèntro » Caniato riemerge, pronto a scrivere ancora poesia, in italiano e in dialetto, continuando a nutrire un rapporto ideale con se stesso e con il lettore. Lento nella pubblicazione, sta ora lavorando a un libro che intitolerà El lovo e le parole, in cui lovo (lupo) sta per inconscio, e le parole sono le poesie.

Analizzando l’opera di poeti che hanno scritto in lingua regionale - e non soltanto nel Veneto - si constata che la genesi della loro scrittura poetica di identifica spesso con un allontanamento fisico dai luoghi in cui si parla (o si parlava) la lingua utilizzata, o comunque con uno stacco psicologico, che fanno assumere al paese e alla lingua caratteri di metafora.

Luciano Cecchinel è prova ulteriore. Risiede ancora dove è nato, nell’alta valle del Soligo (la stessa di Zanzotto, ma il dialetto del paese di costui, quasi in pianura, è meno arduo e irto); staccatosi dal dialetto attraverso lo studio che lo ha portato all’insegnamento, si è sentito per questo in certo senso traditore di coloro che continuavano a essere emarginati. Quasi spinto da un senso di colpa ha iniziato a scrivere poesia, come per dare sacralità a una lingua sino ad allora soltanto orale, e - attraverso di essa - a una gente.

Con voce forte e viva Cecchinel - in un dialetto duro di cui cura al massimo la trascrizione (certo nel desiderio di non ‘tradire’, di non intromettersi nel mondo che rievoca, ma - forse - anche nella consapevolezza che la versione italiana permette sì la comprensione, ma poco può fare per rendere gli elementi di stile dell’originale), nella più consistente delle sue raccolte, già nel titolo (Al tràgol jért, l’erto sentiero lungo il quale i contadini trascinavano a valle i tronchi degli alberi abbattuti) ripropone l’aspra vita di chi ogni giorno doveva lottare per la sopravvivenza. Nelle parole stesse del poeta, le poesie raccolte in questo libro (pubblicato nel 1988) sono « scàje de tràgol », scheggie sulla strada da strascino.

Diviso in tre parti, precedute da un testo di presentazione e seguite da due di conclusione, esso è caratterizzato da un ordine armonioso (un iniziare, un evolversi, un concludersi) che regge - nell’unità - non soltanto l’intera raccolta ma anche ogni sezione, in un doppio movimento ondulatorio. Al criterio sillabico è sostituito quello dei piedi metrici; gli accenti ritmici cadono regolari, per esempio, nelle composizioni in quartine rimate, mentre lo sono meno nei componimenti a forma aperta.

Nella prima sezione un tono elegiaco si va smorzando a poco a poco; si passa dalla descrizione delle bellezze della montagna (che, sembra, solo chi vive la vita dura del montanaro può cogliere) a due cantari in cui, con l’andamento della prosa poetica, sono descritti il bosco, la cascina, e il lavoro di chi vi opera: sono immessi nel paesaggio personaggi e tradizioni del passato. Gli ultimi due testi approdano al presente, il poeta dice io (« Par strise lo’nghe dhe nèole e dhe sol/ son stat a scoltàr al faldìn »; Attraverso striscie lunghe di nuvole e di sole/ sono stato ad ascoltare la falce ).

Nella sezione centrale predomina il presente, con le sue incertezze, inquietudini, amarezze. Del passato sembrano essere rimasti soltanto oggetti inanimati, e i versi strani del poeta, che non sa quasi più che cosa ci stia a fare:

Pastòtz de làip, aqua lispo’za [...]
faldìn rudhenì [...]
Ma mi, sa fae lora qua
scodràtz zhòt zhabòt
picà a bar de stéle [...]
Co i me sèst e vèrs stranbi [...]
fae ciàro [...]

(Intruglio di truogolo, acqua mucida/ falce arrugginita/ Ma io, cosa faccio allora qui/ ultimo nato zoppo balbuziente/ impigliato a cespugli di stelle/ Con i miei gesti e versi strani/ faccio luce)

A disagio nel presente di gente avida, il poeta anela a ritornare nel mondo idealizzato del ricordo. Al passato è stato tolto il senso, ed è stato « sacrilejo »; il poeta, « stròlego stranbo e romìt » (stregone strano e solitario), nel suo tentativo di preservarlo è come « sgrìzol lidhièr dhe sol calt che se sveja » (brivido leggero di sole caldo che risveglia).

12.

UN DISCORSO SUL LINGUAGGIO

Come si è accennato, Cecchinel alterna il verso libero a forme chiuse tradizionali, senza che vi sia marcata preferenza per l’uno o per le altre nelle tre sezioni. La maestria con cui sceglie i lessemi e utilizza la metrica, però, fa sì che si creino atmosfere particolari. Così la terza sezione, per esempio, malgrado le rime a fine verso, quelle interne, e le assonanze, ha parole che rimangono concrete, sapide, precise, essenziali.

Si diceva del valore di metafora che vengono ad assumere, nella poesia in dialetto, i luoghi e la lingua del passato. Nella scrittura poetica di Cecchinel si fa evidente la sovrapposizione tra una cultura che andava disgregandosi e propri problemi personali; in questa sezione, dopo un primo componimento - un sonetto tradizionale - in cui si sentono premere i ricordi (« ma la è saràda/ la porta e se a incantà ‘l saltarèl »; ma è serrata/ la porta e si è inceppato il saliscendi), il poeta si rivolge al Paese supplicandolo di fargli capire il suo (del paese/del poeta) significato (« Paéze rùspego dhe burigòt/[...]/ inprésteme ‘n ciàro [...]/ sol lèdher al me nàser/ te la to mort »; Paese scabro di vicoli diroccati/ prestami una luce/ solo leggere il mio nascere/ nella tua morte). Divenuto lo spirito folletto del paese, il poeta cerca di dargli (ridargli) vita; è difficile, teme di non farcela. Eppure, il passato è di là (« E de là l’è fursi ancora gnèi cèti,/ lun che trèma dhe làres[...]/ e òmi sa dhe codholà e lune »; E di là ci sono forse ancora agnelli quieti/ lumi tremanti di larici/ e uomini che sanno di acciottolati e di lune).

Il poeta si considera « l’ultimo vècio dhe sto paéze », colui che traccia sulla cenere « senc’ che gnesùni pi romài intènzh » (segni che più nessuno ormai intende). Le poesie della raccolta sono « senc’ qua sparpagnàdhi » (questi segni sparpagliati); ora che ha fatto parlare il passato farà un falò di se stesso, lasciandosi poi trasportare dalla brezza leggera, per altri occhi, per altre orecchie:

Dès che ò vèrt al cadenàzh dur [...]
fae mamì dhe mì panevìn [...]
la me tegnarà l’aria lidhièra,
parfùn despèrs
de roze salvàreghe e raza.
E fursi [...]
la me ultima trazha [...]
la sluzarà dha in tra le stéle [...]
la batolarà piàn tel vènt [...]
par altri òci e altre réje.

(Adesso che ho sbloccato il catenaccio duro/ faccio da me stesso di me un grande fuoco/ Mi terrà l’aria leggera/ profumo disperso/ di rose selvatiche e resina./ E forse/ la mia ultima traccia/ rilucerà di tra le stelle/ bisbiglierà nel vento/ per altri occhi e altre orecchie)

Due anni dopo Cecchinel avrebbe pubblicato una plaquette contenente tre testi, e un’altra - con un testo in italiano e uno in dialetto - alla fine del 1997. A differenza di altri autori nella cui opera è riconoscibile il passaggio da una voce che ancora sta cercando se stessa, a una maturità di espressione, Luciano Cecchinel - nonostante il numero non grande di poesie pubblicate - si è imposto sin dall’inizio come capace di poesia non soltanto di valore, ma anche di prepotente bellezza.

Il riferimento a Zanzotto - che in Caniato e in Cecchinel si identifica nella sacralità del passato - in Villalta si fa più specifico in un discorso sul linguaggio. Molto di ciò che questi ha detto nella sua Lettura della trilogia di Andrea Zanzotto: Il Galateo in Bosco, Fosfeni, Idioma (come recita il sottotitolo) può essere riferito alla propria espressione poetica.

Autore sinora di una sola raccolta (Vose de vose, 1995), oltre che di poesie pubblicate su riviste, la sua opera non può essere presa in esame se non tenendo conto dei suoi vari apporti teorici. Ci si è infatti lasciati guidare da una frase del saggio citato (« Vi sarà [...] come punto di partenza la traccia di un’affezione, da seguire e da interrogare, da confermare di nuovo sul testo »), e da una nota a un componimento che appare nella prima delle sezioni di Vose de vose:

Non avrei voluto che a un certo punto ciò che stavo scrivendo prendesse la strada che ha preso verso l’esito che ha. Avrei voluto che rimanesse un certo distacco ironico. Ma, e va ammesso senza ritegno, non veniva, non c’era più.

Si è parlato di sezioni, ma in realtà il libro riunisce quattro lavori composti in tempi diversi, come dice l’autore nella premessa. Nel corso della lettura, la « traccia di un’affezione » si rende evidente nel crescente coinvolgimento del poeta. Sembrano esservi due temi di fondo (non paralleli, ma - piuttosto - intersecantisi), il dialetto e il tempo.

Nel saggio su Zanzotto, Villalta fa spesso riferimento ad Heidegger, e risulta chiaro che sulla sua espressione poetica ha influito il pensiero del filosofo tedesco. C’è però una evidente differenza tra i primi testi del libro edito nel 1988 (e che ora costituisce la prima sezione di Vose de vose), e gli altri, tutti gli altri. Quelli sono ragionati, ricchi di note che tradiscono la riflessione filosofica, caratterizzati da quel « certo distacco ironico » che l’autore avrebbe voluto mantenere costante; in questi, non solo a poco a poco le note scompaiono, ma il tono del colloquio tra presente e passato, tra il poeta e vu, lore, fa passare i testi dalla ‘ragione’ alla ‘affettività’, dal distacco al coinvolgimento.

Villalta ha lavorato molto sul concetto di tempo, che - secondo lui - non corrisponde a quello indicato dal calendario. Ogni istante del presente, nel momento in cui passa, diventa passato, e l’istante futuro lo sostituisce. Il presente sembra dunque non esistere, il futuro non lo si è vissuto ancora: come trovare il senso? Il poeta sembra dire che è parlando, scrivendo, (appartenendo) in una medesima lingua che si può arrivare - se non al senso - all’accettazione che non riuscirci non è distruttivo, disintegrante, quando si sia inseriti in qualcosa che è cominciato prima di noi, che continuerà dopo di noi.

All’interno dell’intero libro, come all’interno delle parti che lo compongono, si nota un movimento di andata e ritorno che fa pensare al tracciato di un sismografo: per vedere il ‘disegno’ finale bisogna attendere che il pennino proceda, ripetendo movimenti verso l’alto e verso il basso. Nella prima parte si nota l’alternarsi di un movimento ragionato con uno affettivo, in una serie di componimenti che appaiono come momenti successivi di una stessa riflessione, fino alla NOTA (precedentemente citata) che testimonia di un cammino percorso.

Uno degli ultimi testi può essere letto come una dichiarazione di poetica:

[...] o come se se scrivése par contàrghe
qualcòsa a qualchedùn!
Se scrive par un che ne compàgne
par na strada che ‘vén da traversàr
sensa savèr la strada
e ‘mparando caminando a caminar.

(o come se si scrivesse per raccontare/ qualcosa a qualcuno!/ Si scrive per qualcuno che ci accompagni/ su una strada che dobbiamo attraversare/ senza sapere la strada/ e imparando camminando a camminare)

La seconda parte (« El scravàzo » e altre vose, L’acquazzone e altre voci) fa pensare che il poeta rifletta sulla propria voce, sulla difficoltà di comunicare (con se stesso, con l’altro), sulla possibilità che il gesto possa giungere là dove le parole non sanno più. La voce che vorrebbe avere dovrebbe essere capace di esprimere « quel grun/ scuro ‘ndo’ che fa la tana/ l’èser lizièro che no se sa dir/ gnanca a se stesi » (quel grumo/ oscuro dove fa la tana/ l’essere leggero che non si sa dire/ neanche a se stessi). La difficoltà risiede proprio nella sconnessione tra ‘dentro’ e ‘fuori’ (« No l’è nisùn dentro de mi/ e mi no son quel che l’è fo’ra »; non c’è nessuno dentro di me/ e io non sono quello che è fuori).

Nel componimento El scravàs, diviso in cinque parti, il poeta riflette sulla indicibilità di ciò che vorrebbe dire, ciò che ha radici nel passato, nella lingua orale, nei gesti; ciò che vorrebbe fosse pietra capace di incunearsi nel terreno, di permanere (« na parola/ de pièra, un pézo che rèste/ tel cuòr, che ‘l se ‘ncùgne drénto/ ‘n te ‘l gnént »; una parola/ di pietra, un peso che resti/ nel cuore, che si incunei dentro/ il niente). Appare il concetto di sentirsi sull’orlo del tempo (« El temp che ‘l bruza sul lo’r de le ònbre »; il tempo che brucia sull’orlo delle ombre), sviluppato ne La costanza del vocativo, la sua ‘lettura’ della trilogia di Zanzotto; l’orlo del tempo, quella « linea che ogni istante attraversa per entrare nel passato »).

Panevìn (Falò), il terzo ‘libro’, risulta più vicino alla comprensione immediata per la sua forma narrativa, l’alternarsi dei codici e dei linguaggi, del presente e del passato. In dieci ‘movimenti’ viene raccontata la tradizione - viva ancora oggi - di bruciare la vècia. Il racconto è l’occasione di parlare di « cosa che pasa », ciò che passa, che - più avanti - diventerà un valore da trasmettere:

De cosa che pasa, de prima
ch’i nasa [...]
co’nteghe [...]
e quél ch’i te contàva [...]
Fa che [...]
‘n tut sto restàr
de ricordi [...]
el pasi, el calcòsa
del gnent’altro
(e ‘ténto, sta ténto, ma tant
‘ténto a ciamàrlo memoria)

(Di ciò che passa, di prima/ che nascessero/ racconta/ e ciò che ti raccontavano/ Fa che/ in tutto questo rimanere/ di ricordi/ passi il qualcosa/ del nient’altro/ (e attento, sta attento, ma tanto/ attento a dargli il nome di memoria)

Nell’ultimo componimento vengono presentati contemporaneamente l’oggi e l’ieri: un bambino affascinato dai resti del falò, quasi incapace di allontanarsene - e il mondo rievocato dal ripetersi di un avvenimento originato nel passato. Un mondo che riemerge attraverso un lungo elenco di nomi che identificano oggetti e azioni e mestieri e abitudini e tradizioni, quasi a dire che il « gnent’altro » da trasmettere può esserlo soltanto attraverso la lingua allora viva, la lingua della gente vissuta ieri.

La quarta parte dà il titolo all’intera raccolta; in essa più continui sono i paralleli con La costanza del vocativo. Ritornano i soggetti trattati precedentemente; al movimento di andata e ritorno si aggiunge, nel tema dei componimenti, un passaggio dall’autunno all’estate, che potrebbe essere visto come un graduale uscire dalla tristezza, dal pessimismo, da una (a volte) rassegnata abulia, per giungere a una situazione di equilibrio, di pace con se stessi. L’atmosfera, dalla cupezza autunnale (« ’na sera/ via n’antra, ‘na piòva/ via n’antra »; una sera/ dopo l’altra, una pioggia/ dopo l’altra) a poco a poco cambia, si fa più leggera (« L’autuno so’te le séie/ el se lontàna/ fondando i remi galìvi »; l’autunno sotto le ciglia/ si allontana/ affondando i remi in cadenza); il poeta è riuscito a mettersi in contatto con « lore », e arriva l’estate « che ména na feména piéna » (che guida una donna incinta). Si è compiuto il passaggio attraverso la terra, la lingua (la madre-lingua?) che - gravida - porterà frutto.

Il testo conclusivo ripropone, già nelle prime parole, quel movimento di andata e ritorno che è il filo conduttore del libro, e dei quattro libri che lo compongono:

No se finìse: el desfàrse
la crèda dei dèi drénto ‘l vizo
de crèda ch’i è drìo farse
co’ le someiànse de un vizo
dezmentegà ‘péna i òci
i riva a vèder de no’vo.

(Non ha fine : il disfarsi/ la creta delle dita dentro il viso/ di creta che stanno modellandosi/ con le sembianze di un viso/ dimenticato non appena gli occhi/ riescono a vedere di nuovo)

Il dialetto di Villalta è quello di un paese in provincia di Pordenone, al confine tra il Friuli e il Veneto, ma è della parlata di quest’ultima regione che più risente. Anche in lui si notano incoerenze nella trascrizione dei suoni. Il passaggio graduale dal ragionamento all’affettività, nei testi di Vose de vose, accompagna il prevalere - in un primo momento - del concetto di dialetto sentito come codice personale sul quale/con il quale lavorare, e - quando predomina la riflessione sul passato - di quello per cui esso è lingua della realtà (nella accezione da noi indicata). I due filoni comunque sembrano coesistere per tutto l’arco dell’opera, a volte sovrapponendosi, mai coincidendo completamente.

13.

FIGURE NON EMERGENTI MA SIGNIFICATIVE

In alcuni autori il desiderio di mantenere ciò che sta scomparendo è dichiaratamente il motivo del ricorso al dialetto. Si pensi a Ernesto Sfriso, per esempio, a Gianni Sparapan. Altri sono mossi principalmente dal sentirlo adatto alla trascrizione di un proprio discorso interiore - come è il caso di Renzo Favaron, di Luigi Pezzato (nella poesia del quale, peraltro, si trovano anche temi quali la partecipazione alla sofferenza umana, l’anelito alla fratellanza, la deplorazione di ogni tipo di degrado, il senso religioso).

Livio Pezzato non usa il dialetto per parlare del passato, ma usa piuttosto una lingua del passato (di un tempo in cui si suppone la saggezza contadina suggerisse risposte più soddisfacenti agli eterni interrogativi esistenziali), per denunciare una società che si va disfacendo nella corruzione. Egli - come a suo tempo Noventa - sembra alla ricerca (attraverso la lingua) di un mondo più consono a se stesso. Nel corso degli anni i temi ispiratori della sua poesia sono rimasti gli stessi; non così la lingua. All’inizio era il dialetto di città, in buona parte italianizzato, della persona colta che in esso si esprime abitualmente a casa, sul lavoro, con gli amici (come Ruffato, Calzavara, Stefani). Di raccolta in raccolta si nota una progressiva ricerca di lessemi più vicini all’esperienza della gente (in prevalenza anziani contadini) che si muove nei suoi testi; anche nella trascrizione grafica (al cui livello però rimangono alcune incoerenze) si osserva una cura maggiore.

Come lui, anche Renzo Favaron ha cominciato a scrivere poesia in italiano. Il dialetto che utilizza è, per sua ammissione, un idioletto: in una lingua di base cavarzerana sono inseriti, con una certa frequenza, lemmi in lingua. Seguendo una ispirazione che non sembra cambiata nel corso degli anni (almeno sino al 1993), il poeta si ripiega su se stesso intento a osservarsi - ascoltarsi - nel tentativo di vivere. Il tono è quello di una quieta disperazione, quasi rassegnazione al mondo, agli avvenimenti; questo stato d’animo determina e accompagna il sentire quotidiano. Ciò che il lettore percepisce è un senso di incertezza, di indeterminatezza di sé e degli altri, di fatica (e paura) di vivere, di impressione di essere comparse obbligate a recitare una parte - a guardarsi recitare una parte. Espressioni come queste di un male di vivere non appartengono certamente soltanto alla nostra epoca, ma sono tuttavia testimonianza puntuale dell’incoerenza della società odierna, di cui non è facile sentirsi parte attiva (specialmente per chi ci tenga a continuare a esprimersi in poesia).

La costanza nella linea direttrice dell’ispirazione è testimoniata anche, per esempio, dal ritrovare in alcuni componimenti in veneto versi già apparsi nella raccolta in italiano (Voci d’interludio, 1989), come dal ripetersi, nei due codici, di lemmi quali silenzio/ morte/ sottoterra/ notte/ ghiaccio/ inverno/ ecc. La componente ‘spettacolo’ (presente già nel titolo della raccolta in dialetto: Presenze e conparse, 1991) ritorna anch’essa di frequente, particolarmente nell’aspetto negativo dell’essere guardati, osservati, spiati.

Come si è accennato, qualcosa sembra cambiare a partire dal 1993. Lo si nota particolarmente in componimenti pubblicati in quell’anno su lengua, sotto il titolo complessivo di Voze (Voci). L’auto-invito a uscire da uno stato quasi morboso di dormiveglia, a unirsi agli altri, espresso nei versi conclusivi di Un Cristo ‘ncora picinìn, viene ribadito - in Fa che la vita - dalla decisione di lasciare l’atteggiamento di amara rinuncia a favore di uno di impegno, di assunzione della vita nella sua complessità e problematicità.

A fronte di componimenti in italiano in cui il ritmo è forte e continuo, la voce di Favaron non sembra essere sempre sicura in quelli in dialetto. L’inserzione di lemmi in lingua, in linea con la sua decisione di creare un idioletto, a volte risulta stridente. Tenuto conto dei risultati sicuri raggiunti in Voci d’interludio, si può ipotizzare che la discontinuità delle scritture in dialetto rifletta una ancora insufficiente padronanza del mezzo di espressione scelto. (La lettura di un poemetto ancora inedito, molto più recente, testimonia di un deciso passo avanti di Favaron verso la conquista di una voce ferma e sicura anche in dialetto, accompagnandosi a un tono meno sorvegliato, a una ispirazione meno solipsistica).

Ernesto Sfriso è noto commediografo e saggista; è passato alla poesia in dialetto in un secondo tempo della sua carriera letteraria, per un bisogno di ritrovare le proprie radici. Oltre ai lavori teatrali (di cui uno è stato riscritto in dialetto, con il titolo In punto d’amor no se parla de bezzi, 1996) e alle poesie, Sfriso è anche autore di un romanzo (Il cavallo bianco, 1980), che riflette lo stesso ambiente e lo stesso periodo storico de I lèori del socialismo di Dino Coltro. In ambedue il passato si incarna nella figura di un nonno, che nel libro di Coltro parla in prima persona, esprimendosi nel linguaggio dei contadini, appena ripulito (il che conferisce a tutto il libro l’andamento del racconto orale). Quello di Sfriso è scritto in italiano, e vi figurano frasi, o brani, in dialetto. Del nonno parla un nipote, che racconta ciò che ricorda della propria infanzia, di ciò che gli era stato raccontato allora.

Nel dialetto di Chioggia (VE) e del suo retroterra, in Legènde de tèra de aqua e de bèstie, Sfriso ha composto un quadro in cui sono illustrati momenti della vita dei contadini: il lavoro (l’aratura, la trebbiatura, la vendemmia) e il tempo libero (per esempio, la caccia); vi si trovano ritratti di singoli personaggi (il falciatore, la sposa, ecc.) e di animali (la gallina, il coniglio, ecc.), nonché tradizioni e superstizioni. La raccolta si presenta discontinua, non tanto per la diversa lunghezza dei testi, quanto perché vi figurano « legènde » - del resto gustose - che ci guadagnerebbero a essere chiaramente indicate come brani di prosa.

Oltre a poesie apparse in antologie, Sfriso ha anche ‘commentato’ alcuni disegni ispirati alle chiese di Venezia (Cèse del mare, 1991) e - del tutto recentemente - ha pubblicato un’altra raccolta: Co scomìnsia la dosana (Quando comincia il riflusso).

Ancora sulla linea della rievocazione del passato (nell’intento di preservare i propri ricordi d’infanzia) è il lavoro di Gianni Sparapan. Questo autore scrive in italiano e in dialetto (quello del medio Polesine) ed essenzialmente narrativa, oltre ad alcune liriche e copioni teatrali. Le immagini care, una plaquette edita nel 1990, raccoglie - insieme ad alcuni componimenti in italiano - poesie in dialetto premiate o selezionate a vari concorsi. Con voce forte e decisa, e ritmo sicuro, Sparapan si esprime in versi sciolti in cui si trovano spesso rime (per lo più interne), allitterazioni e assonanze, raggiungendo i risultati migliori nei testi di tipo narrativo. Nello stesso anno è stato rappresentato l’atto unico Le bonàneme; nella tradizione del teatro veneto, in un testo molto ben strutturato, i personaggi emergono simpaticamente, di volta in volta, senza prendere mai il primo posto. Altri due atti unici figurano in e...co le stele inpizà...in Paradiso (1995), terza delle opere in prosa di Sparapan, che conclude una ideale trilogia iniziata con Tegnerse al naturale (1990) e proseguita con Òmani, cèpe e scopetùn (1992).

In prosa, la misura di Sparapan è in genere quella del pezzo breve; il tono è spesso sarcastico. Benché nella trascrizione non sia stato sempre coerente, Sparapan ha manifestato il suo interesse per il linguaggio usato compilando un dizionario (El nostro parlare, 1994), che figura in una pubblicazione dedicata al suo paese.

Si deve riconoscere al teatro il merito di aver mantenuto viva la lingua veneta nei decenni centrali del nostro secolo; non è una coincidenza che la poca poesia pubblicata in quel periodo sia stata scritta da autori già conosciuti come commediografi.

Si è parlato di Palmieri, per esempio, e ora si accenna a Gianni Soranzo, vincitore - nel 1956, con La Ninfea - della quinta edizione del premio teatrale Giacinto Gallina. Figura senz’altro minore (benché, come commediografo, abbia ricevuto diversi meritati riconoscimenti), Gianni Soranzo va citato soprattutto perché ha trascorso buona parte della sua vita immerso in quell’atmosfera artistico-culturale della quale si sono nutriti anche gli autori che sono poi emersi per il valore della loro opera. I temi della sua poesia sono quelli - classici - dei cantori della piccola patria: la natura che accompagna e interpreta stati d’animo, la nostalgia del ‘bello e buono’ del passato con l’inevitabile denigrazione del presente, l’esaltazione degli affetti familiari, l’espressione di fede cristiana. Nella prima raccolta, pubblicata nel 1953, anche lo stile è tradizionale; il verso libero è apparso in raccolte successive, ma al cambiamento di stile non ne è corrisposto uno di contenuto.

Sugli stessi temi, e nello stesso linguaggio - il padovano di città - si è espresso Ugo Suman, da citare come un’altra di quelle figure che - se pure non emergenti - hanno costituito per moltissimi anni un punto di riferimento per chi volesse leggere, ascoltare, il dialetto. Autore estremamente prolifico di tradizionali poesie in stile ottocentesco, di gustosi racconti rievocanti fatti e personaggi del passato contadino, di copioni teatrali, nel 1988 ha pubblicato la ‘traduzione’ del Pinocchio di Collodi. Veniva così a inserirsi nel numero di coloro che si sono messi alla prova scegliendo di trasporre (rifare, adattare) in dialetto opere classiche, o comunque molto conosciute.

Di questi si era già citato Attilio Carminati; Aldo Pozzer ha letto le favole di La Fontaine, riproponendole nel dialetto di Conselve, cittadina della zona medio-bassa della campagna padovana; Dino Durante jr. ha affrontato gli Epigrammi di Marziale.

Più ricco l’apporto di Giovanni Organo: riduzioni dal latino e dal greco, ed elaborazione pavana (in collaborazione con L. Giaretta) del Selvatico di Menandro. Organo e il suo collaboratore hanno apportato alla favola antica alcune variazioni, facendo diventare pavano anche l’ambiente (oltre ai nomi e alla lingua), restituendo così alla commedia greca scritta più di duemila anni fa quelle caratteristiche che nessuna traduzione in italiano avrebbe potuto mantenerle.

Nel 1970 Organo si cimentò con i Dialoghi di Luciano di Samoseta, cui avrebbe aggiunto, nel 1980, alcuni epigrammi (Le ciàcole co la zonta). Anni dopo sarebbe tornato alla ‘traduzione’ con sei Satire di Orazio, e brani dell’Ars Amatoria di Ovidio (Fregole di latin, 1992). Negli uni e negli altri si nota una forte connotazione colloquiale; « un Orazio e un Ovidio divenuti padovani, nostri familiari », come è detto nella presentazione.

Amore per la cultura e un certo maliziosamente bonario spirito veneto sembrano aver spinto Giovanni Organo alla ‘traduzione’, non diversamente da quanto sembra essere avvenuto per Bino Rebellato. Sottotitolato Alcune imitazioni in dialetto veneto, il suo Teofilo Folengo (1989) riporta, con il testo a fronte, dal Baldus l’invocazione alle muse e due componimenti tratti dal primo e dall’ottavo libro, e - da Quaedam Epigrammata - nove dei sedici testi raccolti sotto questo titolo. Il dialetto di cui Rebellato si serve è quello rustico, altopadovano, che era ancora parlato sino agli anni Venti nella campagna di Cittadella. I passi ‘tradotti’ sono di ispirazione diversa, dimostrando come quel dialetto sia capace di adattarsi alla varietà di accenti delle Macheronee.

Non si può concludere questa breve rassegna senza soffermarsi - per la mole dell’opera e per l’impegno richiesto - sul lavoro di Emanuele Munaro, quell’Anonimo da Piove che ha ‘tradotto’ in padovano rustico la Divina Commedia. Non integralmente, bisogna dire; delle tre cantiche sono presenti tutti i canti, ma di questi non tutti i versi. L’Inferno è stato affrontato per primo: la ‘traduzione’ ha visto la luce nel 1975.

Alcune osservazioni sono indispensabili. Innanzitutto, il numero dei versi in dialetto non corrisponde sempre a quello dell’originale, stampato a fronte. Per ragioni di metrica e di rima (sempre scrupolosamente rispettate) Anonimo ha avuto a volte bisogno di più parole per esprimere quanto detto da Dante; altre volte, però, si tratta di vere e proprie interpolazioni: partendo, per esempio, da una invettiva politica di Dante, Anonimo l’attualizza inserendo nomi fatti e misfatti di personaggi politici italiani degli anni Settanta. Si nota poi un generale abbassamento di tono, dovuto all’insistenza con cui sono proposti e riproposti lemmi e particolari lubrichi, quando non addirittura grossolani.

Dato che il linguaggio di Dante, nella prima cantica della Commedia, è colorito e ricco di apporti plebei, il pavano rustico serve bene Anonimo. Lo stesso non si può dire, però, quando questi passa al Purgatorio e al Paradiso. In essi continuerà l’abbassamento di tono (che - a differenza che nell’Inferno - non è dato dalla presenza di grossolanità, ma piuttosto dalla colloquialità). Nel Purgatorio Dante e Virgilio appaiono persone comuni (più che personaggi), e lo stesso avviene per coloro che essi incontrano.

Nel Paradiso, il linguaggio di Dante vuole creare nel lettore uno stato d’animo elevato: Beatrice non è più persona, e Dio è al centro del mondo. Non così per Anonimo; non è solo una questione di parole - non è che il dialetto non sia adatto a tradurre certi concetti, è che Anonimo sembra non condividerli, e il suo Paradiso (dove a Beatrice Dante dice « cara la me vècia », dove Dio è « el Paro’n Gròso ») non ha molto a che vedere con quello di Dante.

C’è da dire comunque che, accettata l’idea che il luogo in cui si svolgono i fatti raccontati assomigli quasi a un mercato di quartiere, dove amici di vecchia data si incontrano, Anonimo riesce a rendere comprensibile al lettore di oggi quanto forse non lo sarebbe, e si mantiene sempre coerente; a volte tradisce il pensiero di Dante, ma mai il proprio. Soltanto nel canto XXXIII, ‘traducendo’ la preghiera di San Bernardo alla Vergine, per la prima volta Anonimo sembra esprimersi sottovoce, creando e mantenendosi in una atmosfera di umiltà, di stupefazione, di contemplazione.

È da osservare - per l’insieme dei rifacimenti, degli adattamenti citati - che spesso in essi gli autori sembrano tendere a un recupero della comicità in funzione del rimando al gusto espressionistico della poesia macheronica. Mentre l’esistenza di questo genere (che non ha più adepti da oltre quindici anni) mostra, da una parte, la ricchezza lessicale del dialetto, dall’altra fa sorgere interrogativi sulle motivazioni che possono aver spinto gli autori a compiere tali operazioni, nonché sulla reale possibilità di circolazione di queste opere. Resta il dubbio, infine, che l’uso da essi fatto del dialetto contribuisca a catalogarlo non solo come appartenente al passato, ma anche come capace di esprimere adeguatamete soltanto la vena comica.

14.

LA PRODUZIONE DELLE ALTRE REGIONI :

PUNTI DI CONTATTO E CONVERGENZE

Richiamando le linee di tendenza precedentemente indicate riguardo alle motivazioni per l’uso del dialetto in poesia, ricordiamo il ritenerlo mezzo efficace per esplorazioni di una dimensione diversa della realtà o per ricerche fono-simboliche (si veda, per esempio, Zanotto, Ruffato, Calzavara); il sentirlo capace di trascrivere al meglio un discorso interiore (pensiamo a De Poli, a Favaron); il desiderio di dar voce a chi sembrava non averne (qui i nomi che vengono alla penna sono quelli di Caniato (E maledetto è il frutto), di Cecchinel).

Anche nelle altre regioni italiane, come si era accennato, si trovano poeti la cui opera si inscrive nello stesso quadro. Oltre alle tendenze ricordate (che comunque non sono sempre esclusive, a volte anche all’interno dell’opera di uno stesso poeta, in periodi successivi) vi è spesso un altro dato comune, rappresentato da quello cronachistico della lontananza dei poeti dal luogo in cui sono nati, in cui si parla (o si parlava) la lingua cui essi fanno ricorso. È lo stacco cui anche noi abbiamo accennato, rilevando però come l’allontanamento non sia sempre – necessariamente - fisico.

Tra i poeti che hanno scritto a cominciare dagli anni Sessanta si veda il friulano Leonardo Zanier, per esempio, non soltanto per la denuncia presente nella sua poesia, ma anche per la densità delle tessiture foniche del suo dialetto. O il ligure Plinio Guidoni, la cui poesia - malgrado il realismo dei personaggi rappresentati - non si esaurisce nel documento sociale. O ancora il siciliano Giuseppe Battaglia, in cui le tendenze realistiche degli esordi cederanno sempre più a una espressione lirica nella quale la realtà - divenuta a volte iperrealistica - verrà ad assumere un significato astratto, come figura dell’interiorità.

Il cammino che segna il passaggio tra due modi di intendere la poesia (in definitiva il passaggio dal noi all’io) non è lineare: gli autori sono, per la maggior parte, ancora in fase di sperimentazione. La situazione si va consolidando negli anni Settanta, che vedono l’esordio di poeti appartenenti a regioni dove nulla era accaduto per decenni.

Il calabrese Achille Curcio, i pugliesi Nicola Giuseppe Di Donno e Pietro Gatti, il marchigiano Franco Scataglini, e anche Franco Loi si fanno conoscere nei primi anni Settanta. In quest’ultimo poeta si osserva, ancora una volta, la creazione ricca e liberissima di una lingua personale (un milanese lontano da quello della tradizione letteraria, nato dalla miscidanza del linguaggio del proletariato locale con quello dei provenienti dalla campagna e da altre regioni). Al suo esordio la lingua di Loi è fortemente espressionistica; a partire dalla raccolta del 1981 essa rinuncerà alle sottolineature idiomatiche e gergali, per assumere una tonalità media. Nelle raccolte successive il dialetto sarà ancor più depurato, sino ad avvicinarsi all’italiano.

Scarto minimo rispetto alla lingua nazionale presenta anche l’anconetano di Scataglini: dialetto non esistente nella realtà, rustico e prezioso nello stesso tempo, che diventa oggetto di sperimentazione. Nel 1974 si fa conoscere, in piemontese, Toni Bodrìe (che nel 1965 aveva pubblicato una raccolta in provenzale), sottolineando del suo linguaggio tutto quanto lo allontana dall’italiano: arcaismi, voci cadute dall’uso, voci della campagna, idiomatismi, espressioni gergali.

Nella seconda metà degli anni Settanta le regioni più ricche - dal punto di vista della poesia - sembrano di nuovo essere il Friuli e l’Emilia-Romagna. Amedeo Giacomini si è servito, nelle sue prime prove, di un friulano veicolare (pieno di italianismi, lontano dalla koiné letteraria) per compiere esercizi manieristici. Questa componente si attenuerà nelle raccolte successive, mentre il dialetto tenderà ad avvicinarsi alla koiné. Dalla raccolta del 1984 esso cambierà ancora: diventerà codice personale, risultato della fusione di varie parlate friulane, utilizzate di volta in volta con attenzione ai valori fono-simbolici della parola.

Nino Pedretti esordisce all’insegna di un populismo tipicamente romagnolo, ma nelle raccolte successive - come si riscontra in altri poeti - passerà dalle tematiche sociali alla memoria privata, espressa in una poesia ricca di simbolismo. Anche l’opera di Tolmino Baldassarri presenta una evoluzione, passando da tematiche pascoliane intrecciate a testimonianze civili, al sentimento di perdita che caratterizza il presente. L’aspetto memorialistico - per l’ossessiva presenza dei morti in quanto allegoria del passato, della tradizione, delle radici - ne farà un lirico puro. In testi in cui ritornano allitterazioni, paronomasie, e altre figure che mettono in risalto i valori fonici, Baldassarri utilizza la nostalgia del dialettale per esprimere la lacerazione psicologica tipica del nostro tempo.

Come il siciliano G. Battaglia, Raffaele Baldini dà evidenza iperrealistica alle cose, utilizzando gli elementi della convenzione vernacolare come ulteriore maschera dell’io. Il suo impegno iperrealistico si riflette anche nel linguaggio, in cui l’irregolarità sintattica, l’accavallarsi delle frasi, le costruzioni sospese, sembrano voler ricostruire il parlato. Il senso di allucinazione che ne deriva fa pensare alla condizione dell’uomo contemporaneo, alle prese con le proprie paure e contraddizioni, e anche - nello stesso tempo - conscio di essere alla fine di quel mito di completezza e di integralità attribuito al mondo rappresentato dal dialetto.

Un altro poeta che rieccheggia contenuti e modi già sentiti e che si risentiranno è il pugliese Francesco Granatiero. Utilizza un dialetto arcaico, oggi non più in uso, per parlare di un mondo contadino che prende valore metaforico nella memoria. La sua poesia è di tipo narrativo, in uno stile che tiene conto degli aspetti ritmici e timbrici del dialetto.

Luciana Borsetto, che ha dedicato molti saggi alla poesia in dialetto, di quella degli anni Settanta ha sottolineato due aspetti, opponendone un uso sacralizzato a uno dissacrato6 (quest’ultimo sempre più frequente). Queste caratteristiche non sono però limitabili a quel periodo; si riscontreranno anche nelle prove degli anni Ottanta e Novanta. Ci sembra potrebbero testimoniare di una evoluzione avvenuta sia nel modo di fare poesia in dialetto, sia - da parte dei critici - nel trovare i termini più esatti per definirla.

All’inizio la contrapposizione tra lingua della poesia e lingua della realtà sembrava netta, facilmente riconoscibile. Della civiltà contadina del passato c’era chi prendeva soltanto la lingua - per le sue caratteristiche di freschezza, verginità, lontananza nel tempo e nello spazio,eccetera eccetera, e chi invece riproponeva tutto quel mondo, per preservarlo prima che scomparisse. In seguito (noi stessi lo abbiamo rilevato), e gradualmente, il mondo della civiltà contadina è andato assumendo sempre più valore di metafora. Si sarebbe potuto scegliere (come noi abbiamo fatto) di precisare il campo della lingua della poesia riconoscendola in quella ‘preziosa’, codice personale, oggetto di sperimentazione, ma anche di restringere invece quello della lingua della realtà, ponendole dei limiti definiti di applicazione.

Come si può osservare nella poesia in dialetto più recente - quella che Serrao, nell’antologia da lui curata, chiama neodialettale - la lingua della realtà, nel suo senso limitato, non è quasi più utilizzata. Non è da sottovalutare il fatto che, agli inizi, la poesia in dialetto nasceva in presenza di una società contadina in via di estinzione, ma ancora viva; chi scrive in dialetto negli anni Ottanta e Novanta non è più di vecchi che parla, ma di morti. Forse è venuto il momento di usare termini diversi, riferimenti diversi.

Nelle righe che seguono si vuole sostanziare quanto si è andato dicendo attraverso la citazione di opere di poesia; si vedrà così come comune a molti sia il sottolineare gli aspetti fono-simbolici della parola, spesso al fine di sperimentazione. È il caso, per esempio, di Giovanni Nadiani, il cui dialetto faentino perde ogni valore evocativo per diventare, appunto, oggetto di sperimentazione. Il percorso del friulano Giacomo Vit è simile; il suo lavoro rivela il passaggio da una poesia naturistica a una dove è maggiormente presente il simbolismo, mantenendo costante la sensibilità per i valori fonico-timbrici della sua lingua.

Nella sua conterranea Ida Vallerugo lo stacco che la indurrà a scrivere poesia in dialetto sarà la morte della nonna (avvenimento determinante anche per Renzo Favaron). Come Pierro e Baldassarri, per esempio, la Vallerugo vede nella morte di una persona che apparteneva al mondo della civiltà contadina anche la fine di quel mondo, per la frattura ormai definitiva con le tradizioni popolari. Si noterà come questo tema impronti il lavoro di Cecchinel, e le raccolte più recenti di Caniato, di Bressan, di Zanotto (come si è esemplificato nei capitoli precedenti).

Il siciliano Mario Grasso fa ricorso a un dialetto di base etnea, colto e letterario, rimanendo attento, però, al recupero di forme idiomatiche e gergali allo scopo di sottolinearne gli aspetti fonico-timbrici. Con la piemontese Bianca Dorato ci si trova ancora una volta di fronte a una poesia in cui una realtà concretissima (quella delle sue montagne, del cui linguaggio utilizza voci rustiche che inserisce in un dialetto di base letteraria) finisce per diventare simbolo. Vito Moretti appare del tutto svincolato dalla tradizione abruzzese: scrive nel dialetto di Chieti, che avvicina alla lingua letteraria. Altrettanto personale è la lingua utilizzata dal suo conterraneo Pietro Civitareale.

Si è visto come l’accentuazione ritmica sia una delle caratteristiche di Sandro Zanotto; lo stesso sembra potersi dire del campano Salvatore Di Natale, il cui dialetto vuole distaccarsi il più possibile da quello delle canzoni, del teatro, della produzione vernacolare, arricchendosi per questo di voci idiomatiche e gergali ma anche di voci colte, di neologismi. Anche la lingua scelta dal genovese Roberto Giannoni sembra voler far dimenticare la sonorità della tradizione letteraria, operando una scelta verso gli arcaismi. Ancora punti di contatto con le esperienze di poeti di regioni diverse dalla prppria si trovano nel laziale Mario Marè, che dall’86 apre il proprio dialetto alle invenzioni, alle neoformazioni; nella lombarda Franca Grisoni, i cui testi sono caratterizzati da una forte struttura fonico-ritmica; in Dante Maffia che - utilizzando i tratti più arcaici del suo dialetto rosetano - ne fa strumento di scavo, per passare dalla realtà al simbolo, ricorrendo a una lingua anti-idiomatica, dalla sintassi essenzialmente italiana.

È anche il caso di citare - questa volta come poeta - il casertano Achille Serrao, che monologa con se stesso in un dialetto che ha suoni più duri del napoletano, e il pugliese Lino Angiuli, che con la raccolta del 1991 si discosta da quella dell’esordio, avvenuto un decennio prima. La più recente presenta una poesia intellettualistica, assolutamente priva di musicalità, tutta di scavo interiore.

Concludendo la rassegna sugli autori che – nel XX secolo - hanno scritto poesia in dialetto, nelle diverse regioni d’Italia, si osserva che essi (specialmente coloro che appartengono alla seconda metà del secolo) sono colti, perfettamente bilingui; la lingua in cui hanno scelto di esprimersi non gli impedisce di restare in contatto, in relazione, con i contemporanei movimenti letterari italiani e stranieri. Il dialetto, per loro, non è veramente che uno dei codici di un universo plurilinguistico nel quale si trovano a vivere e a operare.

15.

UN APPORTO TEORICO

Giunti alla fine di questo lavoro sulla letteratura del XX secolo in lingua veneta, ci si vuole soffermare su alcuni spunti di riflessione che riprendono, integrano, approfondiscono quanto si è andato dicendo nei capitoli precedenti.

Innanzitutto si vuole affrontare quanto, per alcuni, è ancora un ossimoro: dialetto/letteratura. È noto che la frammentazione che ha accompagnato la diffusione del latino in Italia è dovuta, in grande misura, alle deformazioni causate alla pronuncia di esso da parte delle popolazioni che lo adottarono, diversissime tra loro di lingua. È altrettanto nota l’esistenza di opere letterarie in diversi volgari locali; per quel che riguarda il territorio lombardo-veneto, a partire dal Duecento si può già parlare del consolidamento di tale letteratura.

A fronte della perdurante mancanza di presupposti politici per una effettiva unità linguistica, le teorie del Bembo contribuirono comunque a crearne una; per i limiti che tale unità aveva dal punto di vista sociale, però, le parlate locali furono sempre più messe a confronto con la lingua letteraria, e ai dialetti (termine che ha continuato a essere impropriamente usato) è stato attribuito lo stigma dell’inferiorità.

Alla raggiunta unità politica ha fatto riscontro, quasi immediatamente, un fiorire di letteratura nelle parlate locali, quasi che il venire a contatto con realtà così diverse tra loro avesse portato a forti desideri di identificazione. Nella seconda metà dell’Ottocento è stato il teatro a indicare la via; tra Otto e Novecento si sono moltiplicati i periodici locali (spesso a carattere umoristico).

A cominciare dal secondo dopoguerra, quando - per l’azione del cinema, della radio e della televisione - l’italiano si è proposto come lingua parlata, che era possibile apprendere anche al di fuori dell’insegnamento tradizionale, si è fatto evidente che, dal punto di vista della comunicazione, le parlate locali non erano più l’unica risorsa della stragrande maggioranza degli italiani. La lingua nazionale ha inglobato diversi termini regionali (in genere appartenenti al lessico domestico e popolare), ma molto più rapido è stato il processo di italianizzazione dei dialetti.

Nei confronti di oggetti imposti da una cultura materiale e sociale sentita a volte come estranea, il dialetto sembra aver perduto ogni capacità inventiva (quando invece la sua ricchezza derivava dalla capacità di denominare ogni ambiente, ogni lavoro e ogni attrezzo che con quell’ambiente e quel lavoro aveva attinenza); si è limitato a inserire nel proprio lessico i termini di cui ha avuto bisogno - a volte mutuandoli integralmente dalla lingua nazionale, o al massimo apportando loro minime variazioni morfologiche.

I linguisti si sono resi conto di trovarsi di fronte a un fenomeno di grande portata, che avrebbe fatto sparire in pochi anni le ricche parlate locali, a favore di un italiano banalizzato e banalizzante. Non è un caso che la produzione in dialetto - almeno per quanto riguarda la poesia - sia riapparsa in genere a partire dagli anni Sessanta, con la doppia motivazione di conservare quanto stava scomparendo e di ritrovare una lingua di espressione che permettesse ciò che l’italiano sembrava non poter più garantire.

Indipendentemente dalle motivazioni specifiche dei singoli autori, si può dire che solo a partire da questi anni si trovano nella letteratura le caratteristiche essenziali che la diversificano da quella dei periodi precedenti: il contenuto metaregionalistico e la lingua, che è un dialetto (nel senso largo di variazione di una lingua comune, quindi anche variazione dovuta ad apporti personali).

Il linguaggio degli autori delle varie regioni è spesso (re)inventato, attraverso la ricerca di termini arcaici, la creazione di neologismi, con un’attenzione quasi sempre costante alla resa fonica. In una situazione in cui limitati sembrano gli spazi consentiti alla lingua maggiore, forte è il richiamo alla utilizzazione di lingue minori, che vengono piegate alle esigenze della materia da esprimere. (Ciò che conta, in effetti, non è la lingua che il poeta utilizza, ma la sua abilità).

Come individuare dunque il punto, oltrepassato il quale non si troverà più poesia di tipo ottocentesco (se non a livello dialettale)? Ci sembra che sarà opportuno lasciarsi guidare non dalla metrica (perché nei lavori più recenti ritornano le forme della tradizione, anche se a volte reinterpretate), quanto piuttosto dal ritrovare raccolta, contemporaneamente, la sfida e del linguaggio e del contenuto.

A proposito della lingua regionale veneta e dei suoi dialetti, si può dire che quella parlata oggi è poco più che italiano regionale, limitato nel lessico, condannato a dare apparenza vernacolare a termini che designano funzioni e oggetti entrati nell’uso dopo la fine della prima guerra mondiale (quando addirittura non vi si inseriscano lessemi stranieri - come del resto si fa spesso anche in italiano). In quanto espressione letteraria, essa sopravvive soltanto come trascrizione della lingua parlata (a livello più o meno dichiaratamente popolare), o come risultato di una ricerca di tipo filologico.

I poeti che hanno usato il dialetto ricercandone al massimo l’autenticità, ricorrendo a forme arcaiche, trascrivendone con puntigliosità i suoni, attraverso la sua inattualità hanno descritto, testimoniato, l’inattualità del mondo che in esso si esprimeva e - in metafora - la precarietà, la disintegrazione possibile, la possibile sensazione di inattualità dell’esperienza umana. Coloro che, d’altra parte, hanno consciamente rifiutato di sacralizzarlo, che lo hanno miscidato con altri codici, che hanno accettato di creare neologismi, lo hanno in fondo considerato « cosa viva » (per dirla con Calzavara): lingua a tutti gli effetti, e quindi soggetta a cambiare, a evolvere - pena la sparizione.

Ma non può stare ai critici, ai saggisti, decidere quale sia la formula migliore; il dialetto in poesia, oggi, - come si è detto - deve essere visto come codice personale, come il mezzo sentito più adatto a esprimere ciò che il poeta, in un dato momento, sente il bisogno di dire. Resta comunque il fatto che - sia che egli faccia ricorso a una variazione di lingua più lontana nel tempo, sia che ne adotti una più ricca di calchi dall’italiano - i non parlanti quel dialetto avranno comunque bisogno di una ‘traduzione’ per cogliere il significato delle parole.

E qui sorge un problema. Scorrendo le varie raccolte di poesia in dialetto, le antologie, le riviste del settore, ci si rende conto che tale ‘traduzione’ si pone tra due estremi: dalla semplice versione italiana di un lemma dopo l’altro, alla completa riscrittura (cosa cui ci hanno abituato i traduttori di poesia straniera). Ma è possibile, in quest’ultimo caso, restituire la peculiarità di uno specifico dialetto, specialmente quando i poeti ‘giocano’ con i suoni? « La poesia [...] non potrebbe sussistere senza un interlocutore »7, dice Zanzotto. Ma leggere poesia non è un esercizio guidato dalla ragione - il significante può avere altrettanto rilievo del significato.

Al di là di ogni teorizzazione, non si può non sentire importante che il dialetto sia una lingua che ha resistito al tempo e ai cambiamenti che nel tempo si sono verificati. Ciò che ci ha spinto a scrivere questo libro ne tiene conto; certamente è stata determinante la volontà di sottolineare l’importanza di un certo numero di autori ancora troppo poco conosciuti, ma si voleva anche registrare la lingua di cui essi si sono serviti: lingua che viene da una lontananza storica, lingua che permette - come il filo di Arianna - di ritrovare un mondo e una tradizione culturale che hanno arricchito la storia dell’umanità.

NOTE

1. Q.Antonelli, Il dialetto nei giornali veneti, in Guida ai dialetti veneti, IV, Padova, CLEUP, 1992, p.112.

2. E.F.Palmieri, Commedie in veneto, Padova, Rebellato, 1969, p.117.

3. S.Bernard, Le poème en prose, Paris, Librairie Nizet, 1959.

4. M.Chiesa, Per una mappa della poesia contemporanea in dialetto, in Giornale storico della letteratura italiana, 515, 1984.

5. E.Calzavara è intervenuto diverse volte sull’argomento; i vari testi si possono ora leggere, raggruppati, in Rio terrà dei pensieri, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1996. A questo libro si deve fare riferimento anche per tutte le successive citazioni.

6. L.Borsetto, Dialetto, antidialetto, deriva: scritture poetiche degli anni Settanta, in La letteratura dialettale in Italia a cura di P.Mazzamuto, Palermo, Soc.Grafica Artigiana, 1984, p.833.

7. G.Nuvoli, Zanzotto, Imola, La Nuova Italia, 1979, p.3.

OPERE IN DIALETTO DEGLI AUTORI CITATI

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Anonimo da Piove, L’Inferno de Dante, Cittadella, Rebellato, 1975.
___ El Paradiso de Dante,Fossalta di Piave,Rebellato,1981
___ El Purgatorio de Dante, Fossalta di Piave, Rebellato, 1982.

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___ Le ave parole, Milano, Garzanti, 1984.
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___ Tristan Corbière in venesian, Abano T., Biblioteca Veneta
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INDICE ANALITICO DEGLI AUTORI VENETI

Alessi, Giulio 21

Ancona, Mario 47

Balboni, Paolo 47

Barbarani, Berto 19,20,23,25

Bertini, Dante 23,27

Bertolin Angelo (Giacometo) 6,12,19

Bressan, Luigi 67,97

Calzavara, Ernesto 32,33,51,53,59,86,93,100

Caniato, Luciano 33,72,80,93,97

Carminati, Attilio 43,45,90

Cecchinel, Luciano 35,72,77,93,97

Coltro, Dino 32,34,38,39,59,88,89

Della Corte, Carlo 47

De Poli, Flaminio 19,22,35,38,40,93

Durante, Dino jr. 90

Favaron, Renzo 86,93,97

Flucco, Giuseppe 6,7,19

Meneghetti, Egidio 20

Menetto, Luciano 46

Noventa, Giacomo 20,24,47,86

Organo, Giovanni 90

Palmieri, E. F. 15,18,21,22,27,88

Pezzato,Livio 86

Piva, Gino 16,20,26,27

Pozzer, Aldo 90

Rebellato, Bino 91

Rizzi, Livio 21

Rocca, Gino 15,16

Ruffato, Cesare 33,50,53,54,86,93

Sfriso, Ernesto 86,89

Soranzo, Gianni 89

Sparapan, Gianni 86,88

Stefani, Mario 47,50,86

Suman, Ugo 90

Tomiolo, Eugenio 47

Varagnolo, Domenico 20,25

Villalta, Gian Mario 72,80

Zanotto, Sandro 30,32,41,59,93,97

Zanzotto, Andrea 33,47,50,54,55,72,

75,77,80,81,83,102

INDICE GENERALE

PRESENTAZIONE ………………………………………………………………………………………………………………….. 1

TRASCRIZIONE DEI SUONI ………………………………………………………………………………………… 4

1. NARRATIVA IN DIALETTO : I PRIMI DECENNI DEL SECOLO …… 5

2. PERCHÉ IN DIALETTO? INIZIA IL CAMBIAMENTO ………………………………… 12

3. POETI DEL PRIMO NOVECENTO, POETI DELLA TRANSIZIONE -- 19

4. IN QUALE DIREZIONE SI EVOLVE LA POESIA? ………………………………… 26

5. DIALETTO : LINGUA DELLA REALTÀ, LINGUA DELLA POESIA -- 32

6. NARRATIVA, MA NON ROMANZO POPOLARE ------------- 38

7. LA POESIA DEL SECONDO NOVECENTO : AUTORI NOTI E MENO NOTI 45

8. POESIA SPERIMENTALE O « ESPERIENZIALE »? ------------- 51

9. L’ACCENTO RITMICO CREA UNA INEDITA « FORMA CHIUSA » -- 59

10. SIGNIFICATO E SIGNIFICANTE : LETTURA IN PARALLELO CON

IL MONDO IN CUI VIVIAMO ----------------------------- 68

11. L’INDIVIDUALISMO DEI POETI VENETI ------------------------ 72

12. UN DISCORSO SUL LINGUAGGIO ----------------------------- 79

13. FIGURE NON EMERGENTI MA SIGNIFICATIVE ------------------ 86

14. LA PRODUZIONE DELLE ALTRE REGIONI : PUNTI DI CONTATTO E

CONVERGENZE --------------------------------------- 93

15. UN APPORTO TEORICO ---------------------------------- 99

NOTE ------------------------------------------------------- 103

OPERE IN DIALETTO DEGLI AUTORI CITATI ------------------ 104

INDICE ANALITICO DEGLI AUTORI VENETI ----------------------- 108

INDICE GENERALE --------------------------------------- 110