LA FIGURA E L’OPERA
DI GIUSEPPE GANCI BATTAGLIA
di Lucio Zinna

1. La scomparsa di Giuseppe Ganci Battaglia, poeta e commediografo dialettale siciliano, avvenuta il 25 dicembre del 1977, passò pressoché inosservata nel milieu letterario palermitano, nell'ambito del quale era stato, in diversi decenni, una presenza tutt'altro che insignificante. Nei suoi ultimi anni il « poeta delle Madonie » (come egli stesso amava definirsi) si era ritirato nella sua nuova abitazione di Via Barone Bivona, a vivere la vita del pensionato, continuando a scrivere e riordinando le sue carte, le stesse nelle quali ha messo mano Calogero Messina, a cui si deve la prima attenta monografia sul poeta.1
Ganci Battaglia ebbe consapevolezza, in quegli ultimi anni, dell'ingiusto silenzio che lo circondava,2 mitigato dalla riverente ammirazione di alcuni giovani poeti che si recavano a trovarlo per riceverne consigli e ai quali non disdegnava di leggere le sue nuove composizioni. Prevedeva tuttavia che prima o poi, dopo la sua morte, ci si sarebbe ricordati di lui e si sarebbe frugato nel suo archivio personale, che sistemò con cura meticolosa in numerose buste, con le necessarie indicazioni per facilitarne la consultazione. I segni di una «riscoperta » non sono mancati3 e si ha motivo di ritenere che il Nostro continuerà ad essere oggetto di attenzioni da parte della stampa e della critica. Del resto, appare difficile, a chi voglia seriamente tracciare le linee della poesia dialettale siciliana tra gli anni venti e sessanta del secolo scorso, sminuire il contributo di questo sensibile poeta isolano.
Nato a Palermo nel 1901, Giuseppe Ganci Battaglia non ebbe un’infanzia e un'adolescenza felici. Mentre era in tenera età, il padre emigrò in Bolivia; alcuni anni dopo, la madre e il fratellino emigrarono a loro volta negli Stati Uniti. Il fanciullo fu affidato alle amorevoli cure delle zie Mariannina e Giovanna. La lontananza dei genitori, che non rivide mai più, incise profondamente nella sua formazione. Studiò, da ginnasiale, al Collegio Salesiano di Via Sampolo, quindi alla Scuola Tecnica «Scinà» e, infine, all'Istituto Magistrale «De Cosmi », dove conseguì il diploma di maestro.
Nel 1920 pubblicò a Milano la sua prima raccolta di versi: «I canti dell'abbandono», il suo primo ed ultimo libro di poesia in lingua (ove si eccettui la raccolta Trilli nell'azzurro del 1958, dedicata ai bambini); in lingua continuò a comporre e a pubblicare, raramente, su riviste. Nel 1922 apparve a Palermo, apprezzatissimo, Sangu sicilianu [Sangue siciliano], a cui seguirono: Amuri [Amore] (1923), La Santuzza (1927), Surgiva [Sorgiva] (1940), Il volto della vita (1958), Pupu di lignu [Pupo di legno] (1969) e Mizzigghi e nòliti [Vezzi e capricci](1971).
Nel 1927 fondò e diresse, assieme a Ignazio Buttitta, la rivista “La Trazzera” (nei primi tre numeri fu condirettore anche Vincenzo Aurelio Guarnaccia), che aveva come sottotitolo: «Pagine di poesia e di fede dei poeti dialettali siciliani». Su quel periodico, che ebbe risonanza nazionale, fece il suo esordio un altro valoroso poeta dialettale siciliano, Vincenzo De Simone, che il Ganci Battaglia aveva scoperto e incoraggiato.4 I curatori del periodico, nonostante gli encomi di maniera al regime fascista, non riuscirono ad evitare, da parte della Questura, il sequestro di un numero dedicato a Vito Mercadante, socialista, grande aedo della poesia sociale siciliana. Dopo un anno di vita, il mensile cessò le pubblicazioni.
Negli anni 1954-1955 Ganci Battaglia diresse un'altra rivista: “Il Ciclope”, i cui interessi non erano rivolti esclusivamente alla poesia dialettale; accanto a testi di poesia contemporanea, figuravano articoli di critica letteraria, di teatro, di tradizioni popolari e di socio-pedagogia. Il periodico si onorò di firme illustri, da Rosso di San Secondo a Salvatore Quasimodo; vi collaborarono Armando Zambon e Antonio Manuppelli nonché i maggiori rappresentanti di quella corrente letteraria che si chiamò “realismo lirico", da Lionello Fiumi ad Aldo Capasso, da Claudio Allori a Garibaldo Alessandrini; vi pubblicarono loro scritti anche alcuni autori francesi quali Eugène Bestaux, Emile Sotère, Sylvain France, Marcel Carrères. Una seconda serie del “Ciclope” apparve negli anni 1963-64, ma nel biennio 1958-59 il poeta aveva diretto una nuova rivista letteraria che, tranne per la testata (“Il Sagittario”) e il formato, era una virtuale prosecuzione della linea già proposta conIl Ciclope”. Intendimento di quest’ultimo – come si legge in un pieghevole del 1963 che ne annunziava la ripresa – era quello di porsi «ancora» come «strumento vivo, vario ed indispensabile per l'affermazione e la diffusione dei valori insopprimibili della cultura e dello spirito» in una civiltà tecnologica e di massa.

2. Come altri giovani intellettuali del tempo, Ganci Battaglia diede al regime fascista un'ingenua quanto entusiastica adesione e fu per due volte podestà di Gratteri, il paese delle Madonie che aveva dato i natali al padre e che egli considerò terra delle sue origini e intensamente amò e cantò in non poche composizioni. Da amministratore, più che da politico, tenne comizi e discorsi celebrativi e non mancò di dedicare versi a Mussolini e ai reali d'Italia, secondo un malvezzo dei tempi. Dalla sua partecipazione alla vita politica, al contrario di tanti, non trasse vantaggi e non ne cercò. Non si tirò indietro neanche quando il regime cominciò a scricchiolare. La tragedia della guerra lo sconvolse profondamente: negato a ogni forma di violenza, per sua natura e per fede religiosa, rimase disgustato dall’immane flagello. In uno dei suoi Colloqui con Dio (ancora inediti, iniziati a partire dal 1941) datato 27 dicembre 1942, scriveva « [...] Ma il cannone tace, le mitraglie fischiano, le pallottole volano pazzamente spinte dai pulsanti e dai percussori, s'intridono nelle carni, mutilando, dissanguando, uccidendo. Anche per il giorno santo del Natale. Anche nella mezzanotte santa. [...] Ove oggi è lotta, miseria, orgoglio, sangue, lussuria, fioriscano tutte le virtù e il ramoscello d'ulivo sia simbolo di pace e d'amore ».5 Caduto il regime, non cercò di rifarsi, come si suoi dire, una verginità politica. «Colpevole ma onesto», dice di lui Bent Parodi.6
La verità è che Ganci Battaglia, oltre che un ingenuo, era fondamentalmente un impolitico; incapace di una speculazione a freddo sui fenomeni politici e sulle relative conseguenze, così come di calcolo sui personali vantaggi e svantaggi, si affidava al sentimento e, su quella scia, finì per stare dalla parte sbagliata. Nell'immediato dopoguerra fu inquisito per i suoi trascorsi politici, ma ne ebbe la sola « censura » come maestro di scuola, non avendo l'apposita commissione rinvenuto, in concreto, nulla di deplorevole a suo carico, a parte le idee. Il Messina ha rinvenuto tra le carte del poeta copia delle sue “deduzioni declaratorie”, pubblicandone ampi squarci. In esse il Ganci Battaglia, dopo aver rilevato di «non aver mai offeso né la legge civile né la legge morale» e di non aver venduto «la pomata per i calli al disciolto regime», osservava: «Ho servito, come tutti i buoni cittadini con quella buona fede che ha adescato nella rete milioni di cittadini probi ed onesti, specie quelli che, per la loro veste di dipendenti statali e parastatali [...] affrontarono tutti i pericoli e seppero rimanere senza tessera, aspettando l'ora del crollo, che giunse nel luglio del 1943 [...]». Non questi cittadini - proseguiva – meritavano di essere perseguiti, bensì coloro che si erano arricchiti alle spalle dei «poveri maramei » come lui: «Maestro ero e maestro sono – non avanzamenti di carriera né posti di comando. Vissuto nell'ombra hanno avuto interesse (che Iddio gliene renda merito) di lasciarmi in ombra dove spero di continuare a vivere, pago solo di quelle soddisfazioni morali che valgono più di tutte le benemerenze e di tutti i riconoscimenti sociali. Penso che gli addebiti che mi si son fatti mi hanno valorizzato più di quanto non seppe fare il partito. – Dalle accuse ho avuto la sensazione di essere “qualcuno” mentre allora ero nessuno».7
Conclusasi quella triste vicenda, il poeta non volle più sentir parlare di politica, non aderì né simpatizzò per nessun partito e soprattutto non fu un «nostalgico» (nulla aveva da rimpiangere e nulla rimpianse). Riprese a guardare avanti e a dedicarsi, come aveva fatto in precedenza, alla famiglia, alla poesia, alla scuola. Lo conobbi attorno al 1958 e gli fui vicino per tutto il corso degli anni sessanta. All'inizio dei quali – per citare appena un episodio del suo atteggiamento in quegli anni – ricevette da un'eminente personalità politica siciliana una lettera a stampa in occasione di una consultazione elettorale. Gli si chiedeva il voto. Rispose con una lettera in versi, che mi lesse pochi giorni dopo averla spedita: chiedeva che lo lasciassero in pace e dichiarava di non credere alle lusinghe elettorali, che lasciano gli elettori bellamente gabbati; lamentava di aver inoltrato più di un’istanza per l'assegnazione di una casa popolare, avendone i requisiti, ma le sue richieste erano passate inosservate; dimenticassero, dunque, i signori parlamentari, la sua persona e il suo indirizzo. E concludeva con i seguenti fieri versi, che cito a memoria:

chista è casa, 'un è lucanna:


iti a dari lu culu a ‘natra banna .

[Questa è casa, non locanda / andate a dare il culo altrove].

3. Il teatro dialettale di Ganci Battaglia è in buona parte da rivalutare. I suoi testi, recitati da rinomate compagnie e da famosi interpreti delle sicule scene o radiotrasmessi, sono ancora inediti e sarebbe auspicabile che qualche editore ne attuasse un saggio repêchage. Commedie e atti unici mantengono una loro freschezza e si inscrivono nell'ambito della migliore tradizione scenica e popolaresca siciliana. Le sue ascendenze sono reperibili, da un lato, nel teatro di Nino Martoglio per la vis comica (ma con minore indulgenza al farsesco) e, per le opere drammatiche e per il vigore espressivo, nel teatro di Vanni Pucci; tali influenze furono rese personali nella sua scrittura, venata da una sottile ironia, che veniva a mitigare, fra l'altro, la prolissità di alcuni dialoghi.
Quando fu recitato, ebbe successo. La sua commedia più brillante fu quella con la quale esordì nel 1924: Acchianati ca s'abballa [Salite ché si balla] (Compagnia Spadaro, 1924 e 1931). Seguirono: Picuraredda siciliana [Pastorella siciliana], dramma in due atti (Comp. di Franco Zappalà) e le commedie in tre atti Eclisse totale (Comp. Anselmi-Colombo), A sette valvole (Comp. di Pippo Valenti), Mi dimetto da marito, quest'ultima magistralmente interpretata da Rosina Anselmi e Michele Abruzzo. Commedie in un atto furono trasmesse dalla sede R.A.I. di Palermo: Ternu siccu [Terno secco], La mala soggira [La cattiva suocera], U santu d'u papà [L’onomastico di papà], Pani e cipudda[ Pane e cipolla], Li raggi X [I raggi X], E di cu è? [E di chi è], A lu mircatu [Al mercato], La magàra [La maga].
Nelle opere teatrali di Ganci Battaglia si riscontrano non pochi elementi caratterizzanti la sua poesia dialettale, in primis l'osservazione attenta e divertita degli ambienti popolari, talvolta tendenti al bozzettistico, con la rappresentazione di personaggi, anche singolari, comunque psicologicamente ben delineati, visti nella loro dimensione quotidiana, nelle loro fisime, nelle loro abitudini e velleità, nei loro più o meno piccoli imbrogli e compromessi. Un campionario di umanità variegato e vivace, che si barcamena tra ingenuità e malizia, in scene che hanno lo scopo primario di far divertire, senza eccessivi intellettualismi, ma anche, e senza darlo a vedere, quello di insegnare qualcosa e cioè che la vita va presa per quella che è, con l'impegno e la volontà necessari a doppiarla, oltre che con un pizzico di nonchalance e - perché no? - persino di stravaganza, considerato che le matasse a volte si sbrogliano con qualche astuto accorgimento e altre volte da sole. Commedia borghese, nei suoi tratti canonici; quella di Ganci Battaglia è sostanzialmente la commedia brillante degli anni ’30, calata e sapientemente adeguata alla realtà popolare siciliana.
Appare sorprendente la riduzione e l'adattamento per il teatro che il Nostro fece del ponderoso romanzo I Beati Paoli di Luigi Natoli, in 13 copioni per altrettante serate: una sorta di teatro ciclico (si può parlare, in tali casi, di teatro-feuilletton?), con tre atti belli e buoni per ciascuna rappresentazione. Un così monumentale lavoro gli era stato richiesto dal cavalier Rocco Spadaro, della «primaria» Compagnia Mariuccia Spadaro: una famiglia di attori siciliani che calcava le scene con alta professionalità, dalla quale emerse Umberto Spadaro, un caratterista che il cinema tra primo e secondo ‘900 renderà assai noto agli spettatori italiani. Dell'episodio, avvenuto correndo l'anno 1931, Ganci Battaglia diede notizia nel 1972 sulle colonne di un periodico palermitano, il «Dafni», che pubblicava un po' di tutto, diretto da un volenteroso e mite maestro di musica che rispondeva al battagliero nome di Carlo Maria Magno. La compagnia Spadaro si trovava in difficoltà e rischiava di essere licenziata, a meno che non si mettessero in scena proprio I Beati Paoli, verso cui l'impresario – certo Finocchiaro, manco a dirlo, cavaliere anche lui – nutriva una vera e propria venerazione. Ganci Battaglia si sobbarcò a quell'impresa per togliere dai guai gli amici attori e vi riuscì in un lasso di tempo compatibilmente breve, lavorandovi intensamente, dopo esser riuscito a farsi concedere l'autorizzazione dall'editore del romanzo e dal suo autore e l'uno e l'altro rinunziando a qualsiasi compenso. L'opera fu messa in scena con uno strepitoso successo di pubblico e, come egli stesso mi narrò, pubblicizzata per tutte e tredici le serate da uomini-sandwich che percorrevano le vie principali della capitale dell'isola. In seguito Ganci Battaglia ne ricavò una riduzione radiofonica (trasmessa con pari successo) in sei puntate, che sono le uniche rimaste (i copioni teatrali sono andati smarriti).

4. Come si è accennato, la prima opera poetica di Ganci Battaglia, in lingua, apparve quando l'autore era diciannovenne. Si tratta di poesie adolescenziali, nelle quali prevalgono i ricordi d'infanzia. Il tema del «crudele distacco dalla famiglia» ritorna in quei suoi primi versi con accenti strazianti; il giovane poeta maledice il «rio destin» e sogna il ritorno dei familiari, ma trova anche modo di soffermarsi sugli aspetti della natura o di esprimere vibranti sentimenti patriottici o i primi delicati slanci amorosi. Eppure in questi patetici Canti dell'abbandono8 – che vanno comunque inscritti nell’ambito di un semplice apprendistato – si trova già il nucleo di quella che sarà la poesia matura di Ganci Battaglia. Vi sono presenti i temi di fondo, compreso quel sentimento della morte che sarà una costante di tutta la sua produzione poetica. Lo stile è classicheggiante, con marcate cadenze di sapore scolastico e tuttavia con quello spiccato senso del ritmo e dell'armonia che gli sarà consueto; endecasillabi e settenari hanno una loro politezza e si susseguono scorrevoli e tecnicamente precisi. Vanno ricordati i sonetti su Gibilmanna e una canzone sugli emigranti, quest'ultima, oltre tutto, un interessante testo documentale di «letteratura dell'emigrazione» agli inizi degli anni venti.
La critica non prestò soverchia attenzione a quei canti: poche le recensioni e con qualche tiepido apprezzamento; il poeta certamente doveva ancora venir fuori e chi si trovò ad occuparsi di quel libro non ebbe – e giustamente – riserbo a rilevarlo. Forse l'autore si attendeva molto da quella sua prima prova o si convinse che la strada da percorrere fosse un'altra, fatto sta che, nell'arco della sua esistenza, non si decise mai più a pubblicare altri volumi di poesia in lingua.
Accoglienza diversa ebbe il poemetto Sangu sicilianu (1922), in endecasillabi sciolti; Ganci Battaglia fu salutato come una rivelazione della nuova poesia dialettale siciliana. Si tratta di un dramma pastorale a forti tinte, con qualche filo manzoniano e un'evidente aura verghiana, nel quale l'elemento naturalistico si svolge attraverso una pastosa liricità. Azione e contemplazione si alternano; epica e idillio si equilibrano, nel complesso, stemperando l'una gli effetti dell'altro e viceversa. È la storia di una timida e avvenente pastorella, Maruzza, che suscita sentimenti amorosi al tempo stesso in un baldo pecoraio e in un prepotente barone locale: questi la fa rapire, ma il giovane innamorato riesce a liberarla. Ne segue un duello rusticano in cui il barone ha la peggio. La vicenda si conclude tragicamente con la morte della fanciulla colpita per errore in un'imboscata. La trama è sottile e non molto originale, ma Ganci Battaglia ne fece un poema popolare ricco di pathos, in cui si avvertono echi delle canzoni dei cantastorie siciliani.
Descrizioni di paesaggi agresti e marini e scene di vita contadina si accompagnano a considerazioni di carattere sociale (come quelle sullo sfruttamento dei lavoratori dei campi da parte di padroni senza scrupolo) o a riflessioni sulla morte, grande risolutrice di affanni e di passioni. I personaggi del dramma sono scolpiti in tratti rapidi e decisi; bastino per tutti questi pochi versi che delineano la figura di «zu Lunardu », un fedele del barone:

Occhi appuntati, varva a muschittuni
Frunti arrapata e larga, ncurunata
Di 'na burritta mezza sculuruta
[…]
E jttava li passi cu 'mpurtanza
E parrava currettu e masticusu.9

[Occhi pungenti, barba a moschettone, / fronte piana e larga, incoronata / da un berretto mezzo scolorito // e muoveva i passi con importanza / e parlava corretto e masticoso].
La vena lirica di Ganci Battaglia fu confermata l'anno successivo con la pubblicazione di dieci sonetti «dialettali» dal titolo Amuri, dedicati alla donna amata,10 versi traboccanti di affetto, spontanei e di una limpidezza da stilnovo. Il filone popolaresco, invece, fu ripreso e, in certo senso, potenziato nel 1927 con l'uscita del poemetto La Santuzza, dedicato al Cardinale Lualdi, con chiose estrapolate da un articolo di Luigi Natoli ed eliminate nella seconda edizione (1962). È la storia-leggenda di Santa Rosalia, protettrice di Palermo, figlia del normanno Sinibaldo, imparentato con Ruggero Il. Giovinetta «bedda comu 'na rosa 'mbuttunata» [bella come un bottone di rosa], Rosalia, insensibile ai corteggiamenti di «cavalera giuvini e galanti» [cavalieri giovini e galanti], lasciò i fasti del castello paterno per ritirarsi in romitaggio sul Monte Pellegrino, rispondendo alla chiamata di una «vuci mistiriusa» [voce misteriosa]:

Si nn'acchianò pi Munti Piddirinu
d'uuni ddà sutta si stinnia lu mari,

e 'ntra ddu munti granni e sularinu
la luna cci la vosi accumpagnari.11

[Se ne salì per Monte Pellegrino / dove là sotto si stendeva il mare // e a quel monte grande e solatio / la luna la volle accompagnare].
A Rosalia il poeta si rivolge con espressioni che icasticamente traducono l'amore che i palermitani riservano alla «santuzza»: «la Virginedda mia palermitana» [la Verginella mia palermitana], «lu veru pani di l'arma» [il vero pane dell’anima] . Il Monte Pellegrino, emblema di arcaica sacralità, oltre che «puntu di risettu e di sarvizza» [punto di quiete e di salvezza] fin dai remoti tempi di Siculi e Sicani e Cartaginesi, è rappresentato pittoricamente con tratti naïf:

Viditilu vinennu di lu mari,
mentri ca lentu trasi lu vapuri;
vi veni 'na gran vogghia di prigari
a sta Santuzza ch'è lu nostru amuri.

Scinni stu munti assai pricipitusu
comu lavanca attagghiu di lu mari,
cci sbatti e mori lentu lu marusu
e nun si senti mancu murmurari.12

[Vedetelo venendo dal mare, / mentre lento entra il vapore; / vi viene una gran voglia di pregare / questa Santuzza ch’è il nostro amore. // Scende questo monte assai precipitoso / come valanga che verso il mare precipiti, / vi sbattono e vi muoiono i marosi / e non si ode neanche un mormorio].
Qua e là emerge nel poemetto la consueta, garbata, sotterranea ironia del poeta, che può cogliersi anche nella rappresentazione della peste bubbonica che colpi Palermo nel Seicento, pur nella considerazione della morte che «tagghia e meti 'nzoccu c’è» [taglia e miete quel che c’è]:

A lu milli e secentu vintiquattru
un lignu vinni di la Barberia,
murevanu li genti a quattro a quattru,
ci fu 'ntra la citati pidimia.13


[Nel milleseicentoventiguattro / un legno venne dalla Barberia, / morivano le persone a quattro a quattro / ci fu nella città epidemia].
Ironia lieve tanto da apparire involontaria, come, ad esempio, laddove si narra della ricerca e del ritrovamento delle ossa della fanciulla:

Lu Cardinali cu lu Vicirè
sappiru allura allura la nutizia,
mannaru ‘ntra lu munti la milizia
cu l’ordini di vidiri ‘nzocch’è. 14

[Il Cardinale e il Viceré / non appena seppero la notizia / mandarono sul monte la milizia / con l’ordine di vedere che cos’è]. Da tale fatto si ritenne derivasse il rapido e miracoloso decrescere del fenomeno epidemico. Solo in tale contesto il poeta interrompe la cadenza in quartine a rima alternata del poemetto per avvalersi di tre distici a rima baciata:

Lu Cardinali Doria fici fari
l'esami all'ossa prima di parrari.

Liggìu li tri prucessi priparati
e foru doppu tutti cunfirmati.

Li medici la crozza la scurciaru
e ch’era poi di fimmina truvaru.15

[Il Cardinale Doria fece / esaminare le ossa prima di parlare. // Lesse i tre processi preparati / e furono poi tutti confermati. // I medici il teschio scorticarono / e ch’era poi di donna rilevarono].

5. Surgiva del 1940 è la prima organica raccolta di poesie in dialetto. In essa ritroviamo, con altri esiti, la tematica espressa nei Canti dell’abbandono. La silloge, comprendente oltre un centinaio di componimenti, è inizialmente congegnata come una sorta di autobiografia in versi; il poeta canta i luoghi della sua nascita e della sua infanzia, il suo «spinnu di matri» [desiderio di madre], il matrimonio e la nascita dei figli Teresa ed Enrico, la morte della giovane consorte. Ma a poco a poco l'universo poetico si slarga: dai temi insulari («Nustalgia di Sicilia» [Nostalgia di Sicilia], «Carrettu di Sicilia [Carretto di Sicilia]», «Sferracavaddu» [Sferracavallo], «Sulicchialora» [Solatia]) ai canti vespertini e agli incanti lunari («Sona la virmaria» [Suona l’Avemaria], «Striscia di luna»), dagli slanci mistici («San Franciscu d'Assisi», «A Maria di Gibilmanna», «Mistica») alle gustose e insinuanti note di costume («Supplica di li fimmini schetti» [Supplica delle zitelle], «Mi vogghiu fari monaca» [Voglio farmi monaca], «A la missa» [A messa], «A 'na signurina ca si tinci» [A una signorina che si trucca], «Cappellini novicentu »[Cappellini novecento], etc., alla considerazione della vanità delle cose umane e del trascorrere inesorabile del tempo, della morte che azzera ricchezze e orgoglio («Chi semu» [Chi siamo]); il poeta ammonisce sulla fragilità del nostro essere e sul nostro comune destino («Quannu affaccianu li stiddi» [Quando spuntano le stelle]):


Nni facemu cu' gran sfrazzu
cumplimenti e pruvulazzu,
nni sintemu gran signuri.
C’è cu’ è Cumminnaturi,
cu abbucatu, cu ‘ncigneri,
cu baruni e cavaleri…
ma la boria po’ si sfascia
e finemu 'ntra 'na cascia.
Ddà finisci amuri e guerra,
ni nni jamu sutta terra.
Cc’è cu chianci e cu’ fa vuci,
cu' nni chianta po' la cruci,
cu' nni scrivi 'ntra lu marmu
longu un metru e qualchi parmu
‘nzoccu fummu 'ntra lu munnu.
Eccu l'omini cu’ sunnu.
Po' la sira arreri torna
cu’ lu suli doppu agghiorna.
E’ ‘na rota chi firrìa
è 'na longa litania…16

[Ci facciamo con gran sfarzo / complimenti e spolverii, / ci sentiamo gran signori. / C’è chi e commendatore, / chi avvocato chi ingegnere, / chi barone e cavaliere…/ ma la boria poi si sfascia / e finiamo in una cassa. / Terminano lì amore e guerra, / ce ne andiamo sotto terra. / C’è chi piange e c’è chi grida, / chi ci pianta poi la croce, / chi ci scrive nel marmo / lungo un metro e qualche palmo / cosa fummo noi nel mondo. / Ecco gli uomini chi sono. / Poi la sera ancora torna / con il sole spunta il giorno. / È una ruota che gira / è una lunga litania…)
Poesie (datate 1928) come «Mala sorti» [Mala sorte], «L'ultimu Natali di lu zu' Caloriu» [L’ultimo Natale dello zio Calogero], «Lu pisatu» [Il pesato] lasciano affiorare, come ebbe modo di notare Antonino Cremona, «una sorta di realismo avanti lettera».17
Serio e faceto, riso e pianto, sono i due poli entro cui si muove il poeta anche nella successiva raccolta Il volto della vita del 1958, in cui sono riproposte alcune composizioni di Surgiva. Qui l'autore segna addirittura un discrimine tra le poesie «serie» e quelle facete o, come egli le chiama, «rindanciane», a voler sottolineare, per effetto di quella contrapposizione, la realtà bifronte dell'esistenza.
Nella prima parte della raccolta il poeta insiste sul tema della condizione umana, con un fatalismo tutto mediterraneo, mentre incentiva la vena sociale con «Vaneddi senza suli»[Vicoli senza sole], non a torto considerata una fra le sue più intense e drammatiche composizioni. Nella seconda parte osserva bonariamente lo stupore di certi popolani di fronte ad avvenimenti di grande portata quali le elezioni politiche e il censimento, così come il traffico urbano e le norme stradali o ironizza sul suo magro stipendio e su quello degli altri dipendenti statali (cfr. «Signu di cruci» [Segno di croce], «Lu cinsimentu» [Il censimento], «La lanterna e 'na viddana»[La lanterna e una contadina], «La misata» [Lo stipendio], ma anche «La lavatrici in casa»[La lavatrice in casa]). Questi temi sono, per così dire, aggiornati in Mmizzigghi e nòliti 18 del 1971, che è la sua ultima raccolta: dalla minigonna alle pillole anticoncezionali, dal telefono alla televisione (definita «lu teatrinu di li puvireddi» [il teatrino dei poverelli]), alla pubblicità; non mancano peraltro poesie di una struggente malinconia («Cc'è cu' veni» [C’è chi viene]). Notevoli i dodici sonetti dedicati ai mesi dell'anno («Lu guardarrobba di la natura» [Il guardaroba della natura]). La morte è ora osservata con distacco e il poeta può persino ironizzare su di essa («L'ultimu pirtusu» [L’ultimo buco]).
E senza dubbio da includere tra i capolavori della poesia dialettale siciliana quel Pupu di lignu, apparso nel 1969, ma composto nel 1927 in soli «tre mesi di godimento spirituale», come l'autore scrisse in prefazione. Il poeta ne aveva anticipato il primo canto nel 1927 sulla Trazzera, suscitando grande entusiasmo e attirando l'interesse della stampa letteraria di tutta Italia. Ma l'opera, così tanto attesa, per una serie di traversie editoriali, non poté vedere la luce che dopo un quarantennio; l'edizione si esaurì subito (sarebbe più che opportuna una ristampa).
Opera di poesia davvero singolare, Pupu di lignu è l’elaborazione in 36 canti (ciascuno con una protasi) in sestine siciliane del «Pinocchio» collodiano. Non si tratta di una semplice «traduzione», bensì di una – ancorché fedele – reinvenzione artistica: il capolavoro di Lorenzini diviene anche il capolavoro di Ganci Battaglia, ché Pupu di lignu è opera tutta sua, ricreata dall'interno in versi di ammirevole freschezza. Un Pinocchio che in Sicilia pare nato da sempre, quasi un omaggio dei «pupi» e dei paladini al confratello toscano e all'arte di Collodi. Il poema si snoda, dall'inizio alla fine, con rara felicità espressiva e mai si registra in esso una caduta di tono, un allentarsi della verve poetica e narrativa. Le strofe appresso riportate vogliono essere appena un esempio della limpidezza e fluidità con cui Ganci Battaglia ha saputo trattare la materia. Si tratta di un brano del XXIV canto (che ha la seguente protasi: «Doppu 'na notti d'acqua e di surruschi, / lu Pupu supra un'isola arrivò. / Cc'eranu tanti lapi e tanti muschi. / Ad un Delfinu subbitu spiò / notizzi di so patri e, pi la strata, / miraculu di Diu, 'ncuntrò la Fata») [Dopo una notte di pioggia e di lampi / il burattino arrivò in un’isola. / C’erano tante api e tante mosche. / Ad un Delfino subito chiese / notizie di suo padre e, per strada, / miracolo di Dio, incontrò la Fata]. Pinocchio affamato chiede invano l'elemosina prima del provvidenziale incontro con la Fatina, che gli appare come «'na picciuttedda » [una giovinetta] che porta « du' quartari » [due brocche]:

Tutt'a 'na vota vitti pi dda via
passari carricatu un carbunaru.
Pinocchiu dissi: - A la fisionomia
mi pari un omu c'avi un cori ràru. –
Si cci ‘ncugnò e cci dissi afflittu affllittu:
- Dinari vi dumannu, ch'àju pitittu. -

Lu carbunaru tuttu risolenti,

cci dissi: - Ti lu dugnu si m'ajuti;
si si' lagnusu nun ti dugnu nenti,
ma sulu quattru tènniri saluti. –
Lu pupu dissi: - Mi scanciò pi sceccu? –
Lu carbunaru nun grapìu cchiù beccu.

Un muraturi ca vulia purtata
‘na carriola china di quacina
‘ncuntrannulu pi casu 'ntra la strada
cci dissi: - Va travagghia a la matina. –
Lu pitittu l'avia quasi sturdùtu,
ed era affllittu affllittu e addurmisciutu.

Di ddà poi nni passaru 'na vintina,
a tutti quantu fici sta proposta,
ma pi cunfortu sò pi dda matina
nuddu c'un sordu ‘nmanu si cci accosta.
Cci ripiteru tutti: - Va travagghia,
ca pani d'accussì, nun si nni 'ngagghia. – 19

[Ad un tratto scorse in quella strada / passare carico un carbonaio. / Pinocchio disse: - Dall’aspetto / mi pare un uomo dal un cuore raro. - / Gli si avvicinò e gli disse tutto afflitto: / - Denari vi domando, ché ho appetito. // Il carbonaio tutto sorridente, / gli disse: - Te li do se mi aiuti; / se sei indolente non ti do nulla, / ma solo quattro teneri saluti. - / Il pupo disse: - Mi ha scambiato per un asino? - / Il carbonaio non aprì più becco. / Un muratore che voleva trasportata / una carriola piena di calce / incontrandolo per caso in strada / gli disse: - Vai a lavorare al mattino. - / L’appetito l’aveva quasi stordito,// ed era assai afflitto e sonnolento. // Da lì ne passarono poi una ventina,/ a tutti quanti fece questa proposta, / ma a confortarlo quella mattina / nessuno gli si accostò con un soldo in mano / Gli ripeterono tutti: - Vai a lavorare, / che pane in questo modo non se ne acchiappa. - ].

6. Negli intervalli della sua attività poetica, Ganci Battaglia scrisse e pubblicò anche numerose opere a carattere divulgativo o ad uso delle scuole o dei concorsi: una grammatica italiana per la scuola media, un manuale sull'ordinamento autonomo della Regione Siciliana, dispense di carattere pedagogico (sui programmi didattici, sull'igiene della scuola e del fanciullo), una storia della letteratura per l'infanzia, una «Storia di Sicilia» (che ebbe due edizioni, nel 1959 e nel 1961) e, in collaborazione con Giovanni Vaccaro, un volume sui castelli di Sicilia dal titolo «Aquile sulle rocce» (1968). Non mi soffermo su tali pubblicazioni perché esulano dal mio discorso. Basterà dire che Ganci Battaglia vi esercitò con dignità e intelligenza il suo «mestiere» di scrittore. Esse, se da un lato servirono a dargli una certa popolarità (e qualche spicciolo), probabilmente ebbero – come rovescio di medaglia – l'effetto di distrarre l'attenzione del pubblico e della critica sulla sua vera attività, quella di poeta e di commediografo. Pregevoli sono i saggi monografici – a carattere prevalentemente divulgativo – su «Luigi Pirandello» (1967) e su «Giovanni Meli» (uscito postumo, a Roma, nel 1978), scritti con gusto e acume e ricchi di notizie. Un cenno merita quella «Storia del Santuario di Gibilmanna» (1961) a proposito della quale si può dire che egli sia riuscito a dare dignità letteraria a una guida turistica.
Ganci Battaglia merita di essere ricordato per quello che è: un poeta autentico. Il tempo, che ha nomea di essere galantuomo, non mancherà di rendergli giustizia.

NOTE

1. C. Messina, Giuseppe Ganci Battaglia poeta delle Madonie - libro documento - Palermo, Mori, 1981. Un saggio critico sulla poesia di G. G. B., dovuto alla penna di Giosuè Sparito, era stato pubblicato nel 1937 sulla rivista « Selva » di Torino (n. 11-12).
2. In una cartolina postale del 19-12-1973 mi scrisse che, non essendo «mai stato un numero», era stato «emarginato da tutti e collocato nella cripta dell'oblio» e che da «pensionato» lo Stato gli permetteva «solo di vivere pericolosamente».
3. Il 22-2-1981 la R.A.I. Sicilia si occupò di G. Ganci Battaglia nella 12ª trasmissione del programma «Poesia oggi» (a cura di G. Cappuzzo, E. Lo Bue e L. Zinna, per la regia di M. Cefalù), mentre il saggio cit. di C. Messina è stato recensito sul «Giornale di Sicilia» del 31-12-'81 da B. Parodi. Il 6-2-1982 una serata in onore del poeta è stata patrocinata dall'Assessorato Beni Culturali del Comune di Palermo, alla Palazzina Cinese e un’altra, nel 2003, dall’Accademia Ruggero II.
4. Lo stesso Buttitta pubblicò nel 1927 «Marabedda» con la sigla editoriale de «La Trazzera» e G. Ganci Battaglia ne curò la traduzione in lingua.
5. In C. Messina, op. cit., pp. 77-78.
6. B. Parodi, op. cit.
7. In C. Messina, op. cit., pp. 79-81 passirn.
8. G. Ganci Battaglia, I canti dell'abbandono, Milano, Società Giovani Autori, 1920
9. G. Ganci Battaglia, Sangu sicilianu, Palermo, Tip. Boccone del Povero, 1922.
10. G. Ganci Battaglia, Amuri, Palermo, Ed. Sabbio, 1923. I testi sono dedicati a Eva Maria Pacini, che il poeta sposerà nel 1926. Dieci anni dopo, la morte della giovane moglie, lo getterà nello sconforto.
11. G. Ganci Battaglia, La Santuzza, Palermo, « La Trazzera », 1927, p. 8..
12. G. Ganci Battaglia, La Santuzza, cit., p. 13.
13. G. Ganci Battaglia, La Santuzza, cit., p. 17.
14. G. Ganci Battaglia, La Santuzza, cit., p. 18.
15. G. Ganci Battaglia, La Santuzza, cit., p. 21.
16. G. Ganci Battaglia, Surgiva, Palermo, Domini Editore, 1940, p. 35.
17. A. Cremona, in “Il Belli”, n. 1, marzo 1933, cit. in G. Ganci Battaglia, Il volto della vita, Palermo, Ed. Mori, 1958 (prefaz., p. 7). Evidentemente il Cremona fa riferimento al neorealismo novecentesco.
18. G. Ganci Battaglia, Mmizziggbi e nòliti, Palermo, Ed. Mori, 1971.
19. G. Ganci Battaglia, Pupu di lignu, Palermo, Ed. I.L.A. - Palma, 1969, p. 95.